sabato 3 settembre 2011

La rivolta contro il ruolo di bambola – Le donne di Ibsen



Henrik Ibsen


Henrik Ibsen nacque nella piccola Skien in Norvegia il 20 marzo del 1828 (morì nel 1906 dopo lunga paralisi) da rigidi genitori benestanti ma dopo il fallimento familiare conobbe la povertà e l’umile lavoro di commesso di farmacia, costretto a disordinati studi notturni.


Libertario ma con un fondo d’integrità morale, nel 1851 fu chiamato a Cristiania (Oslo) per dirigere il Teatro di Bergen ove conobbe la polvere del palcoscenico; nel 1858 sposò Suzannah Thorensen che gli fu compagna per la vita. In una serie di “drammi nazionali”, opere realistiche in tenue ammanto romantico, si andò delineando il personaggio ibseniano: un individuo amletico e contraddittorio, alla ricerca dell’assoluto, brutale ma anche indifeso, realistico ma anche visionario, gaio e cupo insieme; un essere umano in crisi che deve conciliare felicità e dovere, che sente di poter essere grande ma cova in se stesso i nemici della sua grandezza.

È di questo periodo Peer Gynt (1867), in cui si contrappongono sogni e aspirazioni di due archetipi universali e indimenticabili: Peer, un giovane ambiguo che vuol essere se stesso, che s’illude e illude gli altri, un farfallone senza carattere e senso morale che dai fiordi alle piramidi di tutte s’invaghisce e tutte abbandona; e l’innamorata Solvejg che comprende il confuso mondo di Peer e, da vera eroina romantica ed emblema dell’amore eterno, tutto sopporta e tutto perdona. Proprio l’amore generoso di Solvejg – che solida come una roccia lo ha atteso per lunghissimi anni («Tu hai reso la mia vita / uno stupendo canto. / Che tu sia benedetto / per essere tornato!») – salva l’inquieto Peer dalla perdizione; quando vecchio e deluso egli ritorna a casa, Solvejg (altri non è che la fedele Suzannah) lo culla aiutandolo a entrare nel sonno della morte.

Alla maniera di Peer, Henrik è tormentato e immerso in un senso di cupa fatalità, convinto che «l’uomo più forte del mondo è colui che più è solo», che «soltanto i puri sono felici», e che gli sforzi per raggiungere il “sublime” cui aspira l’animo umano sono vani; come Peer, ha sacrificato moglie e figlio (abbandonati nella fredda Cristiania) mentre rimaneva lontano per quasi 30 anni.

Dal 1869 Ibsen ripiegò sul dramma realistico socio–ideologico, sulle prosaiche storie borghesi che portavano in scena conflitti psicologici ma soprattutto la menzogna delle dure regole del matrimonio, dei ruoli tradizionali dei sessi e della “doppia morale” che rende gli sposi estranei e nemici. Appartiene a questo periodo il rivoluzionario Una casa di bambola (grande successo internazionale e «tragedia del nostro tempo», quasi femminista nell’analizzare la condizione della donna dell’Ottocento) (1879), nel quale Nora, moglie innamorata dell’avvocato Torvald Helmer – a differenza di Solvejg che neppure si accorge delle umiliazioni che Peer le infligge – rifiuta il ruolo di bambola (di oggetto di lusso) cui è relegata dallo strapotere maritale e, non avendo avuto perdonato in nome del culto della rispettabilità un lontano illecito prestito contratto nel nome dell’amore, valuta con senso etico e distruttivo il comportamento meschino del marito (che a problema risolto sa soltanto dire: «Sono salvo!») e prende coscienza di sé e del suo essere donna («Devo riflettere col mio cervello e vedere chiaramente tutte le cose»), realizzando la sua personale autonomia nella solitudine e nell’abbandono della gabbia dorata di casa e famiglia («Guardami come sono: non posso essere tua moglie»). (“La Sicilia” 26/3/2008)


P.S. Il personaggio tipico di Ibsen è quindi un individuo pieno di contraddizioni, così com’era l’uomo nordico del tempo e così come appare anche nei «capolavori di dura psicologia» di August Strindberg (1849-1912), il grande drammaturgo svedese che con lucida crudezza diceva di scrivere con l’ascia, e non con la penna. Il personaggio di Ibsen è un confuso essere umano alla ricerca dell’assoluto, in bilico tra conservatorismo e modernità, inaridito dalle regole ma anche anticonformista. Al suo esordio Peer Gynt fu un insuccesso (mise in crisi Ibsen) proprio per la modernità del testo, e forse anche per il fatto che i norvegesi non si riconobbero nell’immaturo e indegno protagonista (anzi lo rifiutarono con sdegno e ostilità).

Nel 1857, per il fallimento di alcune sue imprese teatrali e per la delusione provocata dall’incom­prensione della sua gente, Ibsen si vide costretto a lasciare il Teatro di Bergen per un altro teatro. A questo periodo di superbo isolamento risale La commedia dell’amore (1862), nella quale Ibsen sosteneva la necessità dell’amore maritale (nonostante fosse foriero di problemi e di difficoltà) e negava le opportunità del libero amore. Il rapporto tra i sessi e le dure regole del matrimonio (tali da rendere spesso gli sposi estranei se non addirittura nemici) sono stati i temi amati da Ibsen e Strinberg, che presentirono la crisi dell’istituto matrimoniale nella società borghese tra la fine dell' Ottocento e gli inizi del Novecento.

Nel 1864, in uno stato di violenta ribellione, fuggì in Italia (nazione che amò sempre molto), lontano dai grigi e piovosi luoghi nativi, rimanendo lontano sino al 1891 (tranne alcuni brevi rientri), nonostante che in patria gli fossero tributati onori e riconoscimenti.

In seguito, alla maniera della tragedia greca, iniziò a strutturare i suoi personaggi come dei simboli di uno stato d’animo o di un sentimento (l’amore, la colpa, l’espiazione, il sacrificio, il dovere, etc.) e dal 1869 la sua produzione artistica fu caratterizzata dal naturalismo e dal passaggio al dramma realistico borghese o ideologico, nel quale l’autore stigmatizzava le inquietudini e le problematiche esistenziali della meschina società borghese degli ultimi decenni dell’Ottocento. Iniziò, inoltre, a usare la lingua viva dei dialoghi e della realtà di tutti i giorni, divenendo così un antesignano del teatro moderno.

Seguì, quindi, un gruppo di opere importantissime: Gli spettri (1881), che indagava i guasti dell’e­reditarietà e l’impotenza delle vittime; L’anitra selvatica (1884), nella quale mostrava l’uomo preda di miraggi costruiti per sopravvivere al condizionamento dell’ambiente; La donna del mare (1882), che narrava di una donna apparentemente debole che, lasciata libera di scegliere al di là delle convenzioni, rifiuta il sogno del grande amore e resta con l’affettuoso marito; Hedda Glaber (1890), nella quale una donna si sente superiore al marito e ne distrugge sia la personalità sia l'opera letteraria, trovando infine la fine nel suicidio (una simile terribile superdonna è stata rappresentata anche da Strinberg nella pièce teatrale “Il padre”); e infine Il costruttore Solness (1892), il dramma dell’individualismo più sfrenato.

Le ultime opere di Ibsen, scritte dopo il suo ritorno a Cristiania, furono John Gabriel Borkmann (1896), che rappresentava tutte le tristezze della vecchiaia in un malinconico presagio di morte, e Quando noi morti ci destiamo (1899), esemplificazione della strenua lotta tra l'arte e la vita, tra la vocazione e i bassi istinti, in una metafora del triste tramonto della società borghese dell’Ottocento in profonda crisi.

Nel 1900, a 72 anni, una grave paralisi progressiva costrinse lo scrittore a un’infelice immobilità e a un triste declino psichico che durarono sino al 1906, anno della morte avvenuta ad Oslo.

Ibsen ebbe un carattere malinconico e cupo che peggiorò con gli anni, e si nutrì di un senso di cieca fatalità senza rimedio. Tutte le sue opere, scritte con tecnica perfetta e linguaggio incisivo, presentano trame coinvolgenti e sentimenti umani grandiosi che devono essere letti in chiave psicoanalitica; esse appaiono eterne, irresistibili e modernissime nel loro affrontare con consapevole serietà morale i conflitti sociali, i dissidi familiari e la condizione della donna nell’Ottocento.

Nel 2012 Mariangela Melato tornerà a lavorare con Luca Ronconi nel dramma di Ibsen Casa di bambola (produzione del Teatro Stabile di Genova), calandosi sia nel personaggio della protagonista Nora, sia in quello di Kristine, l'amica d'infanzia cui Nora confida il suo fallo. Con lei reciteranno Riccardo Bini, Giovanni Crippa, Barbara Moselli, Orietta Notari, Luciano Roman e Irene Villa.


Antonio Gramsci, commentando il 22 marzo 1917 la rappresentazione della commedia Una casa di bambola (Et dukkehjem) al Teatro Carignano con Emma Grammatica, delineò un impietoso confronto tra la donna del lontano Nord e quella dell’Italia di inizio secolo: «La donna dei nostri paesi, la donna che ha una storia, la donna della famiglia borghese, rimane come prima la schiava, senza profondità di vita morale, senza bisogni spirituali, sottomessa anche quando sembra ribelle... Rimane... la bambola più cara quanto più è stupida, più diletta ed esaltata quanto più rinunzia a se stessa, ai doveri che dovrebbe avere verso se stessa, per dedicarsi agli altri...».

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