martedì 29 gennaio 2013

Il grande Mario Riva avrebbe compiuto cento anni


Mario Riva


Nato Mariuccio Bonavolontà, Mario Riva vide la luce a Roma il 26 gennaio del 1913 e fu un mitico conduttore televisivo. Favorì alla grande il lancio della televisione italiana allora agli albori. Mitici sono rimasti il suo calore umano e la sua vena popolaresca, amati dagli italiani tutti a prescindere dall'età e dall'estrazioni sociale. Per notizie più dettagliate, consultate il mio blog del 6 dicembre 2011(http://silvia-iannello.blogspot.it/2011/12/mario-riva-e-la-rai-degli-anni-doro.html)

Figlio d'arte, il padre era il compositore napoletano Giuseppe Bonavolontà, autore della nota canzone Borgo antico.

Chi può dimenticare la sua genuinità, la sua simpatia e giovialità, la sua “guascone” cadenza dialettale romana, la sua calorosa popolarità? Fu un big dell'avanspettacolo, del teatro di  varietà, della commedia musicale, del cinema, della radio e infine della televisione, della quale divenne una star incontrastata e amatissima (e mi stupisce che la televisione abbia completamente ignorato la ricorrenza dei suoi cento anni dalla nascita!).

E chi non ricorda l'attore di varietà Riccardo Billi, del quale Riva fu superba spalla nell'indimenticabile duo “Billi e Riva”? Insieme contribuirono a fare grandi le mitiche riviste musicali di Garinei e Giovannini, e insieme girarono con i più grandi attori del tempo circa cinquanta film, rimasti nella storia del cinema leggero degli anni Cinquanta e dei primi Sessanta e nel patrimonio culturale di quelli che questo cinema hanno conosciuto e apprezzato.

Con Diana Dei, incontrata nel 1947, Mario Riva creò un sodalizio di vita e di spettacolo, e da lei ebbe nel 1951 il figlio Antonello, noto regista televisivo.

Come dimenticare Il Musichiere, storica trasmissione televisiva di Garinei e Giovannini, nata nel 1957 dal format americano “Name that tune (Conosci questo motivo”), originale quiz musicale televisivo diretto da Antonello Falqui, trasmesso dallo Studio Uno di Via Teulada ogni sabato alle 21,05 sul programma nazionale (sino al 1960, anno della morte del grande conduttore)? Con una invadenza sconosciuta e affascinante, il programma riusciva a tenere incollati alla televisione (vera e propria “scatola magica”) – focalizzandone l'attenzione – grandi e piccini, contribuendo a creare quella nuova “civiltà dell'immagine”, quella “fabbrica di sogni”, quella “magica ritualità” di cui siamo divenuti schiavi! Scrive Aldo Grasso a proposito de Il Musichiere (trasmissione per la quale parla di «popolarità televisiva di cui non si è perso il ricordo»): «Il meccanismo del gioco è semplice: l'orchestra suggerisce alcune note del brano da indovinare e i due concorrenti, dotati di regolamentari scarpe da ginnastica, scattano dalle sedie a dondolo per suonare la campana (schiantandosi talvolta contro il muro per l'impeto della corsa), acquisendo così il diritto di rispondere al quesito canoro (cantano i motivi da indovinare Nuccia Bongiovanni e Johnny Dorelli, poi sostituito da Paolo Bacilieri.» (Televisione, le garzantine, Garzanti editore, Milano 2008). Riva ebbe il merito di trasformare quello che all'apparenza era un piccolo quiz in uno “spettacolo totale” e in un programma popolarissimo, creando personaggi indimenticabili come il cameriere Spartaco d'Itri, campione quasi invincibile che provò l'ebbrezza di una popolarità meno effimera di quel che era possibile pensare.

Come dimenticare la sigla Domenica è sempre domenica di Gorni Kramer, cantata dallo stesso Mario Riva? A proposito di questa canzone, scrive Aldo Grasso: «un motivo che ha percorso tutta l'Italia, diffondendo l'allegria goliardica e un po' sfacciata tipica del varietà e soprattutto del suo protagonista, Mario Riva» (Televisione, le garzantine, Garzanti editore, Milano 2008). Essa divenne bandiera della televisione italiana in bianco e nero monocanale dagli ascolti altissimi, in grado di svuotare cinema e teatri, grazie al carisma dominante di Riva e ai celeberrimi ospiti d'onore nazionali e internazionali, introdotti con la storica frase «Nientepopodimenoché», tra i quali ricordiamo: Fausto Coppi, Gino Bartali, Totò, Mario Soldati, Vittorio Gassmann, Giorgio Albertazzi, Gary Cooper, Anita Ekberg e Jane Mansfield (e a tutti veniva regalata la caratteristica "mascotte" del Musichiere).

Ha scritto Aldo Grasso: «Fu soprattutto con Il Musichiere che Riva fece conoscere al grande pubblico la sua ironia salace e pungente e la sua istintiva e allegra comunicativa, testimoniata anche dalla celebre sigla, da lui cantata, Domenica è sempre domenica (che diede il titolo a un film del 1958, interpretato dallo stesso Riva, nonché da Sordi, Tognazzi e de Sica).» (Televisione, le garzantine, Garzanti editore, Milano 2008).

Come dimenticare le graziosissime “vallette mute” della trasmissione (secondo lo stile del tempo): Lorella De Luca, Alessandra Panaro, Carla Gravina, Patrizia Della Rovere, Marilù Tolo e Brunella Tocci, divenute – sulla scia dell'enorme popolarità raggiunta – quasi tutte brave e note attrici degli anni Cinquanta e Sessanta.

Mario Riva morì a Verona – tragicamente e prematuramente (per le ferite e le complicanze successive a una caduta in una buca del palcoscenico durante la presentazione dello spettacolo, Il secondo festival del Musichiere) – il 1° settembre del 1960: aveva soltanto 47 anni e lasciò un vuoto che non è stato mai più colmato. Non si è mai più visto un protagonista così notevole nel mondo dello spettacolo né un beniamino così amato dal pubblico (che lo riconosceva come un suo vero “Grande Amico”).

Aldo Grasso ha riportato l'addio sentito e commosso a Mario Riva del grande scrittore e umorista Achille Campanile, durante il suo funerale: «La morte di Mario Riva, indipendentemente da tutto, è un sincero dolore per tutti. Con lui, prima ancora che l'uomo popolare, il personaggio caratteristico del video, o quello che sia, abbiamo perduto una persona cara. Questa morte è per tutti un po' un lutto di famiglia. E poi c'è il modo stupido e crudele di essa […] Chi poteva immaginare una cosa simile? In una serata simile? E per un uomo come lui, vivente allegra negazione dei drammi, delle tragedie? Ecco quello che fa più crudele la sua morte: il banale incidente che si poteva benissimo evitare e che lo uccide quando, dopo molti anni di sfortunate fatiche, aveva appena raggiunto il successo, che per lui si concretava soprattutto in una immensa straordinaria popolarità e nel fatto che tutti gli volevano bene. Anche i bambini di tre, quattro anni, lo chiamavano a nome per strada, gli sorridevano affettuosi come a un caro zio bonario e divertente.» (Televisione, le garzantine, Garzanti editore, Milano 2008).

domenica 20 gennaio 2013

Danny Kaye e il leggendario Favoloso Andersen


Danny Kaye                               Il favoloso Andersen


In questi giorni, e precisamente il 18 gennaio di cento anni addietro, nasceva l'attore comico–fantasista statunitense Danny Kaye che raggiunse il culmine della sua carriera tra gli anni Quaranta e Cinquanta. Nel 1855 l'indimenticabile scrittore di favole danese Hans Christian Andersen Andersen aveva scritto una vera autobiografia intitolata “La fiaba della mia vita”, nella quale raccontava la sua esistenza proprio come si può narrare un bel sogno in bilico tra la miseria più nera e la grandezza più luminosa. Da quel romanzo, il regista King Vidor trasse nel 1952 il bel film musicale Il favoloso Andersen, interpretato dal grande Danny Kaye che cantava la deliziosa canzone di Frank Loesser “Wonderful Copenhagen”; e film, attore e canzone furono amati alla follia da tutti gli ingenui bambini della mia generazione.

David Daniel Kaminsky – nome d'arte Danny Kaye – nacque nel Brownsville (un'area di Brooklyn a New York) il 18 gennaio del 1913 e morì a Los Angeles il 3 marzo del 1987 all'età di 74 anni per un attacco di cuore seguito da un'epatite in seguito a un intervento di by–pass che aveva necessitato do una trasfusione.

Originario di una famiglia di ebrei ucraini immigrati negli Stati Uniti – il padre era un sarto e Danny fu il solo dei quattro figli a nascere negli Stati Uniti – , studiò in una scuola pubblica di Brooklyn che ora ha preso il suo nome; andò poi alla  Thomas Jefferson High School ma senza completare gli studi. Perse la madre giovanissimo, quella madre che apprezzava il suo humour e i suoi scherzi, e che era convinta del grande versatile talento del figlio e che lo incoraggiava sempre a coltivare le sue innate e comiche capacità d'improvvisatore (per Danny fu una perdita irreparabile!). Dopo l'abbandono della scuola, iniziò un'avventurosa esistenza: fu prima cantante di strada e animatore nei campi estivi, esercitò poi tutta una serie di svariati lavori finiti infelicemente.

Definito «a King of Comedy«», Danny Kaye s'impose per una sua comicità unica e irripetibile, surreale e divertente, basata su una timida e buffonesca svagatezza, accompagnata da un'imprevedibile mimica, da un humour contagioso e da capacità imitative eccezionali. I suoi personaggi eccentrici e quasi isterici, dagli arruffati capelli rossi e dal forte accento russo, la sua acrobatica parlantina, i suoi tic caricaturali, le sue pantomime travolgenti, le sue smorfie facciali esilaranti e, le sue canzoni scoppiettanti e nonsense (aveva uno squisito gusto musicale e in ogni film interpretava delle splendide canzoni rimaste indimenticabili) ne hanno fatto un'amatissima e indimenticata icona, una vera leggenda di Hollywood.

Fece una lunga gavetta nel vaudeville a partire dal 1933 (anno in cui assunse per la prima volta il nome d'arte di Danny Kaye) e nel cinema a partire dal 1935. Nel 1938 si fece notare nella parte di un russo maniaco, vestito di nero e dalla parlantina veloce (Nikolai Nikolaevich) in alcuni piccoli film. Scrive Gianni Canova (in Cinema, le garzantine, Garzanti, 2009): «Una giovinezza passata tra i mestieri più diversi e improbabili non gli impedisce di tentare con successo la carta del mondo dello spettacolo, esordendo come cantante e ballerino e mettendo in luce le sue doti migliori – una certa svagatezza dello sguardo che sa farsi poetica distanza dalla concretezza della vita, una parlantina rapidissima che non teme filastrocche e scioglilingua – prima in alcune produzioni teatrali di prestigio a Broadway, poi al cinema».

Scoperto da Samuel Goldwyn, Danny Kaye ebbe un grande successo nel 1944 con «lo scatenato musical propagandistico» Così vinsi la guerra (Up in Arms) di Elliott Nugent con Dana Andrews: «Prodotto da Samuel Goldwyn, fu uno dei trampolini di lancio più costosi, più stravaganti e più fantasmagorici che un comico avesse mai avuto. […] Il personaggio di Kaye era quello di un ipocondriaco dai nervi tesi (una figura destinata a diventare un classico del suo repertorio) e la sua interpretazione è memorabile per moltissimi numeri d'alto virtuosismo , tra cui il celebre Melody in four F, un caotico insieme di doppi sensi.» (ne “Le nevrosi esilaranti di Kaye, Capitolo 31: La commedia brillante degli anni di guerra”, Vol. 3, Il Cinema – Grande storia illustrata, Ist. Geografico De Agostini, Novara 1981). Goldwyn girò con Kaye – al quale avrebbe voluto far praticare una rinoplastica per diminuire le dimensioni del suo lungo naso ebraico e al quale fece tingere di biondo i rossi capelli – sei film, prevalentemente musicali: «I musical di Goldwyn rappresentarono la carta vincente della sua produzione perché erano i film che meglio rispondevano alla sua concezione del cinema come spettacolo d'evasione destinato al vasto pubblico.» (“Samuel Goldwyn”, Vol. 4, Il Cinema – Grande storia illustrata, Ist. Geografico De Agostini, Novara 1981).

Questo film fu seguito da altri film rimasti nella memoria degli spettatori del tempo, nei quali diede ottime prove d'attore a tutto tondo, muovendosi dal tono decisamente comico a quello ironico–sentimentale (ne girò più di venti). Sono da ricordare: L'uomo meraviglia (Wonder Man) (1945) di H. Bruce Humberstone con Virginia Mayo (Danny interpretava un mite professore posseduto dalla spirito del fratello gemello assassinato, uno sfrontato comico di night–club) ; Preferisco la vacca (The Kid from Brooklyn) (1946) di Norman Z. McLeod con Virginia Mayo (Kaye era un timido e gentile lattaio che diventa un involontario pericolosissimo pugile); Sogni proibiti (The Secret Life of Walter Mitty) (1947) di Norman Z. McLeod con Virginia Mayo e Boris Karloff (era un pubblicitario afflitto da una madre prepotente e sognatore); Venere e il professore (A Song Is Born) (1948) di Howard Hawks con Virginia Mayo e Benny Goodman (Danny era un timidissimo professore appassionato di jazz); L'ispettore generale (The Inspector General) (1949) di Henry Koster con Elsa Lanchester; L'amore non può attendere (It's a Great Feeling) (1949) di David Butler con Doris Day: Divertiamoci stanotte (On the Riviera) (1951) di Walter Lang con Gene Tierney e Corinne Calvet; e Il favoloso Andersen (Hans Christian Andersen) (1952) di Charles Vidor con Farley Granger e Zizi Jeanmaire.

Dopo aver lasciato Samuel Goldwyn, «un grande sopravvissuto della commedia dell'ante– guerra», Danny Kaye «riuscì a sfruttare il suo frenetico stile comico» in altri film: Un pizzico di follia (Knock on Wood) (1954) di Melvin Frank e Norman Panama con Mai Zetterling (primo film prodotto da Danny); Bianco Natale (White Christmas) (1954) di Michael Curtiz, in un ruolo pensato originariamente per Fred Astaire, con Bing Crosby e Rosemary Clooney; Il giullare del re (The Court Jester) (1956) di Melvin Frank e Norman Panama con Glynis Johns, Basil Rathbone e Angela Lansbury – forse la sua migliore interpretazione – ; Io e il colonnello (Me and the Colonel) (1958) di Peter Glenville con Curt Jürgens e Akim Tamiroff (in questo film «poté persino realizzare quella che è notoriamente la massima aspirazione di un comico, cioè interpretare la parte di Amleto»); Il principe del circo (Merry Andrew) (1958) di Michael Kidd con Anna Maria Pierangeli (storia di un austero professore che scopre la sua nascosta vocazione per il circo); I cinque penny (The Five Pennies) (1959) sul pioniere del jazz Red Nichols di Melville Shavelson con Louis Armstrong; Un generale e mezzo (On the Double) (1961) dello stesso Melville Shavelson con Dana Wynter e Margaret Rutherford (divertentissima la sua interpretazione del Fuhrer); Il piede più lungo (The Man From the Diner's Club) (1963) di Frank Tashlin con Cara Williams e Martha Hyer; e La pazza di Chaillot (The Madwoman of Chaillot) (1969) di Bryan Forbes con Katharine Hepburn e Charles Boyer. Danny Kaye non conobbe il declino del cinema comico degli anni Cinquanta perché «faceva categoria a sé, ed era meno soggetto di altri al variare delle mode […] trovò anche modo di coesistere pacificamente con i due più importanti nuovi comici degli schermi, Dean Martin e Jerry Lewis.» (“Hollywood torna al cinema d'evasione”, Vol. 4, Il Cinema – Grande storia illustrata, Ist. Geografico De Agostini, Novara 1981).

Alcuni di questi film ruotavano attorno al “tema del doppio”, due identiche persone interpretate da Danny Kaye, il che gli consentiva effetti comicissimi ed equivoci esilaranti; in altri film il grande comico interpretava il personaggio di ragazzo timido e sensibile, decisamente “svanitello”, tipo caratteriale riproposto più volte: «in costante fuga dalla vita reale verso una dimensione tutta sua, nella quale dare sfogo alla proprio ingenuità e stravaganza… che sogna costantemente a occhi aperti per sfuggire a una vita non appagante con effetti esilaranti» (in Cinema, le garzantine, a cura di Gianni Canova, Garzanti, 2009).

Ma vorrei spendere due parole sul film Il favoloso Andersen (1952), costato quattro milioni di dollari, che ha segnato sin dall'età infantile il nascere del mio entusiasmo per il cinema americano. Raccontava la vita del favolista Hans Christian Andersen, anch'essa una sorta di fiaba triste. Andersen era nato a Odense il 2 aprile del 1805; il padre era uomo ignorante e poverissimo ma un gran sognatore, e lo aveva lasciato orfano prestissimo; la madre era una rozza lavandaia alcolizzata che finì la sua vita in un ospizio per dementi. Per preparare un suo futuro migliore, a quattordici anni, Hans scappò via dal paese natale Odense (nell’isola danese di Fionia) per andare a Copenaghen, portando nel cuore sia i suoi sogni sia le fiabe tradizionali e le magiche superstizioni nordiche ascoltate dagli anziani ospiti dell’ospizio o conosciute attraverso le appassionanti rappresentazioni nel teatro locale (il secondo in Danimarca). A Copenaghen studiò arte teatrale e danza, e – grazie a un benefattore – completò gli studi sino all’Università. La trama del film tenta di ricalcare la vita di Andersen: il ciabattino Hans Christian incanta i ragazzi di Odense con i suoi magici racconti di fiabe in mezzo alla totale incomprensione degli adulti che lo vedono soltanto come un elemento di distrazione; si trasferisce a Copenaghen e trova lavoro al Teatro Reale, ove confeziona un paio di scarpette per la prima ballerina Dora, della quale s'innamora. Per lei scrive la più bella e la più triste delle sue favole, La sirenetta, che costituirà la trama di un balletto ma non può assistere al trionfo (il marito di Dora, geloso, lo chiude in uno sgabuzzino). La scena grandiosa del balletto La sirenetta, che dura ben 15 minuti, è danzata da Zizi Jeanmaire e Roland Petit, che ne firmò la splendida coreografia (Lucia Mannucci del Quartetto Cetra doppiava le canzoni di Zizi Jeanmaire). L'indomani Hans manifesta il suo amore a Dora ma viene respinto; amareggiato, ritorna al borgo natio dai ragazzi che amano lui e le sue fiabe. La voce di Danny Kaye era quella bellissima e pastosa di Stefano Sibaldi mentre, nelle deliziose parti cantate, Virgilio Savona (del Quartetto Cetra) prestava la sua voce a Kaye: come dimenticare Wonderful Copenhagen, The Ugly Duckling e Thumbelina cantata a una piccola figurina disegnata sul suo pollice. Hanno commentato Laura, Luisa e Morando Morandini (ne il Morandini – Zanichelli editore): «Allontanato dal villaggio natio perché distrae i bambini con le sue favole, il ciabattino Hans Christian Andersen giunge a Copenaghen dove s'innamora di una ballerina. Prodotto da Sam Goldwin che fece scrivere 16 sceneggiature prima di accettare quella di Moss Hart, definita “la rappresentazione di un demente in un mondo di idioti” (P. Kael). Favolosamente inattendibile come biografia. Storia e personaggi soccombono al peso del fasto spettacolare. Pur non avendo nulla da spartire col vero Andersen, Kaye è bravo. Canzoni di F. Loesser e R. Day. 3 candidature agli Oscar (per la fotografia, la scenografia, la musica)».

Danny Kaye era un uomo spiritosissimo; vorrei ricordare alcune delle sue battute più fulminanti: «Alimenti sono quell'istituzione per cui uno deve pagare per il fatto che due hanno commesso un errore… Bisognerebbe sposare soltanto una donna bellissima, altrimenti non c'è speranza di disfarsene… Le donne spendono più soldi di quanti il marito ne guadagni, affinché la gente creda che lui guadagni più di quanto loro spendono…».

Nel 1940 Danny Kaye aveva sposato Sylvia Fine, sua collaboratrice musicale in molti film (Danny amava la musica e fu un discreto direttore d'orchestra sinfonica durante diversi eventi musicali di natura umanitaria per la raccolta di fondi). Sylvia era pianista e compositrice di musica e parole, e l'aveva conosciuta nel 1939; insieme con lei lavorò a “La Martinique”, un nightclub di New York City, ove il commediografo Moss Hart –rimasto incantato dalle performance di Danny – lo coinvolse a Broadway nella commedia Lady in the Dark, che vide nel 1941 un suo grandissimo successo personale (ritornò a Broadway poù tardi, nel 1970, come protagonista nel musical di Richard Rodgers Two by Two; si fece male a una gamba ma recitò nonostante la stampella. Sylvia e Danny rimasero insieme fino al 1987 (anno della morte di Kaye) anche se negli ultimi anni piuttosto separati: ebbero una figlia Dena Kaye, nata nel 1946 (in una intervista del 1954, Kaye disse: «Qualsiasi cosa voglia essere, lei lo sarà senza interferenze da parte della madre o da parte mia»). Sylvia Fine Kaye morì a 78 anni nel 1991. Danny Kaye amava molto la cucina: era bravo quasi quanto uno chef e amava soprattutto la cucina cinese e italiana; era un entusiasta dell'aviazione e del volo e amava il baseball. Voci insistenti hanno parlato di una bisessualità di Kaye e di una relazione durata dieci anni negli anni Cinquanta tra Danny e Laurence Olivier (relazione negata dai due attori, dai familiari e dai biografi).

Nel 1945 Kaye fu il primo attore americano a fare un tour nella Tokyo del dopoguerra. Nei tardi anni Quaranta, contro la famigerata vicenda delle liste nere e contro la paranoia politica che sconvolse Hollywood (sulla scia di una grave crisi economica che aveva colpito l'industria cinematografica), Danny Kaye, insieme a Humphrey Bogart, Lauren Bacall, June Havoc, Paul Henreid e Richard Conte, sfilò guidando una marcia di protesta contro le indagini sulle attività anti–americane a Hollywood ((ne “Problemi sindacali e politici, Capitolo 44: Tempesta su Hollywood”, Vol. 4, Il Cinema – Grande storia illustrata, Ist. Geografico De Agostini, Novara 1981).

Gli ultimi suoi film furono televisivi: un musical televisivo dedicato a Pinocchio (1976) di Ron Field e Sid Smith nel ruolo di Geppetto, l'ottima versione musicale di Peter Pan (1976) di Dwight Hemion con Mia Farrow (Danny era un divertentissimo Captain Hook), e Diritto di offesa (Skokie) (1981) di Herbert Wise in un memorabile ruolo drammatico (Danny era un sopravvissuto dell'Olocausto).

Dal 1956 aveva collaborato con la CBS per lo spettacolo The Secret Life of Danny Kaye, che combinava i suoi immensi tour mondiali per 50.000 miglia e dieci nazioni come ambasciatore dell'UNICEF con musica e scenette umoristiche; sempre con la CBS fu il protagonista acclamato del The Danny Kaye Show vincitore di diversi Emmy awards (64 episodi tra il 1963 e il 1967) che avevano replicato l'omonimo spettacolo radiofonico della CBS del 1945–1946, che aveva reso Danny popolarissimo.

Artista poliedrico, nel 1953, Kaye creò una propria casa di produzione, la “Dena Pictures” (dal nome della figlia) che poi si allargò alla televisione nel 1960 con il nome di “Belmont Television”.

Uomo buono e amante dei bambini, soprattutto i più svantaggiati, nel 1954 (mentre era al culmine della sua carriera) Danny Kaye divenne il primo ambasciatore dell'UNICEF, prodigando forze, energie, passione e spirito di solidarietà. Con il suo entusiasmo seppe toccare il cuore di molte altre celebrità coinvolgendole nel suo progetto umanitario. Da quel momento, persone che avevano raggiunto grandi traguardi esistenziali misero il loro nome al servizio dell'infanzia come ambasciatori dell'UNICEF; con Danny nacque quella meravigliosa “tradizione degli ambasciatori di buona volontà” che collaborano allo sviluppo e agli aiuti d'emergenza dell'importante istituzione. Kaye era stato tanto identificato con l'UNICEF che – quando nel 1965 l'istituzione ricevette il premio Nobel – Danny fu selezionato per riceverlo. Aveva detto: «Credo profondamente che i bambini siano molto più potenti del petrolio, più belli di qualsiasi fiume, più preziosi di qualsiasi altra risorsa naturale che un paese possa avere. Credo che la cosa più gratificante che io abbia mai fatto nella mia vita sia essere entrato in contatto con l'UNICEF»; e nel 1983 aveva dichiarato: «Il traguardo rivoluzionario della salute per tutti i bambini può essere raggiunto. In certi momenti può sembrare scoraggiante, ma tutto questo può essere fatto quando persone di buona volontà si uniscono e s'impegnano per fare la cosa migliore. Il lavoro dell'UNICEF è un tributo all'umanità e alla superiore volontà dell'uomo». Si stima che durante il suo mandato di Ambasciatore UNICEF Danny Kaye abbia raggiunto oltre 100 milioni di persone. Fu anche il promotore della fortunatissima campagna di raccolta fondi per l'UNICEF legata alla festa di Halloween “Trick–or–Treat” (Dolcetto o Scherzetto) (riportato in “Omaggio a Danny Kaye, primo Ambasciatore UNICEF”, 18 gennaio 2013,
http://unicef.it/doc/4524/omaggio-alla-memoria-di-danny-kaye-primo-ambasciatore-unicef.htm).

Danny Kaye avrebbe voluto diventare medico ma le condizioni economiche della famiglia non glielo consentirono: non ci riuscì ma, grazie ai suoi meriti umanitari, fu nominato membro onorario dell'American College of Surgeons e dell'American Academy of Pediatrics.

Kaye ricevette due Academy Awards: un Academy Honorary Award nel 1955 e il Jean Hersholt Humanitarian Award nel 1982. Nel 1981 ricevette il Peabody Award, in parte anche  per il “Live from Lincoln Center: An Evening with Danny Kaye and the New York Philharmonic” della PBS. Nel 1986 ricevette la Legion d'Honneur per la sua meritoria attività in favore dei bambini di tutto il mondo e nel 1987 il Presidente Ronald Reagan gli ha concesso la Medaglia presidenziale della libertà.

Per concludere, ha scritto Gianni Canova: «Tra Buster Keaton e Jerry Lewis, ma senza essere l'uno o l'altro, attraversò con brio surreale la commedia americana, finché sul finire degli anni '50 dirada l'attività cinematografica per dedicarsi agli impegni di beneficenza per l'UNICEF.» (in Cinema, le garzantine, Garzanti, 2009). è stato scritto (ma non sono assolutamente d'accordo): «I film di Kaye, che all'epoca furono considerati straordinariamente divertenti, non hanno retto molto alla prova del tempo, così come molte altre opere e attori degli Anni Quaranta.» (ne “Le nevrosi esilaranti di Kaye, Capitolo 31: La commedia brillante degli anni di guerra”, Vol. 3, Il Cinema – Grande storia illustrata, Ist. Geografico De Agostini, Novara 1981).

Questi film di Danny Kaye, io li ho visti tutti e li ho adorati, come per anni ho adorato Danny Kaye, e mi duole molto che i nostri bambini non abbiano alcuna occasione di vederlo e di ridere con lui e per lui.

mercoledì 16 gennaio 2013

Alcesti contro Medea, l’altra faccia della medaglia: offerta della vita per amore


Alcesti di Walter Pagliaro


Questa tragedia, scritta nel 438 da Euripide (485-406 a.C.) – uno dei maggiori poeti tragici greci – e la più antica rimasta integra (e questo potrebbe forse far intuire quanto fosse amata e prediletta dal pubblico), rappresenta l’esaltazione dell’amor muliebre. Alcesti è una donna che ama e che è chiamata a decidere del suo destino: fidanzata, ha promesso di donare la sua vita e ora, sposa felice, deve offrirsi al sacrificio estremo per amore.

La trama dell’Alcesti è nota. Admeto, re dei Tessali, deve morire ma Apollo lo salva, convincendo le dee del destino, le tre Parche, a scambiare la sua morte con quella di qualcun altro. Nonostante siano molto vecchi, il padre e la madre rifiutano lo scambio, così come gli amici più intimi; l’unica a offrirsi alla morte per salvarlo è Alcesti, la figlia di Pelio, giovane e innamorata. Sono passati alcuni anni, Admeto e Alcesti sono ormai sposi felici in un matrimonio allietato da figli, ma l’ora è arrivata e Tanato – «giovine avvolto in un peplo nero» – vuol prendersi la vita di Alcesti, convinto che «più grande è l’onor mio, se muore un giovine». Ercole perviene alla reggia di Admeto in pieno lutto ma, per delicatezza, gli viene nascosta la morte di Alcesti e gli è offerta una piena e festosa ospitalità; venuto a sapere della morte di Alcesti e grato per il nobile gesto di Admeto, Ercole affronta Tanato e gli strappa Alcesti restituendola al marito disperato. I brani sono tratti da Alcesti, nella traduzione di Ettore Romagnoli (Roma 1871-1938, http://www.filosofico.net/alcestieuripide42.htm).

La scena si svolge a Fere, in Tessaglia, dinanzi alla reggia d’Admeto e Apollo, uscendo dalla casa d’Admeto, si volge a contemplarla e parla tristemente: «[…] Ora io da morte, / deludendo le Parche, lo salvai. / Mi concessero quelle che l’Averno / schivar potesse Admèto, se in sua vece / offrisse un altro agl’Inferi. Provò / tutti gli amici, a tutti ebbe ricorso, / e al padre e alla canuta madre; e niuno / trovò, tranne la sposa, che sostenne / per lui morire, e abbandonar la luce. / Ella, portata a braccia, or ne la casa / l’anima rende. Ché morire deve / in questo giorno, e abbandonar la vita. / […]». Sconvolta, l’Ancella esclama: «Già presso è a morte, già lo spirto esala.», mentre il primo Corifeo si lamenta: «Di quale sposa, ahi, quale sposo è privo!»; a lui l’Ancella risponde: «Nol saprà, se perduta pria non l’abbia!». E il Primo Corifeo ribatte: «Sappi, Alcèsti, che muor con te la donna / miglior fra quante sotto il sole vivono.». A lui con rammarico risponde l’Ancella: «Come no? La migliore. E chi contendere / potrà che questa ogni altra donna avanzi? / Chi mai potrà l’amor pel suo consorte / dimostrar meglio che per lui morendo? / Ma questo a tutti i cittadini è noto. / Quanto in casa ella fece, odi, e stupisci. / Poi che giungere vide il giorno estremo, / volonterosa, pria le pure membra / lavò nella corrente acqua; e dall’arche / di cedro, vesti ed ornamenti trasse, / e s’abbigliò compostamente. / […] / Entrò quindi nel talamo, sul letto / nuziale; e qui pianse, e favellò. / “Letto che avesti il fior della mia vita, / addio: non t’odio io, no, sebbene muoio / solo per te: per non tradir lo sposo / e te, muoio. Sarai d’un’altra donna, / non più casta di me: più fortunata” / E su vi cade; e lo bacia; e d’un fiotto / di lagrime la coltre è molle tutta. / […] / Stretti alle vesti della madre, i figli / piangeano. In braccio essa li prese: e già / moribonda, baciava or l’uno or l’altra. / Tutti i servi piangean nella dimora / per la pietà della regina. Ed essa / tese a tutti la destra. E niuno v’era / umil così, che a lui non favellasse, / che a lei non rispondesse. Ecco che avviene / nella casa d’Admèto. Oh, s’egli fosse / morto, non più sarebbe. Ma, scampato, / tale è il suo duol, che non avrà mai fine.». Il Primo Corifeo compiange: «Di sì nobile sposa andare privo! / Certo, per questo male Admèto piange.». E l’Ancella in accordo: «Tien fra le braccia la diletta sposa, / e piange, e prega perché non lo lasci. / L’impossibile cerca! Ella si strugge / nel suo male, si disfa, s’abbandona, / triste peso, al suo braccio. E, benché poco / respiri più, del sole i raggi anela. / […]». A questo punto il Secondo Corifeo si associa: «Oh vedi, vedi! / Esce già dalla reggia anche il signore. / Ulula, piangi tu, suolo di Fère! / Dal morbo la migliore / delle donne consunta, / per sotterraneo valico / nel buio Averno è giunta. / […]».

Entra Admèto, che sostiene Alcèsti moribonda, seguita dai figli che si appendono alle sue vesti. E intorno stanno le Ancelle, i servi, e le guardie. E l’infelice Alcèsti si guarda intorno: «Sole, luce del giorno, / ètere, limpide veloci nuvole!» e a lei risponde Admèto: «Te vede il sole e me, due sventurati. / Nulla offendemmo i Numi: eppur tu muori. / […] / Misera, sorgi, non lasciarmi! Prega / gli Dei possenti ch’abbiano pietà.». E Alcèsti replica: «Vedo la cimba (la barchetta), vedo! Con la mano sul remo, / Caronte, il navicchiere dei defunti, già già / mi chiama. “Non t’affretti? Che indugi? Tarderemo / per te!”. La sua parola più veloce mi fa.». Admèto si dispera: «Strade di pianto per gli amici, e più / per me, pei figli, che abbandoni in lutto.» e ancor più disperata Alcèsti: «Lasciatemi, lasciatemi, / adagiatemi. Più / non mi reggono i piedi. / Morte è già presso: / ombrosa notte sopra gli occhi repe (penetra). / Figli, figli, la madre / vostra non vive più. / Addio, figli, godete / questa luce del giorno.». Replica Admèto: «Ahimè! Questi detti al mio cuore / son più che ogni morte funesti! / Oh no, non partire, ti prego / pei Numi, pei figli che tu / lasci orfani! Sorgi, fa’ cuore! / Se muori, io morrò. / Tu sola puoi darmi la vita o la morte.».

E Alcèsti espone quel che è il suo testamento spirituale: «Admèto, a te che la mia sorte vedi, / dirò, pria di morir, quello che bramo. / Io più che me, te caro avendo, a prezzo / del viver mio, la luce a te serbata, / muoio. […] / Ma divelta da te non volli vivere / coi figli derelitti; e abbandonai / di giovinezza i doni ond’io godevo. / L’uom che te generò, la madre tua / ti tradirono. Ed erano pur giunti / agli anni in cui lasciar la vita è giusto; / e bello era per lor salvare il figlio, / gloriosa la morte; e avean te solo, / né speranza d’avere altri figliuoli / se tu morivi; ed io vissuto avrei / sempre vicino a te; né tu soletto / piangeresti la sposa, e i figli tuoi / orfani educheresti. Ma un Dio volle / che così fosse tutto questo. E sia. / Ma tu, memore, rendimi una grazia. / […] Fa’ ch’essi padroni / sian della casa mia, schiva le nozze, / ai figli miei non dare una matrigna, / che, non avendo il cuore mio, per astio, / sui miei, sui tuoi figliuoli, alzi la mano. / Non farlo, no, ti prego. / […] / Io morir devo, / e non domani, e non il terzo dì / del mese, il mal m’attende; ma fra poco / viva chiamar me non potrete. Addio, / siate felici. Gloriarti, o sposo, / potrai che la tua sposa ottima fu: / e voi, figliuoli, della madre vostra. / […]».

Accorato, Admèto la rassicura: «Sarà, tutto sarà. Non temere. Io / t’ebbi sposa da viva; e morta, ancora / unica sposa mia detta sarai. / Niuna Tessala più mi chiamerà / sposo, e sia pur di nobil sangue, sia / di vaghissime forme. Ai Numi, questo / soltanto io chiedo: che mi sia concesso / gioir dei figli, or che di te gioire / più non m’è dato. E non un anno il lutto / tuo porterò; ma sin ch’io resti in vita, / o sposa: e aborrirò la madre mia, / il padre aborrirò. M’erano amici, / non a fatti, a parole. Invece tu, / la carissima vita in cambio offerta, / salvato m’hai. Come potrei non piangere, / perduta avendo una compagna tale? / Porrò fine ai convivi, ed ai simposi, / alle ghirlande, ai canti che sonavano / nella mia casa. Più non toccherò / cetra, né più solleverò lo spirito, / cantando al suon di flauto libio. Tu / della vita m’hai tolto ogni diletto. / La tua figura effigiata dalla / mano di saggio artefice, starà / distesa su le coltrici; ed io, prono / accanto a lei, la cingerò con queste / braccia, invocando il nome tuo, pensando / fra le braccia tener la mia diletta. / Gelida gioia, ahimè! Ma forse il peso / solleverà dell’anima. E nei sogni / m’apparirai, m’allieterai. Soave / è la notte vedere i nostri cari / quando che sia. / […] / Ora attendimi là, quando io sia morto, / e prepara la casa ove dimora / avrai con me. Ché porre io mi farò / in questa istessa arca di cedro, il fianco / vicino al fianco tuo; né, morto, mai / sarò da te disgiunto, o sola fida! / […]. Rivolgendosi ai figlioli, Alcèsti si rallegra: «Figli, del padre le parole udiste: / non sposerà, che sia vostra nemica, / un’altra donna: a me non farà torto.».

Admèto conferma ad Alcèsti che si manterrà fedele al suo ricordo e, per sua mano, Alcèsti gli affida i figli, raccomandandogli di esser lui madre per essi; quindi saluta i figli e il povero marito infelice dicendogli: «Chi muor dispare (svanisce). Avrai medico il tempo.» e sentendo i suoi occhi già pieni d’ombra e il venir meno della vita.

Questa è la parte più bella della tragedia. Nel seguito della tragedia, Ercole – che deve andare in Tracia per sottrarre al re Diomede le sue terribili cavalle antropofaghe (ed è una delle fatiche pensate per lui dal tiranno Euristeo), viene ricevuto con calda ospitalità da Admeto, che lo invita nella reggia e gli nasconde il suo terribile lutto. Ubriaco, al termine di un ricco banchetto, Ercole viene a sapere da un servo della morte della padrona e del lutto di Admeto. Impietosito e commosso, attende al varco nei pressi della tomba Tanato per sottrargli Alcesti e ritorna al palazzo con una silenziosa donna velata, pregando Admeto di ospitarla nella sua casa. Admeto, che si sente attratto dalla donna velata che somiglia ad Alcesti, non vorrebbe ma alla fine cede alle insistenze di Ercole che, infine, svela l’identità della donna e la ridona allo sposo felice.

Appare evidente che Alcesti non è un’eroina vera e propria: infatti, piange, si dispera e si dibatte raccomandando i figli al marito ma riesce a conservare intatta la sua dignità di donna e di madre, nonostante la paura della morte. Alcesti è forse la moglie che Euripide avrebbe desiderato: si sa per certo che il tragediografo ebbe due mogli e tre figli ma che i suoi matrimoni non furono felici! Questo potrebbe forse spiegare lo sfondo di un’innata e profonda misoginia da parte del poeta tragico, anche se la stupenda figura di Alcesti non sembrerebbe confermare alcun sentimento anti–femminile, come pure le altre sue donne protagoniste piene di passione e sensibilità.

Tra il 1950 e il 1951 lo scrittore calabrese Corrado Alvaro (1895-1956) scrisse una moderna rilettura del mito di Euripide, un’Alcesti nella quale l’autore spostava l’attenzione da Alcesti e Admeto a Feride, l’egoista e avaro padre di Admeto; egli sostituiva alla perdita della sposa la perdita dei soldi e della casa, centro di aggregazione dell’economia e degli affetti familiari per tre generazioni che ne uscivano distrutte (i vecchi, gli adulti e i bambini). Come scrive Aldo Maria Morace (Corrado Alvaro, in “Storia generale della letteratura italiana”, diretta da N. Borsellino e W. Pedullà, xi - Il Novecento, Motta, Milano 2000, 256-81): «La tragedia esprimeva un incupirsi del pessimismo sul futuro della civiltà: nell’ondata di violenza che pervadeva ogni aspetto della vita associata e nella disgregazione della famiglia, Alvaro leggeva il dubbio di trovarsi alla vigilia della fine. Sulla scorta di questa patologia della civiltà contemporanea, Alvaro rivisita il soggetto euripideo senza rispettare la finzione antica: l’azione viene trasportata ai nostri giorni e borghesizzata, per meglio ancorarla alle angosce presenti della storia, come similmente avveniva negli stessi anni con Gide, Cocteau, Anouilh, Camus, Sartre. In preda ad un’avarizia ossessiva, che è provocata dalla paura di una prossima fine del mondo, Feride cede la casa in cui abita con Admeto e Alcesti, scindendo il nucleo familiare ed abiurando la sacralità della domus, poiché sente distrutta la solidarietà umana sin dalle radici, nella sfera stessa della procreazione. Il grande tema alvariano della frattura epocale impressa dal secondo conflitto mondiale perviene così ad un’alta e dolente terribilità nel “cupio dissolvi” di Feride, arresosi – per perdita d’amore, per disperazione della vita e dell’avvenire – alla violenza, all’egoismo ed alla solitudine di una società che vive per carica meccanica indotta senza più fede nel “domani”, nel sormontare del terrore atomico (ed Alvaro è stato fra i primi a cogliere in un’opera teatrale le implicazioni etiche e psicologiche di quest’evento, fondamentale nella storia dell’umanità). Una nuova, e diversa, ed ancora più disperata “fuga senza fine” da una società avversa: a suggellare nella catarsi della conoscenza esistenziale la inquietante classicità e modernità della scrittura alvariana.».

L’Alcesti euripidea è una tragedia greca ancora molto attuale e rappresentata: nel 2005 è stata presentata al Teatro Antico di Taormina per la regia di Walter Pagliaro, con l’interpretazione della grande attrice Micaela Esdra. Lo stesso regista e la stessa attrice hanno presentato Alcesti mon Amour (da Euripide) presso il Teatro Astra di Torino nel marzo del 2012. Quest’ultima è stata una rilettura in versione contemporanea di Pagliaro (traduzione Filippo Amoroso, maschere e costumi di Giuseppe Andolfo), appassionato studioso del teatro antico: «Alcesti è un’opera segreta e misteriosa che esplora con sussulti e trepidazioni quel tragitto inquietante che collega lo spazio della vita all’universo della morte. Lo spettacolo si propone di indagare la complessità dei rapporti esistenti fra l’essere e il non essere: la fine della vita si proietta per noi sulla scena, non come un episodio improvviso e perentorio, ma come un viaggio con tappe fascinose e terribili.»
(vedere: http://fondazionetpe.it/spettacoli/scheda/74/).

Il musicista tedesco Christoph Willibald Gluck (1714-1787) fece di Alcesti l’indimenticabile eroina del suo melodramma Alceste, rappresentato nel 1767. 

domenica 13 gennaio 2013

Medea: tormento, vendetta e gusto sanguinario di morte



Mariangela Melato è Medea di Euripide


A Mariangela Melato, purtroppo prematuramente scomparsa, superba Medea del grande poeta tragico greco Euripide (485-406 a.C.), che seppe esprimere atteggiamenti di profonda introspezione psicologica, a lei – indimenticabile e indimenticata – dedico questo mio articolo sulla Medea di Euripide (abbiamo visto Mariangela proprio in queste ore, insuperabile interprete su Rai5 dal Teatro Storchi di Modena per la regia di Giancarlo Sepe).

Nella sua tragedia Medea (traduzione del grecista Ettore Romagnoli
(http://www.rodoni.ch/busoni/euripide/euripidemedea42.htm), scritta nel 431,
Euripide fa esplodere un amore femminile spaventoso, che tutto distrugge in una tensione psicologica spasmodica.

In Colchide, Medea (il nome significa «colei che porta consiglio»), la figlia del re del luogo e maga, tradendo il padre e uccidendo il fratello, ha salvato da morte certa Giasone (del quale si è innamorata), pervenuto colà per conquistare il vello d’oro (simbolo antropologico di fertilità e di dominio maschile). Lo ha seguito poi in Grecia, avendone due figli. Giunto a Corinto, avendo avuto la promessa di divenire re di Corinto, Giasone si fidanza con Creusa, la figlia di Creonte, e dimentica Medea e i figli. Creonte intuisce la gelosia di quella donna barbara e decide di cacciarla da Corinto insieme ai suoi figli: ha capito che Medea è «tremenda» e che ha «un’anima superba, che ignora pietà». Egli ne teme giustamente «il muto rancore» («è meglio venirti in odio, o donna, oggi, che debole essere, e dopo amaramente piangerne»). All’inizio, Medea si dispera, infatti le ha detto l’Aio: «[…] Impara / che ciascuno ama sé più che il suo prossimo, / quando vedi che più non ama il padre, / per le nozze novelle, il proprio sangue.». All’improvviso Medea, poi, si calma, perché ha già meditato di distruggere tutto ciò che Giasone ambisce e ama: «[…] Deh, possa io vederlo / con la sposa, con tutta la casa / stritolato! Ché primi d’obbrobrio / mi copersero. […]».

Rimasta sola e senza patria, in balia di una gelosia folle e distruttiva, Medea vuole vendetta a tutti i costi e manifesta la sua sofferenza in numerosi soliloqui di grande potenza psicologica: «Su me piombò questo inatteso evento, / e il cuore mi spezzò. Perduta io sono: / più non ho gioia della vita, e voglio / morire amiche, quando l’uom che tutto, / lo vedo or bene, era per me, lo sposo / mio, s’è mostrato il più tristo degli uomini. / Fra quante creature han senso e spirito, / noi donne siam di tutte le più misere. / Ché, con profluvii di ricchezze prima / dobbiam lo sposo comperare, e accoglierlo / – male dell’altro anche peggiore – despota / del nostro corpo […]». Possente è il contrasto tra i due coniugi, con Medea che è come invasata dal furore e con Giasone che insiste che sono stati i Numi a salvarlo e che – ingrato – dice alla donna offesa: «Che mi salvassi, qual ne sia la causa, / male non fu; ma dalla mia salvezza / più ricevesti che non desti; […]». Egli, inoltre, giustifica il suo matrimonio con Creusa con la scusa che non è originato dall’amore per un’altra donna ma dal bene per i figli, che hanno così l’opportunità di divenire fratelli dei figli d’una regina. Medea non vuol sentire ragioni e ha ormai deciso: «[…] ché i figli nati / da me, più vivi non vedrà, né prole / dalla sua nuova sposa avrà: ché deve / per i tossici miei morir la trista, / di trista morte./ […] / Intendo ben che scempio son per compiere; / ma più che il senno può la passione, / che di gran mali pei mortali è causa.».

A causa della sua mostruosa gelosia, Medea fa morire Creonte e Creusa con vesti infuocate per incantesimo e recate in omaggio dalla sua prole, e sgozza senza pietà i figli, accogliendo con parole di scherno e d’insulto Giasone che con orrore viene a sapere che «spenti fur dalla madre i figli tuoi… più non son vivi». Egli deve assistere impotente all’allontanamento di Medea (con a fianco i cadaveri dei bambini) su un carro trascinato da draghi alati, fornitole dal padre Sole. Non può dar loro né un ultimo bacio né una degna sepoltura e assiste annientato alla perdita della sua progenie.

La Medea di Euripide è sì una “tragica” assassina ma è anche una madre tenerissima che sa parlare con grande lirismo poetico.

E Medea ha una tale valenza universale e una tale pluralità di significati che numerose sono state le rivisitazioni del testo. Basta ricordarne soltanto alcune: la Medea di Lucio Anneo Seneca (4 a.C.-65 d.C.), tragedia ispirata da Euripide ma anche dall’omonimo testo perduto di Ovidio: essa privilegia la gelosia dell’amore sul sentimento della vendetta (Medea è soltanto una piccola donna «furibonda e inerme», esasperata dalla gelosia e dall’ira), rompendo lo stereotipo e mostrando agli spettatori l’uccisione dei figli eseguita dalla madre con furia sanguinaria, che nel dramma antico – come tutti gli eventi luttuosi – non veniva rappresentato ma era narrato da un Nunzio: «E quanto sangue e quante / Fiate ho sparso: e pure / Ira non fu cagione, / Ma solo amor, che m’arse / Di questo ingrato il petto… / Fortuna può ben le ricchezze torre / Ma non l’animo franco.» (Atto primo, traduzione di Ludovico Dolce del 1560).

Un’altra rilettura di Medea è quella fatta dallo scrittore calabrese Corrado Alvaro (1895-1956), che – interessato alla rielaborazione della mitologia classica – così scriveva: «Abbiamo sempre bisogno di ricorrere ai miti del passato per stabilire i termini del presente… L’antichità aggiunge nobiltà al dramma borghese, la lontananza creata dal mito gli dà risonanza poetica. Il secondo dopoguerra, come il primo, ha cercato di leggere chiaro nel destino contemporaneo rispecchiandolo negli eroi del passato». Ne La lunga notte di Medea (rappresentata nel 1949), per la quale si è parlato di «spietato psicodramma della schiavitù passata e presente», la quale rispetta l’ambientazione antica. La tragedia in due tempi di Alvaro è una elegia ambientata in uno spazio notturno illuminato dalla luna, «la regina vagabonda», e la donna si ritiene «amica della notte e parente della luna». Medea è rappresentata come una straniera, la «barbara» della Colchide che non smette mai di essere tale per gli altri. Medea è una profuga perseguitata che è stata oggetto d’intolleranza razziale e che non vuole esporre i figli alla sua stessa sorte (li uccide per questo, non per gelosia o vendetta), è un’esule senza una patria in cui esser padrona di sé e dei suoi figli («Quando mi acceca la passione, tutto mi si confonde… Mi sto abituando a rimanere sola, vagabonda e straniera… E non ho più l’antica forza e ferocia per difendermi da quello che mi aspetta»). Alla fine Medea resta anche senza l’amato marito, e ne è distrutta: «Giasone senza Medea non è che la metà di un canto di gloria… è bello, è mio!… Noi siamo marito e moglie e non un eroe con la sua preda… Digli che lo aspetto… Giasone simile a un re, sposerà Creusa. Ma è mio, è mio marito!… Amavo in lui un mondo libero dal terrore… Per lui, non delitti ma imprese straordinarie, se tu – Creonte – mi togli a lui, diventeranno delitti»). E a Giasone urla: «Ora tu diventi un re, e io avevo fatto di te un eroe… Volevi celebrare su di me la tua vittoria ogni notte», e sui figli geme: «Se potessi ingoiarli nel mio utero!». Lo stesso autore parlò di Medea come di «un’antenata di tante donne che hanno subìto una persecuzione razziale e di tante che, respinte dalla loro patria, vagano senza passaporto da nazione a nazione, popolano i campi di concentramento e i campi di profughi», così umanizzando e modernizzando il mito di Medea.

Una più recente rappresentazione di Medea (traduzione di A. Raja, Editore E/O, collana Tascabili e/o, 2000) è quella della scrittrice tedesca Christa Wolf (1929-), la quale ha scritto: «Siamo noi che scendiamo fino agli antichi o sono loro che vengono da noi? Fa lo stesso. Basta tendere la mano, passano dalla nostra parte con facilità, ospiti estranei, uguali a noi.». Nel suo romanzo Medea Voci (Medea Stimmen), uscito nel 1996, la Wolf ribalta il mito di Euripide in una diversa ricostruzione storica, dal momento che non crede possibile che una maga–-guaritrice possa avere ucciso i suoi figli, in tempi in cui i figli erano considerati il bene supremo di una “tribù” (in effetti, fonti antecedenti ad Euripide – sensibili al tabù dell’infanticidio – raccontano dei bambini di Medea portati nel tempio di Era allo scopo di salvarli, che vengono uccisi dai Corinzi). Per la Wolf, Medea soffre perché Giasone è distante e non più solidale, ma non è né gelosa né si sente esclusa o emarginata, perché è sempre stata una donna libera e indipendente. Dopo che tutto si è compiuto, Medea lancia la sua ultima maledizione: «Maledirli. La maledizione su tutti voi. Io Medea, vi maledico. In quale luogo, io? è possibile un mondo, un tempo in cui possa stare bene?». Comunque Medea, è ferita ma non annientata: donna di animo libero, è schiacciata dal potere istituzionale ma s’intuisce che, senza darsi per vinta, continuerà a lottare per sempre.

Da ciò che ho raccontato di questa antichissima tragedia, è evidente la grande attualità di questa storia e di questi tremendi sentimenti: quante vicende bollate dall’infanticidio e caratterizzate da una simile folle e omicida gelosia di un genitore non si sono verificate anche in tempi moderni!

giovedì 10 gennaio 2013

Se devi amarmi… amami per amore – Biografia d'amore di Elizabeth Barrett e Robert Browning


Prima di copertina dell libro


Riporto il contenuto di una mia intervista rilasciata al prof. Iain Halliday che insegna Lingua e traduzione nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Catania, in occasione della presentazione del libro Se devi amarmi… amami per amore – Biografia d'amore di Elizabeth Barrett e Robert Browning (Aracne, Roma 2012), tenutasi a Catania presso il Katane Palace Hotel il 7 gennaio del 2013, alla quale hanno partecipato la prof.ssa Dorotea Amato Pistone, il prof. Giuseppe Pappalardo e lo stesso prof. Iain Halliday (moderatore il prof. Francesco Belfiore).

A. Com'è nato il progetto del saggio?
(1) Quand'ero ragazzina, quasi bambina, attingendo alla ben fornita libreria della mia cara mamma (naturalmente zeppa, oltre che di grandi classici, di libri per signorine) sono incappata in un libro rosa del 1932 di Andrea Dessì (autore semisconosciuto), dal titolo La famiglia Barrett, che in forma romanzata raccontava la storia d'amore di Elizabeth Barrett e Robert Browning. Confesso che questo libro mi aveva così affascinata che ogni tanto lo riprendevo in mano per rileggerlo con piacere.

(2) Qualche anno più tardi ho scritto un'antologia dedicata al cane nella letteratura antica e moderna, e stavolta mi sono scontrata con un delizioso piccolo libro di Virginia Woolf, grande scrittrice e critica inglese, Flush – una biografia, che uscì nel 1932 (lo stesso anno dell'uscita del libro di Dessì). Nel 1934 uscì, inoltre, il film di Sidney Franklin The Barretts of Wimpole Street (con Charles Laughton, Norma Shearer e Frederic March), ciò fa pensare a una riscoperta dei due poeti in questi primi anni Trenta (lo stesso Franklin preparò il riuscito remake conosciuto come Alleanza vietata - Forbidden Alliance con John Gielgud, Jennifer Jones e Bill Travers,  meritandosi due candidature all’Oscar. Dd'altra parte, all'idealismo filosofico e alla poesia metafisica di Browning, negli anni trenta guardarono con  interesse i poeti Ezra Pound (1874–1963) e Thomas Stearns Eliot (1888–1965), che – dopo un lungo periodo di oblio – posero in evidenza la drammatica ricchezza del “flusso di coscienza” ante–litteram di alcuni dei monologhi di Robert Browning.

Flush raccontava la stessa storia d'amore vista attraverso i candidi occhi di Flush, il cocker spaniel di Elizabeth Barrett, che, divenendo il testimone oculare del nascere di quel nuovo amore di Elizabeth per Robert che gli sottraeva parte dell'amore esclusivo che fino a quel momento Elizabeth aveva nutrito per lui, veniva via via diventando sempre più geloso. Le pagine su Flush della Woolf sono veramente deliziose e Flush ci appare come un cane giovane e gagliardo, giocoso ed entusiasta, ma in grado di capire e condividere le emozioni degli umani e di mutare la vita e il carattere della triste Elizabeth (donna complicata: tossico–dipendente dal laudano usato largamente dalle isteriche donne dell'Ottocento – ma non era innocuo essendo un derivato alcolico della morfina – e, col senno di poi, certamente anoressica). Per Elizabeth inferma, il dolce cocker spaniel aveva rinunciato al sole e alla vita all'aperto per condividere il buio e la solitudine della sua stanza ma poi era arrivato Robert e il piccolo Flush si era sentito ignorato e infelice. Aveva finito poi per decidere di amare sia Elizabeth sia Robert dello stesso amore. La Woolf ebbe a dire: «Scrivo ogni mattina, e mi diverto a scrivere ogni parola di Flush».

Ma la biografia di Flush è, naturalmente, la biografia di Elizabeth (e anche una fedele e attenta ricostruzione della Londra vittoriana): infatti, Virginia fece delle ricerche accurate attraverso diversi epistolari della Barrett sugli altri importanti protagonisti della vita della Barrett, tra i quali la cameriera Lily Wilson che le fu devotissima: insieme con lei e con Flush, Elizabeth e Robert fuggirono in Italia (non prima però di essersi sposati, data la severità dei costumi vittoriani).

(3) Soltanto qualche anno dopo, mi è poi capitato tra le mani un piccolo libro che conteneva alcuni sonetti di Elizabeth, tratti dai i Sonetti dal portoghese (Sonnets from the Portuguese), che in sequenza cronologica seguivano tutte le fasi dell’innamoramento e del fidanzamento, tradotti da Daniela Marcheschi (che ho avuto il piacere di conoscere su facebook), che mi sono sembrati così belli che è nato in me il desiderio di condividere questa bellezza con gli altri.

E, inoltre, per motivi familiari amo l'Inghilterra come una seconda patria e ho sempre adorato la letteratura inglese dell'Ottocento: Jean Austen con i suoi libri, Charlotte Bronte con Jane Eyre ed Emily Bronte con Cime tempestose. stao, quindi, per me estremamente interessante studiare questo periodo letterario.

B. Quanto tempo hai preso per scrivere questo saggio?
Non so precisare il tempo esatto perché la gestazione è stata piuttosto lunga. Infatti, scrivere questo saggio non è stato facile, perché i due poeti in Italia sono poco conosciuti e quindi il materiale reperibile in italiano era scarsissimo; per fortuna, invece, i due poeti sono conosciuti e amatissimi nel mondo anglosassone e il materiale che ho trovato sul web (nei siti specialistici dedicati alla letteratura vittoriana e ai due poeti) era enorme e ciò mi ha aiutato a trovare molte informazioni.

Per conoscere a fondo Elizabeth Barrett, molto importante è stato per me il testo integrale in italiano di Aurora Leigh, un lungo poema in versi liberi (blank verses) che in modo autobiografico racconta una complessa e melodrammatica storia d’amore tra una giovane ragazza con aspirazioni artistiche (voleva essere una poetessa) e il cugino, un uomo buono e saggio ma vero rappresentante del maschilismo vittoriano. Il testo è di una modernità eccezionale: Elizabeth vi confuta il concetto che una donna non possa scrivere vera grande poesia (un pregiudizio del tempo) e vi rivela la convinzione dell'eguaglianza tra uomo e donna, assolutamente inedite per quel periodo. Elizabeth – anche se molto innamorata – ci teneva a riaffermare la propria individualità; come riportato da George Barnett Smith (Elizabeth Barrett Browning. The Cornhill Magazine, 29:471–90, 1874), scrisse: «Io non scrivo per piacere ad alcuno, neanche per piacere al mio stesso marito».

Vi ricordo che al tempo dell Barrett e della stessa Virginia Woolf le donne non avevano né spazi né indipendenza economica: la Austen scriveva in cucina ed Emily Dickinson appuntava le sue poesie ai margini delle ricette da cucina, e le donne non potevano nemmeno ereditare (vi ricordo Orgoglio e pregiudizio e Dowton Abbey, visto di recente in televisione, nei quali in assenza di eredi maschi la casa di famiglia andava al cugino maschio). La Woolf ha scritto benissimo tutto questo in due saggi superbi: Le tre ghinee e Una stanza tutta per sé. Riconosciamolo: anche oggi la camera da studio è di assoluta pertinenza maschile!

Quello che mi ha entusiasmato di più è stato scoprire come Elizabeth, nell'amore, avesse saputo superare moltissimi problemi: la sua infermità, gli ostacoli posti da un padre geloso e psicopatico, la certezza di essere diseredata e la penuria di denaro di Robert, la differenza di età che allora non era affatto trascurabile (Elizabeth aveva sei anni più di Robert), la necessità di dover vivere all’estero, i pettegolezzi creati dalla grave trasgressione dell’amore clandestino (e del matrimonio segreto e della fuga) – Robert, dopo aver sposato Elizabeth in Inghilterra si era trovato al centro di un vero e proprio “gossip”: molti sospettavano che avesse sposato Elizabeth perché più famosa e ricca di lui, e a Londra era segnato a dito come il «marito della signora Browning» – , e infine l’implacabile e cieca vendetta del temuto padre tradito che non volle mai più vederla.

Elizabeth, che era una donna problematica (tossicodipendente e probabilmente anoressica), per amore, seppe puntare sul futuro (anche se nebuloso) perché aveva una grande fiducia nella Vita e in Robert che l'aveva fatta innamorare perché aveva saputo guardare, oltre la facciata, nella profondità della sua anima (e in realtà soltanto questo è l'amore, costruito sulla roccia, che resiste alle delusioni esistenziali, al declino per l'invecchiamento e le malattie, l'amore che non ha bisogno di silicone o di chirurgia estetica).

C. Elizabeth Barrette e Robert in che modo sostennero il Risorgimento?
Nella metà dell’Ottocento, Firenze ospitava una vivace e colta comunità anglo–americana, costituita da artisti e letterati che in Italia preferivano Firenze a Roma, al tempo infestata dalla malaria e quindi malsana, e che solidarizzavano con il Risorgimento. Molti di essi gravitarono nella cerchia formatasi attorno ai due poeti di successo.

E Elizabeth Barrett svolse un'attività politica vera e propria. Dopo il ritorno degli austriaci, nell’aprile del 1848, invece di abbandonare l’Italia come gli altri inglesi, i Browning rimasero a Firenze e (dopo la proibizione della esposizione del tricolore) provocatoriamente Elizabeth – ormai completamente votata alla causa dell’indipendenza italiana – volle nel suo salone il bianco delle tende, vicino al verde delle pareti e al rosso del velluto delle cortine.

Ispirata dal Risorgimento e dai fatti toscani del 1848 – «una italiana nel cuore (an Italian at heart)» – , si avvicinò al movimento del Romanticismo italiano scrivendo il poema Le finestre di casa Guidi (Casa Guidi Windows) (1850), costituito da una prima parte nella quale mostrava entusiasmo per le istanze di libertà del popolo fiorentino e da una seconda parte (scritta dopo l’armistizio che aveva ridotto Venezia sotto il controllo austriaco) nella quale manifestava un profondo senso di disillusione. Dieci anni dopo, nel 1860, la Barrett pubblicò la nuova raccolta poetica di carattere politico Poesie davanti al Congresso (Poems before Congress): convinta delle ragioni dei Fiorentini, Elizabeth aveva concentrato cos' tante attenzioni ed energie nella politica italiana da preoccupare sia Robert, sia gli amici più intimi. Con toni d’indignazione e d’invettiva, nella prefazione del libro, sollecitava i suoi connazionali a prendersi a cuore i gravi problemi dell’Italia: questi atteggiamenti furono considerati inopportuni e indecorosi per una donna, alienandole la simpatia degli Inglesi che le attribuirono erroneamente dei sentimenti anti–britannici. In effetti, le due opere non ebbero molto successo, contribuendo a diminuire la sua popolarità in Inghilterra. E il 1861 vide coincidere la morte della Barrett e l'unità d'Italia –avrei voluto che il libro uscisse nel 2011 che vedeva i 150 anni dell'Unità d'Italia ma l'editore non ha fatto in tempo – e, purtroppo, Elizabeth non ebbe il piacere di sapere che il 19 novembre del 1865 la Camera avrebbe approvato la legge che spostava la capitale d’Italia da Torino alla sua amatissima Firenze, in mezzo allo sconcerto e alle vibrate proteste dei torinesi.