Luigi Pirandello Rappresentazione al Verga, 2012
La drammaturgia moderna deve
moltissimo a Pirandello che, intellettuale d'avanguardia, si dedicò all’analisi
acuta delle inquietudini, della crisi d’identità, delle contraddizioni e dell'alienazione
dell’uomo contemporaneo. Con nuova sensibilità, seppe dare parole e sentimenti
al tormentato isolamento e alla disperata solitudine dell’esistenza umana, facendosi
interprete della prevedibile sconfitta dell'uomo, della sua inevitabile
separazione dal resto del mondo e del suo essere disgregato senza unità dalla
molteplicità dei rapporti e dal contrasto tra l'essere e l'apparire, tra l'essere
e il divenire. Nel 1934 gli fu conferito il premio Nobel.
Nacque il
28 giugno del 1867 ad Agrigento (chiamata allora Girgenti) da Stefano – ricco proprietario di miniere di
zolfo di origini liguri e uomo concreto che avrebbe voluto fare del figlio un
agiato commerciante (e che gli fu sempre nemico) – e da Caterina che Luigi amava moltissimo, soffrendo nel vederla
trattata senza rispetto dal padre. Luigi Pirandello con straordinaria testardaggine
– e quasi di nascosto – compì gli studi classici, prendendo
la licenza liceale. Continuò a contrastare con grande forza i desideri paterni,
iscrivendosi alla facoltà di Lettere (prima a Palermo, poi a Roma) e prendendo infine
la laurea a Bonn: discusse una tesi sul suo dialetto natale. Rimase nella città
straniera per un certo periodo di tempo, come lettore di lingua italiana, e
venne in contatto con i romantici tedeschi con i quali conservò stretti legami
culturali per tutta la vita.
Ritornato in Italia, si stabilì a Roma e nel 1894 – in seguito a un matrimonio
combinato dalla famiglia – sposò
Maria Antonietta Portulano, una bella ragazza bruna dai fini lineamenti, figlia
di un ricco socio del padre. Egli l'amava, nonostante esistesse tra loro una
forte incompatibilità di carattere, e vissero inizialmente una vita serena e
agiata, allietata dalla nascita di tre figli.
Tra il 1894 e il 1904 Pirandello pubblicò con discreto
successo alcune raccolte di poesie, novelle e i suoi primi romanzi L’esclusa (1901) e il Turno (1902). Un improvviso disastro finanziario
– una frana aveva allagato la
miniera nella quale il padre aveva investito i suoi ingenti capitali compresa
la dote di Maria Antonietta –
lo mise in condizione di dover lavorare per vivere e provocò l'inizio di una
grave malattia mentale della moglie. Maria Antonietta, che era rimasta
semiparalizzata dopo la notizia del crac familiare, aveva sviluppato una
psicosi che si estrinsecava in strane manie e in una folle gelosia che umiliava
e imbarazzava profondamente Luigi (nel 1919 la famiglia fu costretta a
ricoverarla in una casa di cura per dementi, ove rimase per tutta la vita).
Sulla scia del gran successo ottenuto con Il fu Mattia Pascal (scritto
nel 1904, sotto un pressante bisogno di denaro) e in seguito alla pubblicazione
di alcuni saggi, nel 1908, fu nominato ordinario di lingua italiana presso il
Magistero di Roma, conquistando una discreta tranquillità economica. Nel 1922
lasciò questo incarico per dedicarsi interamente alla letteratura. Dal 1916
iniziò un inarrestabile successo letterario di respiro internazionale, in
coincidenza della comparsa delle prime rappresentazioni teatrali e delle
novelle che furono pubblicate col titolo di Novelle per un anno nel 1922,
in un “corpus” unico costituito di ben 246 novelle.
Per il suo pessimismo innato, Luigi sarebbe stato portato a
scrivere delle tragedie ma ebbe modo di dire: «Noi sentiamo troppo, soffriamo
troppo: la nostra vita è per se stessa drammatica, però non possiamo aver la
serenità di concepire il dramma, da che noi stessi vi siamo impigliati.».
Questa frase mi ha ricordato un altro grande drammaturgo, Oscar Wilde, che così
scriveva: «Il mondo rise sempre delle sue tragedie, perché non vi era altro
mezzo per sopportarle. Di conseguenza, quelle questioni che il mondo ha
trattato seriamente, appartengono al lato comico della vita.» (in Aforismi, a cura di Riccardo Reim, Tascabili Economici Newton, Roma, 1992).
Per questo suo forte coinvolgimento nella tragedia della vita, in arte Pirandello
si dedicò spesso alla commedia, affrontando i suoi temi con un umorismo amaro, talora
addirittura sardonico o grottesco. Tra le sue numerose commedie, tradotte in
tutte le lingue e rappresentate in tutto il mondo, ricordo soltanto quelle più
significative: La morsa, Pensaci Giacomino, Liolà, Il berretto a sonagli,
Il piacere dell'onestà, L’uomo, la bestia e la virtù, Tutto per bene, Come prima, meglio di prima e Questa
sera si recita a soggetto. Fu, però, con Sei personaggi in cerca d'autore che Luigi raggiunse il punto più
alto della sua drammaturgia, cogliendo la fama mondiale (fu rappresentata a
Londra, New York e Parigi). Con un'originalità strepitosa – “il teatro nel teatro” – limitò l'azione della commedia nell'ambito
di un palcoscenico, narrando di sei personaggi (creati dall’autore e
abbandonati a se stessi) che –
sentendosi più vivi e veri degli uomini che respirano – si mettono alla ricerca di un regista e di una compagnia di
attori che vogliano rappresentare il loro dramma inespresso. Si crea allora un
acuto contrasto tra il regista e i personaggi, e tra i personaggi e gli attori,
che vorrebbero intromettersi nella rappresentazione e che vengono considerati dai
personaggi come teatranti falsi e freddi, non all’altezza di rappresentare il
loro dramma. I personaggi pretendono di raccontare e di rivivere personalmente
con crudele e lucida verità la loro tremenda vicenda che culmina nella tragedia
dell'annegamento di una bimba e nel suicidio di un ragazzo. Gli attori e il regista
restano completamente sconvolti dall'orrore di questa tremenda
rappresentazione, non riuscendo più a distinguere tra finzione e realtà. è inutile dire che tutto il gioco
teatrale è abile e riesce a creare un coinvolgimento umano straordinario!
Nell'ultimo periodo esistenziale, pur continuando a essere
creativo e vitale, Pirandello visse una certa involuzione intellettualistica
che fece divenire sempre più complicate e cerebrali le sue commedie. Iniziò allora
a creare delle maschere e dei simboli troppo rigidi (quasi delle marionette senza
vita) piuttosto che personaggi dotati di calda umanità e di accesi sentimenti.
Appartengono a questo periodo L'amica
delle mogli, Diana e la Tuda, e O di uno o di nessuno, nelle quali tentò
di rappresentare l'erotismo represso, l'«atroce solitudine» e le debolezze umane,
la giovinezza rimpianta e la vecchiaia incipiente con le sue pene, e tutti gli altri
orrori della vita (tra i quali in modo autobiografico affiorano la follia dell'amata
moglie e la sua segregazione in manicomio, che Luigi visse sempre con persistente
doloroso senso di colpa).
In questa fase della vita, Pirandello fu però l'attivissimo
e innovatore direttore artistico del Teatro d'Arte di Roma, divenendo il
capocomico di una compagnia teatrale di cui faceva parte la giovanissima
attrice Marta Abba, che fu la sua ispiratrice e la sua «musa vivente». A Marta,
Luigi fu legato da un forte sentimento amoroso, nonostante che lui fosse
sessantenne e lei venticinquenne. Con lei instaurò un fittissimo epistolario,
durato dal 1926 al 1936, nel quale confondeva vita vissuta e parola scritta,
realtà vera e creazione fantastica, e con lei Pirandello se ne andò in giro per
il mondo, rappresentando le sue commedie e facendo conoscere le sue idee così
originali. Si lamentò spesso che la celebrità l'aveva reso «un immutabile idolo»
(vedere il testo teatrale autobiografico Quando
si è qualcuno, nel quale il protagonista è uno scrittore prigioniero della
maschera che gli altri hanno costruito per lui, che preferisce morire come
poeta per rinascere come uomo, perché l'Arte è ormai morta). L'ultima lettera
all'amata Marta è del 4 dicembre del 1936; scritta dieci giorni prima della
morte di Pirandello, Abba la ricevette dopo la morte del «maestro» a New York
mentre recitava a Broadway. In quest'ultima lettera, Luigi le scriveva: «Marta
ti amo, vivo con te e per te».
Pirandello
moriva a 69 anni, a Roma, il 10 dicembre del 1936 in seguito a una banale
polmonite, mentre era immerso nella composizione dell'opera teatrale I giganti della
montagna rimasta
incompiuta, vero e proprio testamento spirituale.
Sulla
scia della rappresentazione di questo testo teatrale corale che ho avuto modo
di vedere in questi giorni nell'ottima produzione del Teatro Verga di
Catania (Stagione 2011-2012), per la regia di Giuseppe Dipasquale (superbe le scene
di Antonio Fiorentino e belli i costumi di Elena Mannini) con Magda Mercatali,
Vincenzo Pirrotta, Gian Paolo Poddighe e Anna Malvica e tanti altri attori di
valore, voglio attirare la vostra attenzione su questo dramma e sulla sua
gestazione. Già famoso, a capo della sua compagnia teatrale Luigi Pirandello
aveva girato il mondo, venendo a contatto con la cultura europea e americana e
cogliendone soprattutto gli aspetti di alienazione della condizione umana. Ha
scritto in una sua elaborazione la Prof.ssa Giovanna Di Giorgio: «Nelle ultime
opere teatrali, La Nuova Colonia, Lazzaro, La Favola del figlio cambiato e I
Giganti della Montagna, più che nelle opere precedenti, lo scrittore rivela
in modo particolare, il carattere surrealista della sua opera, anche se con un
messaggio ambiguo e con un'arte meno sicura di sé. […] L’autore chiama “Miti”
queste ultime sue opere, perché sono “utopie”, frutti di pura fantasia,
rappresentazioni che esprimono la favola e il sogno; Miti, che Pirandello
intende mettere in scena, facendo rivivere nel teatro moderno le più genuine e
ataviche manifestazioni di quella funzione religiosa ed artistica, capace di
turbare e anche di "scuotere" lo spettatore.». E in queste ultime
opere sono del tutto frantumati i confini fra la realtà e il sogno, e ogni cosa
appare immersa in una fantastica atmosfera spettrale. La Di Giorgio, parlando
de I giganti della montagna, li
considera: «opera particolarmente interessante, perché nasconde nuovi possibili
sviluppi dell'arte pirandelliana, che se da un lato aiutano notevolmente a
comprendere l'umanità propria e più vera di Pirandello “uomo”, dall'altro
possono rischiarire di una nuova luce tutta la precedente sua opera, nella
quale erano già presenti le sensazioni, le speranze e i desideri che vi appaiono.
[…] nasce da una crisi profonda dello scrittore e della sua arte: il
personaggio pirandelliano, scoprendo la propria inadeguatezza nell'affrontare
la realtà, si isola e questo isolamento lo conduce sempre a una sconfitta che
si verifica ancor prima della lotta. […] I Giganti rappresenterebbero il
momento della sconfitta dell’arte e, in un certo modo, la sconfitta metafisica
di Pirandello» (http://www.robertobernardini.it/letteratura /testi/giganti.htm).
Ricordiamo che il testo teatrale era stato scritto tra il
1931 e il 1933 ma la Prima risale al 5 giugno del 1937, quando stavano
creandosi le condizioni storiche per l’oppressione e la violenza, quando si
stava annunziando il periodo cupo di una spaventosa tragedia europea. Nel 1910
aveva scritto la novella Lo stormo e
l'Angelo Centuno, il nucleo da cui prese origine il dramma. Il testo è
difficile, la trama complessa e piena di simbolismo, ambientata come scrive
Pirandello in «tempo e luogo indeterminati: al limite, fra la favola e la
realtà», e ove ritorna l'affascinante idea del “teatro nel teatro” celebrata in
Sei personaggi in cerca d'autore. è rimasta memorabile la
rappresentazione realizzata da Giorgio Strehler al Piccolo di Milano nel 1995
con una grande Valentina Cortese.
La contessa Ilse Paulsen (esemplificazione dell’Autore ma
anche simbolo dell'Arte), una grande attrice, è la moglie di un conte pallido e
biondo «che conserva nei tratti e nei modi il deluso squallore d'una grande
nobiltà»; per lui, aveva lasciato la sua arte ed era diventata contessa, ma era
poi tornata al teatro e alla sua vera vita. Adesso è la prima attrice (con i
capelli «color di rame caldo… l'abito dimesso e doloroso, di velo violaceo,
scollato, un po' logoro…») e la capocomica di una compagnia di teatranti poveri
e girovaghi ma nutriti di poesia. La compagnia brama dal desiderio di
rappresentare la: nella realtà, è un dramma dello stesso Pirandello, nel quale
le Donne, streghe dell'aria, hanno rapito a una madre il figlio in fasce – sano e bello – portandolo a corte sostituendolo
con uno brutto e ammalato (quasi mostruoso); quando il principino torna al
paese natale e viene a sapere di essere il figlio scambiato, rinuncia agli
onori per rimanere con la madre ritrovata. “La Favola del figlio cambiato” è l'opera
di un giovane poeta, suicidatosi perché respinto da Ilse che vuol farlo vivere ancora
nella rappresentazione del suo dramma («la vita negata a lui, ho dovuto darla
alla sua opera»). Nel loro peregrinare, con la loro carretta, stanchi del viaggio,
gli attori arrivano a “La Scalogna”, una villa decaduta e in abbandono, dall'intonaco
scolorito, abitata dagli spiriti e da Cotrone, un mago contadino (quasi uno
sciamano che vive modestamente dei suoi incantesimi). Cotrone fa affiorare «tutte
quelle verità che la coscienza rifiuta», fa «venir fuori dal segreto dei sensi,
o a seconda, le più spaventose verità dalle caverne dell'istinto», e insegna a
inventarsi la verità – alterando
il piano della realtà con quello del sogno («Fuori di noi!») e mescolandolo con
l’apparenza o l’illusione e con la magia o l’incanto – e insegna a vivere del superfluo rinunziando al necessario («padroni
di niente e di tutto»). Cotrone è a capo di un gruppo di poveri individui, gli
Scalognati, che si dibattono tra la favola e la realtà, tra il sogno e la
veglia, abbandonati alle sue magie e alle evocazioni spiritiche di un uomo «che
inventa la vita» e che è convinto che la verità dei sogni sia «più vera di noi
stessi». Certa di poter fornire uno spettacolo artistico di prim'ordine, Ilse
decide di recitare di nuovo “La Favola del figlio cambiato” (la prima volta
aveva ricevuto «fischi che ne tremarono i muri») dinanzi agli uomini e ai “Giganti
della montagna”, i robusti padroni del mondo che vivono sulla Montagna che sta al
di sopra della villa degli Scalognati, simbolo degli uomini duri e orgogliosi,
razionali e padroni del loro destino, individui senza sogni e senza Poesia (a
proposito dei Giganti che sentiamo muoversi con grande clamore ma che non
vedremo mai, scrive il regista Giuseppe Dipasquale nelle note di regia dello
spettacolo del teatro Stabile di Catania: «Questa estrema impossibilità è anche
l'estremo atto di denuncia del limite dell'Arte nei confronti della Vita.»).
Ho notato qualcosa di autobiografico (pensando al rapporto
controverso di Luigi con Marta Abba) in una dolente discussione tra Ilse e il
marito, il conte che per lei si
è ridotto sul lastrico consumando tutto il suo patrimonio ma che l'ama non avendo
rimpianti (anche Ilse sa che in fondo hanno perso ben poco, perché la ricchezza
è servita a comprarsi quella povertà ricca d'Arte e di Poesia). La donna gli dice di aver paura di lui,
perché la segue come un mendicante, facendola sentire «tutta, non so, come appiccicata da questa
tua mollezza di timidità supplichevole»: ce l'ha negli occhi e nelle mani. Si sente tormentata dalle sue continue
profferte amorose come se volesse riprendersi in lei tutto quello che ha
perduto e vorrebbe scappare. L'uomo le risponde che l'ama e che non pensa di
aver perduto nulla, se ha lei; la guarda negli occhi perché vorrebbe
richiamarla a quella che era stata un tempo per lui. Teme di rimanere solo, che
lei non lo ami più e che il suo sentimento non sia più quello di prima. Ilse
gli risponde che l'ama, che non sa vedersi senza di lui (ma non deve pretendere
il suo amore sempre, ma riceverlo soltanto quando lei è in grado di sentirlo),
che è sempre la stessa, quella di prima. Aggiunge Ilse: «Sei proprio
sicuro di prima? che il mio sentimento sarebbe durato in quelle altre
condizioni? Così almeno dura, come può.
Ma non vedi come sono? è un miracolo se, a toccarci, non ci sentiamo
mancare sotto le mani persino la certezza del nostro stesso corpo.».
Cotrone va dai Giganti a chiedere il permesso per la recita
e si ode il clamore provocato dall'arrivo dei Giganti, le musiche e le urla
quasi selvagge; la scrittura di Luigi Pirandello s'interrompe con le ultime
parole di Diamante, la seconda attrice della compagnia: «Ho paura…». Da questo punto, il testo nel terzo
atto è stato completato dal figlio Stefano (anch'egli drammaturgo) secondo i
racconti di Luigi morente. I Giganti rifiutano l’offerta di Ilse, perché
occupati nelle loro opere grandiose e perché incapaci di comprendere la poesia,
ma sono disposti a pagare profumatamente perché gli attori recitino dinanzi ai
loro servi e ai loro operai, i quali sono in realtà desiderosi soltanto di ridere con uno spettacolo leggero di ballerine e
di sciantose. Gli attori capiscono di essere dati in pasto alle belve, a una
plebaglia ignorante, ma Ilse, che è convinta della bellezza della favola e
della potenza dell'Arte, insiste nell'imporre con tutta l'energia possibile la
parola, la voce del poeta, che è la sola realtà nella quale possa vivere.
Insiste per recitare dinanzi a quel pubblico primitivo, che non la capirà
e che provocherà il frantumarsi della sua favola e la sua stessa morte (non è
chiaro se Ilse muore per il dolore e per lo sconforto o perché dilaniata dai
servi durante una zuffa, come era accaduto al musico greco Orfeo, figura della
mitologia greca, l'artista per antonomasia che incarnava i valori eterni
dell'arte e che con la potenza incantatrice della sua lira e del suo canto
placava le bestie feroci e animava gli alberi e le pietre, il quale morì dilaniato
dalle Menidi). Nel finale ricostruito da Stefano Pirandello, Cotrone cerca di
far capire agli attori che la plebaglia non ha rifiutato la Poesia, non ha
capito invece quei «servi fanatici dell'Arte, che non sanno parlare agli uomini
perché si sono esclusi dalla vita, ma non tanto poi da appagarsi soltanto dei
propri sogni, anzi pretendendo di imporli a chi ha altro da fare, che credere
in essi.». I Giganti mandano il loro maggiordomo a chiedere scusa agli attori
della compagnia e a offrire un congruo indennizzo che il marito–conte accetterà per erigere una
tomba illustre e imperitura alla sua sposa («Ma si sentirà che egli, pur
piangendo e protestando i suoi nobili sensi di fedeltà alla morta poesia, s'è a
un tratto come alleggerito, come liberato da un incubo.»). Gli attori prendono
il corpo di Ilse, spezzato alla guisa di un fantoccio, lo caricano sulla
carretta e ripartono così com'erano venuti.
A proposito del finale, che era riuscito a ricostruire su
quello che gli aveva detto il padre negli ultimi momenti di vita, ha scritto
Stefano Pirandello: «Questo è quanto io ne so, e l'ho esposto, purtroppo, senza
la necessaria efficacia; spero però senza arbitri. […] non posso sapere, dico,
né nessuno potrà mai sapere se in quell'ultimo concepimento la materia non gli
si fosse atteggiata altrimenti, né se Egli non avesse già trovato altri
movimenti all'azione, o sensi più alti al Mito.».
Concludendo, nelle opere di Pirandello si esprime in modo
emblematico soprattutto quel moderno ed eterno “gioco delle parti” che è il
contrasto tra quel che si vorrebbe essere e quel che si deve essere, tra quel
che si appare agli altri e quel che si è nella realtà (ciascun individuo, in
fondo in fondo, neppure lui sa quel che è). Questi sono i temi più tipici di
Pirandello: ogni nostra conoscenza è relativa e non c’è dato il poter scegliere
tra le possibili diverse verità personali (argomento della commedia Così è, se vi pare); non esistono
limiti tra realtà e illusioni, tra pazzia e salute mentale (tema del dramma Enrico IV); ci si sente spesso diversi
da quel che si appare agli altri e si vorrebbe figurare meglio (nodo narrativo
della commedia Vestire gli ignudi); esiste
talora la necessità di plasmare il nostro essere secondo l’immagine di chi ci
ama (nucleo della commedia Come tu mi vuoi); un individuo è come una entità
molteplice che tenta di creare una propria immagine personale ma è uno per sé e
uno diverso per ciascuno di coloro che lo conoscono (l’idea guida di Uno, nessuno e centomila). E si
potrebbe continuare ancora!
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