giovedì 27 giugno 2013

Giacomo Vaccari e i grandi sceneggiati L'idiota, La pisana e Mastro Don Gesualdo


Giacomo Vaccari

Cinquant'anni addietro moriva Giacomo Vaccari, il grande e indimenticabile regista e sceneggiatore italiano del cinema e della mitica televisione degli anni che furono (fra i 50 e i 60). Nato a Chieti il 21 febbraio del 193, morì a Roma il 2 giugno del 1963 per un incidente stradale sulla via Cassia: aveva appena 32 anni!

Considerato a ragione da Aldo Grasso come «il più moderno e sensibile regista della televisione italiana» (Televisione, le garzantine, Garzanti editore, Milano 2008), si era diplomato all'Accademia Nazionale di Arte Drammatica e aveva esordito con la commedia Cabina televisiva di Peter Brook (1956), interpretata dal grande Arnoldo Foà, seguita da Ortensia se ne infischia (1957) con Nino Besozzi, Gaetano Marini e Pinuccia Nava, La regina Vittoria (1957) con Emma Gramatica, Fulvia Mammi e Antonio Pierfederici, Il tunnel (1958) con Diana Torrieri, Nicola Arigliano, Monica Vitti e Franco Volpi, Amore e pinguini (1958) con Bianca Toccafondi e Gianrico Tedeschi, La casa in ordine (1958) con Lilla Brignone, Ivo Garrani e Gianni Santuccio, Madame Sans Gene (1958) con Elsa Merlini, Paolo Carlini e Nino Pavese, Ma non lo siamo un poco tutti? (1958) con Tino Bianchi, Giuseppe Caldani e Silvia Monelli, Formiche (1958) con Renato De Carmine, Virna Lisi e Mario Valdemarin, La fine della signora Cheyney (1958) con Laura Adani, Tino Carraro e Gianni Santuccio, Lady Fredrick (1958) con Elsa Merlini, Paolo Carlini ed Ernesto Calindri, Il borghese gentiluomo (1959) di Molière (con Massimo De Francovich, Achille Millo, Antonio Pierfederici, Monica Vitti, Giulio Girola, Vittorio Caprioli, Ileana Ghione, Elio Pandolfi, Francesco Mulè, Valeria Valeri e Lilla Brignone), L'imbroglio (1959) tratto da Alberto Moravia con Stefano Svevo, Giuliana Lojodice e Lia Zoppelli, Dieci minuti di alibi (1959) con Armando Francioli, Nicoletta Rizzi e Roberto Villa, e Paparino (1959) con Umberto Melnati, Anna Menichetti e Mario Scaccia.

Contemporaneamente aveva girato diversi documentari, tra i quali Ritratto di una grande impresa (1959) per la presentazione del neonato gruppo ENI.

Raggiunse tuttavia fama e considerazione critica con i grandi sceneggiati TV L'idiota (1959), La Pisana (1960) e Mastro don Gesualdo (1964), finito di montare poco prima della sua morte prematura.

Molto prolifico nella prosa televisiva, aveva intanto girato anche I ragazzi (1959) con Evi Maltagliati, Alberto Lupo e Paolo Carlini, Andromaca (1960) con Elena Zareschi, Tino Carraro e Anna Miserocchi, Odette (1960) con Lydia Alfonsi, Achille Millo e Armando Francioli, L'accusatore pubblico (1960) con Turi Ferro e Ottorino Guerrini, Donne brutte (1961) con Paola Borboni, Roldano Lupi e Wandisa Guida, Giuditta (1961) con Tino Carraro, Elena Zareschi e Antonio Pierfederici, e Carolina o l'irragiungibile (1963) con Vivi Gioi, Armando Francioli e Orazio Orlando.

Uscirono postumi nel 1965: Letto matrimoniale con Lydia Alfonsi e Tino Carraro, e Corte marziale per l'ammutinamento del Caine con Arnoldo Foà, Vittorio Sanipoli e Gastone Moschin.

Si ricordano anche alcune regie televisive di opere liriche, tra le quali Don Giovanni (1960) con il cantante Mario Petri.

E passiamo adesso a considerare singolarmente i tre grandi capolavori di Vaccari, interpretati dai migliori attori dell'epoca.

L'idiota fu presentato il sabato nel settembre del 1959 in quattro puntate: era stato sceneggiato da Giorgio Albertazzi dal romanzo omonimo (1869) di Fëdor Michàjlovič Dostoevskij, e – scrive Aldo Grassi – «Un cast prestigioso e la regia di Vaccari decretano il successo della riduzione televisiva in quattro puntate del romanzo di Dostoevskij». Il cast era costituito da Giorgio Albertazzi (il principe Lev Nikolaevič Myškin, l'ultimo erede di una grande famiglia decaduta, un individuo spiritual­mente superiore ma indifeso nella sua fiducia verso il prossimo, nella sua generosità e bontà d'animo. e nella sua inesperienza della vita, responsabile anche di una certa debolezza del­la volontà e di un infantile immobilismo), Gian Maria Volonté (il violento e appassionato Parfën Rogožin), Anna Proclemer (l'affascinante e dolente Nastas'ja Filippovna Baraškova, amante di un ricco ca­pitalista) e Anna Maria Guarnieri (la figlia del generale Epančin, Aglaja, innamorata dal principe che la ricambia), contornati da Sergio Tofano, Gianni Santuccio, Antonio Pierfederici , Lina Volonghi, Ferruccio De Ceresa, Maria Fabbri, Gianna Giachetti e Franca Nuti, Come dire il meglio di una intera e indimenticabile generazione di attori, destinati a interpretare la società morbosa e senza pietà con la quale Myškin è costretto a misurarsi, che considera “idiota” il suo esser mite e innocen­te! Il buon principe Myškin, tuttavia, sceglie Nastas'ja sognando di strapparla al­­­l'inquietante Rogožin ma la ragazza – pur commossa e lusingata da quell'offerta, temendo di contaminare l'integra bon­­­­tà del principe e sen­tendosi indegna di lui – esita a lungo e poi decide di restare con il passionale Rogožin, consegnandosi al suo destino di morte. L'uomo, infatti, intuisce la pro­fondità del sentimento di Nastas'ja per il principe Myškin (amico–rivale) e, pazzo di gelosia, attenta prima alla vita del principe e poi uccide la donna nel pieno dei preparativi delle nozze tra Myškin e Nastas'ja. Scrive ancora Aldo Grassi: «Nonostante qualche contrazione dei complessi sviluppi della storia, la sceneggiatura di Albertazzi resta fedele al testo originario dando vita a un racconto televisivo chiaro e fluente. Efficacemente tratteggiati sono i personaggi e i ruoli, […], i protagonisti della tormentata vicenda nella quale la pietà resta l'unico conforto di fronte alla drammaticità dei rapporti umani.».

La Pisana fu presentata in sei puntate nell'ottobre del 1960, di domenica, per la sceneggiatura di Aldo Nicolaj e Marcello Sartarelli, tratto dal romanzo d'Ippolito Nievo “Le confessioni di un italiano” (1867) noto anche come “Confessioni di un ottuagenario”, con gli straordinari Lydia Alfonsi (la maliziosa, vanitosa e scaltra ma piena di dedizione Pisana) e Giulio Bosetti (Carlo Altoviti, patriota coinvolto nei moti liberali, innamorato della cugina Pisana), nel contesto di un "cast stellare" (costituito da Franco Graziosi, Ludovica Modugno, Pina Cei, Laura Adani, Franca Bettoia, Gian Maria Volonté, Umberto Orsini, Mario Scaccia, Marina Berti, Claudio Gora, Fulvia Mammi ed Elena Cotta). Lo sceneggiato, come il romanzo, narra le complesse vicende di Carlino, che – orfano dei genitori – vive nel castello di Fratta con gli zii che non l'amano; si occupano di lui il servo Martino «che bazzicava sempre per cucina come un vecchio cane da caccia» e la cuginetta Pisana, essere bizzarro e volubile, ambiguo e affascinante, capace di grandi generosità e di sinceri abbandoni ma anche di mostruoso egoismo. Sin da bambino, Carlino s'innamora perdutamente di Pisana e l'amerà per sempre, nonostante il matrimonio di lei con un anziano nobile veneziano. Quando, esule da Venezia, Carlino diviene cieco ed è ormai distrutto dai lavori forzati, Pisana accorre e lo cura con amore. La donna amata infine muore, e in Carlino il suo ricordo resterà incancellabile. Scrive Aldo Grassi: «La voce fuori campo del protagonista, che rivive il suo appassionato amore adolescenziale, ripropone la limpida prosa di Nievo, alternando le vicende sentimentali a quelle patriottiche. […] Vaccari, impegnato in una delle sue prime prove, dimostra grande abilità nel tratteggiare le scene con pochi e sapienti tocchi.».

Qualche commento sul romanzo. Credo che il bel testo d' Ippolito Nievo (purtroppo poco letto a scuola e conosciuto veramente da pochi), per importanza e valore letterario, si debba porre tra “I Promessi Sposi” del Manzoni e “I Malavoglia” del Verga. è mia opinione che esso contenga la storia di un popolo (rievocata attraverso un secolo di vicende piene di speranze e delusioni), strettamente intrecciata con la storia di un uomo (quella di Carlino Altoviti). E la storia individuale – sviluppata sul filo dell'autobiografia – costituisce per me la prima, grande e articolata, vera storia d'amore della letteratura italiana, analizzata con acutezza psicologica assolutamente nuova e originale, e – nel contesto del più esteso e complesso romanzo storico-patriottico dedicato all'amore per la Patria – è possibile enucleare il ben più piccolo medaglione costituito dall'amore per una Donna, la Pisana. La Pisana è un personaggio di donna emblematico, che presenta tutte le contraddizioni tipicamente femminili: è ora volubilmente impulsiva ora gelidamente calcolatrice; è ora dispoticamente aggressiva ora dolcemente remissiva; è ora egoisticamente capricciosa ora eroicamente generosa. L'amore di Carlino per l'amata–disprezzata Pisana inizia in un ragazzo come un «idillio fanciullesco» e diviene nell'uomo adulto un amore grande ma spesso intriso di cupa disperazione, perché alimentato dai mille tradimenti di lei e dal costante timore di perderla. Carlino però non è cieco, anzi conosce appieno tutti i difetti del carattere, l'indole vera e lo strano temperamento della donna amata, ch'erano già presenti nell'età infantile. Pur giudicando in modo moralistico questi difetti (il romanzo, d'altra parte, è ricco d'intenti moraleggianti e di scopi educativi), Carlino li comprende e li accetta, e il suo amore non ne risulta affatto scalfito. Molto acuta è anche la disamina che lo scrittore fa dell'amore e della varietà dei suoi aspetti, che richiederebbero diversi vocaboli aggiuntivi per specificarne meglio la natura. E similmente acuta è la descrizione del vero amore, quando il giovane Carlino riflette che la Pisana «non la ti ama con quell'impeto cieco, intero, perseverante che impedisce ogni considerazione, toglie ogni distanza e confonde anima ad anima». Pensando al suo amore per lei, Carlino osserva: «Sì, io l'amo, perché vi usai fin dalla nascita, perché quell'amore non è un sentimento ma una parte dell'anima mia, perch'esso è nato in me prima della ragione, prima dell'orgoglio». Carlino è convinto, inoltre, della grande forza educatrice dell'amore; dice: «Nessun miglior maestro dell'amore, egli insegna anche quello che non sa».

Mastro don Gesualdo fu presentato in sei puntate nel gennaio del 1964, di giovedì, per la sceneggiatura dello stesso Vaccari e di Ernesto Guida tratta dall'omonimo romanzo (1889) di Giovanni Verga (prima produzione televisiva su pellicola), con uno stupendo Enrico Maria Salerno (un mastro don Gesualdo di grande forza espressiva) e sempre con Lydia Alfonsi, vera musa del regista (una dolente e sofferta Bianca Trao), circondati da Sergio Tofano, Turi Ferro, Franca Parisi, Valeria Ciangottini e Maria Tolu. Gli attori – che prima erano i «protagonisti assoluti della narrativa televisiva» – in questo moderno sceneggiato sono come sottratti alla scena e il regista diviene «il vero deus ex machina della narrazione». Scrive Aldo Grasso: «Vicari firma il suo capolavoro, scardinando le regole linguistiche che fino allora avevano informato i teleromanzi, consuetudini ereditate dalla tradizione teatrale e tradotte in norme televisive tese a facilitare la sicura comprensione da parte del pubblico della vicenda raccontata. […] Vaccari utilizza in parte il dialetto e riproduce i quadri corali di Verga attraverso il sovrapporsi di voci chiassose; anche queste scelte ribadiscono il rifiuto dell'impostazione pedagogica a vantaggio di un deciso accostamento alla sensibilità e alle suggestioni cinematografiche.».

“Mastro don Gesualdo” di Verga avrebbe dovuto costituire (dopo “I Malavoglia”), il secondo testo di un ciclo di storie di ambiente siciliano, denominato “I Vinti”, che purtroppo non fu portato a termine. Questo ciclo era volto a condurre un'accurata analisi interna ai vari strati della società del tempo e a produrre un documento di viva testimonianza. In una sua lettera, Verga parlava di «fantasmagoria della lotta per la vita che si estende dal cenciaiuolo al ministro ed all'artista, e assume tutte le forme dall'ambizione all'avidità di guadagno». Lo scrittore siciliano era convinto che il progresso potesse avvenire soltanto a prezzo della stroncatura dei più deboli, con l'infelicità di molti, con la sconfitta degli ideali e col prevalere di bruti interessi economici; in ciò, era mosso da  un modo tragico di valutare la vita degli uomini e da un profondo senso d'empatia per “i vinti” e per le loro inevitabili sofferenze. è la storia di Gesualdo Motta, un rozzo muratore di Vizzini guidato da una vera e propria religione del lavoro, un uomo che si è tirato su dal nulla e che tenta la scalata al successo con le mani sporche di calcina. Si tratta di un personaggio che giganteggia con la sua personalità e che ha molto della grandiosità umana dei caratteri creati da Honoré de Balzac (1799–1850), la cui storia segue il suo classico schema romanzesco di ascesa-caduta. E nello sceneggiato di Vaccari, Enrico Maria Salerno, con il suo viso scavato e amaro, seppe dare a don Gesualdo una maschera intensa e una grandezza tragica.

Era nato, intanto, dal 1960, un forte sodalizio artistico e sentimentale tra Giacomo Vaccari e Lydia Alfonsi, stroncato purtroppo dalla tragica morte del regista.

Con sincera convinzione mi chiedo cosa Giacomo Vaccari, scomparso ad appena 32 anni, non sarebbe riuscito a creare se fosse vissuto più a lungo!

martedì 25 giugno 2013

L’amore di Tagore come una canzone


   Rabindranath Tagore                 William Butler Yeats


Rabindranath Tagore (versione anglicizzata di Rabíndranáth Thákhur) nacque a Calcutta il 6 maggio del 1861 e fu poeta, scrittore, drammaturgo e filosofo ma anche pittore e musicista. Saggio pensatore e compositore di «massime per una vita armoniosa», fu un mistico molto vicino a Dio. Ho scelto le seguenti due poesie tra le sue più belle.

VI. L’uccello prigioniero nella gabbia
L’uccello prigioniero nella gabbia,
l’uccello libero nella foresta:
quando venne il tempo s’incontrarono,
questo era il decreto del destino.
L’uccello libero grida al compagno:
«Amore mio, voliamo nel bosco!»
L’uccello prigioniero gli sussurra:
«Vieni, viviamo entrambi nella gabbia».
Dice l’uccello libero: «Tra sbarre,
dove c’è spazio per stendere l’ali?»
«Ahimè», grida l’uccello nella gabbia,
«Non so dove appollaiarmi nel cielo».

L’uccello libero grida: «Amore mio,
canta le canzoni delle foreste».
L’uccello in gabbia dice:
«Siedi al mio fianco,
t’insegnerò il linguaggio dei sapienti».
L’uccello libero grida: «No, oh no!
I canti non si possono insegnare».
L’uccello nella gabbia dice: «Ahimè,
non conosco i canti delle foreste».

Il loro amore è intenso e struggente,
ma non possono mai volare assieme.
Attraverso le sbarre della gabbia
si guardano e si guardano, ma è vano
il loro desiderio di conoscersi.
Scuotono ansiosamente le ali e cantano:
«Vieni vicino a me, amore mio!».
L’uccello libero grida: «E’ impossibile,
temo le porte chiuse della gabbia».
L’uccello in gabbia sussurra: «Ahimè,
le mie ali sono morte e impotenti».

XVI. Le mani si stringono alle mani
Le mani si stringono alle mani
e gli occhi indugiano sugli occhi:
così comincia la storia
                                   dei nostri cuori.
è la notte della luna di marzo;
nell’aria un dolce profumo di henna (pianta aromatica subtropicale);
il mio flauto giace per terra
e la tua ghirlanda di fiori
                                   non è terminata.
Questo amore fra me e te
è semplice come una canzone.

Il tuo velo color zafferano
inebria i miei occhi, la corona
di gelsomini che tu intrecci
mi commuove come una lode.
è un gioco di dare e trattenere,
di svelare e di nuovo velare;
di sorrisi e di timidezze,
e di dolci inutili lotte.
Questo amore fra me e te
è semplice come una canzone.

Nessun mistero al di là del presente;
nessuna lotta per l’impossibile;
nessuna ombra dietro l’incanto;
nessuna ricerca nel buio.
Questo amore fra me e te
è semplice come una canzone.

Non vaghiamo oltre le parole
per cercare l’eterno silenzio;
non leviamo le mani nel vuoto
per cose al di là della speranza.
Ciò che diamo e otteniamo ci basta.
La gioia non abbiamo schiacciata
per spremere il vino del dolore.
Questo amore fra me e te
è semplice come una canzone.
(Da: Il Giardiniere, in “Tagore - Poesie – Gitanjali / Il Giardiniere”, traduzione di Girolamo Mancuso, Newton Compton Editori, Roma, 1971)

La prima poesia è veramente straordinaria e rappresenta in modo magico ciò che accade quando un amore impossibile si svolge tra due esseri profondamente diversi che pur s’amano: sono come due uccellini, uno aduso alla libertà dei «canti della foresta» e uno dalle «ali morte e impotenti» ma abituato al «linguaggio dei sapienti». Questi due amanti «si guardano e si guardano, ma è vano / il loro desiderio di conoscersi»; infatti, non possono amarsi e nonostante il loro amore sia «intenso e struggente… non possono mai volare assieme».

Nella seconda poesia, Tagore canta invece la semplicità dell’amore che è come una canzone che unisce i due amanti, le cui mani si stringono tra loro e i cui occhi s’incontrano nello sguardo; tra loro si stabilisce l’eterno seducente gioco amoroso del dare e del non dare, del mostrare e del nascondere, senza però misteri particolari, senza dure lotte, senza ombre dietro l’incanto, senza silenzi trascendentali e infine senza pretendere nulla che sia «al di là della speranza».

In un’altra poesia, piena di desiderio amoroso, nella cornice di una Natura complice, Tagore scrive: «Quando a notte vado sola al mio convegno d’amore, / gli uccelli non cantano, il vento non soffia, / le case ai lati della strada sono silenziose. / Sono i miei bracciali che risuonano a ogni passo, / e io sono piena di vergogna. / […] / è il mio cuore che batte selvaggiamente – / e non so come acquietarlo. / Quando il mio amore viene e si siede al mio fianco, / quando il mio corpo trema e le palpebre s’abbassano, / la notte s’oscura, il vento spegne la lampada, / e le nuvole stendono veli sopra le stelle. / è il gioiello al mio petto che brilla e risplende. / E non so come nasconderlo.» (IX). E l’amore sensuale e la Natura complice ritornano in un’altra lirica: «Vieni come sei, non indugiare a farti bella. / Se la treccia s’è sciolta dei capelli, / se la scriminatura non è dritta, / se i nastri del corsetto non sono allacciati, / non badarci. / Vieni come sei, non indugiare a farti bella. / Vieni sull’erba con passi veloci. / […] / Non vedi le nubi che coprono il cielo? / […] / Vieni come sei, non indugiare a farti bella. / Se la ghirlanda non è stata intrecciata, che importa; / se il braccialetto non è chiuso, lascia fare. / Il cielo è coperto di nuvole – è tardi. / Vieni come sei; non indugiare a farti bella.» (XI).

Con un forte senso religioso panteista, Tagore amava la Natura – e la «madre-Terra» con la sua «salutare polvere» e per le sue splendide bellezze e per le sue povere imperfezioni. In una poesia il poeta esaltato scriveva: «Dimmi se questo è vero, amore mio, / dimmi se questo è tutto vero. / […] / è vero che le mie labbra son dolci / come il boccio del primo amore? / […] / Che la terra, come un’arpa, vibra / di canzoni al tocco dei miei piedi? / […] / E dimmi infine se è proprio vero / che il mistero dell’infinito / è scritto sulla mia piccola fronte. / Dimmi, amor mio, se tutto questo è vero.» (XXXII). Le liriche del poeta indiano vivono delle foglie che stormiscono sui rami, del lieve rumore del torrente in movimento, delle stelle splendenti in cielo, della notte oscura, delle raffiche di vento che spengono le lampade, del cielo fosco e coperto di nubi, delle nuvole che stendono veli sulle stelle, degli stormi delle gru che si levano in volo, ecc., ecc. (Da: Il Giardiniere, in “Tagore - Poesie – Gitanjali / Il Giardiniere”, traduzione di Girolamo Mancuso, Newton Compton Editori, Roma, 1971)

Ma per Tagore, l’unione suprema fra gli innamorati è un’esperienza così piena e così totalizzante che non può che sublimarsi nell’amore per Dio. In conseguenza di ciò, in quel che scrive, sacro e profano s’accavallano e s’intrecciano in una luce comune: «In questo mondo coloro che m’amano / cercano con tutti i mezzi / di tenermi avvinti a loro. / Il tuo amore è più grande del loro, / eppure mi lasci libero. / […]» (XXXII). Il poeta sentiva di essere vicino a Dio e agli uomini per mezzo della sua poesia che è come un canto religioso: «Quando mi comandi di cantare, il mio cuore / sembra scoppiare d’orgoglio / e fisso il tuo volto / e le lacrime mi riempiono gli occhi. / […] / So che ti diletti del mio canto, / che soltanto come cantore / posso presentarmi al tuo cospetto. / Con l’ala distesa del mio canto / sfioro i tuoi piedi, che mai / avrei pensato di poter sfiorare. / […]» (II). E il poeta conferma così le proprietà della sua poesia–canto. «Ho ricevuto il mio invito / alla festa di questo mondo; / la mia vita è stata benedetta. / I miei occhi hanno veduto, / le mie orecchie hanno ascoltato. / […] / In questa festa dovevo soltanto / suonare il mio strumento: / ho fatto come meglio potevo la parte / che mi era stata assegnata. / […]» (XVI). E la sua lirica, semplice e serena (monotona soltanto in apparenza), è come un canto d’amore che prende e stringe nella rete della sua musica: «Attendo soltanto l’amore / per abbandonarmi alfine / nelle sue mani. / […]» (XVII), versi che si ripetono come un ritornello lungo tutta la poesia. Senza intenti didascalici o moralistici, il poeta mette a disposizione di tutti il suo canto: «Sono qui a cantarti canzoni. / In questa tua sala ho soltanto / un piccolo posto in un canto. / Nel tuo mondo non ho / nessun lavoro da fare – / la mia inutile vita può soltanto / sgorgare in melodie senza scopo. / […]» (XV); e a questo canto Tagore attribuisce un alto significato culturale e una pratica finalità educativa. (Da: Gitanjali, in “Tagore - Poesie – Gitanjali / Il Giardiniere”, traduzione di Girolamo Mancuso, Newton Compton Editori, Roma, 1971)    

Se il lettore vuole dedicarsi alle poesie d’amore di Tagore (che sono soltanto una piccola parte dei suoi scritti), potrebbe leggere Tagore - Poesie d’amore (A cura di G. Mancuso, Newton e Compton, 2005), oppure Tagore - Hai colorato i miei pensieri e i miei sogni. Poesie per giovani innamorati (Salani Editore, Milano, 2006), nella collana “Poesie per giovani innamorati”.

Rabindranath Tagore nacque a Calcutta da una delle famiglie bengalesi più aristocratiche e colte: il padre era un filosofo e il leader di una setta religiosa di origine induista mentre i fratelli furono tutti letterati o artisti. Sino ai diciassette anni studiò in casa a Calcutta, vivendo in un ambiente ricco di esperienze orientali ma anche aperto agli stimoli occidentali; andò quindi per un anno in Inghilterra (a Londra) per imparare Legge, senza però completare gli studi. Iniziò a scrivere prestissimo, e la sua opera è tanto estesa che alcuni critici lo hanno paragonato per la vastità e la varietà della produzione e per la lunghezza della vita letteraria al grande scrittore francese Victor Hugo (1802-1885). Nel 1883 sposò Mrinalini Debi, amata di un affetto duraturo. Nel 1901 fondò l’Università internazionale di Visva-bharati (nata dal nucleo costituito da una scuola sperimentale) che chiamò «Asilo di pace» e che sostenne con denaro proprio e con fondi procurati durante i suoi numerosi viaggi per il mondo: il motto dell’Università era costituito dal versetto sanscrito «Là dove tutto il mondo si unisce in un nido». Tra il 1902 e il 1907 visse tutta una lunga serie di lutti privati: perse la moglie, due figli (tra i quali il primogenito), una cognata (morta suicida) alla quale era legato da grande affetto, e il padre–maestro.

Tagore scrisse circa duemila poesie, che spesso musicò e che raccolse in cinque volumi di versi, tra i quali ricordiamo la raccolta di poesie religiose Offerta di Canti (Gitanjali) (1909–1912) e Il Giardiniere (The Gardener). Eseguì personali traduzioni inglesi dei suoi poemetti lirici che furono raccolti in tre volumi non perfettamente corrispondenti ai tomi bengalesi, perché in prosa e non in versi. Gitanjali fu letto e divulgato da William Butler Yeats (poeta, drammaturgo, scrittore e mistico dublinese, 1865–1939), facendo conoscere al mondo questo grande poeta indiano, gli fece guadagnare il premio Nobel nel 1913 (il primo dato a una personalità asiatica). Nel 1915 re Giorgio V lo nominò baronetto ma nel 1919 il poeta rinunciò al titolo nobiliare per motivi politici.

Pubblicò anche numerosi drammi teatrali simbolici e commedie sociali di grande originalità, tra i quali Oleandri rossi (Rakta Karabi), il capolavoro nella sua carriera di drammaturgo composto nel 1923, in cui celebra l’amore e critica la civiltà moderna in continua corsa verso un vuoto arricchimento economico (un re avido d’oro costringe i suoi sudditi a un lavoro brutale nelle miniere, distruggendo la Natura, ma la sua avidità sarà la sua maledizione e la sua perdita); lo splendido testo, bellissimo da leggere, era nobilitato dalla musica e il canto, dalla gestualità e dal movimento nello spazio. Tagore scrisse anche diverse opere musicali sullo stile dei melodrammi europei e alcuni balletti nei quali tentò di armonizzare Oriente e Occidente; una sua composizione musicale è stata scelta come inno nazionale indiano (Bharata–bhagya–vidata).

Pubblicò anche molte novelle, raccolte in più di otto volumi, e otto romanzi, tra i quali sono da segnalare Gora (1910) e La casa e il mondo (Ghare–Baire) (1916), nei quali realizzò una sorta di realismo simbolico, dando risalto lirico e letterario alla lingua viva del suo popolo. Compose anche diversi diari di viaggio (si mosse tantissimo in Europa, America e Asia) e numerosi saggi di critica letteraria (tra i quali Investigazioni letterarie), di politica e di religione. Pubblicò anche due autobiografie, una scritta in età adulta (Ricordi della mia vita) e una composta al termine della sua vita (morì a Santiniketan il 7 agosto del 1941): esse hanno fatto conoscere al mondo un uomo sensibile e ricco d’intensa religiosità che aveva vissuto in uno struggente rimpianto nostalgico del divino e in un’ardente spiritualità assetata di bellezza.

Tagore seppe avvicinarsi anche ai problemi della povera gente («a coloro che non hanno compagni, tra i più poveri, i più umili, e i perduti»). In età avanzata si dedicò sia a tentativi scolastici innovativi sia a progetti di riforma sociale, assumendo spesso una posizione contraria alle politiche coloniali britanniche. Condivise con Gandhi, il «padre della patria», una viva amicizia e profondi ideali etico–politici, ritenendo che l’Oriente dovesse guardare all’Occidente (che occupava posizioni più avanzate) con riferimento al progresso sociale e alle libertà individuali, senza dimenticare tuttavia le sue peculiari caratteristiche, rappresentate da una maggiore serenità interiore e da una più intensa capacità meditativa. D’altra parte, in quello stesso periodo, l’Occidente coloniale e materialista riscopriva le filosofie e la cultura indiana, il sanscrito e la religiosità asiatica. In India, Tagore ha raggiunto una fama immensa: fu nominato vice presidente dell’Accademia delle Lettere del Bengala (1891), presidente del Congresso Nazionale Indiano a Calcutta (1917) e presidente del Congresso Filosofico delle Indie (1925). Anche in Europa fu molto stimato e amato per il senso religioso e la profonda spiritualità, che  seppe propagandare grazie alle numerose letture dei suoi testi eseguite sia in patria che all’estero, e grazie alle versioni inglesi dei suoi testi (da lui stesso curate). Dal 1933, ormai in condizioni di cattiva salute, non si mosse più dall’India dedicando tutte le sue poche forze all’amata Università Internazionale.

Concludendo, Tagore ha dato inizio alla letteratura bengalese (che già aveva prodotto alcuni generi a cavallo tra sacro e profano, che prevedevano l’uso della mimica e della danza, del canto e della musica), arricchendola di forme e aspetti letterari di gusto europeo e divenendo l’icona spirituale e la voce morale più intensa e ascoltata della cultura filosofica e della vita letteraria in Oriente: egli ha certamente improntato di sé tutto il mondo sociale e intellettuale dell’India moderna.

domenica 9 giugno 2013

Sofocle, Antigone, teatro greco di Siracusa e la regia di Cristina Pezzoli


Immagini da Antigone, per la regia di Cristina Pezzoli

Alternandosi con la tragedia di Sofocle, Edipo re, diretta da Daniele Salvo, e con la commedia di Aristofane, Donne al parlamento, diretta da Vincenzo Pirrotta, dal 12 maggio al 23 giugno, presso il Teatro Greco di Siracusa, si rappresenta Antigone di Sofocle, per la traduzione di Anna Beltrametti e per la regia di Cristina Pezzoli, con Ilenia Maccarrone (Antigone), Maurizo Donadoni (Creonte), Isa Danieli (l'indovino cieco Tiresia), Matteo Cremon (Emone) e Valentina Cenni (Ismene), musiche di Stefano Bollani (malinconiche e scandite dalle percussioni) e gli splendidi costumi di Nanà Cecchi. Un prologo, tratto dalle Fenicie di Euripide, mostra l’ombra di Giocasta che, ricordando la vicenda della famiglia di Edipo, permette agli spettatori di riprendere le fila della vicenda. Questa tragedia – che vede l'autorità contro il potere, la legge umana della polis contro la legge divina, e la legge morale non scritta contro la legge dello Stato – da sempre è stata considerata un'efficace metafora dei diritti dell'individuo in contrapposizione a quella di uno Stato totalitario.

Durante l'incontro nell’Auditorium del Museo “Paolo Orsi” con i registi del XLIX Ciclo di Rappresentazioni Classiche (organizzato dall'Associazione Amici dell’INDA), il Commissario straordinario Alessandro Giacchetti ha così commentato: «Sofocle è l'antico moderno, direi proprio che tutto il teatro è Arte che vive, sentimento e sensazioni inimitabili che alimentano il nostro animo. Tutta la tragedia e i sentimenti eterni di cui è fatta appartengono al nostro DNA. Ho già avuto modo di incontrare la regista Pezzoli durante le prove, ed ho visto quanta energia è capace di trasmettere ai suoi attori. Per me, ammiratore del Teatro Greco già da tempo, è tutto molto emozionante e vorrei trasmettere questo entusiasmo e questo impegno che trovo ogni giorno in Fondazione INDA a tutta la città, soprattutto in un momento di così grande difficoltà per la nazione tutta». In quell'occasione, la regista Cristina Pezzoli ha sostenuto: «Il regista è un esperto del testo, il suo è un lavoro al servizio del testo perché esso parli nella sua totalità, un testo che abbia la possibilità di parlare sempre. […] è giusto dare pari dignità ad entrambi [Creonte e Antigone], riequilibrare questo rapporto. Il mio compito di regista è, dunque, quello di dare voce anche alle ragioni di Creonte. Il suo no è al patto familistico, alle ragioni della famiglia della giovane donna. Creonte risponde no alla sepoltura perché pensa ad un ordine politico nuovo da dare alla città, vuole rifondare la patria. […] Non amo la recitazione melodrammatica. La sfida, oggi, nel recitare la tragedia, è proprio quella di recitare senza cadere nel sentimentalismo, eliminare la retorica, la vanità al servizio del racconto»
(http://www.siracusanews.it/node/37177).

La protagonista indiscussa è Ilenia Maccarrone, giovane attrice giarrese, al suo debutto negli spettacoli classici, la quale ha detto: «Per me è un onore e una sfida interpretare questo ruolo, Antigone è tradizionalmente intesa come vittima sacrificale, la regia cercherà stavolta di far comprendere le ragioni del tiranno e della vittima, individuando una terza via alla comprensione del gesto estremo della protagonista.». 
(http://palermo.repubblica.it/cronaca/2013/05/10/foto/edipo_e_antigone_siracusa_al_via-58478648/1/#1).

La regista Cristina Pezzoli – diplomata alla Scuola d'Arte Drammatica “Paolo Grassi” di Milano e regista da giovanissima, esperta di spettacoli classici, collaboratrice dello Stabile di Torino e direttore artistico dell’Associazione Teatrale Pistoiese/Teatro Manzoni di Pistoia, e regista di spettacoli lirici per il Festival Pucciniano e per il Teatro del Giglio di Lucca
(http://www.teatroteatro.it/personaggi_dettaglio.aspx?uart=98500) – nell'articolo “Cristina Pezzoli: ecco la mia Antigone”, ha voluto ribadire la diversità della sua Antigone: non più una santa e una ribelle in antitesi a Creonte, il tiranno, ma una donna portatrice di una verità diversa ma non priva di dignità; ha detto la Pezzoli di aver voluto dare un'assoluta priorità al testo e alla parola: «Pericolo di questo testo è che ci si appiattisca su versioni ormai desuete, la colpa da un lato (Creonte) e la vittima dall'altro (Antigone). Il nostro tentativo sarà quello di fondere le ragioni di entrambi. La tragedia è un modo importante per parlare del comune sentire dell'uomo di oggi.» 
(http://chairmag.it/2013/05/cristina-pezzoli-ecco-la-mia-antigone/).

Ne “La cornice del Teatro Greco per il dramma umano di Antigone” del 18 maggio del 2013
(Rubrica: Arti e Spettacolo, Teatro & Cinema), Maria Galluà ha evidenziato come la regista Cristina Pezzoli non abbia enfatizzato i toni tragici ma abbia dato «una chiave di lettura più vicina ad un pubblico moderno che vuol vedere nella tragedia qualcosa che riporti al presente, che vuole comprendere i dissidi umani che conducono all’infelicità», avvicinando così a noi «un autore antico e “grande” come Sofocle». Tra i vari personaggi, la Galluà evidenzia come in scena spicchi una guardia (impersonata da un «impeccabile» Gianluca Gobbi), che «mette davanti agli occhi dello spettatore l’uomo medio che è incapace di comprendere cosa sta accadendo fino in fondo, interessato solo alla propria salvezza e al proprio tornaconto» 
(http://portale.criluge.org/?p=18278).

In “Antigone, l'eroina oltre gli stereotipi” (del 18 maggio 2013), Anna Mallamo scrive: «Antigone: poche eroine appartengono così profondamente e durevolmente al patrimonio collettivo di miti, icone, simboli», parla d'«icona della ribellione, in nome del cuore e del sangue, contro il potere e la fissità arida delle leggi» ed evidenzia anche l'intendimento della regista Cristina Pezzoli «di rompere la crosta di sovrapposizioni, interpretazioni, simbolismi e ridare al personaggio di Antigone una sua verità fondamentale, il farsi delle sue ragioni nel dialogo con Creonte». La regista pone «in un confronto – serrato, linguisticamente percussivo – soggetto a continuo e reciproco scacco» le ragioni della philia (come affetto, appartenenza, identità e legame) che animano l'una e l'altro, fronteggiandosi. Scrive la Mallamo che Antigone (con Ilenia Maccarrone «spigolosa nel rendere il rigore adamantino dell'eroina») riesce bene ad accampare «la priorità delle leggi non scritte e antiche della pietas e dei doveri verso i defunti e i consanguinei» mentre Creonte (interpretato da un «solido» Maurizio Donadoni) le oppone con forza «la sua fede, necessaria fede, nei nomoi, le leggi umane, il diritto fondato sulla logica e il patto sociale» 
(http://www.gazzettadelsud.it/news/46973/Antigone--l-eroina--oltre.htm).

In “Un'Antigone con poco pathos al teatro greco di Siracusa” (del 28 maggio 2013), Giuseppe Distefano scrive: «Un gigantesco muro di cemento con, al centro, un portone. Porte divelte, disposte come scale, s'allungano sulla sabbia bianca del palcoscenico del teatro greco. Da una buca emergerà l'Ombra di Giocasta, figura tratta dalle Fenicie di Euripide, che funge da prologo sintetizzando le tragiche vicende della famiglia di Edipo. Quindi, all'aprirsi dell'enorme portale centrale, appariranno, via via, tutti i personaggi che animano l'Antigone
(http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2013-05-28/unantigone-poco-pathos-teatro-091612.shtml?uuid=Abrd2uzH).

Antigone di Sofocle ebbe la sua prima assoluta nel 442 a.C., presso il Teatro di Dioniso in Atene, e appartiene al ciclo dei drammi tebani ispirati alla drammatica vicenda di Edipo, re di Tebe, e della sua progenie (seguiranno altre due tragedie, l'Edipo re e l'Edipo a Colono, che in realtà raccontano gli eventi precedenti). Ambientata davanti al palazzo reale di Tebe, viene narrato come la lotta per la successione al trono di Tebe si sia conclusa con la morte di entrambi i pretendenti, i due fratelli Eteocle e Polinice, figli di Edipo e Giocasta. Subentra lo zio Creonte, che decreta una giusta sepoltura per Eteocle (che aveva difeso la città) ma decide per editto la non sepoltura del cadavere di Polinice (ritenuto un aggressore della città), lasciato alle intemperie, ai cani e agli uccelli rapaci. Nel prologo Antigone racconta alla sorella Ismene (entrambe sono frutto dell'incesto involontario di Edipo con la madre Giocasta) le decisioni di Creonte e le comunica la sua irrevocabile intenzione di opporsi all'editto di Creonte, dando una sepoltura al fratello Polinice. Riceve da Ismene il rifiuto ad aiutarla e si dispone ad agire da sola. Sorpresa dalle guardie mentre ricopre di sabbia il cadavere del fratello, Antigone viene arrestata e condotta dinanzi a Creonte, cui confessa il tradimento, appellandosi alle leggi non scritte ma eterne degli Dei. Anche Ismene viene coinvolta e accusata di complicità. Compresso fra la tutela del suo potere e prestigio personale e la decisa determinazione di Antigone, Creonte la condannata a essere chiusa in una grotta mentre (anche per l'intercessione della sorella) salva Ismene. E Creonte non cede neppure dinanzi alle suppliche del figlio Emone, fidanzato di Antigone, e alle invettive dell’indovino Tiresia. Ne segue una tragedia immane: Antigone s’impicca (come già aveva fatto la madre Giocasta), muore suicida anche Emone e la madre, e tutto il popolo di Tebe è devastato da una tremenda pestilenza. I brani della tragedia da me citati sono tratti dalla versione di Ettore Romagnoli 
(ved. http://www.filosofico.net/antigonesofocle42.htm).

Nel Prologo la scena si svolge sull'acropoli di Tebe, dinanzi alla reggia, ed è l'alba del giorno dopo che Eteocle e Polinice, i figli di Edipo, si sono uccisi vicendevolmente nel combattere per la conquista del trono di Tebe. Dalla reggia escono Antigone e Ismene. Antigone informa la sorella che Creonte, il nuovo tiranno della città, vuol dare onoranze funebri al corpo di Eteocle ma è intenzionato a lasciare insepolto quello di Polinice: «Non sai tu che Creonte, onor di tomba / concesse all'uno dei fratelli nostri, / l'altro mandò privo d'onore? Etèocle, / come la legge e la giustizia vogliono, / sotto la terra lo celò, ché onore / fra i morti avesse di laggiù; ma il corpo / di Poliníce, che perì di misera / morte, ha bandito ai cittadini, dicono, / che niun gli dia sepolcro, e niun lo gema, / ma, senza sepoltura e senza lagrime, / dolce tesoro alle pupille resti / degli uccelli, che a gaudio se ne cibino.». Antigone narra anche che, con un bando, Creonte ha proclamato che chiunque avesse trasgredito, sarebbe stato lapidato dal popolo: «[…] Son questi i fatti. E presto / mostrar dovrai se tu sei generosa, / o se, da buoni uscita, sei degenere.». L'editto non è stato ancora annunciato ufficialmente ma Antigone è certa che sarebbe stato emanato; afferma che tenterà di dare comunque sepoltura a Polinice, sfidando l'ordine del re, e domanda l'aiuto della sorella. Intimorita, Ismene si rifiuta: «Ahimè!, sorella, al padre nostro pensa, / che odïato morì, per le sue colpe / ch'egli stesso scoprì, d'onore privo, / e con la man sua stessa ambe le luci / si svelse; e poi la madre sua, sua moglie - / di nomi orrida coppia! - a un laccio stretta, / scempio fe' di sua vita; e i due fratelli, / terza sciagura, l'un l'altro s'uccisero / in un sol giorno, miseri, e compierono / con reciproche mani il triste fato. / Ora noi due, sole rimaste, vedi / quanto sarà la nostra fine orribile, / se i decreti del principe e il potere / trasgrediremo, della legge a scorno. / Ed anche a ciò convien pensare: femmine / siamo, e non tali da lottar con gli uomini; / e assai più forti son quelli che imperano; / e obbedire dobbiam dunque ai loro ordini, / e se fosser più duri. Io dunque, ai morti / chiedo perdono, poi che son costretta, / ed ai potenti obbedirò: ché ardire / oltre le proprie forze, è cosa stolta.». Visto che Ismene teme quel che la città ordina, Antigone comprende che dovrà superare da sola l’impresa: «[…] / Sepolcro io gli darò; bella, se l'opera / avrò compiuta, mi parrà la morte. / E cara giacerò presso a lui caro, / d'un pio misfatto rea. […] / […] / Tu tal pretesto adduci: io vado, e il tumulo / innalzo intanto al fratel mio diletto.».

A questo punto entra il Coro, costituito da una schiera di grandi vecchi, che – dopo alcune evoluzioni accompagnate dal canto – si fermano dinanzi all'ara di Diòniso. Gli anziani tebani sono in trionfo, perché l’esercito invasore capitanato da Polinice è stato sconfitto, e annunciano  l'arrivo del nuovo re Creonte: «[…] / Soltanto i due miseri figli / d'un grembo, d'un padre, le lancie / entrambe vittrici, appuntando / al seno un dell'altro, retaggio / di morte comune riscossero.». Dalla reggia esce Creonte, che si proclama re di Tebe e che decreta che il corpo di Polinice deve essere lasciato insepolto e deve essere punito con la morte chiunque si opponga al suo editto: «[…] / Ed ordini conformi intorno ai due / figli d'Èdipo, bandir feci: Etèocle, / che per questa città, poi che ogni prova / di valore compie', pugnando cadde, / si seppellisca, e quanti onori spettano / ai più illustri defunti, a lui si rendano; / ma suo fratello, Poliníce, dico, / l'esule che tornò, che il patrio suolo / strugger volea col fuoco, e i Numi aviti, / che del sangue fraterno abbeverarsi / voleva, e trarre gli altri in servitù, / costui col bando imposi alla città / che niun gli dia sepolcro, e niun lo pianga, / ma si lasci insepolto, e, divorato / dagli uccelli e dai cani, e, deturpato, / sia visibile il corpo. […]». Entra con passo lento, esitante e timoroso, un soldato, uno dei custodi posti a guardia del cadavere di Polinice, che informa Creonte che qualcuno ha disobbedito al suo ordine, coprendo di sabbia il corpo di Polinice e compiendo il rito funebre: «Te lo dirò. Qualcuno ha seppellito / poco fa quel defunto, ed è scomparso: / sopra le membra sparse arida polvere, / tutte compie' le cerimonie debite.». Furente, il sovrano, è convinto che il reato sia opera di cittadini dissidenti: «[…] / Il vero è questo: da gran tempo v'erano / uomini che il poter mio sopportavano / di mala voglia in Tebe, e mormoravano, / scotendo il capo di nascosto, e il collo / non tenean, come giusto è, sotto il giogo, / tanto che me gradissero. Da questi, / lo intendo, per mercede, indotti furono / quei che l'opra compieron: ché fra gli uomini / cosa non v'ha più trista del denaro: / questo perfino le città distrugge, / questo discaccia dalla patria gli uomini, / questo è maestro che perverte l'anime / oneste a compiere opere malvage, / d'ogni ribalderia questo la pratica, / d'ogni empietà l'ardire apprese agli uomini. / Ma quanti per mercede a ciò s'inducono, / arriva il giorno che la colpa espiano. / […]». Creonte congeda la guardia, ordinando di rintracciare i colpevoli, e rientra nella reggia.

Il Coro esplode in un elogio dell’ingegno umano e dell'uomo, che è molto al di sopra delle cose più mirabili del mondo: l'uomo ha, infatti, saputo sottomettere al proprio potere la terra e gli animali, ha organizzato la propria vita tramite le leggi e ha trovato la cura per molte malattie. L'essere umano può, però, rivolgere l’ingegno umano al male, distruggendo tutto ciò ch'egli stesso ha costruito: «Molti si dànno prodigi, e niuno / meraviglioso più dell'uomo. / […] / L'infaticato pensiero, e i suoni / vocali rinvenne, e le norme / del viver civile, e a fuggire / gli etèrei dardi / d'inospiti ghiacci, / di piogge nemiche. / Gran copia d'astuzie possiede; / né verso il futuro, se mezzi / di scampo non vede, s'inoltra. / […] / Oltre ogni umana credenza, il genio / dell'arti inventore possiede; / ed ora si volge a tristizia, / ed ora a virtù. / […]».

Si avanza Antigone, trascinata dalla guardia, la quale racconta che – dopo aver rimosso la sabbia dal corpo di Polinice ed essere rimasto in osservazione – ha visto la fanciulla ritornare per seppellire di nuovo il cadavere: «Questa è colei che l'opera compieva: / costei sorpresa abbiamo, che al cadavere / dava sepolcro. Ma dov'è Creonte?». Giunge Creonte e la guardia continua: «[…] / E reco a te questa fanciulla, còlta / che la tomba adornava; e non fu d'uopo / di trarre a sorte: mia fu la fortuna, / non d'altri. E adesso, o re, prendi costei, / come ti piace, esàminala, giudicala; / […] / Vidi costei che contro il tuo divieto / il corpo seppellía: non parlo chiaro? / […] Ed ecco, all'improvviso / una procella sollevò, flagello / sceso dal cielo, un nugolo di polvere, […] / la fanciulla fu vista. E si lagnava / con grida acute di doglioso augello / allor che degl'implumi orbo il giaciglio / scorge nel vuoto nido. Essa del pari, / come vide il cadavere scoperto, / ruppe in gemiti; e contro quei che l'opera / compie', lanciava imprecazioni orrende; / e sùbito raccolta arida polvere, / lo coperse; e levata alta una brocca / bella, di bronzo levigato, serto / fece di tre libagïoni al morto. / Noi che vedemmo, ci scagliammo, e sùbito / la fanciulla afferrammo. Ed essa, nulla si sbigottì. / […]». Antigone ammette il fatto ma afferma che il seppellimento del cadavere è un rito eterno voluto dagli dei, che sono di molto superiori per potere al sovrano stesso: «Non Giove a me lanciò simile bando, / né la Giustizia, che dimora insieme / coi Dèmoni d'Averno, onde altre leggi / furono imposte agli uomini; e i tuoi bandi / io non credei che tanta forza avessero / da far sì che le leggi dei Celesti, / non scritte, ed incrollabili, potesse / soverchiare un mortal: ché non adesso / furon sancite, o ieri: eterne vivono / esse; e niuno conosce il dì che nacquero. / […] / Tu dirai che da folle io mi comporto; / ma forse di follia m'accusa un folle.». Il sovrano reagisce con furia per il mancato rispetto del suo editto: «[…] / Ma figlia sia d'una sorella, o stretta / a me di sangue più di quanti Giove / protegge sotto i miei tetti, all'orribile / sorte sfuggire non potrà, né seco / la sua sorella: ché non men di questa / dell'averlo sepolto io quella incrìmino. / Chiamatela: ché in casa or or la vidi, / che furïava, uscita era di senno. / […]». E Antigone sfida lo zio: «Che dunque indugi? Delle tue parole / niuna m'è grata, e mai non mi sarà / grata: anche a te, così, piacer non possono / le mie. Ma donde mai gloria più fulgida / acquistare potrei, che al mio fratello / dando sepolcro? E lode a me darebbero / tutti costoro, se terror le lingue / non rinserrasse: privilegi ha molti / la tirannide; e questo anche fra gli altri: / che dire e far ciò ch'essa vuole può. / […] / Non è turpe onorare un consanguineo. / […] / Non un servo è il caduto: è mio fratello / […] /Ade per tutti quanti i riti brama. / […] / Chi sa se pio questo non sembri agl'Inferi? / […]». Creonte le rimprovera che – lui vivo – «mai donna non comanderà» e gli affetti mai prevarranno sulle questioni di Stato. Compare adesso Ismene, pronta a morire insieme alla sorella («Se consente costei, confesso: complice / sono, e con lei partecipo la colpa.»), ma Antigone – ricordando che nel momento del bisogno l'aveva lasciata sola – rifiuta quel suo appoggio: «Ma non consente la giustizia: ché / né tu volesti, né compagna io t'ebbi. / […] / Morir meco non devi, e far tuo quello / che non compievi; la mia morte basta. / […] / Salva te stessa: invidia io non ne avrò. / […] / Tu la vita scegliesti, ed io la morte. / […] / Tu sembrasti a taluni, ad altri io saggia. / […] / Fa' cuor! Tu vivi; e da gran tempo è morta / l'anima mia: potrà giovare ai morti.». E Ismene rimprovera allora a Creonte: «La sposa di tuo figlio ucciderai?», e irriducibile Creonte le risponde: «Altri solchi ci sono, e arar si possono»; Ismene però ribatte: «Ma non com'era questa a quello adatta!», e lo zio ribadisce: «Pei figli miei detesto tristi femmine!». Creonte pone poi entrambe in catene ma condanna soltanto Antigone. Antigone e Ismene vengono trascinate dentro, mentre Creonte s'allontana.

Sconsolatamente il Coro si lagna della fragilità della vita umana, segnata da una sfilza di sventure al di là di ogni comprensibile disegno, e così conclude: «[…] / Celebre è quella parola / detta da un uom di saggezza: / Spesso il male sembra un bene / ad un uomo a cui la mente / volse un Nume alla rovina. / E da rovina ben poco tempo lontano resta.». Compare, a questo punto, Emone, «il più giovin rampollo» dei suoi figli e promesso sposo di Antigone, che esprime al padre Creonte tutte le sue preoccupazioni ma il sovrano è irremovibile: obbediente, Emone deve sottoporsi al suo volere: «Mai la lusinga del piacer di femmina / di senno uscire non ti faccia, o figlio. / Freddo, sappi, è di femmina l'amplesso / che sia trista compagna del tuo talamo: / piaga peggior non c'è d'un tristo amore. / […] / Ché se i parenti miei vivere io lascio / senza più freno, che faran gli estranei? / […] / […] È necessario dunque / difendere le leggi, e a nessun patto / consentir che una femmina ci vinca. / Se cadere si dee, meglio cadere / per man d'un uomo: dir non si potrà / che noi fummo più fiacchi d'una femmina.». Emone tenta di controbattere e gli dice: «[…] / La tua presenza, sbigottiti rende / i cittadini, sì che non ti dicono / mai ciò che udire non ti piace: invece / io tutto posso udir, quanto nell'ombra / dicendo van: che la città commisera / questa fanciulla, immacolata più / d'ogni altra donna, e che compiuta ha l'opera / la più nobile, e in cambio ne riceve / la più misera morte. / […]». Creonte minaccia Emone, che tenta di fargli cambiare parere senza che per questo smetta di essere saggio e che gli dice: «Città non è quella ove uno solo può. / […] / Bel sovrano saresti, in un deserto!». Infastidito e accusandolo di essere «servo d'una femmina», il padre lo minaccia di uccidere Antigone dinanzi ai suoi stessi occhi: «Davvero? Ah! per l'Olimpo, a te l'ingiurie / pro' non faranno, sappilo. –  Recate / qui l'odïosa femmina: morire / deve innanzi al suo sposo, al fianco suo.». Disgustato e infelice, Emone gli risponde: «E sia, morrà; ma non morrà già sola. / […] / Ella a me presso non morrà, né tu / il viso mio vedrai più: […]», ed esce furibondo. Creonte condanna Antigone a essere seppellita in una grotta: «In un sentiero dove uomo non trànsiti /  la condurrò, la seppellirò viva / in un antro roccioso; e accanto a lei / tanto cibo porrò, quanto sol basti / ad evitare il sacrilegio, a rendere / immune Tebe dal contagio.».

Il Coro si abbandona a cantare Amore, che con la sua forza rende pazzi gli uomini che ne sono colpiti («e i cuor delirano che tu pervadi!»). Dalla reggia esce, in mezzo alle guardie, Antigone condotta al supplizio, che lamenta (e il Coro è solidale con lei) il triste destino di una giovane donna destinata a non conoscere il matrimonio: «[…] alle mie soglie / inno di nozze non suonò, ché sorte / non m'ebbi d'Imenèi: / io sarò sposa al Nume della Morte. / […] / […] Oh misera! / Ospite non di vivi / né di morti, non d'ombre / né d'uomini sarò. / […] / E tu fratello, quali tristi nozze / avesti in tuo retaggio! / Morendo, me struggesti / ch'ero tuttora in vita. / […] / Non pianto, non amici, / non inni nuzïali: a me s'appresta / sol questa via funesta.». Compare bruscamente Creonte, che avanza il desiderio di non contaminarsi del crimine odioso agli dei di uccidere una consanguinea ma sostiene la decisione di gettare Antigone in una grotta, affinché viva lontana da tutti: «[…] Nella profonda tomba, / come v'ho imposto, sia rinchiusa, e sola / vi sia lasciata, e ch'ivi morir debba, / o in quell'antro restar viva sepolta.». Antigone si dispera, immaginandosi sola ed emarginata per il resto dei suoi giorni: «[…] / Ultima ora io fra loro, e assai più misera, / discendo, prima che sia giunto il termine / della mia vita. E, lì discesa, spero / giunger diletta al padre, a te diletta, / madre, diletta, o mio fratello, a te. / […] / […] ma, così tapina, / dagli amici deserta, io viva scendo / alle fosse dei morti.». Antigone esce, portata via dalle guardie.

Il Coro passa in rassegna alcuni personaggi mitologici che avevano avuto in sorte l'esser imprigionati, tra i quali la bella Dànae e l'iracondo figlio di Driante e re degli Èdoni. Appare adesso Tiresia, il vecchio indovino cieco guidato per la mano da un fanciullo, che si rivolge a Creonte affermando che la città è stata resa impura per la mancata sepoltura di Polinice (come Antigone, Polinice è nipote di Creonte e quindi un consanguineo) e invitandolo ad abbandonare la sua inflessibilità: «[…] Queste / funeree profezie d'ambigui riti / io da questo fanciullo appresi allora: / ché guida agli altri io sono, e questi a me. / E tal morbo funesta la città / pel tuo disegno: ché gli altari e l'are / pieni son della carne, che vi spargono / cani ed uccelli, dell'esposto misero / figlio d'Èdipo; e quindi avvien che i Numi / né preci più né sacrifizi accettano / da noi, […] / […] / Perciò, figlio, fa senno: a tutti gli uomini / è possibile errar; […] / […] / […] Or tu / cedi al defunto, non colpire un morto. / Sarà prodezza uccidere un cadavere?». Il sovrano accusa Tiresia di agire per tornaconto personale, mercanteggiando e ricercando il lucro («La genìa dei profeti avida è tutta.»), e riafferma il suo potere anche contro i grandi poteri dell’indovino. Andando via, Tiresia gli consegna un ultimo avvertimento: Creonte deve stare molto attento perché le Erinni dei Numi e dell'Averno hanno deciso di agire contro di lui: «e un uom dal sangue tuo nato, cadavere / tu dovrai dare, in cambio d'un cadavere». Turbato dalle dure parole dell'indovino («che mai non disse il falso»), il re si consulta con il Coro degli anziani e decide di dare sepoltura al cadavere di  Polinice e di liberare Antigone «dalla stanza sotterranea». Creonte esce in fretta coi suoi seguaci.

Il Coro è lieto per il ravvedimento di Creonte e prega il dio Bacco, figliuolo di Giove, di guardare con benevolenza alla sua città prediletta, invasa tutta da un «morbo veemente». Giunge correndo, esterrefatto, un Messo che informa il Coro degli ultimi tremendi avvenimenti accaduti (gli ordini di Creonte non sono arrivati in tempo!). Entra la moglie di Creonte, Euridice, che ha sentito della sciagura ed è corsa, sostenuta dalle sue ancelle. Il messo osserva: «[…] Era Creonte / degno un tempo d'invidia, a quanto sembrami, / ché dai nemici libera fe' questa / terra cadmèa, solo sovrano fu / di tutto il regno, e lo guidava, e florido / era per copia di bennati figli. / Ed or, tutto ha perduto. E quando un uomo / non ha più gioie, vivo io non lo reputo, / ma spoglia inane che respiri. […]», e racconta che, seppellito Polinice, Creonte aveva udito i lamenti del figlio Emone provenire dalla grotta in cui era stata segregata Antigone. Erano entrati: «E noi guardammo, come l'ansio re / ordine dava; e dalla tomba al fondo / pel collo stretta la fanciulla, avvinta / vedemmo a un laccio di ritorto lino, / ed Emon presso lei, che, abbandonato, / a mezza vita la stringea, le nozze / piangea distrutte nell'Averno, e l'opere / empie del padre, e l'infelice talamo.». Visto il re, Emone aveva prima tentato di colpirlo con la spada ma poi aveva rivolto l’arma contro di sé: «Ma il padre via fuggì; né quei lo colse; / e con se stesso irato allora, oh misero!, / si gittò su la spada, e a mezzo il petto / se la confisse. E, ancora in sé, si stringe, / col braccio già mancante, alla fanciulla, / e sbuffa, e avventa su la bianca guancia / di rosse stille impetuoso fiotto. / E poi che i riti nuzïali, o misero, / nell'Averno compie', giace cadavere / a un cadavere avvinto; e insegna agli uomini /che d'ogni male, avventatezza è il pessimo.». Alla fine del racconto di queste orrende notizie, Euridice fugge di corsa rientrando nel palazzo.

Entra Creonte seguito dai famigli che recano il cadavere d'Emone su una bara («un insigne segnacolo / dell'error che fu suo, non d'altrui») e lamentando la propria stoltezza che è stata responsabile della morte del figlio: «O duri cruenti trascorsi / di folle pensiero! / Uscir da una stessa progenie / vedete uccisori ed uccisi. / Ahimè, dei miei consigli esito tristo! / Figlio, immaturo ad immatura morte, / ahimè, ahimè!, / tu soccombesti, tu sparito sei, / non per i tuoi delirî, anzi pei miei!». E arriva un secondo messo che, inorridito, riferisce che anche Euridice si è tolta la vita: «Morta è la sposa tua, la madre, o misero, / di questo morto: s'è trafitta or ora!». La rovina del re è completa: si definisce assassino del figlio e della moglie e, pieno di disperazione, invoca la morte liberatoria anche per sé: «E tu, che le nuove crucciose / recasti, che dici? / Ahimè, che tu finisci un uom defunto!». Si aprono le porte e si vede Euridice morta, uccisasi con una lama («Sotto il fegato, come il lagrimevole / scempio del figlio udí, s'immerse un ferro.»), dopo aver imprecato contro il marito, responsabile della morte del figlio. E Creonte piange e si lamenta: «Ahimè, ahimè! / Per il terrore abbrivido. / Perché, perché nessun giunge a trafiggermi / col ferro aguzzo il petto? Ahi, me tapino, / in qual trabocco orribile destino! / […] / Non sarà che da me questa colpa / su alcun altro ricada degli uomini. / Io l'uccisi, ecco il vero! […] / […] / Deh, giunga, giunga / infine la bellissima / fra tante morti onde reo sono, il termine / dell'ora mia fatale giunga, sì / ch'io scorgere non debba un altro dì. / […] / Via questo insano conducete, l'uomo / che te contro sua voglia uccise, o figlio, / e te, sposa, oh me misero! Lo sguardo / a chi dei due volger non so, né dove / trovi un sostegno: ché rovina è tutto / a me dintorno, e sopra il capo mio / un destino implacabile piombò.». E Creonte si allontana seguito dai suoi principi, mentre il Coreo conclude la tragedia così dicendo: «Arra (promessa) prima del viver felice / è saggezza; né mai sacrilegio / contro i Numi ti macchi. I gran vanti / dei superbi, da duri castighi / colpiti, ammaestrano / troppo tardi, a far senno, i vegliardi.».

Termina così questa tragedia, nella quale si fronteggiano (sino all'inevitabile conclusione finale) Creonte – un sovrano dispotico, rigido nelle sue idee e geloso del proprio potere e della propria immagine, maschilista nel non voler sacrificare la sua virilità dando ragione a una donna – e Antigone – dissidente perché non vuole sottomettersi alla legge del re ma anche ribelle nel non volersi sottomettere da donna alla volontà dell’uomo, in accordo alle convenzioni del tempo e allo stereotipo della debolezza femminile.

Soltanto dopo il precipitare degli eventi, Creonte riconosce la sua arroganza e i suoi errori, ma questo soltanto per la catastrofe subita e non per un'evoluzione psicologica, che non esiste minimamente nella tragedia. Antigone diventerà invece l'eroina che ha saputo affrontare la punizione e la morte per tutelare gli affetti familiari, ed è più evoluta di Creonte nel suo credere alla superiorità della legge morale che domina nel cuore dell'uomo (molti secoli più tardi il filosofo tedesco Immanuel Kant dirà: « Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me.», frase scritta anche sulla sua lapide).

Per due diverse, più moderne e stupende, interpretazioni di Antigone, vedere due miei precedenti articoli:
- Jean Anouilh e la fiera “ribelle” Antigone 
(http://silvia-iannello.blogspot.it/2011/12/jean-anouilh-e-la-fiera-ribelle.html)
- Antigone, Sofocle e Valeria Parrella 
(http://silvia-iannello.blogspot.it/2013/04/antigone-sofocle-e-valeria-parrella.html) 

lunedì 3 giugno 2013

Sofocle, Edipo re, teatro greco di Siracusa e la regia di Daniele Salvo


Immagini da Edipo re, per la regia di Daniele Salvo

Alternandosi con la tragedia di Sofocle, Antigone diretta da Cristina Pezzoli, e con la commedia di Aristofane Donne al parlamento, diretta da Vincenzo Pirrotta, dall'11 maggio al 23 giugno, presso il Teatro Greco di Siracusa, si rappresenta Edipo re, per la traduzione di Guido Paduano e per la regia di Daniele Salvo, con Daniele Pecci (Edipo re), Laura Marinoni (Giocasta), Maurizio Donadoni (Creonte, fratello di Giocasta), Ugo Pagliai (l'indovino Tiresia), Mauro Avogadro (Servo di Laio e Sacerdote) e Francesco Biscione (primo Nunzio). Per il Coro, l'Accademia d'Arte del Dramma Antico della Fondazione Inda ha reso disponibili i suoi allievi del primo corso.

Il noto attore televisivo e cinematografico Daniele Pecci è un giovanile, bruno e vigoroso, Edipo re; ha confessato l'attore: «Per un attore teatrale Edipo è uno dei pilastri su cui poggiare la propria  carriera, un'occasione che capita una volta nella vita. […] Ho cominciato questo mestiere con il teatro classico. Debuttai, venticinque anni fa, proprio in un Edipo dove ero l'ultimo dei personaggi. Credo che l'Edipo re sia la più bella tragedia, il più grande personaggio. Sofocle è l'autore più potente, per me è un sogno che si realizza. […] Al cinema basta un primo piano per arrivare allo spettatore, puoi, in  un certo senso, permetterti di essere più passivo. Invece il teatro è una forma  attiva di recitazione. L'attore deve penetrare lo spazio e il tempo e imporsi  con una forza diversa. Con Daniele Salvo, il regista, non ci siamo posti l'obiettivo di essere originali a tutti i costi. Dopo la lettura del testo  abbiamo deciso di puntare sull'aspetto dispotico del personaggio, piuttosto che sul lato vittimistico, quasi precristiano. Quella di Edipo è una tirannide arcaica, violenta, ruvida. […] Ha una presenza fisica imponente, lo abbiamo dotato di atleticità e forza fisica. […] Come da copione il nostro Edipo è zoppo. […] Salvo ha molta esperienza, mi sono completamente affidato alla sua visione registica, l'ho seguito in tutto. […] Spero che sia un trionfo, che al pubblico piaccia il mio Edipo e che la produzione e il regista restino contenti"» (a cura di Livianna Bubbico,
http://www.repubblica.it/spettacoli/teatro-danza/2013/05/09/news/daniele_pecci_basta_soap_ora_faccio_edipo_a_siracusa-58416275/).

Il regista è l'emiliano Daniele Salvo (grande attore e in passato aiuto regista di Luca Ronconi), esperto di Sofocle, avendo già presentato nel 2009 Edipo a Colono (2009) con Giorgio Albertazzi e Aiace (2010) con Maurizio Donadoni (spettacolo per il quale è stato premiato con un Premio Golden Graal per la sezione dramma). Salvo ha sottolineato che «si tratta di una tragedia complessa basata molto sull’inconscio e dalla matrice prettamente  freudiana» e ha precisato di aver voluto lavorare molto «sulla credibilità, sulla verità profonda del testo».

In una sua intervista rilasciata durante le prove dello spettacolo, con riferimento a Sofocle, Daniele Salvo ha detto: «È un autore molto interessante, molto complesso e che si presta a interpretazioni molto estreme e differenziate.»; ha precisando inoltre di aver voluto fare di “Edipo re” una «versione molto poco ortodossa», simile alle «visioni anamorfiche» dei quadri di Salvador Dalì o di Holbein, allineando dentro il testo «due o tre interpretazioni diverse» e lasciando agli spettatori la possibilità di sceglierne una. Salvo ha accennato a una «Tebe omertosa» e a un'«ambiguità del testo» (tutti fingono di non sapere nulla ma in realtà tutti, inclusi Edipo e Giocasta, seppure inconsciamente, sanno), e al suo desiderio di condurre lo spettatore al centro di un incubo, al centro di un sogno che ha la dimensione freudiana di un'auto-analisi. Spinto dagli oracoli, Edipo va alla ricerca di sé, nel tentativo di scoprire il mistero dell'uomo ma il mistero dell’uomo in realtà non viene risolto (in modo onirico Salvo usa lo spettro della sfinge per dimostrare che non è stata sconfitta) ed Edipo soltanto alla fine, nel dolore e nella sofferenza, conquisterà la consapevolezza. Parlando di Pecci, il suo protagonista, ha detto Daniele Salvo: «con Daniele io intendevo fare un Edipo molto giovane, un Edipo molto dinamico», che ha con la madre - ancora molto femminile - un rapporto sensuale. Ha anche focalizzato nello spettacolo teatrale al Teatro Greco «la ricerca recitativa», l'importante «rapporto con la musica» e la sua collaborazione con Marco Podda, «uno scienziato che studia gli effetti del suono sulla psiche umana», ponendo la musica al servizio del linguaggio in un coinvolgimento emotivo di tutto il pubblico, che a Siracusa è quanto mai eterogeneo. Ha concluso Salvo: «Tutti gli artisti impegnati qui stanno portando la loro forza, la loro dedizione, la loro fatica, perché appunto si prova tantissime ore, di notte, al Teatro Greco, con il massimo impegno»
(http://www.teatro.org/rubriche/interviste/daniele_salvo_dirige_l_edipo_re_di_sofocle_per_la_stagione_2013_dell_inda_36791).

Gerardo Marrone, nel suo articolo “Edipo Re torna a far vibrare il teatro greco di Siracusa”, così scrive: «L'inesorabile onnipotenza del Fato, la forza devastante della verità, la precarietà della condizione umana. La Tragedia greca, insomma. O quella “summa” scritta da Sofocle, l'Edipo Re, che ieri è tornata a far vibrare la platea del teatro antico di Siracusa. […] Allestimento coinvolgente, dai ritmi sempre elevati e dall'imponente scenografia, questo Edipo Re per la regia di Daniele Salvo. […] Potente la prova di Ugo Pagliai che è il vecchio Tiresia, efficace il protagonista Daniele Pecci, suggestiva Melania Giglio nello Spettro della Sfinge» (http://www.gds.it/gds/multimedia/home/gdsid/260537/.

L'Edipo re, ritenuta il capolavoro di Sofocle, ebbe la sua prima assoluta nel 430-420 a.C. circa, presso il Teatro di Dioniso in Atene. La tragedia è inserita nel “ciclo tebano” (la storia mitologica della città di Tebe) e la ben nota è la drammatica vicenda, come ben noto è l'amaro destino di Edipo, figlio del sovrano di Tebe, Laio, e di Giocasta, destinato dal fato a uccidere il padre e a sposare la madre. Allertato da un oracolo, Laio decide la morte del figlio neonato ma un servo lo salva, abbandonandolo sul monte Citerone, ove sarà nutrito da un pastore e adottato dal re di Corinto. Dopo molte prove il destino si realizza e, senza saperlo, Edipo uccide il padre sconosciuto per via e sposa Giocasta, rendendola madre di quattro figli. Con orrore Edipo scoprirà, in un sol giorno, di avere ucciso inconsapevolmente il padre e di averne sposata la vedova (che, sconvolta, si uccide per il dolore, il rimorso e la vergogna). Tramortito dalla rivelazione, Edipo si acceca e, accettando l'esilio, si muove verso Colono lungo un tragico percorso di espiazione (i brani della tragedia da me citati sono tratti dalla versione di Ettore Romagnoli, ved.  http://www.filosofico.net/edipresofocle42.htm).

La scena si svolge sulla piazza dinanzi alla reggia d'Edipo mentre una grande moltitudine di gente, bambini, giovani e vecchi, si aduna dinanzi alla reggia, portando rami avvolti da bende di lana e lamentandosi. Sulla soglia della reggia appare Edipo, che è divenuto l'amato re Tebe perché ha saputo rispondere correttamente all’enigma della Sfinge, liberando la città dal terribile mostro saggio ma devastante. Nel Prologo Edipo si trova a dover combattere una tremenda pestilenza che affligge Tebe: «[…] / perché veniste? Per pregare? O quale / terror vi spinse? Ad ogni modo io voglio / darvi soccorso: se di tante preci / non sentissi pietà, non avrei cuore!». Il Sacerdote così lo informa: «[…] La città, / come tu stesso ben lo vedi, troppo / è già sbattuta dai marosi, e il capo / più non riesce a sollevar dal baratro / del sanguinoso turbine: distrutti / i frutti della terra ancor nei calici: / distrutti i bovi delle mandrie, e i parti / delle donne, che a luce più non giungono: / e il dio che fuoco vibra, l'infestissima / peste, su Tebe incombe, e la tormenta, / e dei Cadmèi vuote le case rende: / sì ch'Ade negro, d'ululi e di pianti / opulento diviene. […] / […] Or, tutti vòlti, / Èdipo, a te, che sommo sei nell'animo / di tutti, or ti preghiamo: per noi trova / qualche soccorso: […] / […] Or via, sommo fra gli uomini, / rimetti in piedi Tebe! A lei provvedi!». Edipo, che soffre al pari del suo popolo  e che ha versato molte lacrime, ha mandato Creonte, il fratello della regina Giocasta, a interrogare l’oracolo di Delfi sulle cause di quell'orrenda epidemia: «[…] mio cognato, il figlio / di Menecèo, Creonte all'are pitiche / mandai d'Apollo, a chiedere che debba / io fare o dire a salvazion di Tebe. / […]». Al suo ritorno, Creonte informa che la città è stata contaminata per l'uccisione di Laio, il precedente re di Tebe, rimasta invendicata ed Edipo si scaglia minaccioso contro l'ignoto responsabile: «Il bando; o riscattar sangue con sangue: / ché sangue sparso la città travaglia. / […] / Apollo chiaramente ora c'impone / gli assassini punir, quali che siano.». Nel tempo in cui Tebe era sotto l'incubo della Sfinge, Laio era voluto andare a Delfi ma lungo la strada era stato assalito da briganti; il suo assassino vive però ancora nella città, la cui prosperità non è più possibile se non identificando ed esiliando il colpevole. Edipo si dice pronto a tutto per ritrovare l'assassino di Laio.

Ventiquattro vegliardi entrano con lenti passi ritmici e misurati nel canto, e si collocano intorno all'altare di Diòniso. Il Coro degli anziani tebani, canta una preghiera agli dei perché intervengano per proteggere la città. Durante le ultime parole del Coro, Edipo esce dalla reggia, esigendo che chi sa parli: «Fra i cittadin di Tebe ultimo io giunto, / a voi tutti, o Cadmèi, questo proclamo. / Chi di voi sa da quale man fu spento / Laio, il figlio di Làbdaco, gl'impongo, / che tutto a me disveli. E se l'accusa / contro se stesso alcun per tema asconde, /   sappia che nessun male ei patirà, / e illeso andrà da questo suolo in bando.». Proclama un per chi ha ucciso Laio e per chi protegga o nasconda l'assassino un bando d'esilio: «Questo a voi tutti che facciate impongo, / per me stesso, pel Dio, per questa terra / senza più frutti, senza Iddii perduta. / […] / […] Ed or, poi che le redini / ch'ei già reggeva, io reggo, ed il suo letto / posseggo, e la sua donna; e i figli miei / comuni avrei coi figli suoi, concetti / da un medesimo grembo, ove il suo talamo / fosse stato fecondo - ma su lui / balzò la mala sorte: - ora per lui / come pel padre mio combatterò, / ogni via correrò, tentando cogliere / chi le man tinse nel sangue di Laio.».

Il Coro suggerisce al re d'interrogare Tiresia: «So che Tiresia ciò che vede Apollo / anch'egli vede: oh sire, chi l'interroghi, / ben chiaro può saper tutto ch'ei brami.». Ed entra Tiresia, vecchissimo e cieco, guidato per mano da un bimbo; a lui il re vuol chiedere di svelare l'identità dell’assassino. Egli però si rifiuta di rispondere, perché ritiene più saggio tacere per non provocare altre terribili sventure: «Ahi, ahi! Sapere quanto è duro, quando / a chi sa nulla giova! Io ben sapevo, / ed obliai. Venir qui non dovevo. / […] / Lasciami andare! Ci sarà più facile / compier così tu ed io la nostra sorte. / […] / E tutti siete dissennati! I mali / miei non dirò: ché i tuoi svelar dovrei! / […] / Né te né me crucciare voglio. A che / dimandi invano? Io nulla ti dirò. / […] / Oltre non parlerò! Sappilo, e accenditi, / […] / sin che tu vuoi, dell'ira più selvaggia.». . Edipo si adira e ordina a Tiresia di parlare. ma il vecchio si rifiuta, facendo aumentare la collera del re. A questo punto Tiresia accusa Edipo di essere l’assassino di Laio:  «Davvero? Io d'obbedir t'intimo al bando / ch'hai promulgato, e che da questo giorno / non rivolga parola a me né a questi: / ché tu di Tebe sei l'empia sozzura.». Il re è indignato oltremisura e gli dice che non potrà salvarsi da quell'accusa ma Tiresia gli risponde: « Salvo già sono! È la mia forza il vero. / […] / Dico che tu sei l'uccisor che cerchi. / […] / Coi tuoi più cari in turpe intimità / vivi, e nol sai: né il male ove sei scorgi.».

Indignato Edipo accusa Tiresia: «cieco di mente sei, d'occhi e d'orecchi / […] / Tutta una notte è la tua vita: e me / danneggiare non puoi, né alcun veggente.». Egli comincia a sospettare che Creonte e Tiresia abbiano ordito una trama diabolica per buttarlo via dal trono e che Creonte occultamente manovri Tiresia: «questo stregone, cucitor d'insidie, / ciurmador frodolento, che ben vede / solo nel lucro, e che nell'arte è cieco!». Tiresia se ne va, profetizzando che alla fine di quello stesso  giorno il colpevole verrà scoperto e che come un mendicante cieco si allontanerà in esilio verso una terra straniera: «E poi che tu vituperi la mia / cecità, parlerò. Tu aperti hai gli occhi, / eppur non vedi in che sciagure sei, / né dove abiti, né chi sono quelli / che vivono con te. Dimmi: sai forse / da chi sei nato? Dei tuoi cari, o vivi / sopra la terra, o già sotterra, tu / sei l'inimico, e non lo sai. / […] / […] Ora parto, e ti dico: / l'uom che cercando vai, spacciando bandi / per la morte di Laio, e minacciando, / quell'uom è qui: metèco e forestiero, / ora si crede; e invece si vedrà / ch'egli è tebano: né di tal ventura / s'allegrerà: ché, da veggente fatto / cieco, da ricco povero, tentando / il suolo col bordone, andrà fuggiasco / sovra terra straniera; e si vedrà / che vive insiem coi figli suoi, fratello / e padre, insieme con la donna ond'egli / nacque, figliuolo e sposo; e ch'è del padre / suo l'assassino, e nel suo solco semina.».

Tiresia si allontana ed Edipo rientra nella reggia. Il Coro prima immagina la fuga dell'«ignoto assassino», inseguito sia dagli uomini sia da Giove e dalle Parche, ma poi decide di non ascoltare le parole di Tiresia, poiché non è infallibile nemmeno il grande indovino. Si presenta Creonte, che ha saputo che Edipo lo crede responsabile di una cospirazione, e appare Edipo che lo accusa apertamente e con toni sempre più violenti: Creonte si trovava a Tebe con Tiresia, quando Laio era stato ucciso: «Immaginavi tu ch'io non vedessi / strisciar la frode, o, vistala, indugiassi / a rintuzzarla? Ah! Ma fu pazza impresa / la tua, senza partito e senza amici / dar la caccia al poter, che si conquista / sol con molte dovizie e molta gente.». Con pacatezza Creonte gli risponde di non aver avuto mai interesse al trono: «Questo prima considera. Chi v'è / che comandare fra i terrori elegga, / piuttosto che dormir sonni tranquilli, / se uguale impero aver potrà? Non io, / né alcuno ch'abbia senno, eleggerà / esser sovrano, invece che potere / ciò che un sovrano può. Tutto or da te, / senza terrore, io ciò che bramo ottengo: / qualora io fossi re, contro mia voglia / dovrei pur fare molte cose. E come / chiamarmi re, più dolce mi sarebbe / che poter senza crucci? Oh tanto folle / non sono ancor, ch'io cerchi altro che il bene / con l'utile congiunto. Ora da tutti / son prediletto; ognuno a me s'inchina; / chi bisogno ha di te, blandisce me: / ché per essi impetrar tutto posso io. / Il mio stato col tuo perché mutare? / […] / […] Ma prima / ch'io mi difenda, non lanciar l'accusa / in causa ambigua; ché non è giustizia / reputar buoni i tristi, e tristi i buoni. / E gittar via l'amico fido, è come / gittar la propria, la diletta vita. / Col tempo d'ogni cosa avrai certezza: / ché solo il tempo saggia l'onestà: / a conoscere il tristo un giorno basta.».

A quel punto giunge dalla casa Giocasta, sorella di Creonte e vedova di Laio, ora moglie di Edipo, per mezzo della quale forse è possibile comporre lite: «O sciagurati, a che questa contesa / di parole, demente? E non v'è scorno, / mentre su Tebe tal malore incombe, / guai privati eccitare? Or tu, rientra: / e tu, Creonte, alla tua casa torna: / non rendete gigante un mal da nulla!». Giocasta invita il marito a non dare ascolto né a oracoli né a indovini: anche Laio aveva ricevuto una profezia che gli preconizzava l'uccisione da parte del figlio mentre era stato assassinato da alcuni banditi sulla strada per Delfi, là dove si incontravano tre strade: «[…] Un giorno, / giunse a Laio un oracolo, non dico / d'Apollo stesso, ma dei suoi ministri, / ch'era destino a lui spento morire / per man del figlio che da me nascesse. / E invece, lui, come ognun sa, l'uccisero / in un trivio i ladroni; ed il fanciullo, / non corsero tre dì dalla sua nascita, / e, avvinghiatigli i piedi alle giunture, / per mano d'altri, il padre lo gittò / su monte impervio. Ed Apollo non fece / né che quello uccisor del padre fosse, / né che dal figlio suo ciò che temeva / Laio patisse: e ciò pur decretavano / le profetiche voci. […]».

Nel sentir le parole di Giocasta, Edipo si sgomenta e chiede di poter sentire il testimone dell’omicidio di Laio, un servo che era riuscito a mettersi in salvo che adesso vive lontano da Tebe, pascendo le greggi nei campi. Alla regina, che chiede al marito la causa di quel turbamento, Edipo risponde raccontando che, quando era il principe ereditario di Corinto (figlio del re Polibo), l’oracolo di Delfi gli aveva predetto «miseri, atroci, orridi eventi»: «ch'io giacerei con mia madre, e darei / la vita ad una stirpe intollerabile / ad ogni gente; e diverrei del padre / ond'io m'ebbi la vita, l'assassino». Per evitare che la profezia potesse avverarsi con l'uccisione di Polibo, sconvolto, Edipo era fuggito lontano dalla terra corinzia ed era giunto a un trivio, sulla strada tra Delfi e Tebe: «Così, peregrinando, alla contrada / giunsi, ove dici che fu spento il re.». Lì aveva litigato con un uomo che lo aveva preso a randellate, uccidendolo. Temeva che quell'uomo fosse Laio: «[…] Or, se Laio / e lo straniero son tutt'uno, chi / più misero di me, più inviso ai Numi? / Niuno dei cittadini e niun degli ospiti / può ricevermi in casa o favellarmi, / ma mi deve scacciare. E lo scongiuro, / io, non già altri, contro me lanciai: /  io, con le mani mie che gli diêr morte, / il letto dell'ucciso ora contamino. / Ah, ch'io non vegga, oh reverenza somma / dei Numi, ah, ch'io non vegga un giorno simile! / Via sparisca dal mondo, anzi ch'io scopra / di sciagura su me macchia sì turpe!».

Il Corifeo invita Edipo a non arrivare a conclusioni affrettate, sentendo prima il pastore, testimone dell’omicidio: s'egli parla di molti ladroni e non di un solo uomo, Edipo sarà salvo! Edipo e Giocasta rientrano nella reggia e il Coro appare turbato dall'incredulità di Giocasta dinanzi agli oracoli e si lancia in un ammonimento contro coloro che non venerano gli dei e che pretendono di violare le leggi eterne degli dei: là ove gli uomini non riconoscono più la giustizia divina e cedono alla tracotanza, là si nasconde la tirannide del despota. Dalla reggia esce Giocasta, seguita dalle sue ancelle che recano fiori e cassette d'aromi da ardere sull'ara per Apollo: «Tu a noi matura qualche esito lieto, / ché noi, vedendo sbigottito l'uomo / che la nave reggea, tutti tremiamo.».

Giunge, intanto il messo da Corinto, un vecchio pastore, che si rivolge ai vecchioni del Coro, informandoli che Edipo diverrà re, perché Polibo è morto consunto dalla malattia («ché lo serra entro la tomba morte»). Giocasta manda l'ancella ad avvertire Edipo della notizia: «Ancella, e non t'affretti? Entra, e la nuova / reca al signore! - Oracoli del Nume, / dove siete? Da lungo tempo Edipo / quell'uom fuggiva trepidando sempre / che ucciderlo dovesse; e quegli or muore / naturalmente, e non per mano sua!». L'ancella etra in casa ed esce Edipo che si consola, apprendendo che il padre non è morto per mano sua: «Veh, veh, Giocasta! A che più la fatidica / fiamma di Pito consultare, e i gridi / degli uccelli, onde a me venne il presagio / che ucciderei mio padre! E questi or, morto / giace sotterra; ed io son qui; né arma / ho toccata - se pur non l'avrà spento / brama di me: ché per ciò solo, spento / da me dirlo potresti. Ed ora Pòlibo /  giace vicino all'Ade, ed i responsi / scemi d'ogni valore ha seco addotti.». Per quel che riguarda la profezia su sua madre («le nozze materne» con Mèrope, la consorte di Pòlibo), il messo rassicura Edipo, dicendogli che trema a torto perché i sovrani di Corinto non erano i suoi genitori naturali; infatti, erano senza figli ed Edipo è stato adottato, e il messo può testimoniarlo con certezza perché - pastore sul monte Citerone - proprio lui aveva ricevuto Edipo neonato da un servo di Laio e lo aveva portato a Corinto. A questo punto Edipo sente vicina la scoperta delle sue origini e convoca il servo di Laio, un mandriano che è lo stesso che avrebbe potuto testimoniare sull'assassinio di Laio. Giocasta, che ha ormai compreso tutta la verità, supplica Edipo di lasciar stare le sue ricerche ma non viene ascoltata: «Non cercar più, no, per gli Dei, se cara / t'è la tua vita! Il mal ch'io soffro basti! / […] / Dammi ascolto, ti prego! Non far ciò! / […] / So quel che dico! Il meglio io ti consiglio. / […] / Ah! chi tu sei, mai tu non sappia, o misero! / […] / Ah, sciagurato, sciagurato! Posso / dirti questo soltanto, e nulla più.». La donna esce disperata. Edipo desidera invece conoscere le sue origini: «Sarà quel che sarà! Ma ben voglio io / conoscere il mio sangue: e sia pur vile. / Essa, che, vera donna, è tutto orgoglio, / arrossirà della mia bassa nascita: / io non m'adonterò: figlio mi reputo / della Fortuna, che mi fu propizia.». Rientra nella reggia.

Il Coro è pieno d'esultanza perché Edipo sembra ormai vicino a conoscere le proprie origini, e celebra il monte Citerone «quale madre d'Edipo, quale nutrice e patria». Intanto arriva il vecchio mandriano, servo che «era, quanto altri mai fedele a Laio», atteso da Edipo con grande impazienza. Il re lo mette a confronto con il messo venuto da Corinto e lo tempesta di domande; il messo rammenta al mandriano che gli aveva dato un bimbo perché l'allevasse come suo e, accennando Edipo, osserva: «Questi è colui che allora era bambino». Il servo tergiversa e intima al messo di stare zitto ma ormai Edipo vuol sapere tutta la verità e lo pressa e lo minaccia. Il servo conferma allora di avere avuto il pargolo, figlio di Laio, dalla madre stessa con l'ordine del padre di ucciderlo, in quanto - in accordo con una profezia - il figlio avrebbe ucciso il padre (la stessa Giocasta avrebbe potuto confermarglielo). Per pietà il servo, però, non l’aveva ucciso e l’aveva invece consegnato al pastore che l’aveva portato a Corinto: «Per la pietà, mio re, ché ti portasse / in altra terra, nella terra sua! / E a più gran male ei ti salvò: ché misero / sei, se colui che questo dice, sei!». A questo punto l’intera vicenda è chiara e, pieno d'orrore, Edipo fugge entro la reggia urlando: «Ahimè, ahimè! Tutto è già chiaro! Luce! / In te m'affisi per l'ultima volta! / Ch'io da chi non dovea nacqui, convivo / con chi non devo, e ucciso ho il padre mio!».

Arriva il Coro degli anziani tebani che compiangono la triste sorte di Edipo, re stimato ma autore involontario di atti tremendi e orribili: «Or, chi di lui più misero? / Chi s'ebbe ugual retaggio, / nel tramutar del vivere, / di cordoglio selvaggio? / Edipo, inclito principe, / a qual porto fatale!, / a un letto nuzïale, / padre e figlio, sei giunto.». Non vorrebbero mai averlo conosciuto, tanto è spaventosa la pietà che suscita in loro la sua tragica vicenda: «Ahimè, figlio di Laio, / mai non t'avessi visto!».

Dalla reggia esce intanto un servo, che mostra i segni del più vivo terrore e che si rivolge al Coro, annunciando che Giocasta si è impiccata: «Giocasta, sangue dei re nostri, è spenta! / […] / Ella si uccise. Ma di ciò che avvenne / manca il più crudo: ché la vista manca. / Pur, quanto la memoria ancor mi vale, / i tormenti saprai di quella misera.». Dopo aver visto ciò, Edipo, schiantato, s'era accecato con la fibbia della sua veste: «[…] Ed ei, come la scòrse, / con un orrendo mugolo, meschino, / calò la salma appesa. E poi che a terra / giacque, vedemmo un orrido spettacolo. / Le fibbie d'oro onde sostegno avevano / le vesti della donna, svelse, ed alte / le sollevò su le pupille, e in queste / le conficcò, perché, disse, mai più / non vedessero i mali ond'ei fu reo, / né quelli che patì, ma d'ora innanzi, / solo nel buio in quelli si affiggessero / che non dovean veder, né conoscessero / chi conoscer bramavano. Così / impreca, ed una volta, e più, solleva / le palpebre, e le fora; e le pupille / sanguinolente bagnano le guance: / […] / Ahi! Fu l'antica / vera felicità; ma ora, gemiti, / morte, sciagura, vituperio, cerca / quanti nomi ha sciagura, e niuno manca.». Compare allora Edipo accecato, condotto per mano da un servo e accompagnato dalla lamentazione del Coro che racconta come abbia compiuto quell'atto perché non gli è dolce vedere nulla, dato che ormai è un uomo maledetto e aborrito dagli dei. Edipo si lagna di non esser morto bambino e maledice: «Muoia chi, sciolti dai selvaggi vincoli / i piedi miei, me trasse a salvamento, / e mi raccolse, ahimè, non pel mio bene! / Se quel giorno ero spento, / né a me né ai cari causa sarei di tante pene. / […] / Né l'uccisor sarei / del padre, e non direbbero / me di colei che madre ebbi, consorte.». Arriva adesso Creonte, tenendo per mano le due figliuole d'Edipo, Antigone ed Ismene, e - dinanzi alla disperazione di Edipo - lo invita a riporre la sua fiducia nel dio Apollo. Edipo abbraccia le sue bambine, piangendo sulla loro sorte infelice in quanto progenie di nozze incestuose: «Figlie mie, dove siete? Oh, qui venite, /  a queste mie mani fraterne: […] / […] / E per voi piango: e guardar non vi so, / pensando il resto dell'amara vita / che trascorrer fra gli uomini dovrete. / […] / Quale sciagura manca? Il padre vostro / fu del padre uccisore, il campo arò / ov'ei fu seminato, e n'ebbe figlie / dal grembo istesso ond'ei vide la luce. / Tale obbrobrio udirete. E chi sposarvi / vorrà? Nessuno, oh figlie! E senza nozze / e senza figli vi dovrete struggere. / […] / Or questo voto io fo per voi. Dovunque / conduciate la vita, oh, miglior sorte / a voi che al vostro genitore arrida.». Edipo chiede infine a Creonte di volerlo esiliare: «Presto da questa terra via discacciami, / dove niun sia che a me rivolga mente. / […] / Era già chiaro il suo responso: togliere / di mezzo me, l'impuro, il parricida. / […] / Via di qui scacciami.». Edipo lascia le figlie e Creonte lo conduce entro la reggia. E la tragedia finisce con il Coro che abbandona l'orchestra piangendo il destino di Edipo: «Or, mirando questo giorno luttuoso, non far stima / che beato sia veruno degli effimeri, se prima / scevro d'ogni orrido male - non sia giunto al dì fatale.».

Il Fato cieco e inesorabile ha rivelato l'estrema fragilità dell’esperienza umana ed Edipo è passato dall'apice dell'amore del suo popolo e del potere al fondo dell'abiezione più bassa, nonostante abbia fatto tutto il possibile per contrastare la profezia, abbandonando gli amati genitori e cambiando vita e città. E questo conflitto tra predestinazione (e volontà divina) e tra libertà (e responsabilità personale), quest'antitesi magia-tabù ancestrali e razionalità-intelligenza rende più amara la tragedia! Infatti a nulla servono tutte le precauzioni di Edipo e il passaggio dalla felicità all'infelicità avviene inevitabilmente, senza malvagità ma per errore, anche se può cogliersi in Edipo una superba tracotanza nel voler arrivare alla conoscenza, al di là di certi limiti invalicabili. Ed Edipo si acceca perché Tiresia, attraverso la sua cecità, riusciva a vedere il Vero mentre Edipo, attraverso i suoi occhi, era riuscito a vedere soltanto illusioni e falsità.

Questa tragedia è servita allo psicoanalista Sigmund Freud per spiegare il complesso di Edipo, cioè la pulsione di possesso e sessuale del bambino per la madre e l'inconscio desiderio di morte e di sostituzione nei confronti del padre.