venerdì 30 settembre 2011

Selma Lagerlöf la prima donna laureata al premio Nobel



Selma Lagerlöf


Selma Lagerlöf, grande scrittrice svedese (prima donna e primo scrittore svedese a vincere il Nobel nel 1909), nacque a Marbåcka nel Värmland il 20 novembre del 1858.


Cresciuta in un podere di una stupenda campagna, visse in mezzo ai miti delle saghe nordiche e al folclore delle canzoni popolari. La sua infanzia fu abbastanza felice nonostante una malattia che per molti anni la rese zoppa e nonostante che il padre bello e fragile, sensibile e ricco di senso artistico, fosse un inguaribile alcolizzato votato all’autodistruzione.

Selma, educata in casa, dovette faticare non poco per raggiungere maturità culturale e autorealizzazione: contro il parere del padre, si trasferì a Stoccolma nel 1881 per conseguire il diploma di maestra (Selma, che n’era la figlia prediletta, fu sempre convinta di averne accelerato la mor­te per cirrosi epatica con la sua decisione  rivoluzionaria). Nel 1885 andò a insegnare a Landskrona.

Il suo primo romanzo in due volumi La saga di Gösta Berling (1891) è sospeso tra epica e mito; seguirono il contemporaneo ma fantastico I miracoli dell’Anticristo (1897), scritto dopo un viaggio in Sicilia, e i due volumi di Jerusalem (1901–2), scritti dopo un altro viaggio in Egitto e in Palestina (il regista danese Bille August ne trasse un bel film per la televisione nel 1995). Questi testi destarono l’attenzione della critica e del pubblico europeo e la consacrarono come una grande scrittrice. Del 1904 sono le note Leggende di Cristo ma il suo capolavoro è Viaggio meraviglioso di Nils Holgersson attraverso la Svezia (1906–7), un libro di geografia scritto modestamente per la scuola elementare ma divenuto una deliziosa lettura per ragazzi.

Nel 1907 le fu conferita la laurea ad honorem dell’Università di Uppsala.

Si dedicò in seguito a lavori autobiografici, quali Marbåcka (1922), Memorie della mia infanzia (1930) e Il diario di Selma Lagerlöf (1932), volgendosi al passato con occhio nostalgico e pathos. Contemporaneamente si dedicava a illustrare la cronaca dei luoghi nativi nella trilogia L’anello dei Löwenskölds.

Selma Lagerlöf, suffragetta e femminista ante–litteram, pacifista oltre che donna profondamente libera, ebbe due lunghe relazioni con le scrittrici Sophie Elkan e Valborg Olander (esistono numerose lettere che rappresentano un affascinante epistolario). Attaccata al podere di famiglia in Marbåcka, vero e proprio luogo dell’anima, venduto prima della morte del padre e riacquistato dalla scrittrice con i soldi ottenuti grazie al premio Nobel, vi morì il 16 marzo del 1940.

Con meraviglioso stile lirico, con ricchezza di vita interiore, con tensione drammatica e con immagini dense di freschezza ed emozioni, i testi di Lagerlöf raccontano il passato alla luce di una visione tragica del destino umano.

La scrittrice è in Svezia molto amata: a Falun (città dove era solita risiedere durante l’inverno, sino alla sua morte), dopo l’abbattimento della sua casa, nel Dalarnas Museum sono stati ricostruiti il suo studio e la sua biblioteca, che rappresentano per il pubblico la maggiore attrazione del museo. (www.zam.it, News, 17/11/2008)


La saga di Gösta Berling (Gösta Berling saga)

Scritto nel 1891, è il primo romanzo in due volumi di Selma Lagerlöf. Storia ispirata dal severo spiritualismo calvinista dello scrittore scozzese Thomas Carlyle (1795–1881), sospesa tra epica e mito, racconta di un giovane prete alcolizzato, bello e dannato (dolente rappresentazione autobiografica dell’amato padre), costretto ad abbandonare la parrocchia e a vivere d’elemosina, accolto dalla Signora di Ekeby (sola e infelice ma molto ricca) insieme agli altri cavalieri di Ekeby, dodici buontemponi senza patria ma pieni di gioia di vivere e dediti alla bella vita. Questo romanzo ha ispirato nel 1923 il film violento e drammatico del grande regista finlandese Mauritz Stiller (1883–1928) – vi apparve per la prima volta l’attrice svedese Greta Garbo – e nel 1925 l’opera lirica I cavalieri di Ekebù di Riccardo Zandonai (1883–1944), ancora oggi molto rappresentata.

Di formazione antinaturalista, in questo romanzo, Selma scriveva della Natura dominatrice e madre–matrigna: «La paura è una strega. Siede nell’ombra dei boschi e canta magiche canzoni che, giungendo alle orecchie degli uomini, riempiono il loro cuore di cupi presentimenti... La natura è maligna, insidiosa come una serpe addormentata; di lei non ci si può fidare. Ecco il lago di Loven che si estende in tutta la sua bellezza radiosa, ma non te ne fidare!... Ed ecco il bosco, allettante regno della pace e del silenzio, ma non ti fidare... Non ti fidare del ruscello con la sua acqua limpida!... E non ti fidare del cuculo… Non ti fidare del muschio, né dell’erica, né dei macigni. Maligna è la natura, dominata da forze invisibili che hanno in odio l’uomo.».

Coinvolta però anche dall’incanto della Natura, dal suo universo stupendo e incontaminato, così aggiungeva: «Chi vuol vedere i veri rapporti tra le cose, deve lasciare la città e andare ad abitare in una capanna solitaria al margine del bosco... Imparerà allora a conoscere e a osservare tutti i segni della natura, e comprenderà in quale misura le cose inanimate dipendano dalle cose viventi. Si accorgerà che la pace delle cose inanimate viene disturbata non appena regna l’inquietudine... spesso mi sembra che le cose inanimate sentano e soffrano con i viventi. La barriera tra loro e noi non è così insormontabile come gli uomini credono... Lo spirito della vita alberga ancora nelle cose inanimate. E cosa ode, mentre giace in un sonno senza sogni? Ode la voce di Dio. Ascolta anche quella degli uomini?».


Il carretto fantasma (Körkarlen)

Durante la guerra l’opera artistica della pacifista Selma Lagerlöf languì, ma nel 1912 pubblicò questo romanzo che nel 1920 ha ispirato l’omonimo film muto del grande regista svedese Victor Sjöstrom (1879–1960), capolavoro nordico e vera lezione di cinema per le innovazioni tecniche e la potenza registica.

Vi si narra la storia di David Holm, un ubriacone tubercolotico che con le sue angherie ha reso infelice la moglie e i figli (sotto questo riguardo, Selma e Victor condividevano la medesima tragedia dell’alcolismo paterno e conoscevano quindi molto bene quel che raccontavano!). David muore a mezzanotte della notte di Capodanno e, secondo la leggenda, dovrà fare il carrettiere della morte (numerose storie s’incastrano allora come tante scatole cinesi), ma Edit – una sorella dell’esercito della Salvezza che ha tentato di guidare David sulla retta via – muore di tubercolosi e si sostituisce a lui che, ritornato in vita, raggiunge la moglie salvandola dal suicidio, le chiede perdono e resta con lei per espiare.

Il film è attraversato continuamente e in modo lugubre dal carretto e dalle anime dei morti in una moderna sovra–impressione. A questo film e alla sua difficile realizzazione per il rapporto controverso tra Victor e Selma (ciascuno avrebbe voluto dare una propria personale rappresentazione), Ingmar Bergman ha dedicato l’interessante film televisivo “The Image Maker”. Tra l’altro, Ingmar scelse proprio il pluripremiato Victor  Sjöstrom per interpretare il professor Isak Borg nello stupendo immortale capolavoro “Il posto delle fragole” (1957).


L’esiliato (Bannlyst)

Alla fine della tremenda I Guerra mondiale, nel 1918, Selma Lagerlöf scrisse questo romanzo che fu tradotto in Italia nel 1932. Questo libro interessante, dall’evidente messaggio pacifista, narra di Sven Elversson, sospettato di aver mangiato – insieme agli altri esploratori di una spedizione sperdutasi nell’Artico – carne umana (quella di un compagno suicida). Sven è un uomo buono e giusto ma gli abitanti del suo paese non gli perdonano quest’abominevole «antico peccato dell’umanità», e lo caricano di disprezzo e disgusto («Traboccano di fede e di senso di giustizia, tanto che in loro non c’è posto per una goccia di pietà»).

Egli stesso, escluso e ripudiato dai suoi simili, si odia forse più degli altri («aveva peccato contro la santità della morte») e spera inutilmente di recuperare con le sue buone azioni parte dell’onore e del rispetto perduti. Scoppia poi la guerra («la Grande Bestia»), e il mare restituisce a migliaia e a migliaia i cadaveri galleggianti («La superficie del mare ne era ricoperta... si poté notare un cumulo di cadaveri confusi colle reti e coi pesci»).


Il popolo finalmente capisce come «la santità della vita» sia il bene più importante e quanto più irreparabile sia il male fatto ai vivi e quanto più inviolabile la vita della morte: perdona allora Sven che muore per l’emozione nell’apprendere di essere innocente (incosciente per la febbre, era stato accusato e coinvolto ingiustamente dai compagni).

giovedì 29 settembre 2011

Eugene O’Neill, un Tragico ispirato da una vita drammatica



Eugene O’Neill


Eugene O’Neill nasceva a New York nel 1888, il 16 Ottobre di centoventi anni addietro. Drammaturgo tragico, per molti anni incarnò il solo teatro americano in grado di confrontarsi col più maturo teatro europeo; con i suoi temi rilanciò Broadway – che negli anni ’20 rappresentava soltanto musical, farse o melodrammi – e aprì il varco al teatro d’avanguardia e ad Arthur Miller.


Figlio di un famoso attore irlandese di tipo romantico, visse una vita inquieta ed errabonda (nato in un hotel di Broadway, passò l’infanzia tra alberghi e teatri). Fu interno in una rigida scuola cattolica del Connecticut e frequentò l’Università di Princeton per un anno, prima di esserne espulso. Un feroce rapporto amore–odio lo legò alla famiglia: il padre era un uomo frustrato, la madre morfinomane e piena di risentimento aveva tentato il suicidio, il fratello maggiore alcolizzato morì prematuramente.

Attore nella compagnia del padre, redattore, cercatore d’oro e marinaio imbarcato su navi mercantili, nel 1912 fu costretto dalla tubercolosi a un ritiro in sanatorio per sei mesi che cambiò la sua vita (era depresso e aveva tentato il suicidio, abusava di alcol e faceva baldoria con le prostitute); iniziò invece a leggere e a dedicarsi alla scrittura teatrale (aveva d’altronde il teatro nel sangue). Parlò egli stesso di «rinascita».

La dottrina calvinista della predestinazione sviluppò in lui una visione pessimistica della vita con un senso incombente di fatalismo (scrisse «... noi siamo più o meno schiavi delle convenzioni, o della disciplina, o di qualche altro tipo di rigido sistema»). Si occupò del difficile rapporto uomo e Dio, in bilico tra idealismo e materialismo, influenzato da due drammaturghi scandinavi – il norvegese Ibsen e lo svedese Strindberg («soprattutto Strindberg», come scrisse) – ma fu segnato anche dalla psicanalisi (i suoi testi vanno letti tutti da un punto di vista psicologico).

A chi gli parlava di Realismo, Eugene rispondeva che i suoi drammi erano «realmente reali» non tanto per la somiglianza meticolosa alla vita quanto piuttosto perché erano «spiritualmente veri». Queste suggestioni contribuirono a creare drammi originali e di gran potenza espressiva, che lo imposero per il talento geniale e per lo sperimentalismo scenico.

I primi atti unici giovanili, denominati Drammi marini (amava il mare di un amore struggente), erano ambientati sul nudo ponte di una nave con i protagonisti obbligati nell’inevitabile ruolo di “vinti”. I testi più importanti, scritti tra il 1920 e il 1931, sono: Al di là dell’orizzonte che gli meritò il primo Pulitzer, Anna Christie (storia di «una prostituta dal cuore d’oro») che gli fece vincere il secondo Pulitzer, Tutti i figli di Dio hanno le ali, Desiderio sotto gli olmi, Strano interludio (imperniato in modo autobiografico sulle frustrazioni di una famiglia) col quale vinse il terzo Pulitzer, e Il lutto si addice ad Elettra, una tragedia greca in cui all’antico fato si sovrapponeva la complessità psicologica dell’uomo moderno. Che grande forza poetica hanno già soltanto i titoli di questi testi drammatici! In questi anni, O’Neill divenne l’autore anglosassone più tradotto e rappresentato dopo Shakespeare e Bernard Shaw.

Gli ultimi drammi (seguiti a un lungo silenzio), più costruiti e senza l’originaria forza giovanile, ebbero il merito di adattare al teatro l’ardita tecnica del monologo interiore e del “flusso della coscienza” creato dall’irlandese Joyce; ricordiamo: Arriva l’uomo del ghiaccio (1946) e, pubblicati postumi, la Lunga giornata verso la notte – i cui personaggi riconducono all’infer­nale vissuto familiare e alle angosce dell’autore (meritò post–mortem il quarto Pulitzer nel 1957) – , Una luna per i bastardi e Più grandiose dimore (molte altre carte inedite furono distrutte dalla moglie per suo desiderio).

Nel 1936 ebbe conferito il Nobel per la letteratura (primo autore teatrale americano), che non ritirò per problemi di salute.

Spinto da un’ossessiva urgenza per lo scrivere, teso e dubbioso (riscriveva i suoi testi una mezza dozzina di volte, riempiendoli di note, sottolineature e suggerimenti scenici), era un uomo privo di punti di riferimento e travolto dai lutti, che portava ancora sanguinanti le cicatrici del difficile rapporto familiare e che non aveva saputo creare neppure relazioni stabili con mogli e figli: si sposò tre volte ed ebbe due divorzi insieme al dolore per la malattia mentale della figlia più piccola e per il suicidio nel 1950 del figlio più grande alcolizzato (un altro figlio eroinomane morirà suicida nel 1977); ruppe ogni rapporto con l’altra figlia Oona, che a 18 anni lasciò la famiglia per sposare Charlie Chaplin che aveva l’età di Eugene (fu però un matrimonio felice).


Una precoce paralizzante malattia neurodegenerativa gli impedì di continuare a scrivere; estraniato dalla comunità letteraria e dalla famiglia, morì il 27 novembre del 1953 aspettando la fine da solo in un hotel di Boston, assistito da un medico e da un’infermiera (in un hotel era nato e in un hotel moriva!). La solitudine era il suo destino (aveva scritto: «La vita è per ogni uomo una cella solitaria dove le pareti sono specchi») e, dopo tanta autodistruzione e tanti foschi presagi di morte dei quali erano imbevuti il suo vissuto e i suoi testi tragici, la conclusione della sua esistenza ebbe la stessa atrocità di quella dei suoi derelitti personaggi. (www.zam.it, News, 13/10/2008)

mercoledì 28 settembre 2011

Il visionario Sinuhe, l’egiziano di Mika Waltari



Mika Waltari


Cento anni addietro (il 19 settembre del 1908) nasceva a Helsinki Mika Waltari, uno dei più noti scrittori finlandesi del 20° secolo, autore di storie che sono divenute bestseller internazionali oltre che sceneggiature di film famosi.


Fu però anche poeta, oltre che prolifico giornalista e critico letterario.

Orfano precocissimo di un pastore luterano, fece studi di teologia e filosofia laureandosi nel 1929. Esponente del movimento modernista dei “Portatori di fuoco” (ispirato al Futurismo russo e italiano), il suo primo romanzo, La grande illusione, fu scritto in un hotel di Parigi nel 1927 e imitava i toni ribelli degli scrittori americani della “Lost Generation”.

Nei successivi testi – per lo più poemi religiosi o storie di horror alla Edgar Allan Poe – fu ispirato dalla crisi che coinvolgeva le generazioni comprese tra le due guerre mondiali (egli stesso era un uomo in crisi, un consumatore di alcol e droghe, un pessimista disilluso e rassegnato, afflitto da gravi stati di depressione che spesso lo costringevano a ricoveri psichiatrici).

Ideò anche un carattere interessante, quello del brusco e disincantato ispettore Palmu, protagonista di tre racconti “noir” e di diversi film.

Nel 1945, finalmente, Waltari sfondò con il romanzo storico Sinuhe, l’egiziano, divenuto un sontuoso colosso hollywoodiano nel 1954, per la regia di Michael Curtiz con Edmund Purdom, Gene Tierney, John Carradine e Peter Ustinov. Tradotto in tutto il mondo, partendo dalle vicende del solitario Sinhue, il medico di corte del Faraone (narrate da lui in prima persona, durante l’esilio, attraverso la lettura di una serie di papiri e in un continuum di flash back), il libro diviene il pretesto per raccontare col giusto esotismo la vita in Egitto, 1000 anni prima della nascita di Cristo (il romanzo inizia così: «Io, Sinhoue... Non scrivo né per timore né per qualche speranza nel futuro ma soltanto per me... Per amor mio soltanto io scrivo questo; e in ciò differisco da tutti gli altri scrittori, del passato e del futuro.»).

A proposito dei film tratti dai libri di Waltari (se ne contano almeno 33, molti dei quali girati in Finlandia da Matti Kassila), l’autore scrisse che in un film avrebbe voluto combinare «l’im­maginazione e l’umanità del film italiano» con «l’humour inglese», «la sensualità francese» e «il dominio e il ritmo del film americano», senza dimenticare però «l’invenzione del brillante montaggio del film storico russo».

Continuando nel suo filone storico, in cui mescolava approfondimento storico con toni di brillante ironia e di sottile levità, scrisse L’angelo nero (in forma di diario e ambientato durante l’assedio di Costantinopoli nel 1453) – tra l’altro, l’Università della Turchia gli conferì una laurea ad honorem nel 1970 – , Turms l’etrusco (1955), Marco il romano (1964) e Lauso il cristiano (1967); con questi ultimi due romanzi, ritornò all’amato tema religioso degli inizi.

Mika Waltari morì nella sua Helsinki il 26 agosto del 1979. (www.zam.it, News, 18/9/2008)

P.S. Nella sua lezione "Mika Waltari 1908-1979 – Mika Waltari il famoso scrittore finlandese" (http://www.mikawaltariseura.fi/mwaltariit.html), tenuta a Villa Lante in Roma l'8 ottobre del 2008 (traduzione di Paolo Pellei), in occasione del centenario dalla nascita del grande autore finlandese, Anneli Kalajoki ha passato in rassegna la vita dello scrittore molto dotato, veloce e fecondo che lavorava con la scrittura per vivere («Se la famiglia aveva bisogno di soldi Waltari si metteva al lavoro, cioè scriveva.»). La Kalajoki ha così evidenziato il suo centro dell'attenzione: «Il tema ricorrente nel lavoro del Waltari è il destino dei valori dell’umanista nel mondo dei materialisti. L’interrogarsi di Waltari sulle questioni religiose è stato un tema centrale nel corso di tutta la sua produzione. La sua tesi di laurea affrontava proprio il rapporto fra la religione e l’erotismo.». Waltari era, infatti, il figlio di un pastore luterano e visse in un ambiente impregnato di religiosità; aveva studiato Teologia all’Università di Helsinki per dedicarsi poi agli studi letterari. Insieme ai giovani della sua generazione – attratti da treni, navi e automobili e da tutto ciò che aveva a che fare con la civiltà meccanica e le metropoli moderne soprattutto degli Stati Uniti – partecipò al movimento de "I Portatori di Fuoco" amando lo slogan «Finestre aperte sull’Europa».

Waltari aveva scritto per un concorso il giallo Kuka murhasi rouva Skrofin? (Chi ha assassinato la signora Skrof?), che vinse e che lo invogliò a scrivere una serie di romanzi gialli che avevano come protagonista l'anziano e irascibile ispettore Palmu (La Palma), che furono trasposti nella versione cinematografica dal bravo regista finlandese Matti Kassila; scrive  Kalajoki: «e questi film sono ancora oggi estremamente popolari». Di questi gialli, il più famoso è Komisario Palmun erehdys (Lo sbaglio del Commissario Palmu) del 1939, purtroppo mai tradotto in Italia.

Attratto già sin dall'età giovanile dal mondo dell'Egitto antico, a sedici anni, Waltari aveva scritto una novella dal titolo La Mummia, storia di un giovane egittologo coivolto nel ritrovamento di una mummia di sesso femminile conservata in una piramide. Dal 1930 aveva iniziato a scrivere il suo Sinuhe l’Egiziano (che gli diede fama planetaria: fu tradotto in 34 lingue) ma lo completò soltanto negli ultimi giorni di conflitto bellico, e il testo di circa mille pagine fu pubblicato nel 1945 alla fine della guerra. Scrive la Kalajoki: «Sinuhe è un romanzo in cui la perfetta ricostruzione dell’Egitto della diciottesima dinastia si unisce alla smagliante fantasia dell’autore. Il libro è scritto, usando le parole di Sinuhe, in esilio. Il romanzo si divide in 14 libri la cui lunghezza è la stessa di quella delle pergamene su cui si scrivevano i testi antichi... Il mondo antico offre a Waltari una grande occasione per esaminare liberamente la società, senza un ordine del giorno politico.». Il personaggio di Sinuhe non è realmente esistito ma proviene da un'antichissima leggenda popolare egiziana, raccontata per più di settecento anni.

In occasione della nascita della figlia Satu, Waltari iniziò a scrivere delle fiabe – in finladese Satu significa appunto "favola" – , pubblicandole sia su giornali sia in forma di raccolte: Dsinnistanin prinssi (Il principe di Dsinnistan) e Kiinalainen kissa (Il gatto cinese), quest'ultima tradotta in diverse lingue.



A proposito del gusto quasi cinematografico di Waltari nel descrivere le terre lontane, ha scritto Anneli Kalajoki: «Quando l’Associazione Mika Waltari – nata a Helsinki nel duemila – fece l’anno scorso un viaggio a Istanbul sulle orme di Mika Waltari potemmo constatare che Waltari è anche, oltre a tutto il resto, un grande scrittore di viaggio. Descrive sia i luoghi che le proprie esperienze in modo preciso e divertente; il lettore può percepire l’atmosfera degli anni 20' e 40' in Europa come se fosse in un film.».

martedì 27 settembre 2011

Il centenario dalla nascita di Mario La Cava



Mario La Cava


Il giornalista e scrittore calabrese Mario La Cava nacque cento anni addietro (l’11 settembre del 1908) a Bovalino da una famiglia piccolo–borghese; dopo gli studi di base compiuti in Calabria, si laureò in Giurisprudenza a Siena, dedicandosi poi interamente alla scrittura. Morì nella sua casa di Bovalino il 16 novembre del 1988, all’età di 80 anni.

Autore di grande originalità, amò il “Classicismo” ma fu anche sensibile alle nuove tecniche del­lo “Sperimentalismo”.

Uomo e scrittore socialmente impegnato, alla maniera di Giovanni Verga, scrisse: «Spero di avere pur dato una voce ai più umili della mia terra»; e in una sua intervista confessò: «...ho speso una vita per scrivere, per analizzare la Calabria. Non so se bene o male... ho fatto grandi sacrifici, sperando che questa terra potesse avere una sorte migliore...».

Riverito come un maestro, fu apprezzato da grandi intellettuali come Leonardo Sciascia, che scrisse: «I testi di La Cava costituivano per me esempio e modello di come scrivere: della semplicità, essenzialità e rapidità cui aspiravo» (egli curò la pubblicazione di Colloqui con Antonuzza nel 1954), o come Elio Vittorini che, presentando nel 1953 il libro Caratteri, scrisse: «La Cava... coltiva un suo genere speciale di brevissimi racconti in cui fonde il gusto del­l’imitazione dei classici e lo studio naturalistico del prossimo...».

Dopo un periodo d’oblio, lo scrittore calabrese è stato riscoperto grazie al film televisivo di Lui­gi Comencini, tratto dal suo primo racconto Il matrimonio di Caterina (scritto nel 1932 e pubblicato soltanto nel 1977), ed è stato rivalutato nella sua grandezza grazie al convegno su di lui tenutosi nel 2000 presso l’Università “La Sapienza” di Roma, con la pubblicazione del saggio La narrativa di Mario La Cava nella letteratura italiana del Novecento a cura di R. Nisticò (2001).

Tra le sue opere principali, sono da ricordare: Le memorie del vecchio maresciallo (1958), Mimì Cafiero (1959), La ragazza del vicolo scuro (1977), e Terra dura (1980). Altri suoi libri furono pubblicati postumi, e molti testi inediti di quel che fu un autore estremamente prolifico aspettano ancora di essere pubblicati.

I suoi libri esaltano i valori della cultura meridionale, sono concentrati sull’ambiente contadino calabrese, e parlano con empatia di emarginazione e sofferenza. Nella raccolta di saggi Storia dell’emigrazione italiana, Sebastiano Martelli – parlando di La Cava e dei suoi emigranti – così scrive: «Mario La Cava ripropone un’emigrazione carica di sensi di sconfitta, parentesi che non può modificare il destino delle origini; il sogno americano è assunto in chiave ideologica e letteraria... I suoi personaggi sono quasi tutti emigranti rientrati, l’esperienza migratoria non è servita a lenire le lacerazioni, gli intoppi, anzi, spesso ne ha aggiunti altri e il ritorno, più che dettato dalla nostalgia, è un approdo obbligato, quasi di animale ferito che va a morire nella sua tana.».

Come dimenticare le sue eroine che accettano passivamente matrimoni senza amore, combinati in America o in Australia, abbandonando sconfortate i solidi affetti familiari e accettando la separazione dall’amata terra natia (Mariarosa sale sulla nave che parte «come un uccellino; e come un uccellino che ha perduto la voce, muore ai sogni della vita bella, per precipitare negli abissi delle cose finite per sempre»), o come dimenticare Pina, la donna infelice che, abbandonata dal marito andato in America, è costretta a cedere il figlio più piccolo alla nuova donna di lui (pur sapendo che lo perderà come ha perduto il marito).

Nel suo già citato capitolo Dal vecchio mondo al sogno americano, Martelli conclude: «Agli emigrati rientrati di La Cava l’America non ha cambiato lo “status” profondo, antropologico; spesso essi ritornano all’antica miseria, all’atavica condanna della loro origine come se il tempo fosse passato invano.». (www.zam.it, News, 15/9/2008)

P.S. Il breve film televisivo Il matrimonio di Caterina (1983), diretto da Luigi Comencini, con Anna Melato e Stefano Madia, racconta di Caterina, una trentenne che negli anni '50, rassegnata alla solitudine, vive ancora con i genitori in uno spopolato paesetto montano della Calabria, venendo già considerata una zitella. Il padre si affida a un "sensale" per trovarle un marito. Il fidanzato proposto, Giuseppe, sembra una brava persona ma si rivela ben presto un poco di buono incapace di rendere felice Caterina tanto da essere allontanato dal padre, poco prima del matrimonio.


Nella presentazione del film, scrisse Comencini: «Questo La Cava mi ricorda Flaubert. Quando lessi Il matrimonio di Caterina, racconto che Mario La Cava mi aveva inviato perché ne traessi un film, mi venne subito alla mente "Un cœur simple" di Flaubert. Pur essendo il testo di Mario La Cava più breve e più raccolto, ho ritrovato nel personaggio di Caterina qualcosa che ricordava la rassegnata solitudine di Felicité. Anche Caterina è appena sfiorata da qualcosa che assomiglia all'amore, e si può immaginare il suo futuro simile a quello di Felicité.». Il racconto di La Cava termina con le seguenti parole: «Ma Caterina, nel suo letto, con le guance bagnate di lacrime sognava lo sposo scomparso dalla sua vita e immaginava di sentire bussare di momento in momento al portone come se ella fosse pronta a scappare con lui che la voleva, e una quiete la prendeva a poco a poco ed era il sonno.». Scrisse Comencini che per rendere nel racconto filmato l'angoscia di Caterina che s'acquieta nel sonno, la mostra mentre giace nel suo letto con le guance bagnate di lacrime: «Ma come far trasparire il suo rimpianto per qualcosa che non è stato? La sua sottomissione piena di celato rancore verso i genitori? Nel racconto non dice nulla ed è sola. Io le ho fatto dire, alla madre che le porta una camomilla: "A me piaceva anche così", alludendo all'uomo che il padre le aveva proposto e poi le aveva tolto.».

mercoledì 21 settembre 2011

William Saroyan, autore armeno–americano quasi neorealista



William Saroyan (foto di Dickran Kouymjian)


Cento anni addietro, il 31 agosto del 1908, nasceva a Fresno (California) William Saroyan, scrittore statunitense di origini armene.


Rimasto orfano piccolissimo, fu ospitato con i fratellini in un orfanotrofio californiano e ben presto conobbe la strada e i suoi derelitti, dei quali divenne voce e cantore. Abbandonata la scuola all’età di 15 anni, fu strillone e fattorino telegrafico ma intanto iniziava a scrivere e studiava da autodidatta.

Le difficoltà esistenziali nell’ambito della comunità armeno–americana di Fresno, negli anni della Grande Depressione, hanno riempito d’impudente ottimismo e di gioia di vivere le sue prime opere; per William, la vita era degna di essere vissuta nonostante la fame e la povertà (scrisse: «Cerca per quanto sia possibile di essere sfrenatamente vivo, con tutte le tue forze... Cerca di essere vivo, sarai morto abbastanza presto»); i falliti e i derelitti erano per lui gente di valore (scrisse: «Le brave persone sono buone perché sono arrivate alla saggezza attraverso l’insuccesso»); ma soprattutto metteva l’uomo al centro di tutto (scrisse: «Io credo solo che vi è l’uomo. Il resto è trucco, artifizio»).

I racconti del suo esordio, raccolti nel 1934 in L’ardimentoso giovane sul trapezio volante (titolo ispirato da una nota canzone dell’Ottocento), sono irriverenti e particolari, realistici ma sognanti, animati da candidi personaggi vulnerabili («Un trapezio verso Dio o verso il nulla, un trapezio volante verso una qualche forma d’eternità»). Considerati i migliori, sono entrati nella storia della letteratura americana.

Saroyan era conscio del suo ruolo artistico; scrisse: «Lo scrittore è un anarchico spirituale, come lo è ogni uomo nel profondo del suo animo. Egli è insoddisfatto di ognuno e d’ogni cosa... è il migliore amico di ciascuno ma anche il suo solo buon e gran nemico... in nessun caso cam­mina con la moltitudine. Lo scrittore, che è uno scrittore, è un ribelle che mai si ferma... L’arte consiste nel guardare le cose in modo diverso da come hanno l’abitudine di guardarle gli altri». Questi racconti suscitarono entusiasmo sia in America sia in Europa; fu amatissimo in Italia – ove era considerato un autore di gusto quasi neorealista (che mescolava toni poetici e realismo) – e il suo stile fu imitato da molti: tra gli altri, da un giovane Elio Vittorini che lo tradusse facendolo conoscere ai lettori italiani.

Scrittore molto prolifico (scriveva rapidamente e pubblicava rapidamente, ma altrettanto rapidamente spendeva nell’alcol e nel gioco d’azzardo i suoi guadagni), diede alle stampe molte cose ottime ma anche tanto materiale scadente. Al primo volume, seguì la raccolta di novelle Il mio nome è Aram (1940), divenuto ben presto un best–seller internazionale.

Per la commedia I giorni della vita gli fu conferito il Pulitzer che rifiutò, sia perché convinto che il lavoro non fosse «né più grande né migliore» delle altre cose che aveva scritto, sia perché riteneva il premio una valutazione commerciale dell’arte.

Dal testo teatrale Il mio cuore è sugli altipiani (1939), A. Brissoni nel 1957 trasse il film con Albertazzi; mentre da La commedia umana (1942) fu ricavato il film di C. Brown con Mickey Rooney che vinse l’Oscar per la migliore sceneggiatura originale.

Seguirono i romanzi autobiografici In bicicletta a Beverly Hills (1952) e Ti voglio bene mam­ma (1957).

Col tempo la sua vena si appannò sfumando nel sentimentalismo e nel bozzetto, sparirono i conflitti e diminuì la forza coinvolgente della sua condanna sociale e dei suoi personaggi vibranti di vita. I lettori, tuttavia, continuarono ad amare questo autore che incarnava il tipo medio americano, pur essendo così originale e sempre ispirato dalla sua infanzia complicata, dalla famiglia armena, dal difficile matrimonio, dalla paternità e dal sofferto divorzio (nei suoi testi, sono fortissimi gli elementi autobiografici).

Dal 1958 per motivi fiscali andò a vivere a Parigi; in questo periodo scrisse: «Sono un uomo alienato... alienato da me stesso, dalla mia famiglia, dai miei amici, dalla mia patria, dal mio mondo, dal mio tempo, dalla mia cultura».

Morì di cancro a 72 anni il 18 maggio del 1981 nell’amata Fresno; amante della vita, lasciò scritto: «Tutti devono morire, ma ho sempre pensato che nel mio caso si sarebbe fatta un’ec­cezione. E ora che succede?».

Molte delle sue carte e diversi suoi manoscritti sono conservati presso la Stanford University, mentre a Fresno è stata creata la “The William Saroyan Society” per custodire la memoria di questo grande americano. (www.zam.it, News, 31/8/2008)

P.S. Nel 1939 William Saroyan aveva rappresentato con successo, presso il Guild Theatre di New York, la commedia I giorni della vita (The Time of Your Life), che gli meritò il Pulitzer che rifiutò. Nel 1948 ne fu tratto un film di successo, sceneggiato da Nathaniel Curtis, con James Cagney, per la regia di Henry C. Potter. Romanzo e film raccontano di un mondo di varia umanità che si muove intorno al Saloon di Nick, non solo ristorante ma anche luogo di incontro sito in uno dei quartieri più malfamati di San Francisco. E c'è Joe (James Cagney), il quale si siede sempre al solito tavolino bevendo una coppa di champagne in mano, osservando gli altri con simpatia e incoraggiando e aiutando tutti, e c'è Nick (William Bendix), il proprietario, che ha un amore sviscerato per i cavalli, e c'è un cowboy (Wayne Morris), c'è una prostituta (Jeanne Cagney) e c'è un ubriacone sbruffone di nome Murphy vestito da Buffalo Bill (James Barton) che racconta un sacco di balle, ma ci sono anche tanti altri disperati (donne di malffare, artisti di varietà in difficoltà, disoccupati impenitenti, strilloni e poliziotti), e tutti si ritrovano comunicandosi i loro sentimenti e trovando il modo di sognare una soluzione diversa per le loro esistenze tribolate. Fedele al romanzo, il film ha il tocco della verità e della leggerezza pur in un  tono grottesco e demenziale, avvalendosi di attori in forma e perfetti nella parte. Splendido James Cagney, per una volta nel ruolo di un buono e non del solito gangster.

Dal testo teatrale di Saroyan Il mio cuore è sugli altipiani (My Heart's in the Highlands), scritto nel 1939, il regista teatrale e televisivo Alessandro Brissoni ha ricavato nel 1957 l'omonimo film, con Giorgio Albertazzi, Augusto Mastrantoni e Alvaro Piccardi, che racconta la storia della crescita spirituale di un ragazzo che attraversa l'infanzia e giunge all'adolescenza guidato dai racconti di un vecchio vagabondo. E tutti i personaggi, bizzarri e picareschi, sono armeni giunti negli Stati Uniti da una parte remota del mondo: individui perseguitati e delusi, che non hanno perduto però il gusto di sognare e il desiderio di vivere una vita degna di essere vissuta; e per questo sono disposti ad affrontare una diversa cultura, con usi e costumi lontani anni luce da quelli della loro triste vita infantile offuscata dalla guerra e dall'esilio.

Dal romanzo di Saroyan La commedia umana (The Human Comedy) scritto nel 1942, fu tratto nel 1943 il bel film di Clarence Brown con James Craig, Van Johnson, Fay Bainter, Mickey Rooney e Robert Mitchum. Il film ricevette cinque nomination agli Oscar e un premio per il soggetto originale a William Saroyan. Vi si narra la storia di un ragazzo di quindici anni, Homer Macauley (Mickey Rooney), pieno di sogni e di entusiasmo, che vive in una piccola città della California. Il padre è morto e il fratello maggiore è partito per la guerra. Homer si preoccupa di sostenere la famiglia moralmente ed economicamente: di giorno frequenta il liceo, la sera vola in bicicletta verso l'ufficio del telegrafo ove fa il portalettere. Rimanendo forte e serio accanto alla mamma che si coccupa delle galline e suona l'arpa, alla sorella che studia il pianoforte e al piccolo Ulysses aperto a tutte le curiosità del mondo, Homer impara a crescere facendo il suo consapevole ingresso nel mondo degli adulti. Ha scritto Morando Morandini (ne "il Morandini", Zanichelli editore): «Molto garbo, eccesso di miele, ottimismo irriducibile... Bravo Rooney, bene gli altri. Cammeo di R. Mitchum.».

martedì 20 settembre 2011

Robert Merle, antimilitarista e crudo cantore della guerra



Robert Merle


Cento anni addietro (il 28 agosto del 1908) nasceva a Tebessa, in Algeria, Robert Merle, scrittore pacifista francese insignito del premio Goncourt nel 1949 per il suo primo romanzo Week–end à Zuydcoote, in cui autobiograficamente descriveva la disfatta di Dunkerque, durante la quale egli stesso (agente di collegamento con le forze britanniche) era stato fatto prigioniero dai tedeschi.


Inizialmente, il prestigioso editore Gallimard fu contrario alla pubblicazione del libro, spaventato dalla lucida violenza del racconto e dal linguaggio duro e spietato (tale da indurre la rivolta dei timorosi benpensanti), ma dovette cedere alle pressioni di Jean–Paul Sartre e di Raymond Queneau che minacciarono l’abbandono della casa editrice. Merle era un grande amico di Sartre e di Simone de Beauvoir, e spesso compare nei romanzi autobiografici della grande scrittrice francese.

Figlio di un militare francese nato in Algeria, fece studi di Filosofia e Inglese, e prese un dottorato in Lettere con una tesi dedicata ad Oscar Wilde. Professore di liceo a Neuilly–sur–Seine, ove conobbe Sartre (già giovanissimo professore di filosofia), fu richiamato nel 1939 e si ritrovò a Dunkerque; fatto prigioniero, rimase in reclusione sino al 1943. Divenne professore d’In­glese presso l’Università di Rennes e – dopo diversi trasferimenti – presso quella di Nanterre. Era quindi un accademico ma anche uno scrittore anticonformista che amava la letteratura di gusto popolare.

La guerra fu la protagonista dei suoi primi libri: nel 1952, dopo il grande successo incontrato dal primo romanzo, scrisse La morte è il mio mestiere (La Mort est mon métier), ispirato alla biografia vera del comandante di un campo di concentramento in Auschwitz, che aveva perso per strada ogni traccia di umanità (fu tradotto anche in Italia). Entrambi i romanzi furono trasformati in due film di successo. Nel primo, Week–end à Zuydcoote (Spiaggia infuocata), del 1964, per la regia di Henri Verneuil (molto fedele al romanzo), un giovane Jean Paul Belmondo, soldato apparentemente cinico e privo di senso della Patria, innamorato di una giovanissima Catherine Spaak, tenta di abbandonare le abbrutite truppe francesi ma perisce in un infelice destino di morte.

La guerra ritorna in alcuni drammi dedicati a Che Ghevara e alla rivoluzione sud–americana.

Nei romanzi successivi Merle si dedicò alla scienza con Un animale dotato di ragione (Un animal doué de raison) (1967) – tradotto in USA con il titolo Il giorno del delfino (The Day of the Dolphin) e trasformato in un film da Mike Nichols nel 1973 – e con La qualità dell’uomo (Le Propre de l’Homme) (1989), che racconta la sfida di uno scienziato che insegna il linguaggio dei segni a uno scimpanzé. Si occupò invece di fantascienza in Malevil (1972), la storia di una piccola comunità di sopravvissuti dopo un’esplosione nucleare (anche da questo romanzo fu tratto un film nel 1981), e in Madrapour (1976), che narra l’avventura di un aereo senza equipaggio (metafora onirica di un viaggio nell’al di là). Fu anche uno storico d’eccezione: tra il 1977 e il 2003 scrisse i 13 romanzi del ciclo romanzesco di storia «umanizzata» avente come inizio Fortune de France, una vera e propria saga dedicata alle Guerre di Religione combattute in Francia tra il 1547 e il 1661. 

Merle morì il 27 marzo del 2004 per un attacco cardiaco nella sua residenza di “La Malmaison”, nei pressi di Parigi.

Nel 2003 aveva ricevuto il Grand Prix Jean Giono per il 13° romanzo storico La spada e gli amori (Le Glaive e les amours). Durante il conferimento di questo premio, umilmente disse: «Mi accontento della mia vita. Troppa grazia!».

In occasione della sua morte (che lo scrittore definiva «la bella signora vestita di nero»), sul Corriere della Sera del 1° aprile 2004 il critico Ulderico Munzi scrisse: «Robert Merle, come tutti i grandi personaggi della letteratura, anche se dimenticati, è morto con estrema discrezione... Aveva novantacinque anni e detestava gli scenari delle lunghe agonie.».

Nel 2008, per il centenario della sua nascita, il figlio Pierre gli ha dedicato una voluminosa biografia, illustrata con fotografie, dal titolo Robert Merle. Una vita di passioni (Robert Merle. Une vie de passions). (www.zam.it, News, 27/8/2008)

P.S. Nel 1964 Henri Verneuil diresse, attenendosi fedelmente al romanzo di Robert Merle, il film drammatico Week–end à Zuydcoote (Spiaggia infuocata), adattato da Francois Boyer e dallo stesso Robert Merle, interpretato da Jean-Paul Belmondo, Catherine Spaak, François Périer e Jean-Pierre Marielle. Il film racconta le ore decisive nel giugno del 1940 di un gruppo di militari francesi che in difficoltà mentre i soldati britannici in precipitosa ritirata devono evacuare Dunkerque affollandosi sulla spiaggia di Zuydcoote per imbarcarsi verso l'Inghilterra. Un sergente francese (Julien Maillat) abbandona il suo reparto e si rifugia in una piccola villa ove incontra Jeanne, inizialmente poco disponibile, con la quale tenterà poi di esorcizzare gli orrori della guerra andando incontro, però, a un inevitabile destino di morte. Ha scritto Morando Morandini (ne "il Morandini", Zanichelli editore): «Francese di ideazione e produzione, ma hollywoodiano nella magniloquenza spettacolare e nell'efficienza dei particolari, il film possiede, nonostante i compromessi, una certa onestà di fondo nella rappresentazione della guerra.». Ha commentato invece Massimo Bertarelli (su "Il giornale" del 18 agosto 2000): «Passabile melodramma sentimentale, ben fornito di retorica antimilitarista, che il solido francese Henri Verneuil dirige sottolineando gli orrori della guerra. Oggi roba da ridere ma per l'epoca piuttosto scioccante, tanto da passare diversi guai con la censura. Catherine Spaak, che gioca in casa, e Jean-Paul Belmondo tubano appassionatamente col groppo in gola.».

 



Il film tedesco Aus einem deutschen Leben del regista di origine polacca Theodor Kotulla è stato ricavato nel 1977 dal romanzo di Merle La mort est mon métier (La morte è il mio mestiere), biografia romanzata di Rudolf Hoess (rinominato Rudolf Lang dall'autore). La sua vita divenne nota grazie allo psicologo americano Gilbert, che lo aveva interrogato nella sua cella durante il processo di Norimberga, e inizia quando Rudolf ha 13 anni (è il 1913) ed è costretto a subire l'educazione pervasiva e piena di restrizioni del padre (un cattolico rigido e severo). A 16 anni debutta nella carriera militare e si lascia convincere a partire per il fronte turco; ritornato a casa, dopo un tentativo di suicidio, aderisce al partito nazista ed entra nelle SS, scalando tutte le gerarchie sino a divenire il comandante del campo di


 concentramento di Auschwitz. Riceve poi l'ordine da Heinrich Himmler (il potentissimo ministro dell'Interno del Reich) di uccidere la maggior parte di Ebrei nel modo più efficace possibile. E a quest'attività Lang si dedica con scrupolo, ingegno, metodo e crudeltà, organizzando il più mostruoso genocidio mai conosciuto. Dopo la fine della guerra e la caduta di Hitler, imprigionato e condannato a morte, si difenderà dicendo di avere soltanto obbedito agli ordini e, con aria serena e naturale e senza dubbi né rimorsi, risponderà di aver ucciso soltanto due milioni e mezzo di persone rispetto ai tre milioni e mezzo che gli erano stati richiesti. In una prefazione scritta per il suo romanzo il 27 aprile del 1972, Merle ha osservato che Rudolf Lang non è una espressione del male o del demonio: «Preferisco pensare, per quel che mi riguarda che tutto diventa possibile in una società nella quale le azioni non sono più controllate dall'opinione pubblica. Di conseguenza, la morte può apparire come la soluzione più rapida per i problemi.». Il film di Kotulla è stato interpretato da Götz George (Lang), Elisabeth Schwarz (Elsie) e Hans Korte (Himmler), oltre che da Kurt Hübner, Matthias Fuchs, Kai Taschner e Sigurd Fitzek, e ha saputo rendere al meglio la totale insensibilità e la completa mancanza di umanità di Rudolf, il quale tutto aveva giustificato col suo essre un uomo di doveri e si era sentito tradito soltanto da Himmler che, prigioniero degli inglesi, si era suicidato lasciandolo da solo ad assumersi le sue responsabilità. E Lang dimostra l'unico momento d'incertezza, quando l'amata Elsie apprende il suo orribile passato del quale era all'oscuro.


Dal romanzo di fantascienza di Robert Merle Un animale dotato di ragione (Un animal doué de raison) (1967) è stato tratto nel 1973 il film Il giorno del delfino (The Day of the Dolphin) di Mike Nichols, sceneggiato da Buck Henry, con George C. Scott, Trish Van Devere e Paul Sorvino. Vi si narra di due biologi marini che in Florida si occupano del linguaggio dei delfini e che riescono a trovare il modo di comunicare con due delfini denominati Alpha e Beta; un gruppo di terroristi medita però di rapirli e utilizzarli in un attentato per collocare delle mine magnetiche sotto lo yacht del presidente degli Stati Uniti in vacanza. Delusi i biologi tentano di rendere i delfini diffidenti nei confronti dell'uomo ma poi si convincono della necessità di un loro ritorno in alto mare, là dove è il loro ambiente di vita naturale. Il film ha suscitato l'entusiasmo della critica ed è stato nominato agli Oscar nel 1974 per il miglior sonoro e la migliore colonna sonora originale.


Da Malevil
(1972), un altro romanzo di fantascienza di Merle, è stato tratto nel 1981 un film diretto da Christian de Chalonge con Michel Serrault, Jacques Dutronc, Jacques Villeret e Jean–Louis Trintignant. La storia è ambientata in un'epoca imprecisata, in una zona rurale del Sud della Francia, e il protagonista è Emmanuel Comte (Michel Serrault), un direttore scolastico serio e stimato che ha deciso di vivere in campagna e che è il proprietario di un vecchio castello chiamato Malevil. In seguito a una catastrofe nucleare, non restano che rovine e desolazione. Comte si ritrova insieme a un gruppo di sopravvissuti e tenta di organizzare la ripresa di una vita degna di essere vissuta nel segno della solidarietà; più tardi scoprono che altri uomini sono sopravissuti e che si sono organizzati in una diversa società guidata da un fanatico dittatore. Conclude deluso Morando Morandini (ne "il Morandini", Zanichelli editore): «Ne nasce una feroce lotta fratricida. Lo scenario apocalittico è un pretesto per mettere a confronto due tipi di società, il socialismo e il fascismo, ma nel finale affiora un altro tipo di totalitarismo. Personaggi schematici e narrazione di passo lento. Tetraggine deprimente.».



lunedì 19 settembre 2011

Edith Nesbit, la precorritrice della Rowling



Edith Nesbit e J.K. Rowling

Centocinquanta anni addietro (il 15 agosto del 1858) nasceva a Londra Edith Nesbit, autrice inglese di alcuni dei più interessanti libri di narrativa per i ragazzi.


Figlia di un chimico per l’agricoltura che morì precocemente quando aveva appena 4 anni, passò la sua infanzia in giro per l’Inghilterra, la Francia, la Spagna e la Germania. Si trasferì quindi per tre anni a Halstead Hall, nel Kent, e questa tranquilla contea inglese le fornì lo sfondo autobiografico per molti dei suoi romanzi (ne scrisse circa 40), che erano il riflesso incantato degli anni idilliaci della sua giovinezza. All’età di 17 anni, con la famiglia, ritornò a Londra e iniziò a scrivere firmandosi con l’androgino E. Nesbit. Fu anche poetessa, lasciando diverse raccolte di poesie per adulti.

Insieme al noto scrittore irlandese Shaw, all’utopista futurologo Wells e al marito Hubert Bland (sposato a 19 anni nel 1877, mentre si trovava già in stato avanzato di gravidanza), parte­cipò attivamente alla vita politica, contribuendo alla nascita del Partito Socialista. Col marito aveva instaurato un matrimonio aperto (egli manteneva infatti, contemporaneamente, una relazione stabile con un’altra donna, dalla quale aveva avuto due figli); da Hubert ebbe tre figli, uno dei quali morì a 15 anni a causa di un’operazione alle tonsille. Entrambi furono il perno di un folto circolo di amici e simpatizzanti che ospitavano nella loro grande “Well Hall House”: Edith aveva tagliato i neri capelli, fumava molte sigarette, era colta e vivace, e posava a donna moderna impegnata politicamente.

Dopo la morte del marito avvenuta nel 1914, sposò l’ingegnere navale Thomas Tucker.

I suoi romanzi – avventurosi ma realistici, ricchi di tono magico ma anche di fini analisi psicologiche e vivaci caratterizzazioni – si distinguono per l’intreccio intrigante e per l’accattivante tono umoristico, e sono ormai diventati dei classici della letteratura per l’infanzia, tradotti in tutto il mondo (compresa l’Italia). La sua biografa Julia Briggs ha definito E. Nesbit «il primo scrittore moderno per bambini».

Edith ha raccolto l’eredità di Lewis Carroll (1832–1898) e della sua nota Alice nel paese delle meraviglie (ancora oggi molto amata dal pubblico infantile) per passare il testimone a Pamela Lyndon Travers (1899–1996) (l’autrice della serie di libri su Mary Poppins) e a C.S. Lewis (1898­–1968) (l’autore delle Cronache di Narnia). Senza di lei, non esisterebbero certamente J.K. Rowling e il suo Harry Potter: in una sua intervista, d’altra parte, la Rowling invitava appunto i suoi lettori a leggere i libri di E. Nesbit! Non bisogna dimenticare, inoltre, che quasi contemporaneamente – nel 1904 – James M. Barrie (1860–1937) creava gli immortali personaggi di Peter Pan (il ragazzo che non voleva crescere) mentre nel 1902 Beatrix Potter (1866–1943) pubblicava le deliziose storie illustrate di Peter Rabbit. Si trattava di una vera e propria “età dell’oro” della letteratura inglese dell’infanzia, nutrita da uno stuolo di autori che a questa letteratura applicavano gli alti standard stilistico–narrativi della letteratura per adulti.

I più noti romanzi di E. Nesbit sono: La storia dei cercatori di tesori (1899), che racconta le vicende dei ragazzi Bastables, appartenenti a una famiglia di classe media andata rovina e costretti ad abitare in campagna; Cinque bambini e la Cosa (1902), in cui cinque fratellini, in una cava di sabbia della campagna inglese, incontrano una bizzarra creatura in grado di esaudire qualsiasi desiderio; e I bambini della ferrovia (1906), che autobiograficamente narra di tre fratellini che dopo la morte del papà vanno ad abitare in campagna nei pressi della ferrovia (questo testo ha ispirato diversi film e numerosi adattamenti televisivi).

E. Nesbit morì per un cancro polmonare il 4 maggio del 1924 a New Romney nel Kent, in quell’amata contea, ispiratrice delle sue storie con le sue antiche misteriose case in stile vittoriano, coi suoi dolci giardini segreti, coi suoi passaggi tutti da scoprire, e coi suoi verdi prati attraversati dalle rotaie della ferrovia. (www.zam.it, News, 18/8/2008)

P.S. Nel 1970 è stato prodotto il film inglese The Railway Children (I bambini della ferrovia), basato sul­l'omonimo romanzo della Nesbit, diretto da Lionel Jeffries con Dinah Sheridan, Jenny Agutter, Sally Thomsett e Bernard Cribbins.


Nel 2004 John Stephenson ha girato il film inglese 5 Bambini e Lui (Five Children and It), tratto dal romanzo della Nesbit, presentato in Italia nel 2006, che aveva tra gli interpreti  principali Freddie Highmore (Robert), Alex Jennings (il padre), Tara Fitzgerald (la madre), Kenneth Branagh (zio Albert) e un gruppo di giovanissimi bravi attori. 

domenica 18 settembre 2011

Vertigo – La donna che visse due volte di Thomas Narcejac



Thomas Narcejac



Cento anni addietro (il 3 luglio del 1908) nasceva, a Rochefort–sur–Mer in Francia, Thomas Narcejac, pseudonimo di Pierre Robert Ayraud. Fece studi letterari, laureandosi in Filosofia e insegnando a Vannes. Insieme a Pierre Boileau (1906–1989), negli anni ’50, scrisse intriganti racconti e romanzi pieni di mistero, divenendo un maestro del thriller francese.


Inizialmente i due autori scrivevano per conto proprio, condividendo però la passione per la suspense e il giallo. Ciascuno di loro era stato premiato, individualmente, col “Gran Prix du Roman d’Aventures”: Boileau nel 1938 e Narcejac nel 1948. Fu proprio durante questa seconda premiazione che si conobbero, decidendo di scrivere insieme: Boileau elaborava la trama (densa di ossessioni e claustrofobia) mentre Narcejac curava l’atmosfera e la psicologia dei per­sonaggi.

I due autori scrissero: «Abbiamo voluto fare del romanzo poliziesco un romanzo “tout court”, e dal momento che non vogliamo rinunciare al mistero, che per noi è l’essenza stessa del romanzo giallo, è stato pressoché indispensabile lavorare in due: l’uno si occupava quasi unicamente dell’intreccio senza tener conto dei personaggi, l’altro pensava soprattutto ai personaggi, indipendentemente dalla storia».

L’accorta costruzione di thriller, che si svolgono come un intricato enigma e che infine si svelano con un colpo di scena sensazionale, assicurò loro un successo immenso; infatti, il secondo romanzo del duo Boileau– Narcejac Celle qui n’était plus (1952) divenne nel 1954 il bel film di Henri–Georges Clouzot I diabolici (Les Diaboliques), la storia di un uomo vile che uccide la moglie fragile e malata con l’aiuto dell’amante fatale, credendo di aver compiuto il “delitto perfetto” (il film ebbe risonanza planetaria).

L’altro loro capolavoro D’entre les morts (1954) ispirò nel 1958 lo stupendo film psicologico Vertigo di Alfred Hitchcock (con Kim Novak e James Stewart), inserito nella lista dei 100 film più grandi della cinematografia mondiale, definito «culturalmente, storicamente ed esteticamente significativo», ed uno dei preferiti dallo stesso regista. Conosciuto in Italia come La donna che visse due volte, è la storia di un avvocato (nel film è invece un poliziotto in pensione che soffre di acrofobia ed è vinto dal panico per le altezze elevate), che s’innamora della donna enigmatica che deve sorvegliare e che, dopo il suicidio di lei, entra in crisi ma sembra incontrarla di nuovo in un’altra città; ed è per lui l’inizio di una vertigine senza fine. Delle loro straordinarie trame ricche di mistero, Michel Lebrun scrisse: «L’eroe, per loro, non deve mai potersi risvegliare dal suo incubo».

Nel 1971 la coppia Boileau–Narcejac creò il personaggio di Sans Atout (un giovane ragazzo con l’istinto del detective, coinvolto in quasi una decina di storie gialle destinate a un pubblico giovanile) e nel 1973, con una serie di avventure, resuscitò le immortali vicende di Arsenio Lupin.

Narcejac fu anche un teorico del romanzo poliziesco: scrisse, infatti, il saggio Esthétique du roman policier.

Dopo la scomparsa del partner (avvenuta nel 1989), Narcejac continuò a scrivere libri, firmandoli ancora “Boileau–Narcejac”, sino alla morte avvenuta a Nizza il 7 giugno del 1998. (www.zam.it, News, 11/7/2008)

P.S. Due sono i film indimenticabili nati dalle penne di Boileau e Narcejac.

(1) Dal loro romanzo Celle qui n’était plus (1952), Boileau e Narcejac trassero la sceneggiatura del film di Henri–Georges Clouzot I diabolici (Les Diaboliques) (1954), capolavoro immortale – che Hitchcock avrebbe voluto dirigere – teso e senza pause (nonostante il lento riytmo scandito dall'inesistenza della colonna sonora), caratterizzato da numerosi e inquietanti colpi di scena. Esaltato dalla critica, successo clamoroso di botteghino, è divenuto un film di cult per il pubblico, imitato da tutti i registi "noir" imponendo Clouzot come l'«Hitchcock francese». Ambientato in un triste collegio per ragazzi situato nella periferia parigina, i protagonisti sono Christina Delassalle (Véra Clouzot), proprietaria e direttrice cardiopatica della scuola; Michel (Paul Meurisse), marito dispotico, interessato e infedele; e Nicole (Simone Signoret), una insegnante del collegio, amante del marito, la quale convince l'infelice Christina a uccidere insieme con lei il marito, attirandolo lontano, annegandolo e riportando il cadavere in collegio per fingerne l'annegamento in piscina. Il delitto è compiuto, ma inizia per Christina tutto una serie di eventi terrificanti che, sommati al suo senso di colpa, la riempiono di un terribile panico che mette a repentaglio il suo cuore malato (il finale sarà strepitoso e sorprendente). Ha scritto Morando Morandini (ne "il Morandini", Zanichelli editore): «Con un ottimo ritmo e una suspense ininterrotta, questo dramma criminale si srotola attorno alle due bravissime protagoniste, lo spettatore è con loro, attento e partecipe». Matteo Contin ha parlato di «una storia che corre in discesa senza freni, libera e arrotolata su sé stessa, fino allo schianto finale», evidenziando «l'angoscia e il raccapriccio che percorrono tutta la pellicola». Suspense, atmosfera torbida, malvagità persecutoria, crudele pervesione, squallore morale e cinico umorismo sono le cifre del film, che nell'apertura così si esprime: «Un quadro è immancabilmente morale quando è tragico e quando riflette l’orrore delle cose che rappresenta.». Su Cinemadadenuncia.splinder.com sta scritto: «Nel jeu de massacre triangolare messo in scena da Clouzot, i protagonisti sono divorati da sentimenti inconfessabili: avidità, gelosia e perfidia sono le scintille che infiammano i loro cuori, precipitandoli nell’abisso della colpa. E tutt’intorno un coro di personaggi minori abbrutiti dal cinismo, rosi dall’invidia, consumati dall’opportunismo. Perfino i bambini, piccoli mostri già esperti nell’arte della prevaricazione, gracchiano e malignano incessantemente, ostentando una ricchezza arrogante, proiezione di futuro potere. Un mondo senza scampo, nerissimo».

Un remake del film, Diabolique, è stato diretto da Jeremiah Chechick con Sharon Stone, Isabelle Adjani e Chazz Palminteri; interessante nonostante tutto,, grazie alla qualità del thriller di Boileau e Narcejac da cui è tratto liberamente (la storia è stata ambientata in Pennsylvania, a Pittsburgh),il film non ha raggiunto i meriti assoluti del film di Henri–Georges Clouzot.


(2) L’altro romanzo D’entre les morts (1954) divenne Vertigo (1958) di Alfred Hitchcock  – in italiano il titolo del film fu La donna che visse due volte e questo divenne in Italia anche il titolo del romanzo pubblicato dopo l'uscita del film – , sceneggiato da Alec Coppel e Samuel A. Taylor. Il film era interpretato da James Stewart (John 'Scottie' Ferguson, poliziotto sofferente di vertigini, costretto a lasciare la polizia per un incidente provocato dalla sua paura del vuoto), Kim Novak (nella doppia interpretazione di Madeleine Elster e Judy Barton) e Tom Helmore (Gavin Elster, marito di Madeleine e amico di Scottie, cui dà l'incarico di seguire la moglie per proteggerla dal suo desiderio di uccidersi). La trama è troppo arcinota per parlarne. C'è da dire, però, che il film – nominato nel 1959 agli Oscar per la migliore scenografia e il migliore sonoro – è straordinariamente riuscito per quella tesa atmosfera che durante tutto il film lascia intuire un diabolico intrigo e giunge sino al tragico epilogo; per l'inquietante effetto del vuoto in grado di provocare le vertigini del protagonista (ottenuto con artifici tecnici e utilizzando lo zoom in modo nuovo e personale); e infine per la misteriosa rappresentazione del "tema del doppio", tanto amato da Hitchcock e suggerito dall'uso sapiente di molti specchi. Pur accennando anche a qualche incongruenza, ha scritto Andrea Carlo Cappi in "Capolavoro di Hitchcock sull'identità divenuto oggetto di venerazione" (mymovies.it): «Ciò non ha impedito al film di diventare oggetto di venerazione e di infinite citazioni. Vi ricorrono temi tipicamente hitchcokiani: la paura dell'altezza, un trauma insanabile, l'ambiguità morale dei protagonisti... Lo straordinario effetto "vertigine"... il ritmo lento ("contemplativo", scrive Truffaut) della narrazione rimangono memorabili. Kim Novak, perfetta e sensuale nella sua duplice interpretazione, nonostante il regista per quel ruolo volesse inspiegabilmente Vera Miles.».