sabato 22 dicembre 2012

Charles Laughton, “cattivo” immenso e indimenticabile


Charles Laughton


Cinquanta anni addietro, il 15 dicembre del 1962, moriva a Hollywood Charles Laughton, grande e versatile attore inglese (il più popolare degli anni Trenta), che ha spaziato dal genere avventuroso al dramma e alla commedia, dal genere biografico allo storico e al fantastico, dal grottesco all'horror e al noir, ma anche regista cinematografico e teatrale. Si guadagnò l'Oscar come miglior attore nel 1934 a soli trentacinque anni.

è stato scritto: «Come altri caratteristi degli anni Trenta divenne un divo che gareggiò in popolarità con gli idoli–rubacuori dello schermo: Gary Cooper, Ronald Colman e Clark Gable.» (Charles Laughton, un impareggiabile cattivo, ne “Il Cinema – Grande storia illustrata”, Ist. Geografico De Agostini, Novara 1981).

Di origini irlandesi e cattoliche per parte di madre, nacque a Scarborough (Yorkshire) il 1° luglio del 1899 (i genitori erano proprietari di un hotel) e studiò presso un collegio di Gesuiti ove fu sottoposto a un'educazione tanto rigida da influenzare la perdita della fede e il suo temperamento. Si può dire che avesse un innato talento per il teatro; infatti, lo amò sin da bambino e più tardi volle studiare alla prestigiosa “Royal Academy of Dramatic Art” di Londra. Si fece notare debuttando nel 1926 con L'ispettore generale (The Revizor) di Gogol' (era Osip), proseguendo con Hercule Poirot in Alibi (1928) adattato dal romanzo “The Murder of Roger Ackroyd” di Agatha Christie (Charles fu il primo attore a interpretare il personaggio del detective belga); seguirono il Giardino dei ciliegi e Le tre sorelle di Anton Cechov, e le mirabili interpretazioni in quattro importanti spettacoli teatrali di Shakespeare per il mitico teatro londinese Old Vic (interpretò Macbeth, Enrico viii, Angelo e Prospero). Nel 1936 fu a Parigi alla Comédie-Française, ove interpretò Sganarelle nella commedia di Molière's Le Médecin malgré lui, primo attore inglese a ricevere quella parte e a ottenere una vera ovazione (il suo francese era perfetto grazie al servizio militare prestato sul fronte occidentale durante la guerra). Si dedicò, inoltre, a spettacoli di autori contemporanei.

Notato dal cinema, dopo aver interpretato Piccadilly (1929) di E.A. Dupont, il suo primo film  (era un antipatico frequentatore di locali notturni), fece la gavetta in parti di scarso rilievo e in pellicole di serie B. Nel film storico Il segno della croce (The Sign of the Cross) (1932) di Cecil B. De Mille diede però sangue e corpo a un superbo Nerone. De Mille disse che Laughton  aveva giocato col personaggio di Nerone non prendendolo sul serio (gli conferì petulanza e puerilità, stoltezza e viziosità) e lo stesso Laughton –  che era un attore insicuro, ansioso e insoddisfatto circa i risultati della sua recitazione, e che lo fu sempre – disse di essersi ispirato a Mussolini, aggiungendo: «Cecil B. De Mille intendeva Nerone come una personalità forte, un dominatore. Io lo intesi in maniera assolutamente opposta: un uomo la cui raffinatezza non faceva che aumentare l'orrore delle orge organizzate in suo onore.». Il film ebbe un successo grandissimo: «La sua interpretazione impressionò tanto il pubblico che l'immagine del monarca divenne per gli spettatori sinonimo di dissolutezza, di un libertino poligamo, senza alcun ritegno, che urla “le buone maniere e l'etichetta appartengono al passato… il galateo è morto”.» (Charles Laughton, un impareggiabile cattivo, ne “Il Cinema – Grande storia illustrata”, Ist. Geografico De Agostini, Novara 1981).  Come ha scritto Joe Denti: «Il successo fu internazionale, grazie anche allo scalpore che fece il film dove si poteva vedere la sensuale Claudette Colbert, nei panni di Poppea, immergersi senza veli in una vasca colma di latte.» (http://www.iospio.it/master.php?pagina=notizia.php&id_notizia=4622).

Negli anni seguenti l'attore viaggiò di continuo tra gli Stati Uniti e l'Inghilterra. Fu uno stupendo Enrico viii nel film Le sei mogli di Enrico viii (The Private Life of Henry viii) (1933) di Alexander Korda, che gli valse appunto il premio Oscar, ed ebbe al suo fianco la celebre attrice inglese Elsa Lanchester (conosciuta mentre girava una serie di cortometraggi, di cui lei era la protagonista, e sposata nel 1929) e fu l'inizio di un prezioso sodalizio artistico e di vita. Con lo stesso Alexander Korda girò L'arte e gli amori di Rembrandt (Rembrandt) (1936). Fu anche l'interprete dell'ossessivo, viscido e prepotente padre di Elizabeth Barrett, Edward Moulton-Barrett, ne La famiglia Barrett (The Barrets of Wimpole Street) (1934) di Sidney Franklin (da segnalare una curiosità: Laughton aveva soltanto tre anni in più di Norma Shearer, che interpretava sua figlia).

Gli si aprirono allora le porte del cinema migliore, comprese quelle di Hollywood (firmò un contratto con la Paramount) ove nel 1932 apparve in almeno sei film, inclusa la cupa storia di amore e odio de Il diavolo nell'abisso (The Devil and the Deep), nella quale: «Il suo personaggio era contraddistinto dall'autoritarismo e dalla tracotanza, caratteristiche che dovevano rivelarsi “su misura” per la carriera di Laughton attore.» (Charles Laughton, un impareggiabile cattivo, ne “Il Cinema – Grande storia illustrata”, Ist. Geografico De Agostini, Novara 1981). Fu, quindi, Micawber in David Copperfield (1935) di George Cukor; l'inesorabile ispettore Javert ne Il sergente di ferro (Les misérables) (1935) di Richard Boleslawski (Lewis Milestone, che nel 1952 ne girò il remake con un  misurato Robert Newton nel ruolo di Javert, disse: «L'interpretazione di Laughton è passata alla storia, al di là delle critiche, ma io la ritengo pessima. Esagerata in tutto.»); il terribile capitano William Bligh ne La tragedia del Bounty (Mutiny on the Bounty) (1935) di Frank Lloyd insieme a Clark Gable (la sua interpretazione fu ricca di sfumature e di sadismo ma mitigata da un che di solitario e malinconico); l'ambiguo capo dei pirati Sir Humphrey Pengallan (un giudice di pace della Cornovaglia che nascondeva accuratamente le sue losche attività) ne La taverna della Giamaica (Jamaica Inn) (1939) di Alfred Hitchcock, basato su una storia di Daphne du Maurier e coprodotto dallo stesso Laughton insieme a Erich Pommer (col quale aveva creato la Mayflower Pictures); e un eccezionale, irriconoscibile e struggente gobbo Quasimodo in Notre Dame (The Hunchback of Notre Dame) (1939) di William Dieterle con Maureen O'Hara, insieme alla quale recitò anche in Questa terra è mia (This Land is Mine) (1943) di Jean Renoir, interpretando il mite maestro elementare Albert Lory pronto a difendere la sua patria.

Fu indimenticabile nel ruolo del perverso magistrato Lord Thomas Horfield nel capolavoro giudiziario Il caso Paradine (The Paradine case) (1947) di Hitchcock con Alida Valli e Gregory Peck; in quello di un inedito commissario Jules Maigret nel poliziesco L'uomo della Torre Eiffel (The Man on the Eiffel Tower) (1948) di Burgess Meredith – suo primo film a colori –; nel ruolo del magnate dell'editoria «petulante e grossolano, caparbio nella sua intransigenza, anche se patetico» nel film Il tempo si è fermato ( The Big Clock) (1948) di John Farrow; e nel ruolo sofferto del calzolaio ubriacone Salford nel film Hobson il tiranno (Hobson's Choice) (1954) – forse una delle sue migliori interpretazioni – del grandissimo regista inglese David Lean (quello, per intenderci, di Breve incontro, Laurence d'Arabia, Il dottor Zivago e La figlia di Ryan). Seguirono altri successi. Fu nuovamente Enrico viii ne La regina vergine (Young Bess) (1953) di George Sidney; fu il malandato ma capace avvocato difensore sir Wilfrid Robarts, affiancato dalla moglie Elsa Lanchester nel ruolo dell'asfissiante infermiera (ruoli per i quali entrambi furono candidati all'Oscar), nel thriller giudiziario Testimone d'accusa (Witness for Prosecution) (1957) di Billy Wilder con Marlene Dietrich e Tyrone Power; fu il saggio e onesto patrizio Sempronio Gracco nel film storico Spartacus (1960) di Stanley Kubrick con Laurence Olivier; e fu infine il senatore del Sud Seabright Cooley nel drammatico Tempesta su Washington (Advise & Consent) (1962) di Otto Preminger con Walter Pidgeon e Henry Fonda (il suo ultimo film, prima che un tumore renale ponesse fine alla sua vita quando aveva soltanto sessantatre anni).

Laughton, intanto, non aveva trascurato il teatro: nel 1947 era stato un indimenticabile Galileo Galilei in Vita di Galileo di Brecht, diretto dal grande Joseph Losey, e aveva interpretato diversi testi di George Bernard Shaw e di Shakespeare. Diresse, inoltre, molti spettacoli teatrali a Broadway. Numerose furono negli anni le sue incisioni discografiche di testi recitati (inclusi brani della Bibbia) e le sue partecipazioni televisive sin dal 1956.

Volle misurarsi con la regia cinematografica con il film La morte corre sul fiume (The Night of the Hunter) (1955), che sorprese il pubblico e la critica per la sua originalità, un noir angoscioso e misogino in cui raccontava l'incubo di due ragazzini perseguitati dalla psicopatia del pastore protestante Harry Powell (aveva ucciso diverse vedove per denaro, inclusa la loro madre Willa Harper, e voleva sapere a ogni costo dai fratellini ove fosse nascosto il denaro del ricco padre), i quali riescono a fuggire aiutati dalla buona vecchietta Rachel. La pellicola fu interpretata da un convincente Robert Mitchum insieme a una straordinaria Shelley Winters e a una tenera Lillian Gish (Laughton contribuì sia alla sceneggiatura, sia alla produzione). Nel tempo il film è stato rivalutato dai critici e considerato come uno dei migliori degli anni Cinquanta, anche se sul momento fu un insuccesso al botteghino. Scrive Joe Denti: «Laughton nutriva una dichiarata antipatia per i bambini e in molti ritenevano che il suo burbero carattere, facile all’esaltazione come alla depressione, fino ad arrivare al disprezzo della propria persona, fosse legato al disagio di non accettare la propria omosessualità, temendo divenisse cosa pubblica.»
(http://www.iospio.it/master.php?pagina=notizia.php&id_notizia=4622). Nel suo articolo Bellissimo film che non ottenne il successo che meritava, scrive Tiziano Sossi: «Grande fiaba orrorifica, più per atmosfera che per scene violente, resa convincente da una regia secca e originale. Harry come orco, Rachel come fata e i due fratelli come Hansel e Gretel. La fotografia in bianco e nero di Stanley Cortez è una festa per gli occhi. Le inquadrature grazie alle luci maniacalmente posizionate sono una rilettura dell'espressionismo. […] Atto d'accusa contro il fanatismo nella religione cristiana e i falsi profeti, con riferimento al sud degli Stati Uniti. Forse la più grande e sfaccettata interpretazione di Mitchum […] Tratto dal romanzo di Davis Grubb e girato in poco più di un mese. Laughton, a causa dell'insuccesso commerciale, non poté realizzare la sua trasposizione de“ Il nudo e il morto” di Mailer.»
(http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=15493). Ha scritto Gianni Canova: «Il film è una sorta di fiaba cupa e inquietante nella quale i due ragazzini si trovano a confronto con una vera e propria incarnazione del male, che finirà sconfitta dopo una lunga fuga sul fiume attraverso un mondo dalle sfumature oniriche. Sebbene non abbia avuto un buon riscontro di pubblico, il film viene oggi unanimemente considerato uno dei vertici del cinema fantastico.» (Cinema, le garzantine, a cura di, Garzanti, 2009).

Nonostante alcune voci insistenti di bisessualità di Charles, Laughton ed Elsa Lanchester rimasero sempre insieme e insieme divennero cittadini americani nel 1950 scegliendo di vivere a Hollywood; non ebbero figli (la cosa fece parte, forse, di un patto prematrimoniale tra i due coniugi). Laughton morì dopo una dura e lunga battaglia contro un cancro renale. Come scrive Denti: «Wilder lo avrebbe voluto, come barista, nella deliziosa commedia “Irma la dolce”.»
(http://www.iospio.it/master.php?pagina=notizia.php&id_notizia=4622). Cremato, Charles Laughton fu interrato nel cimitero di Hollywood Hills in Los Angeles.

La moglie Elsa Lanchester pubblicò un libro dal titolo Charles Laughton and I (Faber and Faber, London 1938), ove raccontò molti particolari della sua vita col marito, e Charles Higham dedicò al grande attore la biografia Charles Laughton: An Intimate Biography (Doubleday, New York 1976).

Scrive Joe Denti: «Charles diceva di avere la faccia come il di dietro di un elefante, ma sapeva anche che con quella parte meno nobile del pachiderma, era capace di trasmettere con la stessa intensità, grazia, calore, umanità, sadismo, perfidia e violenza. Partoriva con sofferenza le sue interpretazioni dando vita, con istrionico talento, ad una serie di personaggi cosiddetti “negativi”, come il tirannico capitano Bligh, in “Gli ammutinati del Bounty”. […] Il suo metodo di lavoro era così maniacale che finiva per alienarsi la simpatia dei colleghi. Anche i registi lo amavano poco, tanto da essere etichettato come attore scorbutico e problematico. Alfred Hitchcock non sopportava il suo protagonismo durante la lavorazione di “La taverna della Giamaica”, nonostante ciò non esitò a sceglierlo per il ruolo del giudice in “Il caso Paradine”, perché sapeva che Laughton era capace di rubare la scena a chiunque, con una sola occhiata. “Possono censurare tutto, ma non il mio sguardo”, amava ripetere l’attore.»
(http://www.iospio.it/master.php?pagina=notizia.php&id_notizia=4622).

Bosley Crowther, critico del New York Times, dichiarò che la sua interpretazione del maggiordomo vittoriano in Forever and a Day (Per sempre e un giorno ancora) (1943) di Edmund Goulding e Cedric Hardwicke era stata «a superb performance». Nel suo libro “The Great Movie Stars: The Golden Years”, David Shipman scrisse: «Laughton was a total actor. His range was wide.».

Ha scritto Gianni Canova: «Con il suo fisico corpulento, le labbra carnose, gli occhi acuti e penetranti, e con le sue grandi capacità attoriali, ha costruito una galleria di personaggi spesso indimenticabili, sebbene solo in rari casi abbia interpretato ruoli da protagonista, mentre come regista ha realizzato un unico film, considerato uno dei capolavori incontestabili del cinema fantastico.» (Cinema, le garzantine, a cura di, Garzanti, 2009).

Laughton ha certamente saputo sublimare i suoi ruoli di cattivo: «L'aspetto fisico aiutò molto Laughton, così pesante e goffo, a creare il tipo del cattivo. […] Laughton dette un corpo tozzo e massiccio a personaggi spietati, inflessibili o tirannici […] dominava il film in cui recitava, ma non aveva una grande varietà di accenti. […] Paradossalmente, era proprio l'antipatia e la pena suscitata dai suoi personaggi che rendeva Laughton così popolare. Il pubblico lo detestava, ma capiva che attraverso di loro Laughton esprimeva il dramma dell'uomo che detesta se stesso. Charles Laughton era in grado di rendere sullo schermo le più intime e nascoste debolezze del migliore e del peggiore degli uomini. Anche i cattivi da lui impersonati possedevano sempre un barlume di umanità […]» (Charles Laughton, un impareggiabile cattivo, ne “Il Cinema – Grande storia illustrata”, Ist. Geografico De Agostini, Novara 1981).

domenica 16 dicembre 2012

Hermann Hesse e l'amore adolescenziale


Locandine di Steppenwolf e Francesco


Continuando a scrivere di Hermann Hesse, nel racconto Sul ghiaccio (1901) – tratto da un tascabile Newton intitolato “Amore” che contiene diversi piccoli racconti giovanili e poesie dedicate all’amore, scritti da Hermann Hesse nel periodo compreso tra il 1901 e il 1918 – il grande autore tedesco narra dell’amore durante il periodo adolescenziale, con tutte le sue trepidazioni e attese.

Hesse vi descrive il bacio dato da un compagno di classe quattordicenne alla ragazza più graziosa della scuola mentre pattinavano: «Baciato! questo era certamente qualcosa di diverso dalle insipide conversazioni e dalle timide strette di mano, che di solito venivano celebrate come la più alta delizia del condurre le ragazze. Baciato! Era il suono di un mondo estraneo, chiuso, timidamente presagito, che aveva il profumo invitante dei frutti proibiti, che aveva qualcosa di celestiale, di poetico, di indicibile, che apparteneva a quel territorio oscuramente dolce, seducente e terribile, da noi non nominato, ma per presagi conosciuto ed era parzialmente illuminato dalle leggendarie avventure amorose di qualche dongiovanni cacciato dalla scuola. […] Ma dovevano passare anni prima che il mio sogno si realizzasse e la mia bocca si posasse su una bocca rossa di fanciulla.».

Nel racconto Ricordi (1906) (in “Amore”), Hermann Hesse ricorda i baci finalmente dati, scrivendo: «Cose passate! Ma la cosa migliore non furono quei baci e neppure le passeggiate serali, o i nostri segreti. La cosa migliore era la forza che quell’amore mi dava, la forza lieta di vivere e di lottare per lei, di camminare sull’acqua e sul fuoco. Potersi buttare, per un istante, poter sacrificare degli anni per il sorriso di una donna: questa sì che è felicità, e io non l’ho perduta.». Com’è saggio tutto questo! Negli adolescenti, l’amore – anche quando non è ricambiato – per se stesso riempie di felicità e crea quello stato di perenne esaltazione che rende possibile qualsiasi cosa, anche la più straordinaria. Ricordo, inoltre, alcuni versi della poesia Amo le donne (1902): «Amo le donne, che mille anni fa / da poeti erano amate e celebrate. / […] / Amo le donne – snelle e meravigliose, / che ancora non nate riposano nel grembo degli anni. / Assomiglieranno allora con le loro bellezze / pallide come le stelle alle bellezze dei miei sogni.».

Per Hermann: «La felicità è amore, nient’altro. Felice è chi sa amare […] Felice è dunque chi è capace di amare molto. Ma amare e desiderare non sono la stessa cosa: l’amore è desiderio fattosi saggio. L’amore non vuole avere, vuole soltanto dare.». Di lui ricordo anche il seguente noto aforisma quanto mai veritiero: «L’amore si può mendicare, comprare, regalare, si può trovare per strada, ma non si può estorcere».

James Joyce, grande autore nordico, nell’autobiografico Dedalus (scritto nel 1904 quando aveva ventidue anni, ma rielaborato per più di dieci anni per essere pubblicato nel 1916 a New York col titolo Ritratto dell’artista da giovane, che divenne una delle opere fondamentali della letteratura del nostro secolo, la cui ricchezza sta appunto nell’originale mescolanza tra persona reale e personaggio ideale e la cui grandezza sta nella capacità di entrambi di «uscire da quel labirinto i cui meandri si chiamano infanzia, famiglia, collegio, città, religione e patria» e di scegliere per sé «quelle armi odisseiche che furono l’insegna di Joyce durante tutta la sua vita: silenzio – esilio – astuzia»), esprime con parole altrettanto calde il sentimento ineffabile di estasi che nasce nell’anima desolata e solitaria di un avvilito e confuso adolescente. Stephen Dedalus, vede una ragazza che «gli stava davanti in mezzo alla corrente: sola e immobile, guardando verso il mare. Pareva una creatura trasformata per incanto nell’aspetto di un bizzarro e bell’uccello marino.». Parlando di una specie di miracolo, scrive Joyce: «Gran Dio! – gridò l’anima di Stephen in uno scoppio di gioia profonda. Bruscamente le volse le spalle, incamminandosi attraverso la spiaggia. Aveva le guance infuocate, il corpo bruciante, le membra in un tremito. Si allontanò sempre avanti, avanti, a gran passi, sulle sabbie, cantando selvaggio verso il mare, salutando ad alta voce l’avvento della vita che lo aveva chiamato ad alte grida. L’immagine della ragazza gli era entrata nell’anima per sempre e nessuna parola avrebbe rotto il sacro silenzio della sua estasi. Quegli occhi lo avevano chiamato e la sua anima era balzata al richiamo. Vivere, errare, cadere, trionfare, ricreare la vita dalla vita! Un angelo selvaggio gli era apparso, l’angelo della giovinezza e della bellezza mortale, un messaggero dalle giuste corti della vita, per spalancargli innanzi in un attimo d’estasi le porte di tutte le strade dell’errore e della gloria. Avanti! Avanti! Avanti! S’arrestò d’improvviso e udì il suo cuore nel silenzio. Fin dov’era arrivato? Che ora era?». Accanto al cuore selvaggio della vita con la sua anima rinata dalla tomba dell’adolescenza, finalmente felice, Stephen grida: «Avanti! Avanti! Avanti!» [James Joyce Dedalus - Ritratto dell’artista da giovane, traduzione di Cesare Pavese, Aldelphi, 1970]. A Joyce, che ha saputo essere così lirico, dobbiamo tuttavia un paragone molto prosaico del rapporto tra i sessi: «L’uomo e la donna, e l’amore, cos’è mai tutto questo? Un tappo e una bottiglia.». Potrebbe anche essere vero, ma il contenuto della bottiglia è spesso un materiale esplosivo!

In Lettera di un giovane del 1906 (in “Amore”), Hermann Hesse enuncia il concetto dell’«amare per amare». Scrive il grande autore tedesco: «Mentre il dolore di un primo amore infelice mi tormentava e mentre un incompreso bisogno, una quotidiana malinconia, speranze e delusioni si agitavano in me, nonostante la depressione e le pene d’amore, ero in ogni momento felice nel profondo del cuore. Tutto ciò che mi circondava mi era caro e aveva qualcosa da dirmi, non c’era nulla di morto, nessun vuoto nel mondo. […] Da quel giorno fino a oggi non mi sono mai più realmente innamorato. Fra tutte le cose che conoscevo, nessuna mi appariva così nobile, ardente e lacerante come è l’amore verso le donne. Non sempre intessevo relazioni con donne o ragazze, né ne amavo sempre in tutta coscienza una in particolare, ma i miei pensieri erano sempre occupati in qualche modo dall’amore, e la mia adorazione del bello era in realtà una costante devozione verso le donne.». Com’è vero tutto questo! Negli anni giovanili, il sentimento dell’amore vive a prescindere dalla corrispondenza amorosa o dalla presenza di un essere amato.

Un amore di questo tipo, che s’innesca come nato da se stesso ma che si evolve in modo fatale, risalta in un altro racconto di Hesse, Sacrificio d’amore (1906) (sempre in “Amore”), ove un anziano aiuto–libraio narra all’autore un amore devastante che lo ha distrutto moralmente ed economicamente: «E se le dico che la mia vita è stata fiamma e vento di tempesta, rida pure, per carità! […] Ma volevamo parlare dell’amore, no? Dunque, che cos’è amore? A morire per una donna amata oggi si arriva di rado. Certo sarebbe la cosa più bella. – Non m’interrompa, lei! Non parlo dell’amore a due, del baciarsi, dormire insieme, sposarsi. Parlo dell’amore divenuto l’unico sentimento di una vita. Esso resta solitario, anche se, come si dice viene “ricambiato”. Consiste in questo, che ogni volontà e capacità di una persona tendono con passione a un unico scopo, e che ogni sacrificio diventa un godimento. Questa specie di amore non vuole essere felice, vuole bruciare e soffrire e distruggere, è fiamma e non può morire prima di aver divorato sin l’ultima cosa che possa raggiungere. Sulla donna che amavo non occorre lei sappia nulla. Forse era meravigliosamente bella, forse soltanto graziosa. Forse era un genio, forse no. Che importa, santo Dio! Essa era l’abisso in cui dovevo sprofondare, era la mano di Dio che un giorno penetrò nella mia vita futile. E da quel momento questa futile vita fu grande e principesca, capisce, d’improvviso non fu più la vita di un uomo di rango, bensì quella di un Dio e di un fanciullo, delirante e sconsiderata, bruciava e risplendeva. […] Per lei io fui tutto ciò che potesse allietarla, per lei fui allegro e serio, loquace e silenzioso, savio e pazzo, ricco e povero.». [Da “Amore”, a cura di Mirella Ulivieri, Newton Compton Editori, Roma 1993]

Ed è proprio così, quando si è ragazzi e si ama l’amore per l’amore! Questa calda sensazione si disperde purtroppo col passare degli anni: quando s’invecchia, i sentimenti si appannano e la furia delle passioni si smorza; ci si sente allora come rami rinsecchiti e si ha paura d’amare o di ammettere di essere innamorati.

Hermann Hesse è stato uno degli scrittori più prolifici (tra i più amati e letti nel mondo). Era nato in Germania a Calw (Württemberg) il 2 luglio del 1877 da Johannes, un pastore protestante estone dalla vita ascetica, e da Maria Gundert, una missionaria piena di fantasie e interessi letterari, conosciutisi in India. La madre era al suo secondo matrimonio: dalle prime nozze (sempre con un missionario) aveva avuto i due figli Theodor e Karl (i fratellastri di Hermann) mentre dalle seconde nozze erano nati sei figli (due dei quali morti subito dopo il parto). Maria era figlia di un coltissimo e importante linguista e studioso tedesco di sanscrito, anch’egli missionario calvinista. La ricca biblioteca del nonno fu utile per la formazione della grandissima cultura del giovane Hermann, che ben presto cominciò a mostrare intolleranza per la severità dell’educazione familiare impartitagli e per qualsiasi autorità precostituita: in modo particolare odiava la rigida e conformista scuola teutonica del tempo. I genitori erano religiosissimi cristiani di matrice pietista (molto impegnati nella dura difesa dei loro valori spirituali) e avrebbero voluto fare di Hermann un pastore protestante; lo obbligarono, pertanto, a frequentare il seminario di Maulbronn. Dopo un tentativo di fuga ritenuto una banale scappatella, il sensibile e ostinato Hermann fu riportato in seminario e lì cominciarono a manifestarsi i primi segni di una depressione nervosa che durò per tutta la vita e che lo portò a un tentativo di suicidio e al ricovero in una clinica per malati mentali. Dopo la minaccia di un secondo suicidio, i genitori si convinsero finalmente a fargli frequentare un ginnasio pubblico. Hermann non concluse però gli studi e tentò i diversi lavori di meccanico orologiaio, apprendista libraio, libraio e antiquario. Si trasferì quindi a Basilea (in Svizzera), conquistando una completa autonomia. Iniziava, intanto, a scrivere poesie e racconti.

Nel 1904 il suo primo romanzo autobiografico Peter Camenzind ebbe un discreto successo letterario: vi sosteneva con malinconia il tema romantico dell’autorealizzazione, possibile soltanto nell’isolamento e nell’emarginazione dalla comunità. Nel 1906 seguì il libro Sotto la ruota (Unterm Rad), d’ispirazione romantica, nel quale Hesse rappresentava in modo quasi tragico la crisi di uno studente stroncato dalla rigida disciplina della scuola prussiana. A 27 anni sposò Maria Bernoulli (più grande di lui), dalla quale tra il 1905 e il 1911 ebbe tre figli; la famiglia andò a vivere in campagna nella regione del Baden, a contatto di quella natura che Hermann tanto amava. Frattanto collaborava con riviste e giornali. Ben presto il matrimonio entrò in crisi per le difficoltà dello scrittore di conciliare i gravosi impegni familiari di una vita borghese con la sua attività artistico–letteraria. Nel 1910 scrisse una storia d’amore dal titolo Gertrud e nel 1914 pubblicò il romanzo Rosshalde, che narrava l’infelice storia di un adolescente conteso tra i genitori.

Durante il primo conflitto mondiale, Hermann (che non condivideva i sentimenti nazionalistici dei suoi compatrioti) si sentì travolto da un inappropriato senso di colpevolezza; e l’orribile catastrofe della guerra mise a dura prova il suo già precario equilibrio psichico, turbato ancor più da una malattia psichiatrica della moglie e dagli esiti di una grave meningite che aveva colpito il figlio minore. Questo infausto periodo produsse in lui un capovolgimento esistenziale straordinario. Per motivi politici si spostò nel Canton Ticino, ove rimase per tutto il periodo della guerra scrivendo alcuni libri sotto pseudonimo, sempre tormentato da continue crisi depressive, per le quali fece ricorso anche alla neonata psicanalisi. Nel 1919 pubblicò l’importante romanzo Demian, la storia della giovinezza di Emil Sinclair (Demian, die Geschichte von Emil Sinclair Jugend), che narrava lo sconvolgimento prodotto dalla guerra sulla vita di alcuni giovani universitari (costituì uno dei primi libri europei scritti sotto l’evidente influenza della psicanalisi). In quegli anni scrisse anche numerosi libri di versi, raffinati e pieni di tormento.

Nel 1921 prese la cittadinanza svizzera e iniziò a preparare il poema indiano Siddharta, uno dei suoi capolavori, pieno di grande spiritualità e frutto di un intenso studio delle religioni orientali e del Buddismo, iniziato dopo un viaggio in India compiuto nel 1911. Con questo testo riuscì a conciliare con successo il misticismo d’Oriente con la morale e la cultura d’Occidente (per la sua profonda sete d’assoluto e per l’esasperata ricerca dell’Io il libro è stato molto amato dai giovani di tutte le latitudini, e lo è tuttora).

Nel 1924 Hesse sposò Ruth Wenger, una cantante più giovane di lui, ma già dopo pochi mesi il matrimonio entrava in crisi. Nel 1927 divorziò e sposò Ninon Auslander, un’archeologa austriaca di origine ebraica che diventò la compagna affettuosa di tutta la sua vita. Nello stesso anno pubblicò il controverso romanzo autobiografico Il lupo della steppa (Der Steppenwolf), che in un ambito di amaro romanticismo narra la storia, i sogni e gli incubi di Harry, un solitario cinquantenne cupo e ombroso con un “Io” diviso in due metà, con due nature intrecciate (quella divina e quella diabolica) e due anime confuse che convivono in una continua e mortale inimicizia (quella dell’uomo col suo mondo immortale di pensieri, sentimenti spirituali ed elevata gentilezza, e quella del lupo col suo mondo caotico d’istinti selvaggi, libertà e forza indomita).

Durante il nazismo, del quale fu strenuo avversario, Hesse si legò di amicizia con molti letterati e artisti tedeschi e austriaci (tra i quali Thomas Mann), con i quali intrattenne un ricco epistolario e che cercò di aiutare durante il loro esilio politico.

Nel 1930 comparve Narciso e Boccadoro (Narziss und Goldmund), testo di alta letteratura, artisticamente perfetto, che fu un grosso successo letterario. Questo romanzo è ambientato in un vago e affascinante Medioevo e pone in contrapposizione due diversi protagonisti che nella loro diversità si attraggono e si completano: Narciso (spirituale e ascetico, vissuto lontano dal fango e dalle tentazioni del mondo nell’asfissiante atmosfera di un convento) e Boccadoro (artista bello e istintivo, dal cuore pieno di contrasti e di miserie, amante di una vita vagabonda senza patria, senza legami e senza fede). Molto sensibile ai materni «istinti originari», Boccadoro è straordinariamente capace di amare e donarsi: si sente attratto irrimediabilmente da tutte le donne, nel ricordo della mamma bella e selvaggia («la Perduta… l’ineffabile Amata») che lo aveva abbandonato quando era bambino.

Seguirono opere minori, di carattere autobiografico.

Nel 1935 Hermann fu lacerato dal suicidio del fratello Hans, che si sentiva uno spostato non avendo potuto realizzare le sue tendenze artistiche ed essendo stato costretto a un’attività di tipo commerciale; questo tragico lutto familiare gli provocò una nuova grave crisi esistenziale. Nel 1943 uscì Il gioco delle perle di vetro (Das Glasperlenspiel), strano romanzo di alto contenuto ideale e dal forte messaggio umano, scritto nell’ambito di una urgenza mistico–religiosa, forse il compendio più completo di tutti i suoi temi esistenziali più amati.

Nel 1946 ricevette il premio Nobel, conquistando sì la fama internazionale ma non la piena certezza della sua riuscita letteraria; diceva di sé «per metà leggenda, per metà ridicola figura». Si ammalò di leucemia, e morì per emorragia cerebrale a Montagnola (Lugano) il 9 agosto del 1962 all’età di 85 anni.        

Hesse ha sempre amato e ricercato soprattutto il tema del paese natio, inteso come focolare del cuore e luogo nostalgico della memoria, l’unico in grado di assicurare serenità e certezza nei duri affanni della vita («un pezzetto di patria… appena una parvenza di patria, ma pur cara per lunga consuetudine»). Definiva la vita come «l’inferno che arde sotto i nostri piedi»: quella vita che gli aveva procurato spesso grandi tristezze, perché vissuta attraverso il filtro grigio del “male oscuro” della depressione, la terribile malattia che tentò di contrastare – sempre e strenuamente – durante tutta la sua lunga esistenza.

P.S. Molti film sono stati tratti dai testi di Hermann Hesse

- Ricordo il film Steppenwolf del 1974, adattato dal libro di Hermann Hesse Il lupo della steppa (Der Steppenwolf) (scritto nel 1928), molto ricco di effetti visivi speciali. Il film vide sette anni di complicata pre–produzione da parte dei due produttori Melvin Abner Fishman (che era stato uno studente di Jung) e Richard Herland. Fishman ebbe il merito di stabilire le giuste relazioni con la famiglia di Hesse per avere i diritti per fare il film (sostenne più tardi di aver fatto “il primo film junghiano” della storia del cinema) mentre Herland raccolse i finanziamenti. Anche la regia fu problematica, divisa tra Michelangelo Antonioni, John Frankenheimer, l'attore James Coburn e alla fine anche Fred Haines (lo sceneggiatore). Gli interpreti furono Max von Sydow (Harry Haller), Pierre Clementi (Pablo) e Dominique Sanda (Hermine). Tutte queste difficoltà più altri errori, inclusa la stampa del colore, fecero sì che il film fosse poco visto.

- Liliana Cavani nel 1989 diresse Francesco con Mickey Rourke (Francesco) e Helena Bonham Carter (Chiara), Andréa Ferréol (madre di Francesco), Mario Adorf (cardinale Ugolino), Paolo Bonacelli (padre di Francesco) e il bravo Fabio Bussotti (Leone), un docu–dramma che nella forma del flashback racconta la vicenda di San Francesco d'Assisi, che da uomo ricco e cinico si trasforma in un uomo religioso e pieno di umanità, addirittura degno della santità (il film era basato sul Francesco d'Assisi di Hermann Hesse, che Liliana Cavani aveva filmato precedentemente nel 1966 per la televisione con Lou Castel come protagonista). Il film vinse un David di Donatello e due Nastri d’Argento, e ricevette una nomination a un altro David e una candidatura alla Palma d’Oro. La musica suggestiva era del compositore greco Vangelis. Hanno commentato i Morandini: «Nel 1226, morto Francesco, le sue vicende sono raccontate a turno da alcuni suoi compagni tra cui c'è Chiara. È violento e duro già nella cornice ambientale (un'Umbria umida, fosca, ventosa) cui hanno contribuito scene e costumi di D. Donati e la fotografia di G. Lanci e E. Guarnieri. Violento nella rappresentazione di guerra, prigionia, miseria, malattia, nella rievocazione della santità di Francesco, specialmente quando s'interroga, con uno strazio che sfiora la disperazione, sul silenzio di Dio. I suoi difetti sono quasi tutti per eccesso: ridondanza misticheggiante nelle musiche di Vangelis, una certa prolissità, spia di debolezza drammaturgica. Girato in inglese.» (il Morandini di Laura, Luisa e Morando Morandin, Zanichelli editore).

venerdì 14 dicembre 2012

Hermann Hesse e un virtuoso del gioco del corteggiamento senza amore


Hermann Hesse                     Locandina di Siddhartha


In un piccolo racconto giovanile (1906), dal titolo Amore (Liebe) – tratto da un tascabile Newton intitolato “Amore” che contiene diversi piccoli racconti e poesie dedicate all’amore, scritti da Hermann Hesse nel periodo compreso tra il 1906 e il 1918 – l’autore analizza l’intima essenza dell’amore, la quale non è né l’arte del corteggiamento né la facilità della conquista amorosa, che non sono in grado di dare felicità o appagamento.

Nel racconto, il narratore parla del signor Thomas Höpfner, un suo amico; tra tutte le persone di sua conoscenza, egli è «colui che ha maggiore esperienza dell’amore». Scrive Hesse: «Perlomeno ha avuto molte donne, conosce le arti del corteggiamento per la lunga pratica che ne ha fatto e può gloriarsi di moltissime conquiste. Quando me le racconta mi sembra di essere uno scolaretto. A dire il vero qualche volta nel mio intimo più segreto penso che egli stesso non capisca la vera essenza dell’amore molto più di uno di noi. Non credo che gli sia capitato spesso nella vita di aver vegliato e penato per notti a fianco di una donna amata. Ne ha comunque raramente avuto bisogno, e glielo voglio concedere in quanto, a causa dei suoi successi, non è un uomo felice. Lo vedo invece non di rado confuso per uno stato di leggera malinconia, e la sua condotta nel complesso ha un qualcosa come di calma rassegnata, mite, che non sempre sembra appagamento. Be’, queste sono solo congetture, e forse illusioni. Con la psicologia si possono scrivere libri, ma non penetrare nel cuore dell’uomo, e per giunta io non sono uno psicologo. Pur sempre mi sembra che a volte il mio amico Thomas sia soltanto un virtuoso nel gioco dell’amore, perché a lui dell’amore, che non è più un gioco, manca qualcosa, e che egli sia malinconico proprio perché percepisce dentro di sé quella mancanza e se ne cruccia. Pure congetture, forse illusioni.».

Davanti a una bottiglia di vino, mentre chiacchieravano, Thomas Höpfner ha raccontato all’amico il suo incontro con la signora Förster e «non si trattava di una vera e propria esperienza o di un’avventura, ma soltanto di uno stato d’animo, di un aneddoto lirico».
La signora Förster era una bellissima donna trentenne «che abitava in città da poco tempo e aveva fama di aver avuto molte relazioni amorose». Il marito era una nullità e il mio amico la frequentava da poco sostenendo che nulla fosse successo con lei:

«La Förster dunque», disse alla fine, arrendendosi «se ti interessa così ardentemente! Cosa devo dire? Non è successo niente con lei.»
«Proprio niente?»
«Be’, dipende. Niente che ti possa raccontare. Bisognerebbe essere un poeta.»
Risi.
«Non hai molta considerazione dei poeti.»
«Perché dovrei averla? I poeti sono di solito persone che non fanno esperienza di nulla. […] Fate sempre un rumore infernale per cose banali, qualsiasi stupidaggine basta per fare un romanzo…»
«E questa storia con la signora Förster? Anche questa un romanzo?»
«No. Uno schizzo. Una poesia. Una vibrazione dell’animo, sai.»
«Dai, ti ascolto.»

La donna era bella e lo interessava ma aveva un lungo passato: «Mi sembrava che avesse amato e conosciuto ogni tipo di uomini, ma nessuno sopportato a lungo.». Thomas si era fatto presentare ed era andato da lei un paio di volte: «In quel periodo non aveva amanti, si vedeva chiaramente.». Thomas Höpfner aveva cominciato ad avvicinarsi e a lanciare delle occhiate significative: «Una parola tenera mentre si brindava col bicchiere di vino, un baciamano che dura troppo a lungo. Lei accettava, in attesa di ciò che sarebbe poi venuto.». Una volta le aveva fatto visita in un momento in cui era sola e lei lo aveva ricevuto: «Quando fui seduto di fronte a lei mi accorsi che qui qualsiasi metodo era inopportuno. Perciò rischiai tutto e le dissi semplicemente che ero innamorato e che mi mettevo a sua disposizione.». Le disse che voleva da lei Amore e che le offriva tutto quel che era e che poteva fare per lei. La conversazione si era svolta in quel modo:

«Sì, questo lo dicono tutti. Non c’è mai nulla di nuovo nelle vostre dichiarazioni d’amore. Cosa vuole fare dunque per incantarmi? Se davvero amasse, avrebbe già da tempo fatto qualcosa.»
«Cosa per esempio?»
«Dovrebbe saperlo da sé. Avrebbe potuto digiunare per otto giorni o spararsi, o perlomeno scrivere versi.»
«Non sono un poeta.»
«Perché no? Chi ama come soltanto si dovrebbe amare diventa poeta ed eroe per un sorriso, per un cenno, per una parola di colei che ama. Se le sue poesie non son belle, tuttavia sono appassionate e piene d’amore…»
«Ha ragione signora. Non sono un poeta o un eroe, né tantomeno mi sparo. O anche se lo facessi, sarebbe per il dolore di sapere che il mio amore non è così ardente e forte, come lei dovrebbe esigere. Ma al posto di tutto ciò ho un unico, minuscolo vantaggio su quell’amante ideale: io la capisco.»
«Che cosa capisce?»
«Che lei ha il mio stesso desiderio: lei non vuole un amante, vorrebbe amare, assurdamente amare. E non può farlo.»
«Lei crede?»
«Sì. Lei cerca l’amore come lo cerco io. Non è forse così?»
«Forse.»
«Perciò può anche non avere bisogno di me, e non la seccherò più. Ma forse può ancora dirmi, prima che io vada via, se mai una volta ha incontrato il vero amore.»

La signora Förster gli aveva raccontato che una volta, forse, aveva amato. Era successo tre anni prima e allora per la prima volta aveva avuto la «sensazione di essere veramente amata». Quell'uomo l’aveva amata ma, dato che era sposata, non glielo aveva detto ma – quando si era accorto che lei non amava il marito e aveva un amante – le aveva proposto di «sciogliere il matrimonio». Pur non essendo avvenuta la separazione coniugale, quell’uomo si era curato di lei, l’aveva vegliata e era divenuto il suo sostegno e il suo amico. La signora Förster aveva concluso la conversazione, dicendo: «E quando io per voler suo lasciai il mio amante e mi dichiarai disposta ad accettarlo, egli mi rifiutò, se ne andò e non tornò mai più. Solo lui mi ha amato. Nessun altro.». Al termine, Thomas Höpfner le aveva risposto: «Addio. È meglio che io non torni più.». Dopo un attimo, aveva chiamato il cameriere e se ne era andato.

Concludendo il suo racconto, scrive Hesse: «Da questo suo racconto capii fra l’altro che a lui mancava la capacità di amare veramente. Egli stesso l’aveva confessato. Eppure non si deve dar molto credito agli uomini quando parlano dei loro difetti. Taluni si credono perfetti, perché non chiedono molto a se stessi. Il mio amico invece no, e può darsi che proprio il suo ideale di un vero amore lo abbia fatto divenire così com’è. Ma forse quell’uomo intelligente mi ha preso in giro e probabilmente quel dialogo con la signora Förster è stato solo una sua invenzione. Perché è un poeta nascosto, per quanto di ciò si schermisca. Solo congetture, forse illusioni.».
[Da “Amore”, a cura di Mirella Ulivieri, Newton Compton Editori, Roma 1993]

Appare evidente che Thomas Höpfner si ritira perché capisce che non ha mai amato di vero amore, in quanto l’amore è un sentimento interiore profondo che spinge alla vicinanza e alla cura della persona amata, al sostegno e all’amicizia disinteressata, trascendendo il sesso e la passione amorosa vera e propria e nutrendosi di molto altro ancora; certamente, una cosa che non aveva mai provato.

P.S. Da molti testi di Hermann Hesse sono stati tratti bei film.

Il romanzo Siddhartha (scritto nel 1922 e pubblicato in USA nel 1951) è la storia del viaggio spirituale (scritto in stile lirico) di un uomo indiano, Siddhartha Gautama principe di Kapilvastu, che al tempo di Budda rinuncia al lusso e alle ricchezze per vivere in ascesi e in povertà così recuperando la sua spiritualità attraverso digiuni e privazioni di ogni genere: con lui si muove il fedele amico Govinda (Siddhartha nell'antica lingua indiana del sanscrito significa: “l'uomo che ha trovato il significato della vita” e, prima di lasciare la casa del padre. Siddhartha proclama: «Voglio essere libero, voglio essere selvaggio»).

Nel 1972 ne è stato tratto l'omonimo film americano, diretto da Conrad Rooks e interpretato da Shashi Kapoor, Simi Garewal e Romesh Sharma. Ha scritto Dianella Bardelli che nel 1953 Conrad Rooks (1934-2008) ricevette da leggere il libro di Hermann Hesse dalla moglie Zina Rachevsky: «“Sono impazzito per quel libro”, affermò. Sentiva che quel romanzo parlava non a lui ma di lui. Conrad e Zina abbandonarono New York e per tre anni viaggiarono in Asia; Ceylon, Thailandia e India furono le loro mete. A Bombay conobbero Sashi Kapoor, uno dei più importanti attori indiani del tempo, che diventerà il protagonista del film di Rooks tratto da romanzo di Hesse. Poi tornarono in America. […] Rooks realizzò "Siddhartha” nel 1972 e vi lavorarono solo attori indiani. Riuscì a vincere la riluttanza del governo indiano a concedere i permessi a girare il film, grazie all'intervento di Indira Gandhi, sua amica personale. Il film fu girato nel Nord dell'India nella città santa di Rhishkesh e nei palazzi e nelle proprietà del Maharajah di Bharatpur. Rooks finanziò di tasca propria gran parte del film, ne fu lo sceneggiatore e il regista. Le musiche che accompagnano tutto il film si devono a compositori e interpreti indiani, le parole dei brani musicali sono tratte da poesie di Tagore. Come direttore della fotografia Rooks si avvalse dello svedese Sven Nykuist, già collaboratore di Bergman. Alla loro intesa nel lavoro si devono l'assoluta perfezione e bellezza delle inquadrature dei paesaggi, delle foreste, dei palazzi e dei fiumi di questa India incontaminata (perché inaccessibile, in quanto proprietà privata). Finito il film, che ebbe un grande successo in India ma non in America, Rooks tornò a New York. Da allora non ha più girato nessun film. Dal 1984 è vissuto per venti anni a Pattaya in Thailandia. È morto a New York nel 2008. […] Ma è veramente bella questa India mitica in cui si viaggia a piedi, si vive nelle foreste, si chiede e si ottiene cibo se si ha fame, ci si immerge e si attraversano fiumi azzurri, puliti e limpidi. Un mondo dell'immaginazione, un'India della fantasia, ma non è sempre così nell'arte? “Giri la realtà”, dice Rooks nell'intervista, “ma la fai apparire irreale”.». E Siddhartha incontrerà poi Kamala che gli insegnerà l'arte dell'amore: «“Sarai il mio maestro”, le dice, “il mio guru”»; e la vicenda di Kamala diventerà simile a quella dell'amata Zina Rachevsky (Kamala morirà per il morso di un serpente, Zina per un avvelenamento rimasto sconosciuto durante il suo ritiro in un remoto monastero). Al termine della sua vita Siddhartha accetterà di divenire un umile barcaiolo traghettatore nel fiume che tanto ama; scrive la Bardelli: «Alla fine del film Siddhartha e Govinda si ritrovano. “Un uomo non è mai solo santo o solo peccatore”, dice all'amico ritrovato, “il Buddha si trova nel ladro e nella prostituta. Dio è ovunque. Ecco perché non credo ai maestri. Il fiume è il miglior maestro”.» (gennaio 2011, 
http://www.lankelot.eu/cinema/rooks-conrad-siddhartha.html).

Il regista Florian Gallenberger (premio Oscar nel 2000 per un cortometraggio e regista nel 2009 del film di successo “John Rabe”) sta preparando una versione cinematografica di Narciso e Boccadoro, stupendo racconto di ambientazione medievale di Hermann Hesse. Ha detto Gallenberger: «Si tratta di un sogno lungamente accarezzato, ho letto il libro quando ero al liceo, a diciassette anni, e ne sono stato subito conquistato; ho cercato di ottenerne i diritti per anni, ma ci sono riuscito soltanto ora.».

venerdì 7 dicembre 2012

Ivàn Turgenev, un arrangiatore di passioni e sentimenti


Ivàn Turgenev 


Locandine film


Ivàn Sergeevič Turgenev, grande scrittore russo e classico da non dimenticare, ha scritto sempre dell’amore in tutte le sue forme, passando dall’amore tenero e puro a quello egoistico e torbido (spesso un vero e proprio gioco sentimentale), dal desiderio ardente (spesso un vero e proprio fuoco bruciante) alla passione cupa e travolgente (spesso un sentimento tragico e fatale). Diversi suoi scritti (tra cui il romanzo Padri e figli) sono considerati capolavori della letteratura russa, e non solo, del xix secolo.

Turgenev nacque a Orel, nella omonima provincia russa, il 9 novembre del 1818. Era il figlio di un prestante ufficiale degli ussari (di nobili origini tartare ma senza soldi, morto quando Ivàn aveva sedici anni) e di una proprietaria terriera piena di denaro. La madre, insoddisfatta, amava non riamata il bel marito molto più giovane di lei ed era una donna tirannica e inflessibile in famiglia, e dura e dispotica con la servitù (l’identica situazione del racconto Primo amore, già passato in rassegna nel post precedente). Questa madre terribile tentò di tagliare al figlio qualsiasi aiuto finanziario, cercando di diseredarlo e d’interdirlo, e ne segnò in modo indelebile il carattere (alto e imponente, divenne tremendamente timido e riservato; aveva scritto: «La felicità di ciascuno è costruita sull’infelicità di un altro»). Con lei, Ivàn ebbe rapporti difficilissimi e rotture clamorose. L’aver trascorso la sua infanzia nella tenuta materna di Spasskoe (insieme ai fratelli Nikolaj e Sergej) mise ben presto Turgevev a contatto con la crudeltà di trattamento dei servi della gleba e ne scatenò i vivaci rigurgiti di rivolta contro la chiusa società russa e contro la madre che ne era una spaventosa rappresentante. Questo substrato familiare lo rese un profondo analista degli archetipi familiari russi del suo periodo e dei relativi difficili rapporti interpersonali.

Turgenev studiò filosofia presso le università di Mosca e Pietroburgo, ove si legò a Puskin e Gogol’ che brillavano nel mondo letterario del tempo. Dal 1838 al 1841 studiò anche all’estero (soprattutto a Berlino) e fu anche in Italia: ebbe così modo di conoscere e frequentare i circoli filosofici hegeliani e gli scrittori esuli appartenenti alla corrente dell’idealismo russo. Rientrato in Russia, era talmente convinto della bontà della modernità della società dell’Europa Occidentale rispetto a quella russa da sposare le idee “filo–occidentali” e da fraternizzare con gli esponenti del progressismo e dell’occidentalismo (in contrapposizione alle posizioni “slavofile” e conservatrici).

Nel 1841 Ivàn visse un amore infelice per una intelligente e bella ragazza che faceva parte della schiera dei servi della madre: avrebbe voluto sposarla ma l’implacabile genitrice allontanò la giovane, togliendole la bimba nata dalla relazione, che fece crescere come una serva tra i servi. Soltanto più tardi, Turgenev seppe di Pelageja, la figlia naturale, e dopo un tremendo litigio la portò via cercando di sistemarla degnamente. Aveva scritto: «Guai al cuore che non ha amato fin da giovane! […] L’anima degli altri è come un bosco oscuro, specialmente l’anima di una fanciulla. […] Voi non potete immaginare ciò che un giovane inesperto, educato alla maniera sbagliata, può scambiare per amore!» (da “Un nido di nobili” del 1859).

Tra il 1841 e il 1843 lo scrittore svolse un’attività burocratica presso il Ministero degli Interni (ottenuta a causa delle pressioni materne) ma continuò a interessarsi di poesia romantica. Nel 1843 esordì con il primo volume di versi Parasa (che fu ben accolto dalla critica) e con il lavoro teatrale Un’imprudenza, mentre nel 1844 pubblicò il suo primo racconto in prosa Andrej Kolosov. I suoi primi lavori letterari rivelarono un talento geniale e furono accolti bene dal pubblico e dalla critica, rappresentata soprattutto dal critico letterario russo anti–tradizionalista e progressista Vissarion Grigorevič Belìnskij (1811-1848), che tanta influenza ebbe sulla “intelligencija” socialista e su tutta la generazione degli scrittori russi della seconda metà dell’Ottocento (fu il critico che diede slancio all’iniziale carriera di Dostoevskij, allontanandosi poi dalle sue posizioni ideologiche).

Pur essendo amico di uomini politici russi, Turgenev rifuggì da qualsiasi impegno sociale e ignorò le motivazioni ideologico–politiche del mondo russo, a differenza dei suoi contemporanei Tolstoj e Dostoevskij, che non lo amarono considerandolo un nichilista senza convinzioni e senza consistenza.

Dal 1847 sino alla morte, visse sempre all’estero, sia per sganciarsi dall’incombente presenza della madre (della quale lo infastidiva anche il solo ricordo), sia per stare accanto all’amata di sempre, alla passione di tutta una vita, la cantante–attrice di origini spagnole Pauline Garcia Viardot. Con lei Turgenev instaurò uno strano rapporto a tre: Ivàn era, infatti, molto amico anche del marito di lei e seguiva la famiglia Viardot in tutti i suoi spostamenti. Fu in Germania (a Baden–Baden), in Inghilterra (dopo lo scoppio della guerra franco–prussiana), e in Francia ove comprò una villa nei pressi di Parigi. In tutti questi suoi soggiorni si legò di amicizia con molti grandi scrittori stranieri del tempo, frequentando i salotti letterari alla maniera di un ambasciatore ideale della letteratura russa. In tal modo ebbe il merito di far conoscere all’estero i grandi capolavori russi, che venivano tradotti in francese proprio dal marito di Pauline. Turgenev divenne così uno dei più occidentali tra i letterati russi, circondato da stima e rinomanza internazionale: la prestigiosa università di Oxford gli conferì una laurea Honoris Causa in Diritto. Intellettuale ateo e liberal–democratico, pur vivendo in una società arretrata ma agli albori del socialismo, con la denuncia dei suoi scritti, seppe dare un contributo notevole all’abolizione della servitù della gleba. Fu il primo russo a rappresentare nella sua opera gli umili servi della gleba, osservati nell’ambito delle loro difficoltà esistenziali, mai descritti come personaggi grotteschi bensì come individui ricchi di dignità: e ciò senza eccedere nella retorica o nelle descrizioni di cieca brutalità. Il libro Racconti di un cacciatore (1852), formato da storie d’ambiente rurale e contadino, rappresentate con grande sensibilità, al di là degli stessi intendimenti di Turgenev, è stato considerato come un forte atto d’accusa di questa barbara servitù. Sembra che questo volume abbia avuto una positiva influenza sullo zar Alessandro ii, che stava proprio pensando a una qualche emancipazione dei servi della gleba.

Rientrato in Russia nel 1852, Turgenev ebbe dei problemi a causa di un necrologio anticonformista e troppo acceso scritto in occasione della morte di Nikolaj Gogol’ (1809-1852), che idolatrava; vi scriveva tra l’altro: «Gogol’ è morto! […] quale cuore russo non è scosso da queste tre semplici parole? […] egli se ne è andato, quell’uomo che ora noi abbiamo il diritto, l’amaro diritto conferitoci dalla sua morte, di chiamare Gogol’ il Grande». Fu arrestato per un mese, ma si trattò in realtà soltanto di un pretesto: gli si facevano pagare i duri atteggiamenti di denuncia e di critica del periodo precedente. Durante un anno di esilio forzato fu recluso presso la tenuta che aveva ereditato dopo la morte della madre, avvenuta nel 1850, senza che il poeta riuscisse a vederla ancora in vita.

Così come non furono facili i rapporti di Ivàn con gli scrittori russi, non lo furono neanche quelli con il pubblico russo, dal momento che i lettori di allora pretendevano dai loro autori un forte impegno ideologico e un’alta funzione di guida che facevano fatica a rintracciare nell’umile realismo delle storie di Turgenev. Questi contrasti scatenavano critiche e polemiche a non finire che amareggiavano moltissimo lo scrittore, il quale si sentì sempre un incompreso. Nonostante ciò, nel 1857 a Baden–Baden aiutò economicamente sia Tolstoj, che aveva perso tutto al gioco e non poteva ritornare i patria, sia Dostoevskij completamente rovinato dalla passione per il gioco d’azzardo.

Nelle opere di quel periodo Rudin (1857) – il protagonista era un rappresentante del mondo intellettuale degli anni quaranta – , Un nido di nobili (1859) e All’epoca (1960) dai contenuti molto anticonformisti, prese forma il ruolo dell’“uomo superfluo”, dell’idealista buono, infiammato ed eloquente (attivo solo a parole) ma nella realtà un uomo debole e inetto, privo di volontà e incapace sia di azioni che di scelte.

Tra i suoi libri, fu soprattutto il grande capolavoro Padri e figli (1862) a non essere capito né dai progressisti né dai conservatori (fu attaccato soprattutto da parte dei giovani radicali, che vi videro una canzonatura, anzi una caricatura, della nuova generazione degli anni Sessanta e una difesa connivente della reazione). In realtà, in questa sorta di romanzo sociale, in modo autobiografico Turgenev aveva rappresentato il contrasto tra le generazioni, evidenziando la discontinuità e la separatezza di due mondi spirituali diversi che vivevano di frizioni e fratture dolorose: la vecchia generazione dei padri (aristocratici idealisti ma immobili e legati a un passato pieno di privilegi) e quella giovane dei figli (anti–idealisti, anzi materialisti o nichilisti, ma democratici e desiderosi di profondo rinnovamento). Riuscì ad analizzare nella profondità quel conflitto generazionale e a raccontare quella crisi esistenziale che avvertiva già da antesignano ma che per gli altri sarebbe esplosa più tardi. Questo particolare conflitto tra gli intellettuali degli anni Quaranta e quelli degli anni Sessanta sarà nel 1873 l’argomento anche del capolavoro di Dostoevskij “I Demoni”.

Turgenev scrisse in seguito altri due romanzi: Fumo (1867), parodia dei russi emigrati per motivi politici (il fumo emesso dal treno era la metafora della confusione della vita che avvolgeva lui e l’amata Russia), e Terra vergine (1877), dedicato al risveglio delle coscienze nel movimento rivoluzionario russo (quest’opera avrebbe dovuto costituire il romanzo nuovo per gli uomini nuovi, in grado di preparare appunto questa rivoluzione).

Scrisse anche per il teatro, ammantando di moderno realismo psicologico i suoi testi, tra i quali è degno di nota Un mese in campagna (1850). Scrisse inoltre quattro volumi di racconti, per i quali è considerato veramente grande: quelli appartenenti al primo periodo erano ispirati a un lieve realismo lirico–sentimentale mentre quelli appartenenti al secondo periodo, ricchi di fantasiosa malinconia e di una concezione tragica della vita umana, svelavano l’angoscia esistenziale che attanagliò Turgenev negli ultimi anni di vita. Di grande bellezza e d’intenso approfondimento psicologico sono: Asja (1858), Primo amore (1860) e Acque di primavera (1872). Nel 1868 scrisse Memorie letterarie e di vita, e nel 1882 – un anno prima della morte avvenuta a Bougival, Parigi, il 3 settembre del 1883 per un tumore alla spina dorsale – Poesie in prosa (o Senilia), dominate dal triste presentimento della morte vicina (aveva scritto: «Sì, prova un po’ a negare la morte. È lei che ti nega, e basta!»). Per suo espresso desiderio, la salma fu tumulata nel cimitero della città di Pietroburgo, ove aveva lasciato i suoi legami più tenaci e il più profondo attaccamento, a dispetto delle sue lunghe assenze.

A proposito di questo forte legame di Ivàn Turgenev con la sua terra natale, ha osservato la critica (La Nuova Enciclopedia della Letteratura Garzanti, Garzanti editore, Milano 1985): «Ma le sue radici erano nella Russia del suo tempo, di cui seppe registrare la complessità, l’inquietante, tragico conflitto fra il bisogno di nuovo e l’attaccamento spesso disperato al vecchio. I suoi romanzi in una lingua tra le più limpide e perfette nella storia letteraria russa dopo Puškin, non sono, come certi contemporanei credettero, serie indagini sociologiche, bensì attente letture psicologiche di un’epoca di grande fermento. E i suoi personaggi rimangono esempi ancor oggi suggestivi di tormentata ambiguità, di sotterranea crescita spirituale.».

Scrisse il critico e scrittore statunitense Edmund Wilson (1895-1972): «La particolare abilità di Turgenev consiste nel mostrare, attraverso i rapporti con gli altri, quello che le persone realmente sono. Per questo riesce così bene nella rappresentazione dei vari tipi di società.».

P.S. Due altri bei film (insieme a quelli considerati nel post precedente), tratti da opere di Turgenev, sono:

- Nido di gentiluomini (1969), film prodotto in Unione Sovietica e diretto da Andrei Konchalovsky, con Irina Kupchenko, Leonid Kulagin, Beata Tyszkiewicz, Tamara Chernova, Viktor Sergachyov, Vasili Merkuryev, Aleksandr Kostomolotsky, Mariya Durasova, Vladimir Kochurikhin e Sergei Nikonenko. è la storia di Fedor, un giovane appartenente a un’antica famiglia nobiliare che riceve una educazione severa che include il disprezzo per il genere femminile; s’innamora di Varvara e la sposa, ma lei lo tradisce e lo lascia cadendo sempre più in basso. Fedor non saprà allora mettere a frutto il suo amore per Liza, una tenera e ingenua fanciulla, che finirà la sua vita in un convento, in una regione remota della Russia.

- Acque di primavera (1989), film franco–anglo–italiano che partecipò al Festival di Cannes, di Jerzy Skolimowski, con Timothy Hutton, Nastassja Kinski, Valeria Golino e William Forsythe (alla fotografia ha partecipato Dante Spinotti) è il ritratto tenero ed elegante di un uomo debole, il giovane proprietario terriero russo Dimitri Sanin, combattuto tra due donne forti, la ragazza di origine italiana Gemma Rosselli conosciuta durante un suo viaggio, e la ricchissima Maria Nicolaievna, moglie del principe Ippolito Polozof, suo amico, che lo seduce vivendo con lui un’ardente breve relazione sentimentale e provocando la rottura con Gemma, che Dimitri rimpiangerà per tutta la vita.


giovedì 6 dicembre 2012

Primo amore di Turgenev - Umiliazione e gelosia di un adolescente

   Ivàn Turgenev e locandine film



“Primo amore” è un piccolo grande racconto di Ivàn Turgenev (Orel, Russia, 1818-1883) che si muove sul filo rosso dell’autobiografia, nel quale Vladimir Petrovic racconta per iscritto agli amici il suo primo amore, che è stato «effettivamente tra i non comuni».

Il sedicenne Volodja, innocente e ingenuo, vive in una dacia in campagna e conosce una vicina di casa ventunenne, l’affascinante principessina Zinaida, nata dal matrimonio dell’umile figlia di un commesso con un principe rovinato dal gioco e da speculazioni sbagliate. Le due donne vivono in una povera casa in affitto, in mezzo a grandi difficoltà economiche. La ragazza, che aspirerebbe a vivere liberamente e che ama essere corteggiata, è circondata da diversi uomini, giovani e meno giovani, tutti innamorati di lei, tra i quali Belovzorov, un ragazzone ruvido e serio che l’ha chiesta in sposa ma inutilmente. Volodja s’innamora perdutamente – come soltanto ci si può innamorare a sedici anni – della giovane donna, che ora lo illude ora lo respinge. Con la sua sensibilità esasperata si accorge ben presto che Zinaida è innamorata di un altro; disperato e geloso, scopre con angoscia che ha una relazione col padre Pjotr, che Volodja ama teneramente ma che anche teme per il carattere severo e mutevole. La madre – ricca e molto più anziana del marito – scopre la relazione, e Volodja ritorna in città insieme ai genitori. Due anni dopo il padre muore appena quarantaduenne per un colpo apoplettico e, quattro anni dopo, Volodja scopre che Zinaida si è sposata e che è morta di parto. Il racconto è così bello che ho cercato di farne una sintesi antologica, nel tentativo di farne assaporare appieno il gusto romantico!

La storia si svolge nell’estate del 1833, in una dacia signorile presa in affitto; Volodja si stava preparando per l’ammissione all’università, studiando pochissimo e senza affrettarsi: «Nessuno limitava la mia libertà. Facevo quel che volevo […] Mio padre mi trattava con indifferenza e dolcezza; la mamma quasi non mi rivolgeva l’attenzione, benché, tranne me, non avesse altri figli: l’assorbivano altre preoccupazioni. Mio padre, un uomo ancora giovane e molto bello, l’aveva sposata per interesse; lei gli passava dieci anni. La mamma conduceva una vita triste: si agitava continuamente, si consumava di gelosia, si arrabbiava – ma mai in presenza di mio padre; ne aveva molta paura e lui si comportava in maniera rigida, fredda e distaccata. Non ho mai visto un uomo più squisitamente tranquillo, sicuro di sé e dispotico.». Il sangue del ragazzo scorreva veloce e il cuore mi doleva in modo dolce e ridicolo: «[…] aspettavo tutto, mi intimidivo di qualcosa e mi meravigliavo di tutto, stavo sul chi vive; la fantasia lavorava e correva rapida intorno alle stesse idee, come all’alba i rondoni intorno al campanile; […] Ricordo, in quel tempo, l’immagine di una donna; il miraggio dell’amore femminile non affiorava quasi mai nella mia mente con contorni definiti; in tutto ciò che pensavo, che sentivo, si nascondeva un presentimento semicosciente, pudico, di qualcosa di nuovo, di indicibilmente dolce, di femminile… Questo presentimento, questa attesa penetrava tutto il mio essere: io la respiravo, risuonava per le mie vene, in ogni goccia di sangue… era destino che presto si realizzasse.».

Tre settimane dopo il padiglione di destra (che era vuoto) veniva preso in affitto dalla principessa Zasekina, molto povera. Così Volodja la vide la prima volta: «Ad alcuni passi da me, nel praticello, tra cespugli verdi di lampone, c’era una fanciulla alta e slanciata con un vestito striato rosa ed un fazzolettino bianco sulla testa; le si affollavano intorno quattro giovani e lei, a turno, dava loro un colpetto sulla fronte con dei fiorellini grigi dei quali non so il nome ma che sono conosciutissimi dai bambini; […] avrei dato tutto il mondo perché quelle piccole ed adorabili dita colpissero anche la mia fronte. Il fucile mi scivolò sull’erba, dimenticai tutto; divoravo con gli occhi il corpo armonioso, il collo, le belle mani, i capelli biondi un poco arruffati sotto il fazzolettino bianco, gli occhi socchiusi e intelligenti, le ciglia e, sotto di esse, le guance delicate… In quello stesso momento anche la fanciulla si girò… Vidi due enormi occhi grigi su  un viso mobile e vivace – e questo viso di colpo cominciò tutto a tremare, a ridere, vi balenarono dei denti bianchi, le sopracciglia si sollevarono in maniera buffa… arrossii, raccolsi da terra il fucile e, inseguito da una risata squillante ma non cattiva, fuggii nella mia camera, mi gettai sul letto e chiusi il viso tra le mani. Il cuore mi batteva forte; provavo una grande vergogna e una gran gioia: sentivo un’agitazione straordinaria.».

La mamma di Volodja, che aveva ricevuto una lettera scritta in una lingua sgrammaticata dalla principessa, mandò il ragazzo per pregarla di favorire da lei verso l’una. Si realizzavano imprevedibilmente e rapidamente i desideri segreti di Volodja, che lo rallegravano e spaventavano. Volodja si presentò alla principessa Zasekina e le illustrò l’impegno della madre, riferendole l’invito a prendere il tè da lei: «In quel momento, si aprì di colpo l’altra porta del salotto e sulla soglia comparve la fanciulla che avevo visto il giorno prima nel giardino. Mi diede la mano e sul suo viso balenò un sorrisetto. […] Approfittai del fatto che non sollevava gli occhi e cominciai ad osservarla, da prima di soppiatto poi sempre più arditamente. Il suo viso mi sembrava ancora più affascinante del giorno prima: tutto in esso era così delicato, intelligente e caro. […] La osservavo: come mi era cara e vicina! Mi sembrava di conoscerla da chissà quanto tempo e, prima di averla conosciuta, di non aver saputo niente, di non aver vissuto… indossava un vestito scuro, ormai liso, con un grembiule. Avrei carezzato volentieri ogni piega di quel vestito e di quel grembiule. Di sotto il vestito comparivano le punte degli stivaletti: con venerazione mi sarei inginocchiato ai suoi piedi… “Ecco, sono seduto davanti a lei – pensavo – l’ho conosciuta… che felicità! dio mio!”. Per poco non cascai giù dalla sedia per l’entusiasmo, ma dondolai solo un poco le gambe, come un bambino che gode. Stavo bene, come un pesce nell’acqua, e per l’eternità non mi sarei mosso da quella stanza, non avrei abbandonato quel posto.».

All’improvviso era entrato Belovzorov, «un giovane biondo e ricciuto, un ussaro con la faccia vermiglia e gli occhi sporgenti», portando un gattino che aveva attirato tutta l’attenzione di Zinaida. Volodja ritornò a casa molto triste, sforzandosi di non piangere perché era geloso dell’ussaro. Volodia restava sempre affascinato dal «baccano indiavolato», dall’«allegria senza cerimonie» e dai «rapporti insoliti con gente sconosciuta» che lo coinvolgevano durante le riunioni serali in casa di Zinaida e che lo facevano ubriacare come per il vino. Una notte al ritorno da una di queste serate indimenticabili, aveva spento la candela ma non riusciva a dormire: «Mi sedetti su una sedia e me ne stetti lì incantato. Ciò che provavo era così nuovo e così dolce… Me ne stavo seduto, immobile, e, girando appena lo sguardo intorno, respiravo lentamente; ora ridevo in silenzio, ricordando, ora mi sentivo gelare al pensiero che ero innamorato, che, ecco, era lui, l’amore. Il viso di Zinaida mi ondeggiava davanti nell’oscurità – senza scomparire mai; le sue labbra sorridevano sempre in quel modo enigmatico, gli occhi mi osservavano un poco di traverso, interrogativi, pensierosi e teneri… come nell’istante in cui mi ero separato da lei. […] Sentivo una grande stanchezza e quiete… ma l’immagine di Zinaida continuava a correre trionfante per la mia anima. […] Oh, dolci sentimenti, dolci suoni, bontà e tranquillità di un’anima commossa, gioia struggente dei primi intenerimenti dell’amore, dove siete? Dove siete?»

Volodja amava il padre di un amore negato: «Mio padre aveva un’influenza straordinaria su di me e straordinari erano i nostri rapporti. Non si occupava quasi della mia educazione e non mi offendeva mai, rispettava la mia libertà e con me era anche gentile, solo che non mi faceva arrivare sino a lui. Lo amavo e lo ammiravo, rappresentava per me l’immagine del vero uomo, e, dio mio, come mi sarei attaccato appassionatamente a lui se non avessi sentito continuamente le sue mani che mi respingevano! […] Più tardi, riflettendo sul suo atteggiamento, giunsi alla conclusione che aveva ben altro che me e la vita familiare; amava altro e di questo altro godeva completamente. «Prendi quello che puoi ma non lasciarti trascinare; essere indipendenti, ecco tutto il gioco della vita», mi disse una volta. […] Mio padre, prima di tutto e più di tutto voleva vivere, e viveva. Forse aveva il presentimento che non gli sarebbe toccato a lungo di godere della sua “parte” di vita: è morto a quarantadue anni.».

Volodja amava ormai irrimediabilmente: «La mia “passione” iniziò da quel giorno. Ricordo che sentivo allora qualcosa di simile a quello che deve provare uno che ottiene un impiego: avevo cessato di essere un ragazzetto, ero innamorato. Ho detto che da quel giorno iniziò la mia passione; potrei aggiungere che da quello stesso giorno iniziarono anche le mie sofferenze. In assenza di Zinaida languivo: non mi entrava in testa niente, mi cadeva tutto di mano, per giorni interi pensavo intensamente a lei… languivo… e in sua presenza le cose non andavano certo meglio. Ero geloso, ero cosciente della mia nullità, da sciocco mettevo il muso e da sciocco mi umiliavo – e tuttavia una forza invincibile mi trascinava da lei – e ogni volta varcavo la soglia della sua camera con un brivido involontario di felicità. Zinaida aveva indovinato subito che mi ero innamorato di lei ed io non pensavo a nasconderlo; si divertiva della mia passione, si burlava di me, mi vezzeggiava e mi tormentava. è dolce essere l’unica fonte, la causa dispotica e modesta delle più grandi gioie e del più profondo dolore per un altro – nelle mani di Zinaida ero come cera molle. Del resto, non ero il solo a esserne innamorato: tutti gli uomini che frequentavano la sua casa avevano perso la testa per lei e lei li teneva in pugno, ai suoi piedi. […] In tutto il suo essere, vivo e bello, c’era un miscuglio particolarmente affascinante di astuzia e noncuranza; […] Sì, Zinaida si burlava molto di me. Per tre settimane la vidi ogni giorno – e cosa, cosa non faceva con me! […] ero tutto preso da un sentimento indefinibile, in cui c’era di tutto: e la tristezza, e la gioia, e il presentimento del futuro, e il desiderio, e la paura della vita. Ma allora non capivo niente di tutto questo e non ero capace di dare un nome a quello che mi si stringeva dentro – o meglio, gli avrei dato un solo nome: Zinaida. Zinaida giocava sempre con me, come una gatta col topo. Ora civettava con me – ed io mi agitavo e mi sdilinquivo – ora di colpo mi respingeva – ed io non osavo avvicinarla né guardarla.».

Un giorno Volodja in giardino incontrò Zinaida seduta sull’erba, immobile; avrebbe voluto allontanarsi ma lei aveva alzato il viso pallido mostrando una tristezza così grave e una stanchezza così profonda che il cuore gli si strinse e in quel momento gli sembrò che avrebbe dato volentieri la sua vita per lei, purché non si disperasse. Zinaida si fece leggere da Volodja i versi di una famosa poesia d’amore di Puškin che recitavano: «Non amare non si può», e gli disse che un giorno avrebbe saputo. A Volodja balenò il pensiero che fosse innamorata: «Dio mio! è innamorata!». I suoi veri tormenti iniziarono allora: «Avevo perso la testa; pensavo, ripensavo e con insistenza osservavo Zinaida, anche se di nascosto, per quanto possibile. In lei c’era stato un cambiamento – era evidente. Andava a passeggiare a lungo da sola. Talvolta non si mostrava agli ospiti; se ne stava per ore intere in camera sua. Prima non le accadeva mai. Io ero diventato tutto d’un tratto straordinariamente perspicace o almeno così mi sembrava. […] Dopo poco andai a casa. “è innamorata”, mormorarono involontariamente le mie labbra. “Ma di chi?”».

Passavano i giorni e Zinaida diventava sempre più strana. Una volta Volodja le aveva visto il viso bagnato di lacrime: «Le lacrime di Zinaida mi avevano fatto perdere la testa; decisamente non sapevo cosa pensare ed ero pronto a piangere: ero proprio un bambino, nonostante i miei sedici anni. […] Non pensavo a niente e a nessuno. Avevo perso la testa e cercavo sempre luoghi solitari. Mi piacevano in modo particolare le rovine della serra. Arrampicatomi sull’alto muro, seduto come un giovane infelice, solo e triste, mi accadeva di sentire pietà per me stesso; mi piacevano tanto questi sentimenti tristi, me ne ubriacavo!». Un giorno Zinaida lo aveva sfidato a saltare dall’alto di quel muro, se veramente l’amava, e Volodja si era buttato giù senza pensarci un istante. Cadendo aveva perso i sensi e, quando era rinvenuto, con tenerezza allarmata, Zinaida gli stava dicendo che l’amava: «Il suo petto ansimava vicino al mio, le sue mani mi toccavano la testa e, all’improvviso – cosa mi succedeva! – le sue labbra tenere e fresche cominciarono a coprire il mio viso di baci… sfiorarono le mie labbra…, ma a questo punto Zinaida certo indovinò dall’espressione del mio viso che, anche se non aprivo gli occhi, ero tornato in me […] Mi alzai. […] Non finì la frase ed andò via spedita, mentre io mi sedetti un momento sulla strada… le gambe non mi reggevano. Le ortiche mi avevano punto le braccia, mi doleva la schiena e mi girava la testa; ma il senso di beatitudine che provai allora non si è ripetuto mai più nella mia vita. Era iniziato con un dolce dolore per tutte le membra ed era terminato, infine, con salti ed esclamazioni di entusiasmo. Proprio così: ero ancora un bambino. Per tutto il giorno fui così allegro e fiero, conservavo così viva sul mio viso l’impressione dei baci di Zinaida, con un brivido di estasi ricordavo ogni sua parola e così accarezzavo la mia inattesa felicità da aver persino paura; non avevo neppure il desiderio di vedere lei, la colpevole di queste nuove sensazioni. Mi pareva di non poter esigere più niente dal destino, che ora si sarebbe dovuto prendere, tirare un ultimo sospiro, e poi morire.».

La mattina seguente Voldja si era alzato presto e aveva vagato a lungo per le montagne e per i boschi: «non mi sentivo felice; ero uscito di casa con l’intenzione di darmi alla malinconia ma la gioventù, il tempo meraviglioso, l’aria fresca, il piacere della veloce camminata, la delizia di stendersi da solo sull’erba fitta mi presero tutto: il ricordo di quelle indimenticate parole, di quei baci, mi stringeva l’anima». Un giorno, il ragazzo sentì risuonare per una stradina il rumore sordo di zoccoli di cavalli e vide suo padre e Zinaida che procedevano vicini: «Mio padre le stava dicendo qualcosa, girato verso di lei con tutto il corpo e con una mano poggiata sul collo del cavallo; sorrideva. Zinaida lo ascoltava in silenzio, con gli occhi gravemente abbassati e le labbra serrate. Da prima vidi solo loro; appena dopo qualche attimo, dalla curva della valle, comparve Belovzorov in uniforme da ussaro […] Mio padre tirò le briglie e si allontanò da Zinaida, lei sollevò lentamente lo sguardo verso di lui ed entrambi si lanciarono al galoppo… Belovzorov volò dietro di loro, facendo risuonare la sciabola. “Lui è rosso come un gambero” – pensai – “ma lei… perché è così pallida? Ha cavalcato tutta la mattina ed è pallida?”».

Per sei giorni successivi Zinaida si disse malata e fece di tutto per sfuggire il ragazzo: «Involontariamente mi voltava le spalle… involontariamente; ecco cosa mi era amaro, cosa mi rattristava! Ma non c’era niente da fare, cercavo di non finirle a tiro e la spiavo da lontano, cosa che non sempre mi riusciva. Come prima, le era successo qualcosa di incomprensibile; il suo viso era diverso, era tutta diversa.». Tre giorni dopo la incontrò nel giardino e lei lo trattò con dolcezza e gli disse che era un po’ stanca e che doveva amarla ma non come prima, soltanto come un amico; gli diede poi «un bacio pulito e tranquillo», chiamandolo mio paggio: «Tutto confuso mi incamminai dietro di lei. “Questa fanciulla mite ed assennata”, – pensavo, – “è davvero la stessa Zinaida che conoscevo?”. La sua andatura mi sembrava più tranquilla, tutta la sua figura più maestosa ed armoniosa… Dio mio! Con quale nuova forza divampava in me l’amore!».

Un giorno, dopo pranzo, alla presenza di tutti i suoi giovani corteggiatori e di Volodja, Zinaida per pegno raccontò una sorta di fiaba che nascondeva la storia di un amore impossibile – quello che lei stava vivendo dolorosamente – e che accennava a una regina, che era circondata da ospiti nobili ed eleganti, ma pensava sempre e soltanto a un uomo che l’aspettava nel buio, vicino a una fontana, colui che amava e che la dominava: «Non ha un vestito ricco né pietre preziose, nessuno lo conosce ma mi aspetta ed è sicuro che io andrò, – ed io andrò e non c’è alcun potere che potrà fermarmi quando deciderò di andare da lui, di rimanere e di perdermi con lui, là, nell’oscurità del giardino, tra il fruscio degli alberi ed il mormorio della fontana…». Volodja intuiva l’allusione celata e si chiedeva chi fosse quell’uomo segreto di Zinaida: «“Un’avventuriera”, aveva detto tra sé una volta mia madre. Un’avventuriera lei, il mio idolo, la mia dea! Questa parola mi scottava, cercavo di sfuggirla sotto il cuscino, mi indignavo e, nello stesso momento in cui disapprovavo, cosa non avrei dato per essere quel fortunato vicino alla fontana!…».

E una volta era andato di notte nel giardino, accanto alla fontana, e aveva sentito un fruscio: «Cos’era? Li avevo sentiti davvero i passi o era il mio cuore che batteva? – Chi è? – balbettai in maniera appena percepibile. E cos’era di nuovo? Risate soffocate?… o il fruscio delle foglie… o un respiro proprio nell’orecchio? Cominciavo ad aver paura… – Chi c’è? – ripetei a voce ancora più bassa. […] Io aspettai, aspettai e infine me ne tornai nella mia camera, al mio letto diventato freddo. Sentivo un’agitazione straordinaria: proprio come se fossi andato a un incontro e fossi rimasto solo, passando accanto alla felicità altrui.».

Sempre più geloso dell’uomo sconosciuto, Volodja prese un coltellino e di notte ritornò nuovamente in giardino per tentare di cogliere l’amante di Zinaida: «Dei passi rapidi, leggeri e guardinghi risuonavano chiaramente nel giardino. “Eccolo… Eccolo, finalmente!” mi balenò nel cuore; cavai fuori convulsamente il coltello dalla tasca, convulsamente lo aprii – quali scintille rosse mi mulinavano negli occhi, dal terrore e dalla collera mi si rizzarono i capelli… I passi si dirigevano verso di me; mi curvai verso di essi… Comparve un uomo… dio mio! Era mio padre! Lo riconobbi subito, sebbene fosse tutto imbacuccato in un mantello scuro e avesse il cappello calato sul viso. Mi passò accanto in punta di piedi. Non mi notò anche se non ero nascosto da niente, ma ero così rattrappito e raggrinzito che mi si confondeva probabilmente con la terra stessa. Da Otello, geloso e pronto ad uccidere, mi ero trasformato in uno scolaretto… […] Dal terrore, avevo lasciato cadere il coltello per terra ma neanche mi misi a cercarlo: ero pieno di vergogna. Di colpo rinsavii.».

La mattina dopo Volodja si era alzato con il mal di testa e la sera stessa pianse tra le braccia di Zinaida con un tale impeto da spaventarla, dicendole che sapeva tutto, che si era presa gioco di lui, e che a nulla serviva il suo amore: « – Sono colpevole davanti a voi, Volodja – uscì a dire Zinaida. – Ah, quanto sono colpevole… – aggiunse e strinse le mani. – Quanto c’è di brutto, di oscuro, di cattivo in me… Ma io non mi faccio gioco di voi, io vi amo. Voi neanche sospettate perché e come… o forse lo sapete? Cosa potevo dirle? Stava davanti a me e mi guardava, ed io le appartenevo completamente, dalla testa ai piedi, non appena mi guardava… […] Faceva con me tutto quel che voleva.».

Iniziò per il ragazzo un periodo strano e febbrile, «una specie di caos nel quale si mescolavano vorticosamente i sentimenti, i pensieri, le congetture, i desideri, le gioie e le passioni più contrastanti»; aveva paura di guardare in se stesso e di dare una risposta a tutto; aveva solo fretta di vivere ma la notte dormiva perché lo aiutava la spensieratezza infantile: «Non volevo sapere se ero amato e non volevo confessarmi di non essere amato». Un forte colpo improvviso pose fine a tutto e lo gettò su una nuova strada. Volodja apprese da un domestico che una terribile scenata era accaduta tra i suoi genitori a causa della relazione del padre con la giovane principessa, rivelata alla madre da una lettera anonima: «Non scoppiai a piangere né mi diedi alla disperazione; non mi chiesi come e quando fosse accaduto tutto questo né mi meravigliai di non aver indovinato tutto prima, da tempo; non me la presi neanche con mio padre… Ciò che avevo saputo era al di sopra delle mie forze: questa scoperta improvvisa mi aveva schiacciato… Era finito tutto. Tutti i miei fiori erano stati strappati di colpo e giacevano intorno a me sparsi e calpestati.».

Il giorno dopo la mamma annunciò che si sarebbero trasferiti in città, ad Arbat, ove avevano una casa e il padre andò da lei in camera da letto e rimasero a lungo da soli: «Tutto venne fatto con tranquillità, senza fretta, la mamma ordinò pure di riverire la principessa e di farle presente il suo dispiacere, ma le condizioni di salute non le consentivano di andarla a trovare prima della partenza. Io vagavo come uno sbandato e speravo solo che tutto finisse al più presto. Solo una cosa non riuscivo a capire: come aveva potuto lei, una fanciulla giovane, una principessina, risolversi a un simile atto, sapendo che mio padre non era un uomo libero e avendo la possibilità di sposare, per esempio, Belovzorov? In cosa sperava? Come non aveva avuto paura di rovinare tutto il proprio futuro?». Volodja rifletté che quello era l’amore, quella era la passione, quella la dedizione… Volle salutare Zinaida per l’ultima volta e lei comparve in un abito scuro, pallida e con i capelli sciolti; lo pregò di non pensare che fosse malvagia, anche se certe volte lo aveva fatto soffrire. Volodja cominciò a tremare come in passato «sotto l’influenza di un fascino irresistibile, inesprimibile» e le disse: «Credetemi, Zinaida Aleksandrovna, qualunque cosa abbiate fatto, in qualunque modo mi abbiate fatto soffrire, io vi amerò e vi adorerò fino alla fine dei miei giorni. Si voltò rapidamente verso di me e, spalancate le braccia, mi abbracciò e mi baciò forte e con calore. Dio sa questo lungo bacio d’addio a chi fosse destinato ma io ne gustati con avidità la dolcezza. Sapevo che non si sarebbe ripetuto mai più. – Addio, addio, – insistevo. Lei si allontanò e andò via. Anch’io me ne andai. Non sono in grado di riferire la sensazione che mi aveva preso. Non desidererei che si ripetesse un’altra volta ma mi considererei infelice se non l’avessi mai provata. Ci trasferimmo in città. Non mi sbarazzai subito del passato né subito mi misi a studiare. La mia ferita si rimarginava lentamente; contro mio padre non nutrivo alcun sentimento cattivo. Anzi: ai miei occhi era come cresciuto… ma lasciamo agli psicologi di spiegare, come sanno, questa contraddizione.».

Un giorno, durante una loro passeggiata a cavallo, Volodja e il padre si erano persi di vista, e davanti alla finestrella di una casetta di legno il ragazzo vide il padre voltato di schiena che parlava con una donna vestita di scuro: era Zinaida: «Mi misi a osservare e cercavo di sentire. Sembrava che mio padre volesse far valere la sua opinione su qualcosa e che Zinaida non fosse d’accordo. Come fosse ora, vedo il suo viso: triste, serio, bello e con un tratto indescrivibile di devozione, di malinconia, di amore e di una certa disperazione – non posso scegliere un’altra parola. Parlava a monosillabi, teneva gli occhi bassi e sorrideva appena, rassegnata e ostinata. Solo da questo sorriso riconobbi la mia Zinaida di una volta. Mio padre alzò le spalle e si aggiustò il cappello, cosa che in lui era sempre segno di impazienza…». Irritato, il padre aveva improvvisamente alzato il frustino, e aveva dato un colpo secco sul braccio nudo di Zinaida: «Zinaida sussultò, guardò in silenzio mio padre, e levando lentamente il braccio alle labbra, baciò la ferita che vi si era aperta. Mio padre gettò via il frustino e, volando veloce sui gradini, irruppe nella casa… Zinaida si girò, tese il braccio, mandò indietro la testa e si allontanò anch’essa dalla finestra. Con quale spavento, con quale terribile sconcerto nel cuore mi gettai indietro […] Guardavo con aria stupida il fiume e non mi rendevo conto che mi scendevano le lacrime. “La battono, – pensavo, – la battono… la battono”». Volodja raggiunse il padre che stava con la testa china «e allora, per la prima e forse anche l’ultima volta, mi resi conto di quanta tenerezza e quanto dispiacere potessero esprimere i suoi tratti severi».  Il ragazzo si mise a correre tentando di raggiungerlo ma non ci riuscì: «Ecco, questo è amore, – mi dissi nuovamente, seduto di notte davanti alla mia scrivania, sulla quale già cominciavano a comparire libri e quaderni, – questa è passione!… Come non indignarsi, come tollerare un colpo da chiunque sia!… dalla mano più cara! Ma certo è possibile se si ama… Ma proprio io… immaginavo… L’ultimo mese mi aveva invecchiato molto e il mio amore, con tutte le sue agitazioni e passioni, finì per sembrare piccolo, infantile e misero davanti a quell’altro, sconosciuto, che potevo appena indovinare e che mi aveva spaventato, come un volto estraneo, bello ma minaccioso, che ci si sforzi invano di distinguere nella penombra. […]  
Due mesi dopo entrai all’università e dopo sei mesi mio padre morì (per un colpo) a Pietroburgo, dove si era appena trasferito con me e mia madre. […] La stessa mattina del giorno in cui ebbe il colpo, aveva iniziato una lettera in francese per me. “Figlio mio, – mi scriveva, – abbi timore dell’amore delle donne, di questa felicità, di questo veleno…”.».

Dopo quattro anni, Volodja venne a sapere che la principessina Zasekina aveva sposato un uomo benestante e che aspettava un bambino; dopo qualche settimana, quando era andato a trovarla nel suo albergo, era venuto però a sapere che era morta di parto: «Fu come se qualcosa mi colpisse nel cuore. Il pensiero che avrei potuto vederla, che non l’avevo vista e che non l’avrei vista mai più, questo amaro pensiero si fece strada in me con tutta la forza di un inoppugnabile biasimo. “è morta”, ripetevo, guardando inebetito il portiere; uscii quieto nella strada e camminai senza sapere dove andavo. Tutto il passato d’un tratto venne a galla e mi si presentò davanti. Ed ecco come si era risolta, a cosa aveva teso, correndo e agitandosi, tutta quella vita giovane, ardente e brillante! (…) O gioventù! gioventù! Non ti curi di nulla, come se possedessi tutti i tesori del mondo, anche la malinconia ti rallegra, anche la tristezza ti sta bene; sicura e insolente dici: guardate! Io sola vivo; ma i giorni per te arrivano e scompaiono senza traccia e senza calcolo e tutto in te si scioglie come la cera al sole, come la neve… E forse, il segreto del tuo splendore sta non nella possibilità di fare tutto ma nella possibilità di pensare che farai tutto, nel fatto che getti al vento le forze che non saresti capace di usare altrimenti, nel fatto che ognuno di noi si considera seriamente uno scialacquatore e seriamente ritiene suo diritto dire: “Oh, che cosa avrei fatto se non avessi perduto il mio tempo invano?”. Ed anche io… cosa speravo, cosa mi aspettavo, quale ricchezza futura prevedevo quando seguivo con un sospiro, con una sensazione triste, il miraggio – sorto per un attimo – del mio primo amore? E cosa si è realizzato di tutto ciò che avevo desiderato? Anche ora, quando ormai cominciano a scendere sulla mia vita le ombre della sera, cosa mi è rimasto di più fresco e più caro se non il ricordo di quel breve temporale mattutino di primavera? […]».
[Da “Primo amore”,1860, traduzione di Rosa Mauro, Sellerio editore, Palermo 1983]

Ed ecco un racconto del primo amore e “un assaggio” di pagine di superba bellezza, scritte da un grande autore classico! La conclusione del romanzo è profondamente leopardiana: tutti noi viviamo rimpiangendo i dolci inganni e gli ingenui sentimenti dei giovanili anni perduti. Tutti noi viviamo l’acuta nostalgia di ciò che è irrimediabilmente perduto, ma soprattutto del nostro primo «ragionar d’amore», dei primi timidi sguardi, delle prime estatiche emozioni. L’adolescente Volodja, dal cuore ardente e dalla mente sognante, è rappresentato con forte verità di sentimenti e con approfondimento psicologico notevole. Quanti di noi possono non riconoscersi in lui, nei suoi teneri sentimenti amorosi, prima esaltati e poi delusi? La descrizione di Zinaida – donna luminosa e oscura, bella e civettuola, ricca di giovanile incanto femminile, molto consapevole della forza del suo fascino ma sensibile, che aspira a una certa emancipazione femminile e che disprezza le convenzioni – è veramente unica. Sul primo ingenuo amore del ragazzo (che vive esperienze dolci–amare) si sovrappone l’amore peccaminoso (ricambiato dalla giovane donna) del padre di Volodja, «uomo che ha vissuto», un aristocratico ancora giovane e bello ma egoista e prepotente, che Volodja quasi idolatra. Il figlio assiste da spettatore impotente e stupito, ma anche commosso, a questa paradossale situazione, nella quale si vede trasformato in rivale del padre (in ciò c’è molto di autobiografico, perché lo scrittore visse nella realtà una situazione simile). E Zinaida, la cui esperienza è certamente crudele, accetta docilmente i comandi di Pjotr, come Volodja accetta docilmente i comandi di Zinaida. Il ragazzo è sconvolto: i suoi due idoli si amano a tradimento, lasciandolo fuori! Tutto è finito! Tutti i suoi fiori sono stati strappati e ormai giacciono morti intorno a lui, sparpagliati e calpestati. La fatale passione tra i due fa impallidire il tenero piccolo amore tormentato di Volodja e fa maturare l’adolescente prima del tempo. Ah, il fascino romantico che un uomo ricco e maturo dal carattere dominante, frutto proibito perché già sposato, ha esercitato sulle fanciulle di ieri ed esercita su quelle di oggi! Credo che Zinaida apprezzasse, tuttavia, anche il privilegio di essere amata dall’adolescente Volodja con un amore romantico così forte e diverso da quello di tutti gli altri pretendenti più maturi.

Turgenev ha scritto spesso dell’amore, cucinandolo per i lettori in tutte le salse: l’amore tenero e puro, il gioco sentimentale con un fondo torbido, il fuoco ardente e tragico, il desiderio cupo, la passione travolgente. Nel primo periodo della sua opera, Ivàn Turgenev amò molto il romanzo sentimentale ma in seguito seppe bilanciare meglio realismo e sentimentalismo. I suoi personaggi maschili sono insieme veri e ideali, spesso uomini psicologicamente incerti tra sogni e azioni reali, talora inconcludenti nelle scelte della vita della pratica quotidiana ma sempre trasfigurati attraverso le memorie infantili del grande scrittore russo. Pur aspirando a vivere in modo non insignificante, i suoi protagonisti sono come fatalmente trascinati in basso dalle passioni (meschine) e dai desideri (piccoli e borghesi). Turgenev ha rappresentato per lo più degli amori infelici, perché minati dalla debolezza di carattere e dalla mancanza di risolutezza dell’uomo, che – fragile o ambiguo – aspira a una crescita morale ma si trova ad avere a che fare con donne, ora forti e prepotenti (immagine freudiana dell’odiata figura materna), ora pure e deboli ma destinate a soccombere. Alcuni critici hanno parlato di “amletismo” del poeta–scrittore russo, e in ciò consiste forse l’aspetto suo più moderno.

P.S. Alcuni film sono stati tratti da questo bellissimo racconto:

- il breve film Pervaya lyubov’, USSR, Mosfilm 1968, di Vasiliy Ordynskiy, con Aleksandr Kaydanovskiy, Stanislav Lyubshin, Innokentij Smoktunovskij, Irina Pechernikova ed Elizaveta Solodova;

- il film tedesco Erste Liebe del 1970, sceneggiato e diretto da Maximilian Schell, con John Moulder-Brown, Dominique Sanda, Valentina Cortese e lo stesso Maximilian Schell nel bellissimo ruolo del padre (fu nominato agli Oscar al miglior film straniero);

- il film Lover’s Prayer,  che combina il racconto di Turgenev con una novella di Čechov, del 1999, diretto da Reverge Anselmo, con Kirsten Dunst, Julie Walters, Geraldine James, Nathaniel Parker e Nick Stahl.