domenica 29 aprile 2012

I giganti della montagna nella tematica di Luigi Pirandello


Luigi Pirandello                           Rappresentazione al Verga, 2012



La drammaturgia moderna deve moltissimo a Pirandello che, intellettuale d'avanguardia, si dedicò all’analisi acuta delle inquietudini, della crisi d’identità, delle contraddizioni e dell'alienazione dell’uomo contemporaneo. Con nuova sensibilità, seppe dare parole e sentimenti al tormentato isolamento e alla disperata solitudine dell’esistenza umana, facendosi interprete della prevedibile sconfitta dell'uomo, della sua inevitabile separazione dal resto del mondo e del suo essere disgregato senza unità dalla molteplicità dei rapporti e dal contrasto tra l'essere e l'apparire, tra l'essere e il divenire. Nel 1934 gli fu conferito il premio Nobel.

Nacque il 28 giugno del 1867 ad Agrigento (chiamata allora Girgenti) da Stefano – ricco proprietario di miniere di zolfo di origini liguri e uomo concreto che avrebbe voluto fare del figlio un agiato commerciante (e che gli fu sempre nemico) – e da Caterina che Luigi amava moltissimo, soffrendo nel vederla trattata senza rispetto dal padre. Luigi Pirandello con straordinaria testardaggine – e quasi di nascosto – compì gli studi classici, prendendo la licenza liceale. Continuò a contrastare con grande forza i desideri paterni, iscrivendosi alla facoltà di Lettere (prima a Palermo, poi a Roma) e prendendo infine la laurea a Bonn: discusse una tesi sul suo dialetto natale. Rimase nella città straniera per un certo periodo di tempo, come lettore di lingua italiana, e venne in contatto con i romantici tedeschi con i quali conservò stretti legami culturali per tutta la vita.

Ritornato in Italia, si stabilì a Roma e nel 1894 – in seguito a un matrimonio combinato dalla famiglia – sposò Maria Antonietta Portulano, una bella ragazza bruna dai fini lineamenti, figlia di un ricco socio del padre. Egli l'amava, nonostante esistesse tra loro una forte incompatibilità di carattere, e vissero inizialmente una vita serena e agiata, allietata dalla nascita di tre figli.

Tra il 1894 e il 1904 Pirandello pubblicò con discreto successo alcune raccolte di poesie, novelle e i suoi primi romanzi L’esclusa (1901) e il Turno (1902). Un improvviso disastro finanziario – una frana aveva allagato la miniera nella quale il padre aveva investito i suoi ingenti capitali compresa la dote di Maria Antonietta – lo mise in condizione di dover lavorare per vivere e provocò l'inizio di una grave malattia mentale della moglie. Maria Antonietta, che era rimasta semiparalizzata dopo la notizia del crac familiare, aveva sviluppato una psicosi che si estrinsecava in strane manie e in una folle gelosia che umiliava e imbarazzava profondamente Luigi (nel 1919 la famiglia fu costretta a ricoverarla in una casa di cura per dementi, ove rimase per tutta la vita). Sulla scia del gran successo ottenuto con Il fu Mattia Pascal (scritto nel 1904, sotto un pressante bisogno di denaro) e in seguito alla pubblicazione di alcuni saggi, nel 1908, fu nominato ordinario di lingua italiana presso il Magistero di Roma, conquistando una discreta tranquillità economica. Nel 1922 lasciò questo incarico per dedicarsi interamente alla letteratura. Dal 1916 iniziò un inarrestabile successo letterario di respiro internazionale, in coincidenza della comparsa delle prime rappresentazioni teatrali e delle novelle che furono pubblicate col titolo di Novelle per un anno nel 1922, in un “corpus” unico costituito di ben 246 novelle.

Per il suo pessimismo innato, Luigi sarebbe stato portato a scrivere delle tragedie ma ebbe modo di dire: «Noi sentiamo troppo, soffriamo troppo: la nostra vita è per se stessa drammatica, però non possiamo aver la serenità di concepire il dramma, da che noi stessi vi siamo impigliati.». Questa frase mi ha ricordato un altro grande drammaturgo, Oscar Wilde, che così scriveva: «Il mondo rise sempre delle sue tragedie, perché non vi era altro mezzo per sopportarle. Di conseguenza, quelle questioni che il mondo ha trattato seriamente, appartengono al lato comico della vita.» (in Aforismi, a cura di Riccardo Reim, Tascabili Economici Newton, Roma, 1992). Per questo suo forte coinvolgimento nella tragedia della vita, in arte Pirandello si dedicò spesso alla commedia, affrontando i suoi temi con un umorismo amaro, talora addirittura sardonico o grottesco. Tra le sue numerose commedie, tradotte in tutte le lingue e rappresentate in tutto il mondo, ricordo soltanto quelle più significative: La morsa, Pensaci Giacomino, Liolà, Il berretto a sonagli, Il piacere dell'onestà, L’uomo, la bestia e la virtù, Tutto per bene, Come prima, meglio di prima e Questa sera si recita a soggetto. Fu, però, con Sei personaggi in cerca d'autore che Luigi raggiunse il punto più alto della sua drammaturgia, cogliendo la fama mondiale (fu rappresentata a Londra, New York e Parigi). Con un'originalità strepitosa – “il teatro nel teatro” – limitò l'azione della commedia nell'ambito di un palcoscenico, narrando di sei personaggi (creati dall’autore e abbandonati a se stessi) che – sentendosi più vivi e veri degli uomini che respirano – si mettono alla ricerca di un regista e di una compagnia di attori che vogliano rappresentare il loro dramma inespresso. Si crea allora un acuto contrasto tra il regista e i personaggi, e tra i personaggi e gli attori, che vorrebbero intromettersi nella rappresentazione e che vengono considerati dai personaggi come teatranti falsi e freddi, non all’altezza di rappresentare il loro dramma. I personaggi pretendono di raccontare e di rivivere personalmente con crudele e lucida verità la loro tremenda vicenda che culmina nella tragedia dell'annegamento di una bimba e nel suicidio di un ragazzo. Gli attori e il regista restano completamente sconvolti dall'orrore di questa tremenda rappresentazione, non riuscendo più a distinguere tra finzione e realtà. è inutile dire che tutto il gioco teatrale è abile e riesce a creare un coinvolgimento umano straordinario!

Nell'ultimo periodo esistenziale, pur continuando a essere creativo e vitale, Pirandello visse una certa involuzione intellettualistica che fece divenire sempre più complicate e cerebrali le sue commedie. Iniziò allora a creare delle maschere e dei simboli troppo rigidi (quasi delle marionette senza vita) piuttosto che personaggi dotati di calda umanità e di accesi sentimenti. Appartengono a questo periodo L'amica delle mogli, Diana e la Tuda, e O di uno o di nessuno, nelle quali tentò di rappresentare l'erotismo represso, l'«atroce solitudine» e le debolezze umane, la giovinezza rimpianta e la vecchiaia incipiente con le sue pene, e tutti gli altri orrori della vita (tra i quali in modo autobiografico affiorano la follia dell'amata moglie e la sua segregazione in manicomio, che Luigi visse sempre con persistente doloroso senso di colpa).

In questa fase della vita, Pirandello fu però l'attivissimo e innovatore direttore artistico del Teatro d'Arte di Roma, divenendo il capocomico di una compagnia teatrale di cui faceva parte la giovanissima attrice Marta Abba, che fu la sua ispiratrice e la sua «musa vivente». A Marta, Luigi fu legato da un forte sentimento amoroso, nonostante che lui fosse sessantenne e lei venticinquenne. Con lei instaurò un fittissimo epistolario, durato dal 1926 al 1936, nel quale confondeva vita vissuta e parola scritta, realtà vera e creazione fantastica, e con lei Pirandello se ne andò in giro per il mondo, rappresentando le sue commedie e facendo conoscere le sue idee così originali. Si lamentò spesso che la celebrità l'aveva reso «un immutabile idolo» (vedere il testo teatrale autobiografico Quando si è qualcuno, nel quale il protagonista è uno scrittore prigioniero della maschera che gli altri hanno costruito per lui, che preferisce morire come poeta per rinascere come uomo, perché l'Arte è ormai morta). L'ultima lettera all'amata Marta è del 4 dicembre del 1936; scritta dieci giorni prima della morte di Pirandello, Abba la ricevette dopo la morte del «maestro» a New York mentre recitava a Broadway. In quest'ultima lettera, Luigi le scriveva: «Marta ti amo, vivo con te e per te».

Pirandello moriva a 69 anni, a Roma, il 10 dicembre del 1936 in seguito a una banale polmonite, mentre era immerso nella composizione dell'opera teatrale I giganti della montagna rimasta incompiuta, vero e proprio testamento spirituale.

Sulla scia della rappresentazione di questo testo teatrale corale che ho avuto modo di vedere in questi giorni nell'ottima produzione del Teatro Verga di Catania (Stagione 2011-2012), per la regia di Giuseppe Dipasquale (superbe le scene di Antonio Fiorentino e belli i costumi di Elena Mannini) con Magda Mercatali, Vincenzo Pirrotta, Gian Paolo Poddighe e Anna Malvica e tanti altri attori di valore, voglio attirare la vostra attenzione su questo dramma e sulla sua gestazione. Già famoso, a capo della sua compagnia teatrale Luigi Pirandello aveva girato il mondo, venendo a contatto con la cultura europea e americana e cogliendone soprattutto gli aspetti di alienazione della condizione umana. Ha scritto in una sua elaborazione la Prof.ssa Giovanna Di Giorgio: «Nelle ultime opere teatrali, La Nuova Colonia, Lazzaro, La Favola del figlio cambiato e I Giganti della Montagna, più che nelle opere precedenti, lo scrittore rivela in modo particolare, il carattere surrealista della sua opera, anche se con un messaggio ambiguo e con un'arte meno sicura di sé. […] L’autore chiama “Miti” queste ultime sue opere, perché sono “utopie”, frutti di pura fantasia, rappresentazioni che esprimono la favola e il sogno; Miti, che Pirandello intende mettere in scena, facendo rivivere nel teatro moderno le più genuine e ataviche manifestazioni di quella funzione religiosa ed artistica, capace di turbare e anche di "scuotere" lo spettatore.». E in queste ultime opere sono del tutto frantumati i confini fra la realtà e il sogno, e ogni cosa appare immersa in una fantastica atmosfera spettrale. La Di Giorgio, parlando de I giganti della montagna, li considera: «opera particolarmente interessante, perché nasconde nuovi possibili sviluppi dell'arte pirandelliana, che se da un lato aiutano notevolmente a comprendere l'umanità propria e più vera di Pirandello “uomo”, dall'altro possono rischiarire di una nuova luce tutta la precedente sua opera, nella quale erano già presenti le sensazioni, le speranze e i desideri che vi appaiono. […] nasce da una crisi profonda dello scrittore e della sua arte: il personaggio pirandelliano, scoprendo la propria inadeguatezza nell'affrontare la realtà, si isola e questo isolamento lo conduce sempre a una sconfitta che si verifica ancor prima della lotta. […] I Giganti rappresenterebbero il momento della sconfitta dell’arte e, in un certo modo, la sconfitta metafisica di Pirandello» (http://www.robertobernardini.it/letteratura /testi/giganti.htm).

Ricordiamo che il testo teatrale era stato scritto tra il 1931 e il 1933 ma la Prima risale al 5 giugno del 1937, quando stavano creandosi le condizioni storiche per l’oppressione e la violenza, quando si stava annunziando il periodo cupo di una spaventosa tragedia europea. Nel 1910 aveva scritto la novella Lo stormo e l'Angelo Centuno, il nucleo da cui prese origine il dramma. Il testo è difficile, la trama complessa e piena di simbolismo, ambientata come scrive Pirandello in «tempo e luogo indeterminati: al limite, fra la favola e la realtà», e ove ritorna l'affascinante idea del “teatro nel teatro” celebrata in Sei personaggi in cerca d'autore. è rimasta memorabile la rappresentazione realizzata da Giorgio Strehler al Piccolo di Milano nel 1995 con una grande Valentina Cortese.

La contessa Ilse Paulsen (esemplificazione dell’Autore ma anche simbolo dell'Arte), una grande attrice, è la moglie di un conte pallido e biondo «che conserva nei tratti e nei modi il deluso squallore d'una grande nobiltà»; per lui, aveva lasciato la sua arte ed era diventata contessa, ma era poi tornata al teatro e alla sua vera vita. Adesso è la prima attrice (con i capelli «color di rame caldo… l'abito dimesso e doloroso, di velo violaceo, scollato, un po' logoro…») e la capocomica di una compagnia di teatranti poveri e girovaghi ma nutriti di poesia. La compagnia brama dal desiderio di rappresentare la: nella realtà, è un dramma dello stesso Pirandello, nel quale le Donne, streghe dell'aria, hanno rapito a una madre il figlio in fasce – sano e bello – portandolo a corte sostituendolo con uno brutto e ammalato (quasi mostruoso); quando il principino torna al paese natale e viene a sapere di essere il figlio scambiato, rinuncia agli onori per rimanere con la madre ritrovata. “La Favola del figlio cambiato” è l'opera di un giovane poeta, suicidatosi perché respinto da Ilse che vuol farlo vivere ancora nella rappresentazione del suo dramma («la vita negata a lui, ho dovuto darla alla sua opera»). Nel loro peregrinare, con la loro carretta, stanchi del viaggio, gli attori arrivano a “La Scalogna”, una villa decaduta e in abbandono, dall'intonaco scolorito, abitata dagli spiriti e da Cotrone, un mago contadino (quasi uno sciamano che vive modestamente dei suoi incantesimi). Cotrone fa affiorare «tutte quelle verità che la coscienza rifiuta», fa «venir fuori dal segreto dei sensi, o a seconda, le più spaventose verità dalle caverne dell'istinto», e insegna a inventarsi la verità – alterando il piano della realtà con quello del sogno («Fuori di noi!») e mescolandolo con l’apparenza o l’illusione e con la magia o l’incanto – e insegna a vivere del superfluo rinunziando al necessario («padroni di niente e di tutto»). Cotrone è a capo di un gruppo di poveri individui, gli Scalognati, che si dibattono tra la favola e la realtà, tra il sogno e la veglia, abbandonati alle sue magie e alle evocazioni spiritiche di un uomo «che inventa la vita» e che è convinto che la verità dei sogni sia «più vera di noi stessi». Certa di poter fornire uno spettacolo artistico di prim'ordine, Ilse decide di recitare di nuovo “La Favola del figlio cambiato” (la prima volta aveva ricevuto «fischi che ne tremarono i muri») dinanzi agli uomini e ai “Giganti della montagna”, i robusti padroni del mondo che vivono sulla Montagna che sta al di sopra della villa degli Scalognati, simbolo degli uomini duri e orgogliosi, razionali e padroni del loro destino, individui senza sogni e senza Poesia (a proposito dei Giganti che sentiamo muoversi con grande clamore ma che non vedremo mai, scrive il regista Giuseppe Dipasquale nelle note di regia dello spettacolo del teatro Stabile di Catania: «Questa estrema impossibilità è anche l'estremo atto di denuncia del limite dell'Arte nei confronti della Vita.»).

Ho notato qualcosa di autobiografico (pensando al rapporto controverso di Luigi con Marta Abba) in una dolente discussione tra Ilse e il marito, il conte che per lei si è ridotto sul lastrico consumando tutto il suo patrimonio ma che l'ama non avendo rimpianti (anche Ilse sa che in fondo hanno perso ben poco, perché la ricchezza è servita a comprarsi quella povertà ricca d'Arte e di Poesia). La donna gli dice di aver paura di lui, perché la segue come un mendicante, facendola sentire «tutta, non so, come appiccicata da questa tua mollezza di timidità supplichevole»: ce l'ha negli occhi e nelle mani. Si sente tormentata dalle sue continue profferte amorose come se volesse riprendersi in lei tutto quello che ha perduto e vorrebbe scappare. L'uomo le risponde che l'ama e che non pensa di aver perduto nulla, se ha lei; la guarda negli occhi perché vorrebbe richiamarla a quella che era stata un tempo per lui. Teme di rimanere solo, che lei non lo ami più e che il suo sentimento non sia più quello di prima. Ilse gli risponde che l'ama, che non sa vedersi senza di lui (ma non deve pretendere il suo amore sempre, ma riceverlo soltanto quando lei è in grado di sentirlo), che è sempre la stessa, quella di prima. Aggiunge Ilse: «Sei proprio sicuro di prima? che il mio sentimento sarebbe durato in quelle altre condizioni? Così almeno dura, come può. Ma non vedi come sono? è un miracolo se, a toccarci, non ci sentiamo mancare sotto le mani persino la certezza del nostro stesso corpo.».

Cotrone va dai Giganti a chiedere il permesso per la recita e si ode il clamore provocato dall'arrivo dei Giganti, le musiche e le urla quasi selvagge; la scrittura di Luigi Pirandello s'interrompe con le ultime parole di Diamante, la seconda attrice della compagnia: «Ho paura…». Da questo punto, il testo nel terzo atto è stato completato dal figlio Stefano (anch'egli drammaturgo) secondo i racconti di Luigi morente. I Giganti rifiutano l’offerta di Ilse, perché occupati nelle loro opere grandiose e perché incapaci di comprendere la poesia, ma sono disposti a pagare profumatamente perché gli attori recitino dinanzi ai loro servi e ai loro operai, i quali sono in realtà desiderosi soltanto di ridere con uno spettacolo leggero di ballerine e di sciantose. Gli attori capiscono di essere dati in pasto alle belve, a una plebaglia ignorante, ma Ilse, che è convinta della bellezza della favola e della potenza dell'Arte, insiste nell'imporre con tutta l'energia possibile la parola, la voce del poeta, che è la sola realtà nella quale possa vivere. Insiste per recitare dinanzi a quel pubblico primitivo, che non la capirà e che provocherà il frantumarsi della sua favola e la sua stessa morte (non è chiaro se Ilse muore per il dolore e per lo sconforto o perché dilaniata dai servi durante una zuffa, come era accaduto al musico greco Orfeo, figura della mitologia greca, l'artista per antonomasia che incarnava i valori eterni dell'arte e che con la potenza incantatrice della sua lira e del suo canto placava le bestie feroci e animava gli alberi e le pietre, il quale morì dilaniato dalle Menidi). Nel finale ricostruito da Stefano Pirandello, Cotrone cerca di far capire agli attori che la plebaglia non ha rifiutato la Poesia, non ha capito invece quei «servi fanatici dell'Arte, che non sanno parlare agli uomini perché si sono esclusi dalla vita, ma non tanto poi da appagarsi soltanto dei propri sogni, anzi pretendendo di imporli a chi ha altro da fare, che credere in essi.». I Giganti mandano il loro maggiordomo a chiedere scusa agli attori della compagnia e a offrire un congruo indennizzo che il marito–conte accetterà per erigere una tomba illustre e imperitura alla sua sposa («Ma si sentirà che egli, pur piangendo e protestando i suoi nobili sensi di fedeltà alla morta poesia, s'è a un tratto come alleggerito, come liberato da un incubo.»). Gli attori prendono il corpo di Ilse, spezzato alla guisa di un fantoccio, lo caricano sulla carretta e ripartono così com'erano venuti.

A proposito del finale, che era riuscito a ricostruire su quello che gli aveva detto il padre negli ultimi momenti di vita, ha scritto Stefano Pirandello: «Questo è quanto io ne so, e l'ho esposto, purtroppo, senza la necessaria efficacia; spero però senza arbitri. […] non posso sapere, dico, né nessuno potrà mai sapere se in quell'ultimo concepimento la materia non gli si fosse atteggiata altrimenti, né se Egli non avesse già trovato altri movimenti all'azione, o sensi più alti al Mito.».

Concludendo, nelle opere di Pirandello si esprime in modo emblematico soprattutto quel moderno ed eterno “gioco delle parti” che è il contrasto tra quel che si vorrebbe essere e quel che si deve essere, tra quel che si appare agli altri e quel che si è nella realtà (ciascun individuo, in fondo in fondo, neppure lui sa quel che è). Questi sono i temi più tipici di Pirandello: ogni nostra conoscenza è relativa e non c’è dato il poter scegliere tra le possibili diverse verità personali (argomento della commedia Così è, se vi pare); non esistono limiti tra realtà e illusioni, tra pazzia e salute mentale (tema del dramma Enrico IV); ci si sente spesso diversi da quel che si appare agli altri e si vorrebbe figurare meglio (nodo narrativo della commedia Vestire gli ignudi); esiste talora la necessità di plasmare il nostro essere secondo l’immagine di chi ci ama (nucleo della commedia Come tu mi vuoi); un individuo è come una entità molteplice che tenta di creare una propria immagine personale ma è uno per sé e uno diverso per ciascuno di coloro che lo conoscono (l’idea guida di Uno, nessuno e centomila). E si potrebbe continuare ancora!

giovedì 26 aprile 2012

Renato Rascel, l'uomo piccolo, Nikolaj Gogol', e Il cappotto



Renato Rascel


Cento anni addietro, a Torino (ma soltanto per caso, perché era romano da ben sette generazioni), il 27 aprile del 1912, nasceva Renato Rascel (all'anagrafe Renato Ranucci), il “piccolo–grande” artista di varietà, eclettico quanto mai, che si cimentò nella recitazione, come ballerino comico e cantante, ma anche nella stesura dei suoi testi e come poeta–cantautore e persino come inviato–giornalista, commentatore sportivo e scrittore di fiabe per bambini.

Figlio d'arte, il padre Cesare era un cantante di operetta mentre la madre, Paola Massa, era una ballerina classica. Renato nacque durante una tournée e per l'impegno teatrale dei genitori fu affidato a una zia insieme con la sorella Giuseppina (morta a soli diciassette anni). Talento precoce, a dieci anni faceva parte già del “Coro delle Voci Bianche” della Cappella Sistina e si esibiva come batterista in un complessino jazz. Sulle orme paterne, ancora ragazzino, debuttò a fianco di Cesare nella filodrammatica del padre “Fortitudo”, e all'età di tredici anni già lavorava come musicista nel locale “La Bomboniera”. Fu una palestra impareggiabile per quel giovanissimo, nato per il teatro e per la musica! Durante gli anni trenta, scelto lo pseudonimo di Renato Rascel, si fece le ossa nell'avanspettacolo e nel 1933 fu notato dalla critica al Teatro Lirico di Milano, con la compagnia teatrale Schwartz, nella parte di Sigismondo nell'operetta Al Cavallino Bianco.

Estroso e anticonformista, in quel periodo decise di sfruttare la sua piccola statura (era chiamato “Renatino, il piccoletto”), creandosi l'originale personaggio dell'omino candido e surreale, un originale ingenuo e infantile, che – calato in abiti di alcune taglie più grandi della sua – si abbandonava a sproloqui apparentemente senza senso ma pieni di novità e invenzioni, e di una moderna e comica ironia (riuscì a conquistarsi il grande l'entusiasmo di una grossa fetta di pubblico, che pure appariva disorientata dalle sue battute prive di logica). è del 1939 la sua surreale tiritera È arrivata la bufera: «È arrivata la bufera / è arrivato il temporale / chi sta bene e chi sta male / e chi sta come gli par», che diventò il suo delizioso biglietto da visita. Seguirono altre filastrocche paradossali –  tra le quali: Mi chiamo Viscardo, La canzone del baffo e La canzone della zanzara tubercolotica – che attirarono anche l'attenzione della censura fascista. Scrisse di lui Cesare Zavattini nel 1940: «Ricava il massimo dai suoi mezzi limitatissimi e io subisco l'incanto della sua pochezza, senza voce senza recitazione senza spirito improvvisatore. Ci sentiamo tutte madri davanti a Renato Rascel che canta le filastrocche con i modi di un bambino tardivo e solitario». Lo stesso Rascel aveva detto: «Molti di quei giochi di parole surreali li inventavo in scena, poi li scrivevo e rileggendoli mi sembravano insensati» (http://www.italiamemoria.it /rascel/dichi.htm).

Il cinema si accorse di questo piccolo–grande attore. Nel 1942 Cesare Zavattini e Vittorio Metz scrissero per lui la sceneggiatura di una commediola scanzonata diretta da Giacomo Gentilomo, che avrebbe dovuto intitolarsi “Un manoscritto in bottiglia”. Durante la lavorazione del film, Rascel conobbe l'attrice Tina De Mola (per lei scrisse la canzone Pazzo d'amore, che diventerà la colonna sonora dell'omonimo film) e si sposarono ma per le vicende della guerra gli sposini furono costretti a fuggire trovando rifugio in Vaticano (Rascel era inviso ai nazisti che avevano occupato Roma). Quella di Rascel rimase soltanto una piccola parte ma molto interessante.

I primi anni cinquanta furono i suoi anni d'oro. Ritornò al teatro di rivista con la straordinaria maschera (non la chiamerei macchietta, il termine mi sembrerebbe limitativo) del Piccolo Corazziere, timido e accattivante anti–eroe, che con autoironia sbeffeggiava la sua bassa statura e il suo dover convivere con un elmo e con una sciabola enormi. Così recitava la lunga e talora sconclusionata filastrocca: «Mamma ti ricordi quando ero piccoletto, / che mi ci voleva la scaletta accanto al letto, / come son cresciuto mamma mia devi vedere… / figurati che faccio il corazziere // Dicono che di crescere non mi dovrò fermare / dicono che posso ancor più alto diventare / e perciò la sera quando c'è la ritirata / mi danno l'acqua come all'insalata // […] // Quando noi di scorta andiamo appresso a una vettura, / noi dobbiamo essere tutti uguali di statura, / io perciò cammino tutto dritto appresso al cocchio / che i miei compagni marciano in ginocchio // […] // Dice il comandante che farò una gran carriera / perché c'ho la spada gli speroni e la panciera / per quel piede dolce, saldo il cuor la mano lesta / e c'ho sta cassarola sulla testa // Quando vo per la città / tutti esclaman: “Guarda là di quel corazziere se ne vede la metà!” // […] // Se vedi un elmo che cammina solo / salutalo e sollevalo dal suolo / che sotto mamma mia con gran piacere / ci troverai tuo figlio corazziere». Ha scritto Gianni Canova: «Piccoletto, fisico nervoso, faccia arguta e simpatica, buon fantasista e ballerino, di tip tap, ottiene notevole successo nel varietà sino a formare una sua compagnia.» (Cinema, le garzantine, a cura di Gianni Canova, Garzanti, 2009). Di sé, aveva scritto Rascel: «Era proprio un mio desiderio quello di portare al pubblico un uomo che non fosse mai vincitore, ma sempre uno sconfitto: anche le mie “bufere”, il mio corazziere, il mio Napoleone erano i drammi di un uomo piccolo» (http://www.italiamemoria.it/rascel /dichi. htm).

Nonostante i grandi successi teatrali, non trascurò il cinema. «Lento e irto di ostacoli, il cammino della ricostruzione tocca anche i territori del cinema. […] Un paio di generi si contendono le preferenze del pubblico, il comico e il feuilleton. Nel primo troneggia l'esuberante vena partenopea di Totò […] Godranno di una certa popolarità anche Macario […], Tino Scotti […], Walter Chiari […] e Renato Rascel […].» (ne “I generi del cinema italiano”, Il Cinema – Grande storia illustrata, Ist. Geografico De Agostini, Novara, 1981). Di questi anni ricordiamo «numerose pellicole che lo ripropongono pedissequamente come macchietta comica dallo sproloquio verbale» (Gianni Canova); tra le più importanti: Botta e risposta (1950) di Mario Soldati con Nino Taranto e Isa Barzizza; Figaro qua figaro là (1950) di Carlo Ludovico Bragaglia con Totò e Isa Barzizza; Io sono il Capataz (1950) di Giorgio Simonelli con Silvana Pampanini; Amor non ho… però… però (1951) di Giorgio Bianchi con Gina Lollobrigida e Aroldo Tieri; Napoleone (1951) di Carlo Borghesio con Carlo Ninchi, Sergio Tofano e Raimondo Vianello; e Il bandolero stanco (1952) di Fernando Cerchio con Lauretta Masiero e Tino Buazzelli.

Nel 1952 interpretò il film Il cappotto, di Alberto Lattuada, tratto dal noto racconto di Nikolaj Gogol', che fu uno dei suoi grandi successi. Rascel per la prima volta si misurò con un ruolo drammatico, uscendone vittorioso e dimostrando tutte le sue corde di attore sensibile e coinvolgente (si meritò il Nastro d'Argento con la seguente motivazione: «per l’estrosa collaborazione data al regista Alberto Lattuada nel comporre il personaggio principale»). Gogol' così ci presenta Akakij Akakievič Basmackin, il suo eroe, nel suo racconto Il cappotto (in “Racconti di Pietroburgo”, Mondadori 1986): «Quando e in quale momento egli fosse entrato nella divisione e chi l'avesse nominato nessuno ricordava. Per quanti direttori e responsabili vari cambiassero, lui fu visto sempre allo stesso posto, nella stessa posizione, nella stessa carica, sempre il medesimo impiegato alla corrispondenza; tanto che poi si convinsero che lui evidentemente era venuto al mondo già proprio bell'e fatto, con l'uniforme e la calvizie sul capo. Nella divisione non lo tenevano in alcuna considerazione. I custodi non solo non s'alzavano quando passava, ma non gli rivolgevano neppure uno sguardo, come se una semplice mosca fosse volata attraverso la sala di ricevimento. I capi lo trattavano in una maniera freddamente dispotica.». Gesualdo Bufalino (Dizionario di personaggi di romanzo, Oscar Mondadori, 1989) ha così descritto il personaggio interpretato mirabilmente da Renato Rascel: «[…] non si rifiuta mai di copiare; assolve, copiando, la propria sorte di solitario e dannato nell'inferno polveroso degli archivi. Finché l'acquisto di un cappotto non lo precipita nella rovina; un cappotto che vorrebbe essere il segno della sua mite riscossa e diventa oggetto d'una esclusiva passione amorosa, gli fa vece d'amante. Glielo rubano, muore. E, tramutato in fantasma, erra nella notte inseguendo sul meglio incappottato burocrate di Pietroburgo la sua vendetta.». Aveva scritto di lui Alberto Bevilacqua nel 1965: «Fra tutti i nostri comici, Renato Rascel è a un tempo il più antico e il più moderno, per quella forza della contraddizione non priva di logica. La sua faccia può assumere le argute amarezze di Gogol', ma anche spalancarsi alla lucidità di un assurdo in quanto tale, a un vuoto simbolico».

Trascinato dal successo de Il cappotto, nel 1953 Rascel volle cimentarsi nella regia cinematografica: girò, insieme con Valentina Cortese e Paolo Stoppa, La passeggiata, tratto da un altro racconto di Gogol', La prospettiva, che raccontava la storia di un impacciato istitutore di collegio in una città di provincia che s'innamora di una prostituta e la invita a una cerimonia, provocando la reazione ipocrita dei benpensanti. Ha commentato Morando Morandini: «è una commedia che riflette in pieno il tipo di comicità e di ambientazione piccolo borghese nelle quali eccelleva» (il Morandini – Zanichelli editore). Lo stesso Rascel aveva detto: «Sono un personaggio russo. Potrei fare tutti i personaggi russi che esistono: dalle Anime morte a quello che prende gli schiaffi. A me Il cappotto andava bene di taglia e di cervello» (http://www.italiamemoria.it/rascel/dichi.htm).

Nel 1952, un vero anno fatato per Rascel, debuttò con Attanasio cavallo vanesio al Teatro Sistina di Roma con la ditta Garinei e Giovannini (divenuto l'omonimo film nel 1953 per la regia di Camillo Mastrocinque); seguirono Alvaro piuttosto corsaro (1953) e Tobia, candida spia (1954). Non erano spettacoli di varietà ma vere e proprie “favole musicali”, ricche di un lirico surrealismo. Dopo aver creato una sua compagnia di prosa, il "Teatro del Piccolo", con risultati non felici, nel 1957 ritornò alla grande commedia musicale al Teatro Lirico di Milano con Un paio d'ali insieme a Giovanna Ralli. Nel 1958 vinse la “Maschera d’argento” per il teatro di prosa.

Nel 1957 Rascel diventò noto in tutto il mondo grazie alla sua tenera canzone Arrivederci Roma. Un produttore di Hollywood gli propose The Seven Hills of Rome (1958) di M. Russo e R. Rowland, con il tenore Mario Lanza e Marisa Allasio, girato a Roma e distribuito in Italia con il titolo della canzone.

Quello stesso 1957 vide l'annullamento del suo matrimonio con Tina De Mola, dalla quale viveva separato pur mantenendo vivo il sodalizio artistico. Nel 1966 sposò la sua segretaria personale Huguette Cartier, che lasciò dopo l'incontro con l'attrice Giuditta Saltarini, con la quale ebbe nel 1973 Cesare, l'unico figlio, e che sposò nel 1980.

Nel 1959 interpretò il malinconico film Policarpo, ufficiale di scrittura di Mario Soldati con Carla Gravina (Rascel vinse il premio David di Donatello e il film si aggiudicò al 12º Festival di Cannes nello stesso anno il premio come miglior commedia mentre nel 1960 vinse il Nastro d'argento per i migliori costumi). Rascel ritornava a interpretare un piccolo burocrate, Policarpo De Tappetti, un impiegato ministeriale della Roma umbertina, uno zelante calligrafo molto simile ad Akakij Akakievič, preciso e diligente ma vessato dal severo capo ufficio, il Cav. Pancarano (un inimitabile Peppino De Filippo), il quale a un certo punto crederà addirittura di essere ricattato da Policarpo, perché implicato in una storia di tangenti per le macchine da scrivere dell'ufficio. Ha scritto Morandini: «Liberamente ispirato a un libretto (1903) dell'umorista e giornalista Luigi Arnaldo Vassallo (più celebre come Gandolin), è un film di garbo, una miscela di ironia e di sentimento alla cui riuscita tutti hanno collaborato, dagli attori ai tecnici. Squisito livello figurativo.» (il Morandini – Zanichelli editore). Rascel abbandonerà il cinema nel 1969 dopo aver girato l'ultimo film, Il trapianto di Steno, con Carlo Giuffrè e Graziella Granata; ha scritto Morandini: «Miliardario ottantenne offre un miliardo a chi, con un trapianto, gli consentirà di riacquistare la perduta virilità. I prescelti sono: boscaiolo veneto, impiegato romano con 14 figli, barone siciliano. Steno riesce a tenere sulle righe un tema che poteva degenerare nel trucido, scritta con Giulio Scarnicci, Stefano Strucchi, Raimondo Vianello.». E Rascel interpretava l'impiegato dai tanti figli.

Negli anni cinquanta anche la Radio gli fece la corte: interpretò nel 1952 le Avventure del Barone di Münchhausen e Una domanda di matrimonio da un testo di Anton Cechov, e da allora fu sempre presente nei numerosi programmi che fecero della Radio di allora la regina dell'intrattenimento leggero. Nel 1969 fu il conduttore di un programma radiofonico di sport, Tutto da rifare, appuntamento del lunedì con il pubblico che l'amava.

Naturalmente anche la neo–nata Televisione non poteva non interessarsi del nostro grande Rascel. Gli furono proposti: 'Na voce, 'na chitarra e un po' di Rascel (1955), Rascel la nuit (1956) e Stasera a Rascel–City (1958), col la regia di Eros Macchi e la musica di Bruno Canfora, che fu un insuccesso clamoroso ma che io ricordo bene e che m'impressionò per la poesia degli stracci indossati da Rascel, Tina De Mola, Mario Carotenuto ed Ernesto Calindri, e per il fascino insolito della inquietante periferia suburbana ricreata nello spettacolo. Parlando d'«ironia commovente e umana», ha scritto Aldo Grasso: «Lo spettacolo riunisce e fonde le caratteristiche del varietà, della rivista e della commedia musicale. Rascel–City è una strana città di straccioni: tra essi c'è anche Rascel, che lotta quotidianamente per la sopravvivenza, inventandosi i lavori più improbabili per guadagnare qualche soldo. Il tema del barbone che vive ai margini della società, privo di vincoli e di obblighi, e a cui dunque tutto è consentito fa da filo conduttore del programma […]» (Enciclopedia della televisione, Garzanti, 2008). La TV gli diede forse le sue più grandi soddisfazioni, però, soltanto alla fine degli anni Sessanta e negli anni Settanta con Courteline (Les Boulingrins, 1967, per la regia di José Quaglio), Ionesco (Delirio a due con Fulvia Mammi, per la regia di Cottafavi) e Gilbert K. Chesterton (I racconti di padre Brown, di Vittorio Cottafavi con Arnoldo Foà). Questa serie, costituita da sei episodi, uno dei maggiori successi della stagione, vedeva come protagonista «il prete– investigatore Padre Brown, impersonato da Renato Rascel, assai più casereccio dell'acuto personaggio inventato dallo scrittore inglese, ma altrettanto efficace. Vera antitesi del detective tradizionale, candido e saggio, risolve i casi con sagacia e arguzia. Degno comprimario è Arnoldo Foà, nella parte del ladro redento, ma non troppo Flambeau […]» (Enciclopedia della televisione, a cura di Aldo Grasso, Garzanti, 2008). Nel 1972 Rascel condusse la trasmissione Senza Rete, in cui ritornò alle sue “strampalate” filastrocche cantate. Nel 1977 interpretò un “cameo” per Franco Zeffirelli (era il nato cieco) nel kolossal televisivo Gesù di Nazareth. Negli anni Ottanta, le sue presenze si fecero rare e preziose: con Giuditta Saltarini fu nella “situation comedy” Nemici per la pelle (1980) e nel 1983 condusse il varietà La porta magica, che rappresentò il suo congedo definitivo dal pubblico della TV.

Nel 1960 Renato Rascel, in coppia con Tony Dallara, colse al Festival di Sanremo un grande successo non privo di polemiche con la canzone Romantica, da lui composta (il testo era di Dino Verde) e da lui letteralmente “sussurrata” al microfono. Aveva scritto: «Mi solleticò il desiderio di andare controcorrente. Tutti urlavano e io sussurravo, tutti si agitavano e io mi presentavo con la mia figura esile a dichiararmi l'ultimo poeta che sospira alla luna» (http://www.italiamemoria.it/rascel/dichi.htm). Sue erano anche le romantiche melodie di Con un po' di fantasia e di Venticello de Roma.

Ritornato al teatro di qualità, nel 1961 ebbe un grande risultato con l'indimenticabile commedia musicale Enrico '61, nata sulla scia delle celebrazioni per il Centenario dell'Unità d'Italia, con Gianrico Tedeschi, Gisella Sofio, Renzo Palmer e Gloria Paul (replicò il successo anche in televisione nel 1964). Nel 1964 trionfò, accanto a Delia Scala, nella commedia musicale di Garinei e Giovannini Il giorno della tartaruga (trasmessa in TV nel 1966). Nel 1966 fu in teatro con lo spettacolo di prosa La strana coppia di Neil Simon, insieme con Walter Chiari. Nel 1970 fu la volta della nuova commedia musicale di Garinei e Giovannini Alleluia brava gente, spettacolo rimasto mitico e riproposto più volte anche da altri, con un giovane Gigi Proietti; con questo lavoro Renato Rascel si congedò per sempre dal teatro Sistina. Nel 1972 mise in scena Il prigioniero della seconda strada di Neil Simon, nel 1973 Il capitano di Köpenick di Carl Zuckmayer, e nel 1976 Farsa d'amore e gelosia con Giuditta Saltarini, Arnoldo Foà e Francesca Romana Coluzzi. Nel 1985 fu in D'amore si ride di Murray Schisgal con la Saltarini e nel 1986 fece la sua ultima apparizione con Walter Chiari nel dolente Finale di partita di Samuel Beckett (con questo testo Renato Rascel chiudeva anche la sua partita con il teatro).

Renato Rascel – che nel 1990 aveva creato una scuola di teatro con la moglie Giuditta Saltarini – si congedò dal suo pubblico con un'ultima apparizione pubblica ai Campionati Mondiali di Calcio dello stesso anno, tenutisi in Italia, cantando le sue indimenticabili melodie e soprattutto l'immortale Arrivederci Roma. Morì a Roma il 2 gennaio del 1991 e fu sepolto nel Cimitero Flaminio di Roma

Rascel fu anche uno scrittore sensibile (aveva una vena poetica molto forte). Come dimenticare la malinconica canzone Ninna nanna del cavallino (Garinei – Giovannini – R. Rascel, 1953) che ha influenzato il mio immaginario infantile: «Lungo i pascoli del ciel / cavallino va / tutto d'oro è il tuo mantel / nell'azzurrità. / Vecchia luna di lassù / mostragli il cammin. / Stelle d'oro / fate il coro / per le vie del ciel. / E volando volando / il cavallino arrivò / sotto una nuvoletta rosa e si fermò. / Cosa cerchi gli domandò una piccola stella. / “Cerco il mio padroncino” rispose / “ma sono tanto stanco”. / Allora la stellina chiamò tante altre stelle / e tutte insieme gli fecero un coro. / Appena il cavallino si addormentò / l'Orsa Maggiore disse: / “Vecchie stelle di quassù / non cantate più. / Dormi dormi / sogni d'oro. / Buonanotte a te / Buonanotte…” / Buonanotte… cavallino mio.». Negli anni sessanta scrisse tre impareggiabili libri di favole per bambini (pubblicati dall'editore Mursia), tra i quali Il Piccoletto, tradotti anche in altre lingue.


Nel 1986 la TV – spesso dimentica di quei grandi artisti che l'hanno fatta grande – gli ha dedicato un interessante programma in dodici puntate, C'era una volta io… Renato Rascel,  di Giancarlo Governi, nel quale egli raccontò la sua vita e i suoi successi e nel quale fece al suo amato pubblico l'ultimo regalo: cantò la sua ultima canzone E cammina, cammina…,  scritta per la sigla di coda (il testo era di Massimiliano Governi).

venerdì 20 aprile 2012

Marcel Camus e il suo film capolavoro Orfeo negro

Marcel Camus


Il 21 aprile di cento anni addietro, nel 1912, nasceva Chappes, nelle Ardenne, il regista e sceneggiatore cinematografico francese Marcel Camus (morì a Parigi il 13 gennaio del 1982 all'età di 69 anni). è noto soprattutto per avere diretto Orfeo negro” (1959), vincitore della Palma d'oro al Festival di Cannes e Oscar per il miglior film straniero.

Figlio di un insegnante elementare, aveva studiato Belle Arti ed era diventato professore di disegno e di pittura ma – richiamato durante la seconda guerra mondiale – era stato deportato in un campo di concentramento in Germania; in questo tetro ambiente, scoprì il teatro montando i suoi primi spettacoli con gli amici detenuti e sperimentandosi scenografo, attore e regista. Ritornato in Francia, grazie allo zio – lo scrittore Roland Dorgelès –, conobbe molti registi di fama e divenne sia assistente sia consulente tecnico di Luis Buñuel, Alexandre Astruc, André Barsacq, Daniel Gélin e Jacques Becker (vedere: Encyclopédie des personnalités du cinéma, http://cinema.encyclopedie.personnalites.bifi.fr/index. php?pk=13743).

Alla fine degli anni Quaranta e negli anni Cinquanta, fu aiuto regista di molti grandi maestri del cinema. Sono da ricordare: Le sedicenni (Rendez-vous de juillet) (1949) di Jacques Becker, (presentato in concorso al 3º Festival di Cannes); Amore e fortuna (Antoine et Antoinette) (1947) sempre diretto da Becker (vincitore del Grand Prix du Festival International du Film); Casco d'oro (Casque d'or) (1952) ancora di Becker con la grande Simone Signoret; Il nemico pubblico numero uno (L'ennemi public n° 1) (1953) di Henri Verneuil; Sangue e luci (Sangre y luces) (1954) di Ricardo Muñoz Suay e Georges Rouquier; L'allegro squadrone (1954) di Paolo Moffa (tratto dalla farsa militare Les gaités de l'escadron di Georges Courteline); e Gli amanti di domani (Cela s'appelle l'aurore) (1956) di Luis Buñuel con Georges Marchal    e Lucia Bosé.

Iniziò quindi a volare da solo, facendo il grande salto. Non era più giovane ma un uomo già maturo, aveva quarantacinque anni ed era il 1957 quando realizzò il suo primo lungometraggio La donna di Saigon (Mort en fraude) (1957), da un adattamento del romanzo di Jean Hougron, con Daniel Gélin, storia di un villaggio vietnamita ridotto alla fame durante la guerra d’Indocina. Nonostante qualche debolezza, il film mette in discussione l'opportunità della guerra e costituisce una critica scoperta alla politica francese che «n’a fait que dégrader et avilir la culture indochinoise (non ha fatto che degradare e avvilire la cultura indocinese)». Il film fu censurato per il suo eversivo messaggio di fraternità tra i popoli.

Ma il suo vero capolavoro fu il suo secondo film, Orfeo negro (Orphée Noir), film d'amore e di morte, storia di passione tenera e tragica, che il regista sceneggiò con Jacques Viot da un testo teatrale di Vinicio de Moraes, Orfeu da Conceição, ritagliandosi anche una parte da attore (era Ernesto), vincitore della Palma d'oro all'unanimità al Festival di Cannes nel 1959 e Oscar per il miglior film straniero nel 1960 (nello stesso anno, si aggiudicò anche il Golden Globe per il migliore film straniero). Era l'anno in cui il premio per il miglior regista fu attribuito al regista francese François Truffaut per il mitico “Les quatre centi coups” e quello come migliore attrice alla grande attrice francese Simone Signoret per “Room at the Top” di Jack Clayton. Girato in Brasile durante il carnevale di Rio, con attori prevalentemente presi dalla strada, il film è una rivisitazione lirica del mito di Orfeo ed Euridice (che si ripete senza soste nella storia culturale di sempre) e riprende le idee di fraternità del primo film. Il protagonista è Orfeo (Breno Mello, nella vita reale un giocatore di football), un giovane tranviere di Rio de Janeiro, amante del canto e della chitarra (in paese circola la voce che con l'armonia della sua musica sia lui a far sorgere il sole), rappresentante del samba e della bossa nova durante il carnevale di Rio de Janeiro. Di lui è innamorata Mira (Lourdes De Oliveira, che divenne moglie di Marcel) che vorrebbe sposarlo ma Orfeo è innamorato della graziosa Euridice, un'umile ragazza dei quartieri popolari (Marpessa Dawn, l'unica attrice professionista), inseguita da un uomo misterioso travestito per il Carnevale con il costume della morte. L'uomo riesce a rapirla ma Euridice scappa nel deposito dei tram e, a causa di Orfeo, muore folgorata. L'amante sconvolto – guidato da un collega tramviere di nome Ermes (Alexandro Constantino) – la ritrova morta e, stringendo tra le braccia l'inerte corpo senza vita di Euridice, giunge fino alla sua capanna sulla collina, ma viene colpito dalle pietre lanciate dalla gelosa Mira e dalle sue amiche precipitando in un burrone e riunendosi nella morte all'amata scomparsa. Un piccolo uomo, un ragazzino amico, prende allora la chitarra di Orfeo e – prima dell'alba – con le sue dita inesperte prende suonare, compiendo la magia di far spuntare il sole e di far iniziare così il nuovo giorno. L'intreccio passionale si avvale di un realismo vivace e colorato, di una rappresentazione poetica dell'allegria spontanea dei brasiliani, delle straordinarie canzoni e dei ritmici balli del Carnevale che fanno dimenticare nella spensieratezza di un attimo la povertà delle favelas e le scelte tragiche di un destino infame segnato dai nomi dei due amanti infelici (il regista ha inserito anche un cane dall'evocativo nome di Cerbero). Come scrive Renato Persòli: «Euridice è la nostalgia, il futuro negato, la fine innocente, la vitalità stroncata: tutto piuttosto evidente nella versione di Moraes e Camus. Il film ha un di più: l'alternanza tra la luce e il buio, tema che ci è caro. Orfeo, secondo una credenza dei due bambini presenti nella pellicola, sa far sorgere l'alba con la musica, che si trasmette al suo giovane allievo, protraendosi nel passare a noi spettatori e lasciandoci un desiderio di giorno, di sconfitta delle tenebre.» (vedere: http://cartescoperterecensionietesti.blogspot.it/2007/12/marcel-camus-orfeo-negro.html).
Camus aveva scritto: «Pour moi, le cinéma n’est pas un but, c’est un moyen de trouver le contact avec les hommes (Per me il cinema non è uno scopo, ma un mezzo per trovare il contatto con gli uomini)». Nel film un grosso punto di forza evocatore e comunicativo è rappresentato dalla musica afro–latino–americana di Luis Bonfà, Vinicius de Moraes e Antônio Carlos Jobim, usata con ricchezza e invadenza, che mescola musica popolare brasiliana, jazz e primitivi ritmi carioca. Il film ebbe il merito di fare conoscere al mondo i ritmi del samba e della bossa nova, portando al successo brani come Samba de Orfeo, Manhã de carnaval e A felicidade (cantati da Agostinho dos Santos). Gianni Canova non è tenero con Marcel Camus: «[…] il ben più noto Orfeo negro, un'elaborazione del mito di Orfeo ed Euridice, incastonata nella cornice di Rio de Janeiro, che resta però lontana dalla realtà del contesto sociale brasiliano quale in seguito sarà messa in scena dal Cinema nôvo. Il film accolto come un'opera sfolgorante ([…]) si dimostra presto tutto giocato su un esotismo folcloristico esasperato e ridondante, rivelatore di una vena priva di profondità, In effetti i suoi film successivi, […], non si riscattano da una grigia medietà.» (Cinema, le garzantine, Garzanti, 2009). Ha scritto, invece, il critico di cinema Pietro Pintus: «[…] anche se Jacques Viot e Marcel Camus sono arrivati molto vicini al folclore meno pittoresco e alle sue componenti più genuine, Orfeo negro è sempre frutto di un intellettualismo di seconda mano, che si sforza di contaminare il mito greco con una realtà popolare che disdegna ogni ascendenza letteraria […] il film deve essere visto sotto il profilo dello spettacolo, mettendo subito da parte il decadentismo mitologico e il bagaglio allegorico […]» (Il cinema – grande storia illustrata, Ist. Geografico De Agostini, Novara, 1982). Ha scritto Morando Morandini: «Un film pervaso da una frenetica e triste gioia di vivere con la Dawn che delinea una Euridice casta, sensuale e incantevole.» (il Morandini – Zanichelli editore).

Oltre al suo capolavoro, la filmografia di Camus (che spesso lo vedeva anche come sceneggiatore) comprende non più di una dozzina di film: Rio negro (Os Bandeirantes) (1961) di nuovo ambientato in Brasile con Raymond Loyer e Lourdes De Oliveira; L'uccello del paradiso (L'oiseau de paradis) (1963); Ossessione nuda (Le chant du monde) (1965) con Catherine Deneuve; L'homme de New York (1967); La ragazza della notte (Vivre la nuit) (1968) con Saro Urzì e Jacques Perrin; L'età selvaggia (Un été sauvage) (1970) con Daniel Beretta, Juliet Berto e Nino Ferrer; Un elmetto pieno di... fifa (Le Mur de l'Atlantique) (1970), una commedia sulla seconda guerra mondiale con il grande André Bourvil; Bahia, noto anche come Otalia de Bahia od Os Pastores da Noite (1979), tratto da un racconto del romanziere brasiliano Jorge Amado suo coetaneo (1912–2001), con Mira Fonseca e Antonio Pitanga.

Negli anni Settanta e Ottanta, Camus si occupò anche di TV. Ricordiamo le miniserie televisive Molière pour rire et pour pleurer e La porteuse de pain (1973), e Les faucheurs de marguerites (1974), storia romanzata dei pionieri dell'aviazione; i sei episodi di Ce diable d'homme (1978) sulla vita di Voltaire; la miniserie Le roi qui vient du sud (1979); Les amours du mal–aimé (1980) e la serie televisiva Winnetou le mescalero (1980); Le roman du samedi: L'agent secret (1981); Le féminin pluriel (1982); e Madrid (1983) (1° episodio delle “Capitali culturali d'Europa”).


Le ultime opere cinematografiche e televisive non raggiunsero la grandezza e il successo del grande capolavoro ma erano contrassegnate, però, dalla stessa generosità, dal medesimo coinvolgimento empatico e dal suo solito ideale umanistico.

domenica 15 aprile 2012

Catullo e i mille baci, Tornatore e Nuovo cinema paradiso


Catullo                                                 Giuseppe Tornatore



Catullo – il primo dei grandi poeti latini – occupa certamente un posto d’onore nella letteratura amorosa perché è il poeta dell’Amore per eccellenza, il poeta che della passione per Lesbia (così chiamava nelle sue poesie Clodia) aveva fatto il centro e la sostanza della sua poesia.

Ricco, bello, colto ed elegante, Catullo fu un vero play–boy dell’antichità. Passava le vacanze nelle sue due ville di Tivoli e di Sirmione sul Garda, conducendo una vita dissoluta con tanti amici e amiche e con tanti amanti di entrambi i sessi (è noto il suo amore per il bel ragazzino Giovenzio). La sua vita cambiò completamente quando conobbe Clodia, una delle tre sorelle di Publio Clodio, crudele e dissoluto tribuno della plebe (ucciso poi in un combattimento di strada), oltre che moglie di Quinto Metello Celere che lei avrebbe forse avvelenato. Clodia, soprannominata Lesbia (da Lesbo che con Saffo era divenuta l’isola dell’amore), donna bella e sensuale, seppe legare il poeta a sé con un amore esclusivo, grandissimo e doloroso, fatto di insulti velenosi, di tristi separazioni e di strazianti riconciliazioni. Per la sua dissolutezza, Clodia fu vituperata da Cicerone nella nota orazione Pro Caelio.

Catullo amò Clodia, prima beatamente perché riamato, poi infelicemente perché tradito. I ripetuti tradimenti trasformarono l’amore di Catullo in un odio feroce, in cui si mescolavano sentimento deluso, tenerezza nostalgica, delirio sfrenato, disprezzo sferzante e sguaiatezza infelice. Catullo lasciò Clodia quando non ne poté proprio più di tutti i suoi tradimenti, ma iniziò per lui un amaro tramonto, favorito dalla sofferenza per il tradimento degli amici divenuti tutti amanti di Clodia e dal dolore per la morte del fratello al quale era legatissimo. Morì giovanissimo a Roma nel 54 a.C., minato dalla tisi e dalla malinconia. Da poeta distaccato e intimista, scrisse sempre e soltanto di sé e per sé, con verità di sentimenti e con integrità umana, trattando temi di grande libertà, quasi eversivi nel loro essere in rottura con i costumi del tempo.

Nel Carme 5, così scriveva:

«Godiamoci la vita, mia Lesbia, l’amore,
e il mormorio dei vecchi inaciditi
consideriamolo un soldo bucato.
I giorni che muoiono possono tornare,
ma se questa nostra breve luce muore
noi dormiremo un’unica notte senza fine.
Dammi mille baci e ancora cento,
dammene altri mille e ancora cento,
sempre, sempre mille e ancora cento.
E quando alla fine saranno migliaia
per scordare tutto ne imbroglieremo il conto,
perché nessuno possa stringere in malie
un numero di baci così grande.»
(Da “Le Poesie”, traduzione di Mario Ramous, Garzanti, Milano, 1996)

Dal 7° verso in poi «da mi basia milledeinde centum, / dein mille altera, dein secunda centum, / deinde usque altera mille, dinde centum / dein, cum milia multa fecerimus, […]» la lirica diviene straordinaria e i versi sono stati molto copiati. Sesto Properzio (47–15 a.C.), per esempio scriveva: «Se mi darai tutti i baci saranno sempre pochi» mentre Ludovico Ariosto (1474–1533) recitava nelle sue Rime: «[…] ma dolci baci, dolcemente impressi / ben mille e mille e mille e mille volte; / se potran contarsi anco fien pochi». E i tanti baci per Lesbia ritornano nel carme 7 di Catullo, ove il poeta scriveva: «Mi chiedi quanti tuoi baci, o Lesbia, mi bastino e avanzino. / Quanti sono i granelli di sabbia / nel deserto di Libia […] / o quante stelle che spiano i furtivi amori degli uomini, / tanti baci baciare è abbastanza / a Catullo impazzito d’amore, / tanti che i curiosi non possano / contarli […]».

Questi versi di Catullo hanno ispirato il titolo del libro Dammi mille baci. Veri uomini e vere donne nell’antica Roma di Eva Cantarella (Feltrinelli, Milano, 2009), professore ordinario di Istituzioni di Diritto romano presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Milano (ove insegna anche Diritto greco antico) ed esperta di morale e comportamenti sessuali dei romani.
Dei nostri lontani antenati ha scritto la saggista: «... sono meno monumentali di quanto una retorica che stenta a morire ce li ha troppo spesso presentati; meno solenni, meno severi, meno moralisti». Naturalmente la virilità per gli antichi romani era un’attività sganciata dal rigore (introdotto, soltanto dopo, dal Cristianesimo che iniziò a considerare l’amore non più come piacere ma come fondamento basilare del matrimonio e della procreazione): per l’uomo – a differenza della donna che era poco emancipata a meno di chiamarsi Clodia – la fedeltà coniugale non era un obbligo, lo stupro era all’ordine del giorno e praticamente privo di conseguenze penali (a meno che la violentata non fosse una sposata donna perbene), e il marito poteva portare in casa i figli nati al di fuori del matrimonio senza che la moglie potesse avere nulla da obiettare.

I riferimenti ai molti baci dell’amore della poesia di Catullo, mi spingono a dire qualche cosa sul bacio, un gesto pieno di grande valenza simbolica, immortalato nella letteratura e fonte d’ispirazione nelle arti figurative di tutti i tempi (e naturalmente nella Settima Arte), con il quale esprimiamo tutti i nostri più ardenti sentimenti e tutta la nostra passione amorosa. Alcuni scienziati americani hanno attribuito ai baci proprietà taumaturgiche: avrebbero la funzione di prevenire la carie (aumentano la salivazione), funzionerebbero da vaccino orale (mettono in circolo grandi quantità di germi), ridurrebbero gli incidenti automobilistici (rilassano il sistema nervoso), e addirittura allungherebbero la vita (chi bacia molto, ha la possibilità di vivere cinque anni più dei solitari non baciatori). James Joyce (1882–1941), scrittore irlandese ardito e sconcertante, scriveva: «Non c’è niente al mondo come un bacio lungo e caldo che ti arriva al cuore». Partendo dal presupposto che «la poesia parla a tutti, ma la poesia d’amore prima ancora di parlare... accende e possiede», Roberto Mussapi, nel suo libro Tanti baci ci vogliono a baciare. L’amore classico: poesie per giovani innamorati (Salani Editore, Milano, 2004), ha raccolto tutti i versi scritti dai poeti dell’antica Grecia e di Roma (compreso naturalmente anche Catullo).


Non posso non pensare, naturalmente, ai cento baci del film Nuovo Cinema Paradiso (1989) di Giuseppe Tornatore, noto regista siciliano di Bagheria, vincitore dell’Oscar e premiato a Cannes. Nell’immaginario paese di Giancaldo, durante i primissimi anni ’50, Alfredo, l’operatore del locale Cinema Paradiso, il saggio padre putativo del povero piccolo orfano siciliano Salvatore (soprannominato Totò), l’amico divenuto cieco e mutilato, dopo la sua morte lascia in eredità a Totò una “pizza” di pellicola. Lontano dalla Sicilia, Salvatore è divenuto un regista di successo dopo una fantastica e formativa esperienza in cabina di proiezione come operatore che lo ha educato alla vita, all’amore e al cinema. Salvatore è divenuto, però, un uomo solo e deluso. Quando proietta il film lasciatogli dall’amico degli infantili anni perduti, con stupore e nostalgico rimpianto, si accorge che esso contiene montati insieme i trailer dei baci dei film tutti romantici e carichi di sensualità che non aveva mai potuto mandare in proiezione durante la sua vita d’operatore perché il bigotto parroco, padre Adelfio (primo gestore del cinema Paradiso), glieli faceva tagliare considerandoli troppo lascivi. Dinanzi a quel fluire sullo schermo di tutti quei baci più o meno casti, più o meno voluttuosi, e di tutti i volti ispirati degli amati divi del passato (accompagnato dal fluire della straordinaria musica di Ennio Morricone), Salvatore ritorna al passato dimenticato e ai sopiti ricordi giovanili. Ebbene, quei baci con tutta la loro grande forza emotiva hanno rappresentato per me la parte più bella e originale di un film grande e bellissimo. Quest’ultima scena era così densa di fascino cinematografico e di gioioso incanto che qualcuno, in un primo tempo, aveva suggerito a Tornatore di dare al film il titolo di “Baci rubati”.

sabato 14 aprile 2012

Georges Franju, grande cinefilo e cineasta misconosciuto



Georges Franju



In questi giorni avrebbe compiuto 100 anni Georges Franju, uno dei più grandi cineasti francesi, il cui rilievo e la cui capacità d'analisi sono stati spesso sottovalutati. Bretone, nacque a Fougères (Ille–et–Villaine, Bretagne) il 12 aprile del 1912.

Dopo vari lavoretti e dopo un breve arruolamento militare in Algeria (si dimise nel 1932), nel 1936, con Henri Langlois (1914–1977) – un funzionario, pioniere del restauro e della conservazione delle pellicole cinematografiche – Georges Franju aveva creato il cineclub chiamato “Le Cercle du Cinema”, ove venivano proiettati e dibattuti i migliori film muti dell'epoca, appartenenti alla loro collezione privata (ormai dimenticati e considerati inutili). Dalle ceneri del cineclub, nello stesso anno nacque la “Cinémathèque Française” (primo archivio di film in Francia e prima istituzione dedicata ai segreti e alla storia della settima arte), fondata con lo stesso Henri Langlois e con il critico del cinema Jean Mitry (1907–1988). Franju se ne allontanò ben presto, nel 1938, ma si riavvicinò nuovamente alla Cinémathèque negli anni Ottanta, quando ne divenne il direttore artistico onorario. Libertario e laico, tra il 1945 e il 1953, fu il segretario dell'“Institut du cinéma scientifique” creato da Jean Painlevé e divenne un apripista della scuola cinematografica d'avanguardia che preparerà la nuova stagione della Nouvelle Vague.

Dopo aver disegnato gli allestimenti per le Folies–Bergère, iniziò ben presto a lavorare nel cinema come scenografo e come regista di cortometraggi di grande tensione morale, forza poetica e impatto emotivo. Indimenticabili restano Le métro (1934) – girato con Henri Langlois –; Le sang des bêtes (1949) (uno sconvolgente e brutale ritratto del mattatoio di Parigi a La Villette); En Passant par la Lorraine (1950), commissionato dal governo per celebrare la modernizzazione dell'industria francese; Hôtel des invalides (1951), con la voce inconfondibile di Michel Simon, anch'esso commissionato dal governo, uno sguardo accorato sull'Hôtel, ospedale per veterani, e sul museo dell'Armée (il film, che avrebbe dovuto essere una celebrazione, divenne invece un pamphlet contro la retorica del militarismo e l'irrazionale crudeltà della guerra); Le grand Méliès (1953), omaggio al regista–illusionista Georges Méliès (1861–1938) e al cinema muto tramontato miseramente; Monsieur et Madame Curie (1953), dedicato all'appassionante biografia dei due noti scienziati; Le théâtre national populaire (1956) sull'esperienza di quell'avanzato centro d’arte drammatica rimasto nella storia del teatro mondiale; Notre Dame - cathédrale de Paris (1957) e Marcel Allain (1965), omaggio all'autore del romanzo Fantômas. Tutti questi documentari erano caratterizzati da una originalità surreale delle immagini, apparentemente banali nel loro realismo documentaristico ma ricche di un pathos talora straziante che prescindeva dallo sguardo gelido – da osservatore – del regista.

Queste singolari particolarità, attraverso una linea ideale, furono da lui trasfuse nel lungometraggio. Ha scritto Robin Wood (International Dictionary of Films and Filmmakers, 1991): «La carriera di Franju si divide chiaramente in due parti, definite dal format dei film: il primo periodo dei brevi documentari e il successivo periodo dei lungometraggi. Le parti sono connesse da diversi legami di tema, raffigurazione fantastica e iconografia.» (http://www.theyshootpictures. com/franjugeorges.htm).

Tra i suoi film più significativi (in molti dei quali fu anche autore–sceneggiatore) sono da ricordare: La fossa dei disperati (La tête contre les murs) (1958), tratto dal romanzo di Hervé Bazin, con Jean–Pierre Mocky, Pierre Brasseur, Paul Meurisse e Anouk Aimée, apologo impietoso e sinistro sull'ambiente disperato del manicomio (François, figlio dell'anaffettivo avvocato Geràne, giovane ribelle, sorpreso dal padre a rubare e a bruciare un suo importante dossier, viene internato dal padre in un manicomio criminale diretto da un medico autoritario; costretto a confrontarsi con il dolore dei relitti umani che vegetano in quella mostruosa struttura, François tenterà un  tragica fuga con un amico epilettico, interpretato da un esordiente e bravissimo Charles Aznavour); Piena luce sull'assassino (Pleins feux sur l'assassin) (1961) con Pierre Brasseur, Jean–Louis Trintignant, Philippe Leroy e Pascale Audret, che racconta in una inquietante atmosfera ironica la storia del conte Kéraudren che prima di morire scompare nel suo castello ove uno dopo l'altro vengono assassinati in finti incidenti i quattro nipoti, suoi eredi (e pian piano si ricompone il puzzle che porta alla soluzione del giallo); Il delitto di Thérèse Desqueyroux (Thérèse Desqueyroux) (1962), con Emmanuelle Riva, Philippe Noiret, Edith Scob e Sami Frey, grande film basato sul superbo ritratto di una criminale fatto da François Mauriac, adattato con la collaborazione del grande scrittore e vincitore al festival di Venezia (la coppa Volpi fu attribuita alla Riva), storia di una donna che alienata dalla sua esistenza borghese tenta di avvelenare il gretto ed egoista marito (al processo testimonierà in suo favore soltanto per salvare il buon nome familiare) e la soffocante e ipocrita provincia viene ritratta dal regista transalpino con uno spietato sguardo documentaristico; L'uomo in nero (Judex) (1963), con Channing Pollock, Francine Bergé, Edith Scob e Théo Sarapo, un affettuoso tributo alla serie di film muti dedicati a Fantômas e un colto omaggio a L. Feuillade, che nel 1913 adattò per il grande schermo il romanzo di Marcel Allain e Pierre Souvestre (ha scritto Gianni Canova – in Cinema, le garzantine 2009 – che «tra peripezie e rocamboleschi colpi di scena il regista rievoca le atmosfere perdute di un certo cinema degli esordi, ingenuo e avventuroso»); Thomas l'imposteur (1965) dal romanzo scritto nel 1923 da Jean Cocteau, presentato al 15° Festival Internazionale di Berlino, manifesto contro l'allucinante follia della guerra; L'amante del prete (La Faute de l'abbé Mouret) (1970), tratto dal romanzo di Émile Zola del 1875 (appartenente al Ciclo dei “Rougon–Macquart”), con Francis Huster, Gillian Hills, André Lacombe e Tino Carraro, coprodotto da F. Truffaut, storia del curato Mouret, pieno di buone intenzioni, che seduce un'ingenua ragazza di campagna e che pur pieno di rimorso l'abbandona incinta (ha scritto Gianni Canova: «Franju sviluppa gli elementi simbolici e fantastici della trama, dando contemporaneamente voce a una forte critica anticlericale»); e Notti rosse (Nuits rouges) (1973), con Gayle Hunnicutt, Jacques Champreux, Josephine Chaplin e Ugo Pagliai, una divertente e divertita interpretazione del genere avventuroso.

Ma il suo grande capolavoro è Occhi senza volto (Les yeux sans visage) (1959), film horror di grande tensione, superbo thriller drammatico e archetipo fantascientifico dei film sui trapianti eterologhi, che spazia tra tragedia e poesia, tra orrore e follia. La trama, molto interessante, si svolge in un'atmosfera crepuscolare (l'ottima fotografia è di Eugen Schüfftan, il creatore degli straordinari effetti speciali di “Metropolis” di Fritz Lang): a Parigi il brillante chirurgo plastico Génessier (un grande Pierre Brasseur) provoca uno spaventoso incidente stradale da cui la figlia Christiane (Edith Scob) esce orribilmente sfigurata; reso pazzo dal senso di colpa, con l'aiuto della succube assistente Louise (Alida Valli, in un ruolo di donna tetra ma affezionata), il medico adesca, rapisce e uccide delle giovani e belle ragazze bionde per ricostruire con avveniristici trapianti i bellissimi tratti del volto sfigurato di Christiane che tutti credono morta mentre vive invece reclusa nella villa del padre, depressa e disillusa. I numerosi cadaveri di belle ragazze bionde senza volto, ripescati nella Senna, mettono in moto la polizia (Claude Brasseur); anche Jacques (François Guérin), il fidanzato di Christiane, sospetta qualcosa e la stessa Christiane, lacerata dal dramma psicologico e ormai convinta che il suo bel viso è perduto (il padre le ha reso soltanto una inespressiva maschera di cera), si pente di essere stata complice del padre e cercherà di fermarne il macabro e accanito istinto omicida. Il film, tratto dall’opera di Jean Redon, è stato sceneggiato dai grandi Pierre Boileau e Thomas Narcejac (i romanzieri che hanno ispirato “I diabolici” di Henri–Georges Clouzot e “Vertigo” di Alfred Hitchcock) e si è avvalso della suggestiva e coinvolgente colonna sonora di Maurice Jarre. Ha meritato a Georges Franju la fama di «maestro del realismo fantastico». A proposito del film, aveva commentato Franju: «Quando girai Occhi senza volto mi fu detto: “Nessun sacrilegio a causa del mercato spagnolo, nessuna nudità a causa di quello italiano, niente sangue a causa di quello francese e niente animali martirizzati a causa di quello inglese. E io che pensavo di fare un film horror!”». E girava anche un aneddoto: quando il film fu presentato al Festival di Edimburgo, alcuni spettatori persero i sensi e Franju disse alla stampa che aveva capito finalmente perché gli scozzesi indossassero la gonna. (http://moviecinemania. blogspot.it/2008/04/occhisenzavolto-franju.html). Ha scritto Danilo Cardone in un suo articolo del 2 giugno 2011: «Considerato da molti come un caposaldo del genere horror, Occhi Senza Volto è un film che ha segnato un’epoca ma che oggi appare come troppo sorpassato. […] ha contribuito negli anni a formare l’immaginario collettivo con immagini difficili da dimenticare, eppure visto a distanza di anni mette in luce tutte le sue vaste lacune.» (http://cinefobie.com /2011/06/02/occhi-senza-volto-georges-franju-1960/). Ha scritto inoltre Gianni Canova (Cinema, le garzantine 2009): «La vicenda viene trattata mescolando realismo e lirismo, creando un effetto tra il bizzarro e l'inquietante.».

Negli anni Settantam trascurato dal cinema, Georges Franju si dedicò alla TV: ricordiamo i quattro episodi di “Le service des affaires classées” (1970), gli otto episodi di “L'homme sans visage” (1975) e i due episodi di “Cinéma 16” Le dernier mélodrame (1979) e La discorde (1978). Ha scritto nella sua Scheda sul film La tête contre les murs, a proposito del regista francese, Tita Bellini: «Erede della tradizione del realismo poetico, vicino al surrealismo, ammiratore di Feuillade e Buñuel, Franju è un visionario alla ricerca di quello che chiama “l'insolito”, il fantastico, da non confondere con il sensazionale e l'orrido. […] Poi Franju abbandona il cinema per la televisione: “L'insuccesso mi ha obbligato a girare dei telefilm, ma purtroppo il cinema di poesia interessa poco in televisione”. “Se non mi fanno più lavorare poco importa, mi resta tempo per sognare, attività che non costa nulla e che mi è sempre stata congeniale”, confidava nel 1982. Franju riesce a ricreare il mistero a partire dal quotidiano (“l'insolito emerge da solo dagli interstizi della realtà quotidiana”); per questo, paradossalmente, amava definirsi “realista, dunque surrealista”.» (http://www.renatadurando.com /tinamodotti/Programma_2012/Schede_film_2012/fossa.pdf).

Georges Franju morì a Parigi il 5 novembre 1987: aveva 75 anni.

Ha scritto Roberta Gigi a proposito di questo regista singolare: «La sua passione per il cinema, nata grazie all’amicizia di Henry Langlois, era una personale dichiarazione d'amore verso la verità, ch'egli riusciva a portare alla superficie in modo a volte cinico, ma così limpidamente affascinante. Il binomio violenza–tenerezza rivela l'estetica dell'autore, la cui carriera verrà celebrata oltre che da registi della Nouvelle Vague come Truffaut e Godard, da altri esponenti del mondo del cinema, nonché dai circoli letterari. L'interesse per l'immagine e il suo potere di impressionare, ebbe su di lui un effetto molto profondo durante il periodo della giovinezza; come sotto effetto di una droga, l'immagine proiettata sullo schermo aveva per lui molta più credibilità della realtà concreta. […] Il suo aspetto critico, i suoi film, e la sua fama sono da attribuire alla sua formazione culturale, i cui maestri sono stati Fritz Lang, Georges Méliès, Ferdinand Zecca, Louis Feuillade.» (http://www.fusiorari.org/fusiorari/html/modules.php?name= News&file=print&sid=285).


E per concludere, Claire Clouzot ha descritto il cinema di Franju come «uno straziante realismo fantastico ereditato dal surrealismo e dal cinema scientifico di Jean Painlevé, influenzato dall'espressionismo di Lang e Murnau» (vedere: Ince Kate, Georges Franju, Manchester University Press, 2005).

martedì 3 aprile 2012

Marcello Marchesi, la surreale ironia della comicità



Marcello Marchesi


Cento anni addietro nasceva Marcello Marchesi, uno dei più grandi umoristi italiani. Nacque a Milano il 4 aprile del 1912. Ingegno multiforme, fu scrittore comico, sceneggiatore e autore di programmi radiofonici e televisivi, pubblicitario, conduttore televisivo e regista cinematografico e teatrale ma anche paroliere e cantautore.

Ultimo di 6 fratelli, all'età di tre anni, fu mandato a Roma in casa dello zio Guido e vi rimase per diciotto anni sino alla morte dello zio, in seguito alla quale ritornò a Milano. Si laureò in Giurisprudenza ma, nonostante una quieta vita di routine presso uno studio legale, coltivava il tarlo del mondo dello spettacolo.

Nel 1936, durante un lavoro studentesco al Teatro Lirico (alla cui stesura aveva lavorato), Andrea Rizzoli lo reclutò per il giornale umoristico che la sua casa editrice aveva intenzione di pubblicare, “Il Bertoldo”, che tra i collaboratori ebbe anche l'umorista e sceneggiatore romano Vittorio Metz (1904–1984). Come riporta Massimo Emanuelli (Marcello Marchesi: Basta la parola, ne L'Opinione della domenica, 13/10/2002, http://www.storiaradiotv.it/): «Sul Bertoldo la sua firma non compare tanto spesso quanto le sue idee: Marcello Marchesi creava vulcanicamente spunti per rubriche e personaggi che poi lasciava da sfruttare agli altri.». Marcello Marchesi divenne il vero motore del giornale, gettando le basi per il suo genio poliedrico che andava dall'attività di giornalista a quelle di scrittore umorista, sceneggiatore e regista ma anche di simpatico attore presentatore. Collaborò successivamente con il “Marc'Aurelio”, il “Tascabile” di Zavattini e “Omnibus” di Leo Longanesi.

Lavorò all'EIAR, producendo nel 1937 il programma A2 Radioenciclopedia e nel 1939 Cinquemila lire per un sorriso condotto da Corrado. Sono rimasti mitici: Umoristi italiani al microfono, mostra personale di Marcello Marchesi (1943) per la regia di Nino Meloni, e Terziglio – Il primo impiego (1943) (scritto insieme con Fellini) per la regia di Claudio Fino, con interpreti Giulietta Masina, Nunzio Filogamo e Mario Riva. Nel teatro milanese diede il meglio di sé, scrivendo a partire dal 1938 alcuni testi del teatro di rivista del tempo.

Quando Vittorio Metz decise di ritornare a Roma, Marchesi lo seguì e iniziò una prolifica attività nel cinema che pose le basi del moderno cinema comico italiano. Sceneggiarono insieme Imputato, alzatevi! (1939), di Mario Mattòli con il grande comico torinese Erminio Macario. Scrisse Marchesi: «Presi dall'entusiasmo, riempimmo la sceneggiatura di tante battute che il pubblico non aveva il tempo di ridere: se rideva ne perdeva metà, una metà coprendo di risate le battute pari, l'altra metà le dispari». Seguirono Il pirata sono io! (con Erminio Macario) e Non me lo dire! (1940), e Catene invisibili e Labbra serrate (1942), film di Mario Mattòli.

Durante la Seconda Guerra Mondiale, Marchesi partecipò  alla battaglia di El Alamein, ove venne ferito a un polmone. Ritornato in Italia, fu convinto da Vittorio Metz, amico inseparabile e compagno di lavoro da sempre, a ritornare a vivere nella capitale (vedere il sito personale: http://www.marcellomarchesi.it/biografia/).

Nel dopoguerra, con Vittorio Metz    lavoravano insieme rinchiusi in una stanza dell'albergo Moderno in Roma, pressati dai produttori creò un vero e proprio genere, aprendo nel cinema «strade al genere comico parallele e contigue a quelle della rivista, dell'avanspettacolo e dei giornali umoristici» (Brunetta GP., Storia del cinema italiano 1895-1945, vol. 1, Editori Riuniti, Roma 1979). Scrissero una sessantina di film rimasti nella storia della commedia italiana, molti per il grande Totò, alcuni dei quali diretti da Mattòli e dal fraterno amico Steno. Sono da ricordare: Fifa e Arena e Totò al giro d'Italia (1948), Signorinella, Adamo ed Eva e I pompieri di Viggiù (1949), Tototarzan e Totò sceicco (1950), Totò terzo uomo, I cadetti di Guascogna e Arrivano i nostri (1951), tutti di Mario Mattòli; L'imperatore di Capri (1949) di Luigi Comencini; Figaro qua, Figaro là e 47 morto che parla (1950) e Una bruna indiavolata (1951) di Carlo Ludovico Bragaglia; Bellezze in bicicletta (1951) di Carlo Campogalliani; Totò lascia o raddoppia? (1956) e Totò, Vittorio e la dottoressa (1957) di Camillo Mastrocinque; e Susanna tutta panna (1957) di Steno (vedere: scheda su mymovies.it).

Ha scritto Gianni Canova (Garzantina del Cinema, Garzanti, 2009): «Fertilissimo ingegno, grande improvvisatore, vulcanico battutista, lavora nell'avanspettacolo scrivendo – in tandem con l'amico V. Metz – copioni per i maggiori interpreti del teatro di rivista. Al cinema approda come gagman delle sceneggiature dei film di Macario e Totò; sopratutto per quest'ultimo, insieme a molti altri colleghi di futura fama (Steno, G. Guareschi, E. Flaiano ecc.), scrive lazzi e battute […]», e i suoi film «si fanno ricordare più per la bizzarria di certe situazioni e per la verve degli interpreti (soprattutto Walter Chiari) che per la compiutezza dell'insieme.». A proposito di Totò – per il quale aveva contribuito a creare “moderne farse all'italiana”, zeppe di battute volte a evidenziare soprattutto il genio istrionico e surreale del comico napoletano – ha scritto Marchesi: «Io adoravo già Totò come attore di teatro, mi divertivo moltissimo alle sue scenette, che erano chilometriche, perché duravano dai quaranta ai quarantacinque minuti e durante queste scenette il pubblico si divertiva da pazzi e alla fine non applaudiva nemmeno, tanto era spossato dal ridere. Alla fine della guerra mi capitò di fare il primo film comico della ripresa cinematografica italiana, con Totò. Lo facemmo io e Steno e si chiamava Fifa e arena, ed era un film su un torero, il titolo già diceva tutto. Però quel film, che era diretto da Mattòli e che conteneva le gag più facili, ebbe un grandissimo successo, e suscitò l'interesse di moltissimi registi e sceneggiatori che capirono che Totò, oltre a essere un animale da teatro, era anche un animale da cinema. Cioè quei gesti che avevano una proporzione teatrale nell'immenso boccascena di un Sistina o di un Valle, lui li sapeva riproporre proporzionati, così come le mimiche e i movimenti degli occhi, alla inquadratura cinematografica. […] facevamo dei film comici permeati di attualità, perché la gente era sitibonda di ridere del mondo in cui si trovava, in quanto aveva molto sofferto nel mondo in cui si trovava qualche anno prima. Non erano sceneggiature difficili da fare, e lavorare con Totò era abbastanza facile, perché Totò era uno stimolatore, anzi bisognava frenarlo più che istigarlo […] Si parlava un po' con lui e dal soggetto si passava al trattamento, quindi a una sceneggiatura che lui infiorettava con battute. […] Quella tra noi e il comico era talmente una simbiosi che era come se diventassimo tre Totò. I film nostri (dico nostri coinvolgendo anche i registi) erano film pure brutti, però avevano una carica di vitalità e un desiderio di comunicare, di scuotere, che li salvava. […] Totò forse meritava di più. E lo dimostrò il fatto che ha poi fatto i film di Monicelli e altri. […] Noi volevamo solamente far ridere. S'intende che Totò portava una complicità sua molto efficace. […] Rivedendo i film di Totò, sento che è un'esperienza passata e irripetibile, abbastanza istruttiva, ma non utile. Istruttiva per capire certa mentalità e gusti del passato, ma non utile per costruirci niente. Oramai il mondo è cambiato molto.» (vedere: http://www.antoniodecurtis.org/marcello_marchesi.htm).

Marcello Marchesi fu anche regista cinematografico in sette film (insieme con Vittorio Metz e Marino Girolami): Milano miliardaria (1951) con Isa Barzizza e Dante Maggio; Sette ore di guai (1951) con Totò, Carlo Campanini e Giulietta Masina; Il mago per forza (1951) con Sophia Loren; Era lui... sì! sì! (1951) con Walter Chiari e Carlo Campanini; Tizio, Caio, Sempronio (1951) con Nino Taranto e Aroldo Tieri; e Lo sai che i papaveri e Noi due soli (1952) con Walter Chiari e Carlo Campanini; nell'ultimo film, affrontava gioie e dolori che nascono dal vivere in un mondo post–atomico (vedere: http://www.mymovies.it/filmografia/?r=8650).

Marchesi aveva, però, continuato a scrivere per il ricco varietà e la superba rivista del teatro romano, contribuendo a lanciare artisti come Wanda Osiris, Carlo Dapporto, Walter Chiari, Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Tino Scotti, Gino Bramieri e Sandra Mondaini. Nel 1942, al Teatro Quirino di Roma, presentò la rivista Za Bum. Insieme con Vittorio Metz scrisse I fanatici (1952–1953), mitica rivista interpretata dal divertente duo Billi e Riva e con un'esordiente Franca Rame. Fu poi la volta di Controcorrente (1953–1954), che innovava la rivista facendo scomparire la passerella, le scene e i costumi per un intrattenimento nuovo “stile cabaret” con il grande Walter Chiari, affiancato da Bice Valori e Marina Bonfigli, musiche e canzoni di Domenico Modugno. Ricordiamo ancora: Attenti al martello, Alta tensione (1957), Sayonara Butterfly (1958) e Cielo, mio marito! (1972), scritta con Maurizio Costanzo, con Gino Bramieri e Ombretta Colli.

Ritornato a Milano, a partire dal 1952 Marchesi si dedicò alla neonata TV come produttore e come autore di testi: i suoi programmi televisivi coprono tre decenni di ottimi contenuti televisivi. A lui si debbono: Invito al sorriso (1954) per la regia di Mario Landi con Sandra Mondaini, Ti conosco mascherina (1955) per la regia di Vito Molinari con gli indimenticabili Antonella Steni e Alberto Bonucci (il testo era stato scritto con Carletto Manzoni e Giovanni Mosca), Questo si questo no (1956), La piazzetta (1956) con Billi e Riva, Lui e lei (1956) con Nino Taranto, Delia Scala, Nuto Navarrini e Sandra Mondaini (il testo era stato scritto con l'inseparabile Vittorio Metz). Fu con l'amico Walter Chiari in La via del successo (1958). Ma numerosi altri sono gli spettacoli di successo scritti da Marchesi e amati dal pubblico televisivo: l'indimenticabile L'amico del giaguaro (1961) con Corrado, Gino Bramieri, Raffaele Pisu e Marisa Del Frate, La prova del nove (1965), Il signore ha suonato (1966), lo stupefacente Quelli della domenica (1968) con l'esordiente Paolo Villaggio e la graffiante comicità delle sue “maschere”, il dottor Kranz e di Fracchia, «varietà di rottura… che apre le porte alla nuova comicità, con tempi, ritmi e contenuti lontani dalla tradizione… che con la sua aggressività comunicativa… frantuma l'immagine patinata ed edulcorata dello spettacolo leggero» (come ha scritto Aldo Grasso nella Storia della televisione italiana, Garzanti, Milano 1992). Furono sue, le sceneggiature di diverse fortunate edizioni di Canzonissima e suoi i testi de Il buono e il cattivo (1973) con i giovani Cochi Pozzetto e Renato Ponzoni al loro esordio, e di Bambole non c’è una lira (1977) per la regia di Antonello Falqui e la direzione musicale di Gianni Ferrio (scritto insieme a Falqui, Maurizio Costanzo, Gino Landi e Dino Verde), con Tino Scotti, Pippo Franco, Christian De Sica, Isabella Biagini, Loredana Bertè e Leopoldo Mastelloni, dedicato alla storia del varietà tra il 1935 e il 1960, in tempi in cui il varietà televisivo sembrava ormai prossimo alla fine. Ha scritto Aldo Grassi: «Marcello Marchesi è stato una miniera di idee per la televisione italiana ed ha contribuito a scriverne la storia fin dagli esordi, insieme all'inseparabile Metz e ad altri protagonisti […] La sua capacità di fissare, anche in poche parole, un'ironia e una comicità mai fuori posto, semplice ed incisiva, ha regalato al pubblico italiano anni di divertimento.» (Garzantina della televisione, a cura di Aldo Grasso, Garzanti, 2008).

Ma come non ricordare lo spettacolo televisivo nel quale Marcello Marchesi comparve nel doppio ruolo di sceneggiatore e conduttore televisivo, facendosi conoscere e adorare dal grande pubblico. Era il 1963, ne Il signore di mezza età, accanto a Marchesi recitavano con insolita verve Lina Volonghi (indimenticabile e comica nel suo ruolo di “bella tardona”) e Sandra Mondaini (straordinaria nel ruolo di “snob di sinistra”) e i testi con intelligente ironia e bonomia si prendevano gioco dei tanti vizi italiani e del declino a causa dell'avanzare dell'età (Marchesi aveva scritto: «…è un signore / di mezza età / l'altra mezza / non si sa…»).

Marcello Marchesi fu anche un genio della pubblicità: per 4.000 sketch per Carosello inventò notissimi slogan pubblicitari, tra i più sagaci dell'epoca, tanto da meritarsi l'appellativo di “primo copyrighter italiano”. Come dimenticare: «Con quella bocca può dire ciò che vuole… Falqui: basta la parola!… Il brandy che crea un'atmosfera… Il signore sì che se ne intende… Non è vero che tutto fa brodo» (da Wikiquote, aforismi e citazioni in libertà)? Ha scritto Massimo Emanuelli: «Non va dimenticata l'attività di pubblicitario, come poteva infatti Marcello Marchesi restare indifferente alle possibilità di Carosello? Dopo tutto si trattava sempre di battute. Un lavoratore forsennato. Uno sketch dopo l'altro, uno slogan dopo l'altro. Ammetteva di averne escogitato qualcuno, diventato proverbiale.» (Marcello Marchesi: Basta la parola, ne L'Opinione della domenica, 13/10/2002, http://www.storiaradiotv.it/).

Stakanovista dello scrivere, Marchesi pubblicò anche numerosi libri. Dopo l'esordio letterario con la raccolta di poesie Aria de Roma (1932), pubblicò con Rizzoli (Milano) la trilogia: Essere o benessere (1962), Diario futile di un signore di mezza età (1963) e Il sadico del villaggio (1964). Seguirono, pubblicati con Scheiwiller, I cento neoproverbi (1965), Il "Chi sarebbe" (1967) definizionario di celebrità [111 definizioni in parte raccolte dalla viva voce del popolo] e Sancta pubblicitas (1970). Fu poi la volta de Il meglio del peggio – L’Italia dal Boom allo Sboom (prefazione di Roberto Gervaso, BUR, Milano 1975) ricordo tratte da questo volume due poesiole piene d'impietoso sarcasmo (piccoli epigrammi che l’autore definiva “colonnine di parole aride come cifre, le cifre di un bilancio giornaliero”): «Proprietario triste / Sono padrone di duecento cessi / Forse duecentoventi, / con annessi / alcuni appartamenti» e «Supertimido / Affogò / Perché si vergognava / A gridare / Aiuto» , e Scherzi a parte (Sugarco, Milano 1975). Tutti questi testi sono ricchi di aneddoti, piccole osservazioni, brevi sentenze, elenchi umoristici, aforismi e proverbi che colpivano nel cuore l'Italia del boom, spaccona e convenzionale, con i suoi valori effimeri e con la sua disperazione nascosta, l'Italia nel suo passaggio epocale dal mondo rurale all'era industriale (aveva scritto: «L'Italia è una donna di facili consumi»). Colpiva al cuore anche l'italiano medio, elettrizzato dallo spendere ma schiavo dei riti e dei miti del consumismo (vedere: http://www.treccani.it/enciclopedia/marcello-marchesi_(Dizionario-Biografico)/). Scrisse, inoltre, due romanzi, Il malloppo (Bompiani, Milano 1971) che gli meritò il Premio per l’estate del 1972 e l'autobiografico Sette zie (1977, ripubblicato nel 2001 da RCS–Bompiani, Milano 2001) che raccontava l'esperienza di vita in casa dello zio milanese che viveva a Roma e quel suo continuo e nevrotico alternarsi tra Roma e Milano.

Ha scritto Massimo Emanuelli: «Marcello Marchesi è stato il più grande battutista italiano del secondo '900, ironia, giochi di parole, battute fulminanti sono state le sue armi di battaglia. Marchesi è stato uno dei pochi italiani capaci di conciliare due città come Milano e Roma, non patendone l'antitesi, anzi alimentandosene.  Inesauribile fonte di comicità e di ironia, lavoratore infaticabile, Marchesi pubblicò anche numerosi libri: nei quali raccolse racconti e scenette di successo. […] ebbe molti allievi fra i quali Maurizio Seymandi […], e Maurizio Costanzo […]. Lo stesso Costanzo che ad oltre venticinque anni di distanza dalla scomparsa di Marchesi così si esprimeva: “Marcello Marchesi era un grande scrittore, un grande umorista, un grande autore televisivo e cinematografico, lavorai con lui sei anni, eravamo una coppia d'autori, era una persona straordinaria, ebbe una vita molto affascinante. Aveva vissuto per anni sposato, un giorno tornò a casa, la cameriera piangeva, lui le domandò perché, lei rispose: è morto l'avvocato. E così Marcello scoprì che la moglie aveva da vent'anni una relazione con questo avvocato. Marchesi se andò, si trasferì a Roma, intorno ai cinquant'anni la moglie l'aveva convinto che era vecchissimo, lui girava con un Mercedes con autista e con un plaid sulle gambe. Buttò via tutto, si comprò una 500, si innamorò di un'altra donna, fece un figlio avanti con gli anni.”» (Marcello Marchesi: Basta la parola, ne L'Opinione della domenica, 13/10/2002, http://www.storiaradiotv.it/). Forse, per questo, alcune sue battute sull'amore e sul matrimonio sono veramente al vetriolo: «L'amore ha diritto di essere disonesto e bugiardo. Se è sincero… Nessuna nuora, buona nuora… Felicità: chi è felice è stupido. (Non è vero, ma consola)… Quanto ho sofferto quando ho saputo che l'inventore dell'alta fedeltà è cornuto… è sbagliato raccontar le favole ai bambini per ingannarli, bisogna raccontarle ai grandi per consolarli… La lussuria si sconta col matrimonio o con la solitudine… L'adulterio non è più un reato, è uno svago» (vedere: http://www.drzap.it/O_Marchesi.htm).

Altre sue frasi sono rimaste mitiche e grondano un feroce sarcasmo: «Se ritardo d'un paio d'ore succede la fine del mondo, se muoio non se ne accorge nessuno… Un caso pietoso commuove, due anche, tre deprimono, dieci amareggiano, cento scocciano, mille rallegrano gli scampati… Vivi e lascia convivere… Chi s'inferma è perduto… Chi va piano va sano e viene tamponato poco lontano… Dimmi con chi vai e ti dirò se vengo anch'io… Il mondo è fatto a scale, chi è furbo prende l'ascensore… La pubblicità è il commercio dell'anima… La rivoluzione si fa a sinistra, i soldi si fanno a destra… L'importante è che la morte ci trovi vivi… Anche le formiche nel loro piccolo s'incazzano… [Citazione resa celebre dall'omonimo fortunatissimo bestseller di aforismi umoristici curato da Gino e Michele e Matteo Molinari, Einaudi 1991]» (da Wikiquote, aforismi e citazioni in libertà). E veramente straordinari ed esilaranti sono alcuni suoi “neoproverbi”: «L'uomo propone e Dio indispone… Chi non lavora si arrangia… Chi tardi arriva male parcheggia… La cultura a dispensa dispensa dalla cultura… Impara l'arte, mettila da parte e fatti raccomandare… L'unione fa lo sciopero… L'occasione fa l'uomo ministro… Mentre voi dormite Freud lavora… Homo condomini lupus» (da Wikiquote, aforismi e citazioni in libertà).

Ma Marcello Marchesi fu anche paroliere e cantautore, per sé e per altri; fu cantante solista dell'Orchestra “Circolo Jazz Hot”. Sono da ricordare: Mai, mai mai (1936); Bellezze in bicicletta (1951), cantata da Silvana Pampanini nel film omonimo e incisa dalla grande Mina nel 1983; Bella tardona e Vorrei essere te (1963); Che bell'etàAh! Se avessi vent'anni di meno (1963); Ho soffrito per te (1966), cantata da Enzo Jannacci e Cochi & Renato; e Taratapunziè (1972) scritta per Enrico Simonetti, Pippo Baudo e Loretta Goggi.

Nel 1976 Marcello Marchesi, a sessantaquattro anni, aveva sposato in seconde nozze Enrica Sisti, molto più giovane di lui, e aveva avuto un figlio, Stefano Massimo (aveva detto: «Per la gioia sono ingrassato di dieci chili»). Nel fulgore della carriera e nel pieno della gioia familiare, il 19 luglio del 1978, in vacanza a Cabras con la famiglia, un banale incidente pose fine alla vita di Marchesi nel mare di San Giovanni di Sinis, nel golfo di Oristano: sbattuto da un'ondata su uno scoglio, morì sul colpo per un micidiale trauma cranico (aveva soltanto 66 anni). Ha scritto Massimo Emanuelli: «Per far divertire il figlio nel mare della Sardegna fece una capriola, picchiò la testa e morì. Poca acqua, una situazione comica che diventò tragica prima che Marcello Marchesi potesse commentarla con qualche battuta folgorante. Marcello Marchesi annegò in fretta come nelle sue battute: “io sono un battutista – diceva – io sono un battutaro, uno sloganaro”, una vita di corsa, una sintesi di infinite vite possibili e impossibili. […] Chissà quante cose avrebbe poi realizzato Marcello Marchesi, chissà cosa farebbe oggi, con l’attuale tv spazzatura… Lavorerebbe senz’altro per le emittenti locali.» (Marcello Marchesi: Basta la parola, ne L'Opinione della domenica, 13/10/2002, http://www.storiaradiotv.it/).

Aveva scritto di lui il giornalista Roberto Gervaso (1937–), che si diletta anch'egli di aforismi: «Gli umoristi da noi non hanno mai avuto fortuna. Non che non ce ne siano. Ce ne sono, ma si contano sulle dita d'una mano: mosche bianche in uno sciame di mosche nere, e pecore nere in un gregge di pecore bianche. Uno dei più fecondi è Marcello Marchesi. Del grande umorista ha la sagacia psicologica, l'indulgenza e la malinconia, soprattutto la malinconia… Ha l'agilità, l'entusiasmo, la verve d'un ventenne. È sempre pronto a far brigata, spettacolo, bisboccia. Come animatore non ha rivali: surclassa persino Walter Chiari, che gli deve i più bei testi del suo repertorio e i suoi successi più clamorosi.».

E Gianluigi Falabrino (1930–2010), scrittore e storico della pubblicità, ha osservato: «Per circa vent'anni, fino alla morte tragica per un banale incidente sulla spiaggia, avvenuta nel 1978, Marcello Marchesi fu il prolifico autore di slogan, ispiratore di marchi e di campagne, sceneggiatore di Caroselli. Il nerboruto eroe o atleta, che scolpiva la parola Plasmon alla fine del Carosello, nacque da un'idea di questo umorista prestato alla pubblicità.».

Dino Falconi e Angelo Frattini (Guida alla Rivista e all'Operetta, Academia, Milano 1953) hanno scritto così: «Un autore addirittura vulcanico è Marcello Marchesi: Marchesi è capacissimo, in una stessa giornata, di scrivere uno sketch di rivista, il soggetto di un film e una scena per la radio. La sua attività non conosce limiti, né di tempo né di spazio. La sua giornata consta di circa duecento ore, perché riesce a conglobare parecchie notti. […] Gli altri vanno faticosamente in cerca di idee, lui deve eliminarne a dozzine perché ne ha troppe. Spesso ne regala qualcuna, così, come un altro fa l'elemosina, cercando di non farsi vedere […]».

L'estensore del testo Libri di aforismi da ristampare. Omaggio a Marcello Marchesi, postato il 1 marzo del 2011 (http://aforisticamente.com/2011/03/01/libri-di-aforismi-da-ristampare-omaggio-a-marcello-marchesi/) così scrive: «Eppure Marcello Marchesi non solo è uno dei più brillanti umoristi del novecento, ma anche uno dei più arguti e ironici facitori di forme brevi (“Il foglio bianco mi spaventa. I pezzetti di carta, invece, il bordo dei giornali, le scatole di sigarette vuote mi ispirano, come mi ispirano i piccoli avvenimenti, le cose di poco momento, i pompons di cui è piena una giornata della vita”) dove la barzelletta surrealista si mescola con il calembour, l’epigramma con il microracconto, la notazione diaristica con l’aforisma, il neoproverbio con la parodia, la sentenza con la boutade, lo slogan con il nonsense, il dialogo con la citazione.».


Per concludere accostabile al grande comico romano Ettore Petrolini (1884–1936), anch'egli attore, drammaturgo, scrittore e sceneggiatore – Marchesi può essere considerato uno dei più geniali umoristi italiani. La sua ironia venata di surreale sarcasmo ma piena di leggerezza, la sua comicità mai volgare ma intelligente e profonda, la sua generosità verso i collaboratori e gli interpreti, la sua simpatica comunicatività, e i suoi paradossali giochi di parole non sono stati dimenticati, e non debbono essere dimenticati. A questo mira, quest'omaggio scritto per ricordarlo!