sabato 23 marzo 2013

Piero Chiara e la provincia, riflesso del mondo


Piero Chiara


Il 23 marzo Piero Chiara (nato a Luino nel 1913) avrebbe compiuto cento anni. Intellettuale e scrittore italiano – il cui realismo si stemperava in invenzioni comiche e situazioni grottesche – morì a Varese per un tumore il 31 dicembre del 1986. Il comune di Varese gli ha dedicato dal 1989 il “Premio letterario Piero Chiara”, uno dei più prestigiosi premi nazionali, volto espressamente al racconto (per racconti editi in Italia e nella Svizzera italiana), istituito non solo come evento culturale ma anche come produttore di cultura destinato a valorizzare il territorio di appartenenza sotto il profilo letterario e paesaggistico (gli sono stati affiancati il “Premio Chiara giovani” e il “Premio Chiara alla carriera”).

Il padre doganiere era nativo di Resuttano (in provincia di Caltanissetta) e – a lui, grande raccontatore di storie e fatti – lo scrittore si disse in debito per il suo talento di narratore, mentre la madre era di origini piemontesi.

Studente non diligentissimo (lo stesso Chiara parlò di “non studiosa adolescenza”), fu amico e coetaneo dello scrittore e poeta Vittorio Sereni (1913–1983), anch'egli nato a Luino e figlio di un funzionario della dogana. Piero ebbe un rapporto infelice con l'istituzione scolastica e frequentò diversi collegi retti da religiosi (tra cui il San Luigi di Intra e il De Filippi di Arona). La scuola – come scrive Mauro Novelli – gl'impedì di «bighellonare in campagna, sulle rive del lago o tra i banchi dell’animato mercato locale»
(http://www.treccani.it/enciclopedia/piero-chiara_%28Dizionario-Biografico%29/). 
Nell'incipit de Le avventure di Pierino al mercato di Luino (che fa parte della sua narrativa per ragazzi e che fu pubblicato nel 1980), scriveva Chiara in modo autobiografico: «Il desiderio più forte che Pierino allevava nel cuore fin da quando a sei anni aveva cominciato la scuola, era di aver libertà il mercoledì e di poter passare la giornata godendo lo spettacolo del mercato che si teneva in quel giorno al suo paese.». Molte notizie biografiche possono essere ricavate da Federico Roncoroni, Piero Chiara. La vita e le opere, Nicolini, Varese 2005. Ha scritto Roncoroni: «La vita di quegli anni di scuola e di collegio, a ogni buon conto, tornerà di frequente nelle sue pagine di scrittore, recuperata e accarezzata sul filo di una sottile ironia, specialmente nei confronti di un'educazione tanto rigida quanto culturalmente e formativamente inesistente.».

Ottenuta la licenza complementare da privatista nel 1929, Chiara continuò a formare la sua cultura da autodidatta. Scrive Novelli nel suo lungo e articolato testo dedicato allo scrittore luinese: «Maturava intanto un’avida passione per la letteratura, che lo portava ad alternare le biblioteche alle palestre, dove praticava pugilato e lotta per tonificare il fisico minuto.». è stata riportata questa sua frase lapidaria che riassumeva la sua visione esistenziale: «Ho assistito alla vita qualche volta da seduto, qualche volta in piedi, partecipando al banchetto o rimanendo a bocca asciutta, ma sempre con grande piacere»; e, in effetti, Chiara volle vivere «al di là di ogni pregiudizio, in piena libertà, con una totale disponibilità a ogni tipo di esperienza e soprattutto con un sostanziale rifiuto di ogni forma di costrizione» 
(http://www.ilfestivaldelracconto.it/premiochiara/vita.asp).

Esentato dal servizio militare per una forte miopia, fu all'estero e poi nel 1932 accettò un impiego in magistratura come “aiutante di cancelleria” (lavoro che «non lo entusiasmava, ma non lo impegnava»): fu prima assegnato alla pretura di Pontebba, quindi ad Aidùssina (sul confine iugoslavo) e a Cividale del Friuli, e finalmente alla pretura di Varese. Scrive Novelli: «In questa fase irrobustì con l’entusiasmo dell’autodidatta la sua preparazione culturale. […] Favorito dal tempo libero a disposizione, avviò qualche collaborazione con periodici locali, scrivendo soprattutto di arte. Collezionò intanto avventure sentimentali, fino a che s'invaghì, corrisposto, della giovanissima Jula Scherb, figlia di un illustre medico zurighese». La sposò nel 1936 e n'ebbe il figlio Marco (il matrimonio, purtroppo, finì quasi subito per «un crescendo d'incomprensioni reciproche»). Inizialmente Chiara scrisse sul «Giornale del Popolo» e più tardi sul «Corriere del Ticino» di Lugano, e – pieno di gratitudine per la Svizzera – mantenne per tutta la sua vita rapporti molto stretti con gli intellettuali ticinesi.

Chiamato alle armi e ritornato a casa, nel 1944 – a causa del suo spirito libero e liberale, e di alcuni blandi atti antifascisti (aveva, per esempio, fatto sparire dal Tribunale di Varese i ritratti di Mussolini e talora messo il ritratto del Duce nel gabbiotto degli imputati) – fu costretto, per sfuggire a un ordine di cattura del tribunale fascista, a riparare in Svizzera in alcuni campi nei quali venivano internati i rifugiati italiani (in varie località tra cui Bellinzona, Lugano e Loverciano); intanto veniva condannato in contumacia a quindici anni di reclusione con l'interdizione dai pubblici uffici. Per molti mesi era stato salvato, come scrisse lo stesso Chiara, «dall’intervento di autorevoli fascisti bonaccioni di provincia che divertiva con le sue frottole o che aveva compagni al tavolo di gioco» (vedere in Roncoroni). In Svizzera Chiara pubblicò la sua prima opera, una raccolta di poesie dal titolo Incantavi (1945), dal nome dei covoni di grano nel dialetto di Luino.

Rimesso in libertà, fu destinato come bibliotecario nel Canton Ticino (ove collaborò con lo spionaggio americano) e, alla fine della guerra, si diede all'insegnamento presso la cattedra di italiano, storia e filosofia, prima in Svizzera poi in Italia, ove era ritornato. Nel dopoguerra si segnalò come organizzatore di mostre di scultura all’aperto e come mercante d’arte, divenendo un noto giornalista pubblicista e un conferenziere molto richiesto (si era fatta la fama d'“impagabile narratore orale”). Iniziò da allora in intenso periodo creativo e produttivo.

Nel 1962 pubblicò Il piatto piange, il romanzo che segnò il suo esordio come romanziere, che rievocava la vita dei caffè di Luino negli anni Trenta, e che fu un grande successo di pubblico e di critica. Il romanzo fu scritto grazie alle pressioni dell'amico Sereni, al quale scriveva in una lettera del 24 gennaio 1961: «Lavoro come un pazzo al libro che tu aspetti. Se non sapessi che tu lo aspetti non saprei scrivere una riga. Racconto tutto a te con una foga che mi riporta indietro a velocità vertiginosa in quegli anni. Credo che il romanzo ci sia, in queste pagine. Ma giudicherai tu.». Il libro suscitò contemporaneamente entusiasmi e proteste di coloro che sembrarono riconoscersi in alcuni “caratteri” del romanzo, che si aggiudicò il premio Internazionale Silver Caffè. Il libro inizia così: «Si giocava d'azzardo in quegli anni, come si era sempre giocato, con accanimento e passione; perché non c'era, né c'era mai stato a Luino altro modo per poter sfogare senza pericolo l'avidità di danaro, il dispetto verso gli altri e, per i giovani, l'esuberanza dell'età e la voglia di vivere.» (da Piero Chiara, Il piatto piange, CDE, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1978). Ha commentato Carlo Bo: «È un piccolo capolavoro. Il lettore vi troverà finalmente un mondo di paese che non sa di letteratura: avrà da leggere senza un attimo di stanchezza e, cosa che non succede quasi mai, arrivato alla fine, sarà preso da un senso di sincero rammarico.» (vedere in Roncoroni).

Nel 1954 seguì il noto romanzo La spartizione (premio Selezione Campiello e vincitore del premio Alpi Apuane); nel 1970 Piero Chiara fu chiamato da Alberto Lattuada in un ruolo di attore in Venga a prendere il caffè da noi, interpretato da Ugo Tognazzi, e tratto dal romanzo (che fu da lui stesso sceneggiato): vi si raccontavano gli strani e scabrosi rapporti tra Emerenziano Paronzini e le tre sorelle Tettamanzi. Da questo romanzo, insieme con Aldo Trionfo, Chiara trasse pure una riduzione teatrale dal divertente titolo Il Trigamo, rappresentata dalla compagnia Moriconi–Carraro.

Voltosi indietro ai luoghi e alla gente di Sicilia (terra d'origine del padre Eugenio), conosciuti da bambino nelle sue vacanze estive, nel 1965 pubblicò Con la faccia per terra, proprio a ridosso della morte dell'amato padre.

Dal 1969 fu chiamato a collaborare con la terza pagina del «Corriere della sera», divenendo amatissimo per i suoi elzeviri e bozzetti, e per le sue divagazioni e recensioni, raccolti ne L’uovo al cianuro e altre storie.

Nel 1970 pubblicò il romanzo “giallo” I giovedì della signora Giulia, contemporaneamente al suo adattamento televisivo RAI in cinque puntate, per la regia di Paolo Nuzzi e Massimo Scaglione, con Claudio Gora, Helene Remy, Martine Brochard, Tom Ponzi e Gianfranco Barra (lo stesso Piero Chiara si ritagliò un piccolo ruolo d'attore).

Del 1973 è Il pretore di Cuvio, candidato al premio Strega (che vendette più di 120.000 copie in pochi mesi), e del 1974 è Sotto la Sua mano, cui seguirono moltissimi altri romanzi e racconti raccolti postumi ne Il meglio dei racconti di Piero Chiara (1989).

Nel 1976 dal suo capolavoro La stanza del vescovo (il Vescovo era un prozio della moglie del narratore della storia, monsignor Alemanno Berlusconi, morto nel 1928, che da giovane passava l'estate in villa, la cui stanza – la migliore – era addobbata nel modo degno di un Nunzio Apostolico qual era) fu tratto il film di successo di Dino Risi, con Ugo Tognazzi e Ornella Muti (anche in questo caso Chiara si ritagliò un piccolo ruolo d'attore: era il cancelliere del tribunale, l'attività che in passato aveva svolto nella vita).

A proposito della sua collaborazione col cinema, in un'intervista a Roberto Gervasio del 1977, Chiara disse: «Anche se alcuni critici dicono il contrario, io penso esclusivamente alla letteratura. Il cinema quando viene, viene dopo.» (vedere in Roncoroni); parlò, inoltre, di «unica soddisfazione di carattere economico» e di «cadute cinematografiche nell’erotismo» che mancava nei suoi libri (intervista a Ernesto Gagliano del 1977 per “Stampa Sera” di Torino).

Nel 1978, dal grottesco Il balordo (1967), vincitore nel 1968 del premio “Bagutta”, fu tratto l'omonimo sceneggiato televisivo RAI per la regia di Pino Passalacqua (narratore Renzo Palmer), con Tino Buazzelli, Elisa Cegani, Marina Confalone, Richard Harrison, Teo Teocoli e Vittorio Mezzogiorno.

Massone, Piero Chiara si dedicò anche alla politica ricoprendo diversi incarichi nazionali nel Partito Liberale (nel 1984 fu nominato vicesegretario nazionale del partito).

Dopo molte convivenze – Piero Chiara era un estimatore dell'universo femminile e intrecciò varie storie d'amore: egli stesso parlò di «una gran bella vita da scapolo» – dal 1955 visse con Mimma Buzzetti, che sposò nel 1974.

Nel 1957 abbandonò il suo lavoro al Ministero della giustizia per «dedicarsi liberamente e compiutamente alla letteratura» (come disse egli stesso), e all'arte divenendo un esperto degli artisti del Varesotto tra Seicento e Ottocento e collaborando con pittori, incisori e scultori nella pubblicazione di “libri d’arte” e di “opere grafiche” impreziosite da disegni, chine, acquarelli, litografie, acqueforti, serigrafie, incisioni e fotografie; continuava, intanto, la sua attività di consulente editoriale e giornalista.

Tra il 1967 e il 1969 passò diversi mesi in USA e a New York ove abitava il figlio Marco. Ritornava, però, a Luino per alcune “gite” «necessarie, a suo dire, per il suo stesso equilibrio sentimentale e fantastico», ove ritrovava «le sue radici di uomo e narratore» (vedere in Roncoroni).

Piero Chiara è stato considerato lo scrittore della provincia tra le due guerre (di quel microcosmo in cui si rifletteva tutto il mondo e che era anche un rifugio), della pigra quotidianità, della vita di frontiera, della borghesia piccola, e delle piccole narrazioni del “grande lago” (ispirato autobiograficamente da Comnago, il paese sulla sponda piemontese del Lago Maggiore dal quale proveniva la madre Virginia Maffei). I suoi testi erano ricchi d'ironia malinconica e di lieve umorismo. La critica lo ha paragonato a Giovanni Guareschi (1908–1968), cantore della bassa padana e dei suoi protagonisti (inclusi, Peppone e Don Camillo). Amò la lentezza e gli ozi di una vita appartata, rivolgendosi a personaggi conosciuti nella realtà e rappresentati con forza psicologica e rimpianto nostalgico nei loro vizi e nelle loro virtù ma senza mai scadere nel morboso o nel volgare: il pretore di provincia, il medico di paese, la moglie del commercialista, il giocatore d'azzardo costretto a impegnare le sue cose, il virtuoso del biliardo, il proprietario dell'hotel, il commissario di Pubblica Sicurezza, il testimone di pretura, cioè con tutti quei «personaggi di ogni tipo» che stimolavano la sua fantasia creativa.

Il disincanto e l'umorismo amaro si faranno più intensi nelle ultime opere: Il cappotto di astrakan (1978), ambientato nella Parigi nel 1950 (l'autore e narratore pensava di trovarvi e cogliervi «il terreno favorevole alla nuova vita… il bandolo di un avvio e magari… la fortuna»); Vedrò Singapore? (1981), in cui riviveva dopo più di quarant'anni le vicissitudini vissute nelle diverse preture del Friuli e nel quale – accennando a una prosperosa ragazza friulana – l'autore parlava di quella che era ritenuta «la dote del Friuli, la quale secondo un detto popolare consisteva in panse, tette e cul, non avendo altro quella splendida terra, almeno allora, da esportare o da presentare al mondo»); e Saluti notturni dal Passo della Cisa (1987), pubblicato postumo: ne aveva corretto le bozze proprio poco prima di morire.

Fu anche traduttore e saggista: nel 1969 aveva tradotto il Satiricon di Petronio Arbitro, da lui considerato la «polla originaria della narrativa occidentale». Interessato all'avventuriero, scrittore–poeta, alchimista, diplomatico–filosofo veneziano Giacomo Casanova (1725–1798), Chiara pubblicò molti saggi su di lui, che raccolse nel volume Il vero Casanova (1977), curando nel 1980 anche la sceneggiatura dell'edizione televisiva tratta da Il ritorno di Casanova di Arthur Schnitzler, per la regia di Pasquale Festa Campanile, con Giulio Bosetti, Mirella D'Angelo, Grazia Maria Spina, Bianca Toccafondi e Carlo Simoni. Scrisse Chiara dello stile di Casanova: «Non è uno stile da letterato sedentario e misantropo, è uno stile da esaltatore della vita, che con la sua irrequietezza sembra prevedere l'europeo futuro. Nella letteratura italiana mancava allora non solo un buon romanzo in prosa, ma ancora l'idea di uno stile così veloce e denso di avvenimenti. L'azione si fonde al dialogo, il quale diventa azione interiore.» (in Giacomo Casanova, Storia della mia vita, a cura di Piero Chiara e Federico Roncoroni, Arnoldo Mondadori, I Meridiani, 1999).

A D'Annunzio dedicò: Vita di Gabriele D'Annunzio (1978) – in pochi mesi vendette oltre 100.000 copie – e Prato nella vita e nell'arte di Gabriele D'Annunzio (1985).

Nel 1976 fu insignito dal governo francese con il grado di Ufficiale delle Palmes Académiques (per la valorizzazione e diffusione delle opere di Casanova) e nel 1982 fu fatto Cavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana. Nello stesso periodo ricevette una Laurea honoris causa presso l’Università di Catania.

A proposito delle altissime tirature dei libri di Chiara e del fatto che lo scrittore fosse considerato un “autore popolare” per la sua “facilità” di lettura, scrive Mauro Novelli: «Al principio degli anni Ottanta la popolarità di Chiara toccò l’apice. I suoi libri, tradotti in tutto il mondo, avevano venduto complessivamente oltre quattro milioni di copie. Tuttavia, al crescere del successo aveva corrisposto un affievolimento del consenso critico, fatta salva la stima d'intellettuali del calibro di Sciascia, Prezzolini, Bo, Pomilio, Carena, Baldacci, che ne ammiravano le doti di narratore di costume.»
(http://www.treccani.it/enciclopedia/piero-chiara_%28Dizionario-Biografico%29/).
A queste critiche, in un'intervista del 1980, Chiara rispose: «Ho in circolazione quasi tre milioni di copie dei miei libri. Il che vuole dire che sono letto più dagli uomini comuni, che sono gli uomini migliori, che dagli intellettuali, che sono i peggiori» (vedere in Roncoroni).
L'interesse dei critici per l'opera di Chiara è, tuttavia, cresciuta in questi ultimi anni.

Ha scritto di lui Roberto Gervaso: «La leggibilità è una dote piuttosto rara fra i nostri narratori, intenti più a lanciar messaggi, patrocinare avanguardie, inseguir mode che render digeribile la loro prosa. Piero Chiara è un'eccezione. Scrive come parla, e parla come scrive. Il suo stile può anche non piacere, ma non resta sullo stomaco. I suoi libri, una volta aperti, non si chiudono più, cioè si chiudono solo alla fine. Le sue storie, pur se circoscritte al microcosmo luinese e varesino, son piene di plasma, umori, colpi di scena. L'autore dice che son tutte vere. Forse mente, forse qualcosa è inventata, ma non importa. Ciò che importa è che divertano chi legge, come certamente hanno divertito chi le ha scritte. Se poi qualche produttore e regista ne fa un film tanto meglio.». A proposito della popolarità dei suoi libri, lo steso Chiara aveva detto: «I miei libri piacciono perché mi metto dalla parte del lettore, che vuole fatti raccontati da uno che non ha l’aria di insegnare.».

domenica 17 marzo 2013

René Clément, uno dei più grandi registi francese del dopoguerra


René Clément


Il 18 marzo di questo anno, avrebbe compiuto cento anni il grande regista René Clément, distintosi per le enormi qualità artistiche, per l'eccezionale talento cinematografico e per l'abile mestiere. I suoi film più importanti hanno spesso portato avanti un giudizio morale severo e inappellabile sugli orrori della guerra e sulle mostruosità del nazismo, combattute grazie a una Resistenza descritta con i toni di «un'epopea anti–retorica».

René Clément nacque a Bordeaux nel 1913 ed era ancora un giovane studente di architettura presso l'École des Beaux-Arts (che dovette abbandonare per la morte del padre), quando nel 1934 incontrò Jacques Tati che lo mise a contatto con il cinema (insieme sceneggiarono filmetti comici, scritti a quattro mani). Di quell'anno è il suo primo cortometraggio, On demande une brute, de Charles Barrois. Iniziò quindi la sua attività di aiuto regista e operatore, girando documentari in Arabia e in Africa del Nord (attraversando traversie di salute e subendo anche alcuni arresti); di quel periodo è da ricordare L'Arabia proibita (L'Arabie interdite) del 1937. Dello stesso 1937 è il film Cura il tuo sinistro (Soigne ton gauche), che sceneggiò insieme con Tati, interpretato dallo stesso attore comico.

Durante la guerra, da soldato semplice, collaborò con il servizio cinematografico dell'esercito, e in quel periodo girò il bel documentario La grande pastorale (1943).

Imparò molto dal direttore della fotografia parigino Henry Alekan (1909–2001) e insieme raggiunsero la celebrità con il film diretto da Clément Operazione Apfelkern (La bataille du rail) (1946), opera di grande realismo, dedicata alla Resistenza, espressa non tanto come lotta partigiana armata quanto piuttosto come sabotaggio per fiaccare l'occupazione nazista; la pellicola narra di un attentato ferroviario; scrive Gianni Canova: «Girato nei veri luoghi della vicenda e con autentici operai delle ferrovie, il film imprime una virata al cinema francese innestandovi una dose di asciutto realismo e ottiene il Gran premio della giuria per la miglior regia a Cannes.» (Cinema, le garzantine, Garzanti, 2009). Sempre con la collaborazione di Henry Alekan, Clément girò I maledetti (Les maudits) (1947) con Fosco Giachetti e Henri Vidal, un apologo sulle mostruosità naziste che aveva come cupo teatro un sottomarino tedesco (in seguito Alekan collaborò anche con Jean Cocteau, André Cayatte, Marcel Carné, Yves Allégret, Abel Gance, Jean Delannoy e Wim Wenders, rivelandosi anche un vero maestro della fotografia in bianco e nero). Clément fu accanto a Jean Cocteau e Alekan in La bella e la bestia (La belle et la bête) (1946) con Jean Marais (attore feticcio di Cocteau).

Nel 1946 Clément girò Il padre tranquillo (Le Père tranquille o La Vie d'une famille française durant l'occupation), nel quale il regista celebrava – senza mistificazioni – la lotta partigiana durante l'occupazione di un buon padre di famiglia che conduceva la sua personale resistenza dall'interno della quotidianità e della sua abitazione piccolo–borghese. Diresse, quindi, Le mura di Malapaga (Audelà des grilles) (1949), rappresentazione romantica e sentimentale ma anche amara e disillusa delle ferite del dopoguerra genovese, con un grande Jean Gabin e una sofferta Isa Miranda, premiato a Cannes e vincitore dell'Oscar come miglior film straniero (alla sceneggiatura collaborarono i nostri Cesare Zavattini e Suso Cecchi d'Amico); per questo film si è parlato di film «di ambizioni psicologiche», di tentativo di «fondere il “vecchio” verismo francese con il neorealismo italiano» (Il cinema francese del dopoguerra, 3° volume, cap. 40, “Il Cinema – Grande storia illustrata”, Ist. Geografico De Agostini, Novara 1981). Da ricordare anche L'amante di una notte (Le château de verre) (1950), storia melodrammatica di fuga e tradimenti con Fosco Giachetti, Jean Marais ed Elisa Cegani.

Già nell'empireo dei grandi del cinema, nel 1952 Clément diresse il lirico e delicato film di guerra Giochi proibiti (Jeux interdits), certamente il suo capolavoro, ove ritorna nuovamente la dolorosa e impietosa rappresentazione dei traumi della guerra in due ragazzini orfani che si creano un “universo segreto” (Paulette di cinque anni e Michel di undici anni); il film si aggiudicò il Leone d'Oro a Venezia, il premio della critica a Cannes e l'Oscar per il miglior film straniero. Scrive Canova: «è un'opera che tenta di scrutare senza morbosità, il fondo oscuro che la tragedia della guerra ha sedimentato nella psiche di due bambini, i quali per i loro giochi si sono costruiti un finto cimitero» (Cinema, le garzantine, Garzanti, 2009).

Continuando la sua arrestabile ascesa, nel 1954 Clément presentò a Cannes il brillante ma sarcastico e amaro film inglese Le amanti di Monsieur Ripois (Monsieur Ripois o Knave of Hearts) con un immenso e «incontenibile» Gérard Philipe (insieme con Valerie Hobson e Joan Greenwood) nella parte di un “tragico” e “ridicolo” dongiovanni, sullo freddo e disincantato sfondo di una Londra crudele, che si aggiudicò un Premio speciale della giuria a Cannes.

Seguirono lo stupendo Gervaise (1956), forte e naturalistico nella sua descrizione di una sordida e opprimente Parigi dei bassifondi (tratto dall'“Assomoir” di Émile Zola); il film, interpretato da Jany Holt e una superba Marie Schell (con il seducente bianconero di René Juillard), racconta le vicende tristi amare di una lavandaia di fine Ottocento, costretta a logorarsi per mantenere la famiglia e il marito ubriacone, la quale viene umiliata anche dall'amante. Maria Schell si aggiudicò la coppa Volpi a Venezia.

Seguirono: La diga sul Pacifico (This Angry Age) (1958), colossal di produzione internazionale con Silvana Mangano, Anthony Perkins e Richard Conte, tratto dall'omonimo romanzo di Marguerite Duras e dedicato alla dissoluzione nell'Indocina francese di una famiglia di proprietari terrieri (fu definito dalla critica lo «Zoo di vetro in Oriente»); Delitto in pieno sole (Plein Soleil) (1959), tratto dal romanzo di Patricia Highsmith “The talented Mr. Ripley”, con Alain Delon, Maurice Ronet e Marie Laforêt, influenzato in modo percettibile da Hitchcock, così da pagare il suo tributo alla grande tradizione del giallo; Che gioia vivere (Quelle joie de vivre) (1961), uno dei rari film comici di Alain Delon e René Clément; Il giorno e l'ora (Le jour et l'heure) (1963), con Simone Signoret, Geneviève Page e Stuart Whitman, considerato un film sconclusionato, in grado di mettere in difficoltà anche la grande attrice Simone Signoret nel ruolo di una signora parigina malmaritata che ha una tresca con un aviatore texano; Crisantemi per un delitto (Les félins) (1964) con Jane Fonda e Alain Delon; Parigi brucia? (Paris brûle–t–il?) (1966) con Jean-Paul Belmondo, Charles Boyer e Alain Delon, tratto dal best-seller di D. Lapierre e L. Collins, nel quale ritorna la rappresentazione della Resistenza nella Parigi occupata; L'uomo venuto dalla pioggia (Le passager de la pluie) (1969) con Gabriele Tinti, Charles Bronson e Marlène Jobert; La corsa della lepre attraverso i campi (La course du lièvre à travers les champs) (1972) con Jean-Louis Trintignant, Robert Ryan e Lea Massari;  e Babysitter – Un maledetto pasticcio (Jeune fille libre le soir) (1975), con Maria Schneider e Sydne Rome, che fu il suo ultimo film.

Intensa fu anche la sua attività di sceneggiatore; infatti, di molti dei suoi film Clémente scrisse le sceneggiature. Ritiratosi piuttosto prematuramente dall'attività cinematografica per l'esaurirsi della sua vena, morì nel Principato di Monaco il 17 marzo del 1996.

Ne Il cinema francese del dopoguerra, 3° volume, cap. 40 (“Il Cinema – Grande storia illustrata”, Ist. Geografico De Agostini, Novara 1981), si è osservato che nel dopoguerra una nuova generazione di autori si affacciava, tra i quali appunto René Clemént, che con “Operazione Apfelkern” forniva «un saggio – insolito per il film francese – di neorealismo integrale, non privo di affinità con quello di Rossellini»; si è parlato anche di «stile di spoglia epicità e di asciutta tensione». In Tendenze del cinema francese negli anni Cinquanta, 4° volume, cap. 49 (“Il Cinema – Grande storia illustrata”, Ist. Geografico De Agostini, Novara 1981) è stato riportato che Clément fu «essenzialmente un artigiano che dipendeva formalmente dal copione e che non sembrava particolarmente animato dall'ansia di esplorare le potenzialità del mezzo di espressione che aveva scelto».

Ha scritto nell'Enciclopedia del Cinema (2003), Bruno Roberti: «Al centro del suo cinema vi è la nozione di conflitto, sia nel senso di un'indagine sulle vicende e le ferite della Seconda guerra mondiale, sia, più in generale, nella resa visiva di azioni e passioni umane osservate lucidamente e nella dimensione esistenziale che sovente imprigiona i suoi personaggi in un ingranaggio implacabile. L'inventiva e il virtuosismo tecnico di Clément risultano così, di volta in volta, agganciati all'analisi, spinta fino all'evidenza crudele, di situazioni limite, esemplari delle condizioni di crisi cui l'azione del film offre sbocco psicologico e snodo drammatico. […] La puntualità nel costruire un'architettura filmica che in modo stringente si attagliava alla progressione drammatica, coadiuvata in questo dall'incisività luminosa e dalla fluidità nel muovere la macchina da presa in situazioni elaborate e difficili di un grande operatore come Henry Alekan, restò caratteristica di molte opere di Clément.». Sostiene ancora Roberti che, nei suoi primi film dedicati alla Resistenza Clément: «seppe esaltare l'unicità di un'esperienza filmica di tal genere, facendo così emergere uno stile che univa l'efficacia drammatica dei film bellici statunitensi alla scabra durezza del Neorealismo italiano.». Parlando, invece, dei numerosi gialli e noir, scritti e diretti da Clément, ha osservato Roberti: «tutte variazioni sul thriller che, pur nella loro macchinosità e nell'accentuazione contorta delle psicologie, testimoniano l'abilità di Clèment nel costruire ingranaggi drammaturgici capaci di trasmettere suggestione e angoscia, ma anche di comunicare la densità precisa di un ambiente e di un personaggio, il senso concreto dell'ambiguità del reale». – vedere anche su
http://www.treccani.it/enciclopedia/rene-clement_(Enciclopedia-del-Cinema)/.

martedì 12 marzo 2013

Shakespeare, l'amore e la poesia


Henry Wriothesley, conte di Southampton   Mary Fitton

William Shakespeare ha visitato tutti i generi, traendo spunti dai miti classici, dalle narrazioni medievali, dalla cronaca contemporanea, dalla storia d’Inghilterra e dalle favole nordiche. Scrisse, infatti, drammi romani, storie d’orrori, poemi storici, commedie di corte, vicende di argomento romantico–cortese, comiche, farse plautine, tragedie romantiche, poemetti e sonetti, in cui ha trattato l’amore in tutta la sua lirica drammaticità, con verità e alto senso umano.


Shakespeare scrisse (probabilmente prima del 1600) 154 sonetti, in una forma metrica inglese, che è stata quella usata nei secoli successivi (tre quartine e un distico). Questi versi furono pubblicati senza il permesso dell’autore nel 1609 e rappresentano senz’altro il più importante “Canzoniere” inglese, vicino ai nostri gusti e alla nostra sensibilità, i cui temi sono quelli eterni di ogni età e ogni tempo.

Molti di questi sonetti d’amore di Shakespeare (le parti citate sono una mia traduzione letterale dal testo stabilito da W.J. Craig nel 1911) sono dedicati in parte a un “biondo amico” (fair friend), giovane e bello: probabilmente l’amico e mecenate conte di Southampton, al quale aveva già dedicato i due poemetti amorosi giovanili Venere e Adone e Il ratto di Lucrezia, che furono pubblicati direttamente dal drammaturgo inglese (in realtà, i curatori dell’opera shakespeariana del Settecento crearono una vera e propria mistificazione per mascherare l’evidente omosessualità di alcune poesie). Questo intimo amico di Shakespeare era Henry Wriothesley (1573–1624, terzo conte di Southampton; gli studiosi lo hanno identificato proprio nel misterioso “fair friend”, cui Shakespeare si rivolgeva nella prima parte dei suoi sonetti (e la prima edizione portava la sigla “Mr. W.H.”, che si riferiva evidentemente al conte di Southampton).

Un’altra parte dei sonetti è dedicata invece a un’amica misteriosa e volubile, la “dama bruna” (dark lady), scura fisicamente e moralmente. Era una donna certamente non bella ma molto seducente e desiderabile, cattiva e infedele, un «paradiso che guida a questo inferno» (s. 129), un’amante «nera come l’inferno, fosca come la notte» (s. 147) dagli «occhi neri come corvi» quasi vestiti a lutto (s. 127). Si trattava probabilmente di Mary Fitton (1578–1647), bellissima dama di corte della Regina Elizabeth: per lei Shakespeare, in un sonetto, conclude che «la vera bellezza è nera» (s. 132). Queste poesie mi hanno fatto pensare alla poesia Bruna sei tu ma bella (s. 372), dalle “Rime” di Torquato Tasso, che così recita: «Bruna sei tu ma bella / ed ogni bel candore, / perde col bruno tuo, giudice Amore. / Bella sei tu, ma bruna; / pur se ne cade incolto / bianco ligustro e negro fiore è colto. / Chi coglie ad una ad una / le tue lodi più elette? / chi te ne tesse in rime ghirlandette?». L’amore del poeta inglese per la “dark lady” è però un sentimento che porta il poeta all’abiezione: «Per questo io mento con lei e lei con me, / e nei nostri errori ci aduliamo mentendo» (s. 138).

Scrive Shakespeare che, pur tuttavia, l’Amore è eterno perché resiste impavido («Amore non è amore che muta quando scopre un mutamento») e non smette d’amare quando l’altro non ama più ma anzi è «un faro sempre fisso / che sovrasta la tempesta e non vacilla mai; / è la stella guida di ogni sperduta barca» (s. 116). L’Amore acceca con le lacrime, perché gli occhi non scoprano l’inganno (s. 148), e dona affanni non consentendo il riposo notturno, sì che «il giorno dalla notte, e la notte dal giorno, è oppresso» (s. 28). In queste liriche domina il senso della fragilità del vivere e della fugacità dell’esistenza, per cui «ogni cosa che germoglia / resta perfetta soltanto un breve istante» (s. 15). Si avverte il senso del tempo inesorabile «che cospira con la Morte», che evolve in modo furtivo verso l’eternità, che porta al disfacimento fisico «mutando il tuo giorno di giovinezza in fetida notte» (s. 15), e che «porta l’estate / verso l’orrido inverno e ivi la seppellisce» (s. 5).

William accenna spesso alla «furia… razzia… tirannia… lama del Tempo» e «al suo lesto e rovinoso passo» (s. 126). Nei suoi sonetti, vive l’orrore della vecchiaia che scolpisce la bella fronte del suo amore, tracciando brutte linee con la sua arcaica penna (s. 19) e che fa perdere la bellezza e tutto il tesoro dei suoi giorni splendenti nel fondo di due occhi incavati e spenti (s. 2). Sono inevitabili sia la triste separazione dall’amante, «anche se i nostri amori indivisibili sono uno e uno solo» (s. 36), sia la sensazione angosciosa di sentirsi divenire un estraneo con «amor mutato da quel ch’era un tempo» (s. 49). Vivendo lontano da lei e dalla sua ombra, la vita del poeta è divenuta ormai l’«inverno dell’assenza… la desolazione di un vecchio dicembre» (s. 97). Divengono palpabili, infine, il triste presentimento della morte e l’orribile consapevolezza del suo potere spietato; il poeta dice all’amata: «dopo la mia morte, amore caro, scordami completamente / […] / il mio nome sia sepolto ove sarà il mio corpo» (s. 72). Ma su tutto prevale sempre la certezza dell’artista che «in nero inchiostro l’amore mio splenda ancora luminoso» (s. 65) e che le «rime eterne resisteranno per sempre» (s. 38). Shakespeare è convinto che l’essere amato vivrà sempre «contro la Morte e le forze ostili dell’Oblio» (s. 55) e che «occhi non ancora nati attentamente leggeranno / e lingue future ripeteranno la tua esistenza» (s. 81).

Il poeta Shakespeare sa che – nonostante la clessidra del Tempo distruttore e la falce della Morte divoratrice – i suoi versi vivranno per sempre: «il mio amore nei miei versi vivrà giovane in eterno» (s. 19). E realmente i suoi versi e il suo amore, i suoi drammi e i suoi personaggi, sono vissuti in eterno, rappresentando un’immensa eredità per il genere umano e rivivendo nelle opere dei poeti e degli scrittori che lo hanno seguito e che a lui si sono ispirati! Milioni di persone ogni anno visitano Stratford–upon–Avon, e migliaia sono le nuove traduzioni delle sue opere, e centinaia i saggi su di lui pubblicati ogni anno in tutto il mondo, senza tener conto delle innumerevoli rappresentazioni teatrali e dei tanti film o documentari a lui dedicati.

Virginia Woolf, nel saggio Una stanza tutta per sé (cap. iii, traduzione di Maria Antonietta Saracino, I Meridiani, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1998), con acume squisitamente femminile, a proposito delle reali possibilità di una donna di talento nel sedicesimo secolo, ha parlato ampiamente di Shakespeare: «[…] sarebbe stato impossibile completamente e interamente impossibile, che una donna scrivesse le opere di Shakespeare all’epoca di Shakespeare. […] era impensabile che una donna ai tempi di Shakespeare potesse avere il genio di Shakespeare. Perché un genio come quello di Shakespeare non nasce tra gente ignorante, asservita, costretta a fare lavori pesanti. […] E a questo punto aprii il volume che conteneva le tragedie di Shakespeare. Qual era lo stato d’animo di Shakespeare, ad esempio, mentre scriveva “Lear” e “Antonio e Cleopatra”? Era certo lo stato d’animo più favorevole alla poesia che mai sia esistito. Ma Shakespeare, personalmente, di questo non ha mai fatto cenno. Sappiamo solo, del tutto casualmente, che egli “non cancellava mai una riga”. […] la mente dell’artista, per poter realizzare l’impresa prodigiosa di liberare nella sua assoluta totalità l’opera d’arte che è in lui, deve essere incandescente, come doveva esserlo la mente di Shakespeare […] In essa non devono esservi ostacoli, né alcuna materia estranea che non sia stata consumata […] Ogni desiderio di protestare, di predicare, di proclamare un’ingiuria, di regolare un conto in sospeso, di rendere il mondo testimone di qualche difficoltà o patimento, tutto questo era stato bruciato dal fuoco che era in lui, e consumato. Pertanto la sua poesia sgorga fuori di lui libera e priva di impedimenti. Se mai essere umano giunse a esprimere completamente il proprio lavoro, questi fu Shakespeare. Se mai mente fu incandescente, libera da impedimenti, pensavo, volgendomi di nuovo verso lo scaffale, quella fu certo la mente di Shakespeare.». Virginia accenna anche al fatto che le donne non potessero essere attrici al tempo di Shakespeare (i ruoli femminili venivano ricoperti da giovani maschi dai tratti femminei) e riporta il pregiudizio di un critico e poeta elisabettiano che diceva che una donna che recitava gli richiamava alla mente un cane ballerino.

P.S. I film su Shakespeare e sulle sue opere sono stati innumerevoli, mi limito a ricordare soltanto il bel film Shakespeare in Love (1998), diretto da John Madden, soggetto e sceneggiatura di Marc Norman e Tom Stoppard, che racconta l’amore dello scrittore William Shakespeare (Joseph Fiennes) per la nobildonna Lady Viola De Lesseps (Gwyneth Paltrow) – promessa sposa di Lord Wessex (Colin Firth) – , la quale si finge uomo per recitare con lui durante la preparazione di “Romeo e Giulietta”, la cui rappresentazione alla presenza della regina Elisabetta (Judi Dench) sarà un trionfo. Il matrimonio di Viola però non può essere ritardato e Viola dovrà partire per la Virginia con Wessex; il suo amore con William (soltanto “una stagione rubata”), tuttavia, sarà per il poeta–drammaturgo una fonte di eterna ispirazione. Il film è stato un successo di pubblico e di critica: fu premiato con tre BAFTA, tre Golden Globe e ben sette Oscar su tredici nomination.

mercoledì 6 marzo 2013

Shakespeare, Zeffirelli, Romeo e Giulietta



William Shakespeare                                  Franco Zeffirelli

Shakespeare, Zeffirelli, Romeo e Giulietta

Shakespeare ha certamente cucinato l’Amore in tutte le salse, facendone un sentimento universale dal pathos esaltato. Era convinto che «uomini e donne, tutti sono attori», che «c’è una storia nella vita di tutti gli uomini» e che «il mondo è tutto un palcoscenico». Ricordo un suo illuminante aforisma riguardo alla forza trascinante della passione d’amore: «Se non ricordi la più piccola follia a cui ti ha condotto l’amore, tu non hai amato».

La summa di ciò è l’amore immortale di Romeo e Giulietta nell’omonimo dramma, e nella
Scena Seconda del Secondo Atto, ove il drammaturgo inglese racconta l’incontro del balcone tra Romeo e Giulietta che – notissimo a tutti – gronda miele d’amore. Giulietta, la figlia quattordicenne di Capuleto, e l’adolescente Romeo, figlio di Montecchio, si muovono per i cinque atti di questa tragedia, pronti a tutto e pieni di quella passione che supera qualsiasi riserbo e ostacolo, che non consente a nulla e a nessuno d’interferire, e che non teme neanche la morte. Giulietta è l’oriente e il sole di Romeo e i suoi occhi sono due delle più belle stelle del cielo; e Romeo per Giulietta rinnega il suo nome chiedendole di chiamarlo soltanto «amore» e Giulietta risponde a Romeo di rinnegare suo padre e il suo nome e di giurarle il suo amore che lei non sarebbe stata più una Capuleti. La storia di Romeo e Giulietta è la più alta tragedia del caso e della fatalità, e celebra il lirismo del sentimento e la forza dell’amore.

Nel Prologo dell’Atto Primo, Shakespeare fa narrare dal Coro la storia dei due amanti: «In questa bella Verona, due casate, di pari nobiltà, si scagliano, per antico rancore, in sempre nuove contese che macchiano di sangue veronese mani di veronesi. Dalla tragica progenie di questi nemici sono nati sotto cattiva stella due amanti che con la loro pietosa morte mettono termine alla furia dei loro parenti. Lo sventurato corso del loro fatale amore e l’odio costante delle loro famiglie, troncato soltanto dalla fine di queste creature, saran per due ore l’argomento della nostra tragedia. Ascoltate con orecchi pazienti e noi ci sforzeremo di rimediare ai nostri difetti.».

Bellissimo è il modo col quale Romeo – nella Scena Prima dell’Atto Primo – spiega cos’è l’amore: «L’amore è un fumo che sorge dalla nebbia dei sospiri; se lo purifichi è un fuoco che sfavilla negli occhi degli amanti; se lo agiti è un mare ingrossato dalle loro lacrime. E che altro può essere? Una pazzia discreta, un’amarezza che soffoca e una dolcezza che alla fine ti salva.». Quando si accorge d’essere innamorato, il ragazzo si sente quasi alienato in questo amore: «Zitto, ho perduto me stesso. Io non sono qui. Questo non è Romeo. Romeo è altrove.».
In seguito, nella Scena Seconda, continua: «No, non sono matto, ma più legato che se fossi matto; e incarcerato e affamato e frustato e torturato e...». Più avanti, nella Scena Quarta, si lamenta con gli amici: «Voi avete gli scarpini da ballo risuolati di cuoio leggero e io ho il cuore di piombo che mi tiene attaccato alla terra. […] e tanto stretto sono fasciato che m’è impossibile alzarmi d’una spanna sopra la mia tristezza senza che il peso dell’amore mi faccia risprofondare». L’amico Mercuzio – personaggio ricco di colore terreno e di grossolana saggezza –, gli consiglia: «Ma se ci caschi sopra lo schiacci l’amore. Sei troppo peso per una cosa così tenera». Romeo gli risponde sconfortato: «L’amore è cosa tenera? é ruvido, villano, rumoroso, e punge come se avesse le spine». E Mercuzio osserva: «Se l’amore è villano con te, sii villano con lui. Bucalo se ti buca e buttalo giù.». Nella Scena Quinta dell’Atto Primo, quando alla festa Romeo riesce a baciare Giulietta (ma gli innamorati non sanno ancora di appartenere a due famiglie che si odiano) e Giulietta – che ha già perso completamente la testa per lui – apprende dalla Nutrice (altro personaggio corposo e prosaico) che Romeo è un Montecchi, osserva disperata: «Il mio unico amore, il mio unico odio! Troppo presto veduto, troppo tardi conosciuto! Prodigio d’amore: amare un nemico.».

Nel prologo dell’Atto Secondo, il Coro, così si esprime: «Il vecchio rancore giace sul suo letto di morte, un giovane affetto aspira a diventarne l’erede. La bella per cui Amore gemeva e voleva morire, al confronto della dolce Giulietta non par più bella. Adesso Romeo ama ed è riamato. La stessa malia ha incantato gli sguardi dell’uno e dell’altra. Considerato un nemico, egli non può avvicinarla e giurarle quel che sogliono giurare gli amanti. A lei, altrettanto innamorata, è anche più difficile raggiungere il suo bene. Ma la passione offre loro il potere, e il tempo i mezzi di incontrarsi mitigando estreme pene con estreme dolcezze.».

E Mercuzio, nella Scena Quarta dell’Atto Secondo – a proposito di Romeo perduto d’amore – è poi costretto a concludere: «Ma, ahimè, il povero Romeo è bell’e morto, trafitto dal nero occhio di una bianca fanciulla, colpito in un orecchio da un canto d’amore, colto nel mezzo del cuore dalla freccia del ragazzino cieco.».

Con l’aiuto del suo confessore frate Lorenzo, Romeo riesce a sposare Giulietta ma lo stesso giorno viene coinvolto in una rissa fatale e uccide Tebaldo (il caro cugino di lei), che a sua volta ha ucciso Mercuzio (l’amico prediletto di lui). Il Principe, parente di Mercuzio, esilia Romeo. Giulietta e Romeo sono disperati. Intanto, il padre di Giulietta (per consolarla di quello che crede sia il dolore per la morte dell’amato cugino) ha combinato il suo matrimonio con Paride, giovane ricco e bello. Giulietta finge di accettare il matrimonio ma, per consiglio di frate Lorenzo, prende un sonnifero che la farà sembrare morta, arrestando momentaneamente il polso, facendo scomparire il respiro e il calore del corpo, e rendendo le labbra e le guance pallide come la cenere mentre le membra sembreranno avere la freddezza e la rigidità della morte. Il frate avvertirà dell’inganno Romeo, fuggito a Mantova, che verrà per accoglierla quando si desterà da questo sonno simile alla morte, e fuggiranno insieme. Purtroppo, il frate non riesce ad avvertire per tempo Romeo, il quale – dopo avere appreso dal suo servo la falsa notizia della morte dell’amata Giulietta – raggiunge l’amata, uccide Paride (anch’egli innamorato e andato a vegliare Giulietta) e in un ultimo bacio si avvelena con una droga che si era procurata («una roba lesta che si spanda per tutte le vene e faccia subito cadere morto chi è stanco della vita»). Quando Giulietta si risveglia – nella Scena Terza dell’Atto Quinto – vede Romeo morto e nota la fiala del veleno: «Che c’è, una fiala, nella mano del mio fedele amore? Il veleno è stato la sua fine. Avaro! L’hai bevuto tutto e non ne hai lasciato una sola goccia che mi aiutasse! Bacerò le tue labbra; forse v’è ancora tanto veleno che mi ristori e mi faccia morire. (Lo bacia.) Le tue labbra son calde.». Bacia Romeo e vedendo il suo pugnale lo afferra e si uccide: «O pugnale benedetto! Ecco il tuo fodero. Questa sia la tua ruggine e la mia morte.». L’«orrendo massacro» si è alfine compiuto, ma i Capuleti e i Montecchi, sconvolti dalla punizione che ha colpito il loro odio, si riappacificano e fanno giacere insieme le povere vittime di tanto odio. Gli sposi infelici Giulietta e Romeo sono uniti almeno nella morte. (I brani sono tratti da “Romeo e Giulietta – The tragedy of Romeo and Juliet”, 1594–1595, nella traduzione di Paola Ojetti, Tascabili Economici Newton, Roma 1992)

William Shakespeare (1564–1616), poeta e drammaturgo inglese ma anche attore e impresario teatrale, nacque da una numerosa e agiata famiglia (il padre John era un guantaio) di Stratford–upon–Avon, piccola città vicino Londra, ove fece studi intensi presso la scuola locale sino ai quattordici anni, traducendo dal latino all’inglese e viceversa: conobbe e amò Ovidio (e le sue Metamorfosi) e più tardi s’ispirò al mondo della latinità. Nel 1582, giovanissimo, sposò Anne Hathway, la figlia di un agricoltore, più grande di lui di ben otto anni, dalla quale ebbe tre figli. Non fu un matrimonio felice e dopo dieci anni William era a Londra a condurre una vita oscura e scapestrata in un ambiente ricco di stimoli, di nuove idee e di grandi rivoluzioni culturali. Prese a frequentare i teatri d’avanguardia (si narra che incominciasse facendo la guardia ai cavalli nei pressi dell’ingresso per gli attori), compreso il “The Globe”, un teatro popolare all’aperto inaugurato nel 1598, che divenne il suo teatro e che amò tanto; purtroppo fu distrutto da un incendio nel 1613 (una copia del “Globe” è stata eretta nel 2003 a Villa Borghese, in Roma). La sua fama crebbe rapidamente e viaggiò molto per l’Italia con l’amico e protettore Conte di Southampton, patrono delle Arti e degli Artisti, al quale dedicò due poemetti d’amore (e questo ha fatto nascere le voci di una presunta omosessualità di Shakespeare). Scrisse 38 opere più due poemi epici. Oltre al capolavoro già citato, sono degni di nota: Riccardo III (Richard the Third) (1593), La bisbetica domata (The Taming of the Shrew) (1594), Pene d’amor perdute (Love’s Labour’s Lost) (1594–7), Il Mercante di Venezia (The Merchant of Venice) (1594–6), Sogno di una notte di mezza estate (A Midsummer Night’s Dream) (1595–6) e infine Molto rumore per nulla (Much Ado About Nothing) (1599).

Alla fine del 1500, Shakespeare visse una profonda crisi esistenziale e dovette misurarsi con molte asprezze dell’esistenza, quali la morte dei genitori e del figlio undicenne Hamnet, i problemi in politica e forse una seria malattia (probabilmente la peste che afflisse il Seicento). Sulla scia di questo malessere, scrisse alcune tragedie cupe e problematiche, quali Amleto (Hamlet, Prince of Denmark) (1599–1600), Otello (1604–5), Re Lear (King Lear) (1605–6) e Macbeth (The Tragedy of Macbeth) (1603–6). Grazie a una probabile conversione religiosa, questa crisi fu alfine superata com’è dimostrato da una delle sue ultime opere, La tempesta (The Tempest) (1611), elegante e gradevole, sofisticata e contemplativa, piena di pacatezza e di matura saggezza. Ormai ricco e appagato, ad appena 46 anni, si ritirò nella sua città natale ove aveva acquistato case e terreni, vivendo la quieta esistenza di un agiato proprietario. Morì all’età di 56 anni per una febbre insorta dopo una cena a base di aringhe fatta insieme con alcuni vecchi colleghi di teatro.

Si discute se Shakespeare sia veramente esistito o sia stato soltanto il prestanome di Francesco Bacone (filosofo–scienziato inglese vissuto dal 1561 al 1626) o di Cristopher Marlowe (1564–1593), drammaturgo fintosi morto per ragioni politiche. Il suo battesimo è stato documentato con certezza, come esistono prove certe del suo testamento firmato (stilato nel 1616) e della sua tomba ospitata presso la chiesa parrocchiale della città natale. Per il resto, tutto è lacunoso. Non fece pubblicare personalmente nulla di suo; durante la sua vita furono edite soltanto 16 composizioni teatrali, scritte mediocremente sulla base della ricostruzione mnemonica di alcuni attori che le avevano rappresentate e ne possedevano i diritti d’autore. Soltanto nel 1623, due editori inglesi – con l’aiuto di alcuni attori, amici di Shakespeare – pubblicarono un volume contenente 36 drammi, la cui incerta cronologia è stata stabilita con discreta approssimazione nel 1930 dal critico letterario inglese Edmund Kercheveer Chambers (1866–1956) (vedere: William Shakespeare: A Study of Facts and Problems, Oxford: At the Clarendon Press, 2 vols, 1930).

Shakespeare è stato un grande della letteratura e un genio dell’intrattenimento drammatico, e ha saputo dare un suo stile unico e irripetibile al Teatro Elisabettiano. Ha superato il classicismo, abbattendo tabù e convenzioni ma soprattutto narrando l’animo umano e riscoprendo sia l’Uomo (in tutta la sua ricchezza psicologica) sia la Natura (in tutto il suo vigoroso fascino).


P.S. In teatro e in cinema le versioni di Romeo e Giulietta sono state innumerevoli; ricordo soltanto il film Romeo e Giulietta (Romeo and Juliet) (1968) di Franco Zeffirelli (che in questi giorni ha compiuto novant’anni: è nato infatti a Firenze il 12 febbraio del 1923), fedele trasposizione dell’opera teatrale, girata in lingua inglese (stupenda voce narrante quella di Laurence Olivier), adattata mirabilmente da Franco Brusati, Masolino D’Amico e dallo stesso Zeffirelli, con i giovanissimi Leonard Whiting nella parte di  Romeo e Olivia Hussey nella parte di Giulietta. Desidero segnalare la presenza di tre attori italiani di valore: Antonio Pierfederici (Lord Montecchi), Esmeralda Ruspoli (Lady Montecchi) e Roberto Bisacco (Conte Paride), e del giovane cantante Bruno Filippini (il menestrello) che cantò la canzone Ai Giochi Addio (What is a Youth) (aveva vinto il Festival di Castrocaro con Gigliola Cinquetti). Il film grande successo di pubblico e di critica, si aggiudicò nel 1968 un National Board of Review Award (migliore regia a Franco Zeffirelli) e nel 1969 due premi Oscar (migliore fotografia a Pasqualino De Santis e migliori costumi a Danilo Donati), tre Golden Globe (miglior film straniero in lingua inglese, miglior attore debuttante a Leonard Whiting e miglior attrice debuttante a Olivia Hussey), un premio BAFTA (migliori costumi a Danilo Donati), un David di Donatello (migliore regia a Franco Zeffirelli) e ben quattro Nastri d’argento.