domenica 29 aprile 2012

I giganti della montagna nella tematica di Luigi Pirandello


Luigi Pirandello                           Rappresentazione al Verga, 2012



La drammaturgia moderna deve moltissimo a Pirandello che, intellettuale d'avanguardia, si dedicò all’analisi acuta delle inquietudini, della crisi d’identità, delle contraddizioni e dell'alienazione dell’uomo contemporaneo. Con nuova sensibilità, seppe dare parole e sentimenti al tormentato isolamento e alla disperata solitudine dell’esistenza umana, facendosi interprete della prevedibile sconfitta dell'uomo, della sua inevitabile separazione dal resto del mondo e del suo essere disgregato senza unità dalla molteplicità dei rapporti e dal contrasto tra l'essere e l'apparire, tra l'essere e il divenire. Nel 1934 gli fu conferito il premio Nobel.

Nacque il 28 giugno del 1867 ad Agrigento (chiamata allora Girgenti) da Stefano – ricco proprietario di miniere di zolfo di origini liguri e uomo concreto che avrebbe voluto fare del figlio un agiato commerciante (e che gli fu sempre nemico) – e da Caterina che Luigi amava moltissimo, soffrendo nel vederla trattata senza rispetto dal padre. Luigi Pirandello con straordinaria testardaggine – e quasi di nascosto – compì gli studi classici, prendendo la licenza liceale. Continuò a contrastare con grande forza i desideri paterni, iscrivendosi alla facoltà di Lettere (prima a Palermo, poi a Roma) e prendendo infine la laurea a Bonn: discusse una tesi sul suo dialetto natale. Rimase nella città straniera per un certo periodo di tempo, come lettore di lingua italiana, e venne in contatto con i romantici tedeschi con i quali conservò stretti legami culturali per tutta la vita.

Ritornato in Italia, si stabilì a Roma e nel 1894 – in seguito a un matrimonio combinato dalla famiglia – sposò Maria Antonietta Portulano, una bella ragazza bruna dai fini lineamenti, figlia di un ricco socio del padre. Egli l'amava, nonostante esistesse tra loro una forte incompatibilità di carattere, e vissero inizialmente una vita serena e agiata, allietata dalla nascita di tre figli.

Tra il 1894 e il 1904 Pirandello pubblicò con discreto successo alcune raccolte di poesie, novelle e i suoi primi romanzi L’esclusa (1901) e il Turno (1902). Un improvviso disastro finanziario – una frana aveva allagato la miniera nella quale il padre aveva investito i suoi ingenti capitali compresa la dote di Maria Antonietta – lo mise in condizione di dover lavorare per vivere e provocò l'inizio di una grave malattia mentale della moglie. Maria Antonietta, che era rimasta semiparalizzata dopo la notizia del crac familiare, aveva sviluppato una psicosi che si estrinsecava in strane manie e in una folle gelosia che umiliava e imbarazzava profondamente Luigi (nel 1919 la famiglia fu costretta a ricoverarla in una casa di cura per dementi, ove rimase per tutta la vita). Sulla scia del gran successo ottenuto con Il fu Mattia Pascal (scritto nel 1904, sotto un pressante bisogno di denaro) e in seguito alla pubblicazione di alcuni saggi, nel 1908, fu nominato ordinario di lingua italiana presso il Magistero di Roma, conquistando una discreta tranquillità economica. Nel 1922 lasciò questo incarico per dedicarsi interamente alla letteratura. Dal 1916 iniziò un inarrestabile successo letterario di respiro internazionale, in coincidenza della comparsa delle prime rappresentazioni teatrali e delle novelle che furono pubblicate col titolo di Novelle per un anno nel 1922, in un “corpus” unico costituito di ben 246 novelle.

Per il suo pessimismo innato, Luigi sarebbe stato portato a scrivere delle tragedie ma ebbe modo di dire: «Noi sentiamo troppo, soffriamo troppo: la nostra vita è per se stessa drammatica, però non possiamo aver la serenità di concepire il dramma, da che noi stessi vi siamo impigliati.». Questa frase mi ha ricordato un altro grande drammaturgo, Oscar Wilde, che così scriveva: «Il mondo rise sempre delle sue tragedie, perché non vi era altro mezzo per sopportarle. Di conseguenza, quelle questioni che il mondo ha trattato seriamente, appartengono al lato comico della vita.» (in Aforismi, a cura di Riccardo Reim, Tascabili Economici Newton, Roma, 1992). Per questo suo forte coinvolgimento nella tragedia della vita, in arte Pirandello si dedicò spesso alla commedia, affrontando i suoi temi con un umorismo amaro, talora addirittura sardonico o grottesco. Tra le sue numerose commedie, tradotte in tutte le lingue e rappresentate in tutto il mondo, ricordo soltanto quelle più significative: La morsa, Pensaci Giacomino, Liolà, Il berretto a sonagli, Il piacere dell'onestà, L’uomo, la bestia e la virtù, Tutto per bene, Come prima, meglio di prima e Questa sera si recita a soggetto. Fu, però, con Sei personaggi in cerca d'autore che Luigi raggiunse il punto più alto della sua drammaturgia, cogliendo la fama mondiale (fu rappresentata a Londra, New York e Parigi). Con un'originalità strepitosa – “il teatro nel teatro” – limitò l'azione della commedia nell'ambito di un palcoscenico, narrando di sei personaggi (creati dall’autore e abbandonati a se stessi) che – sentendosi più vivi e veri degli uomini che respirano – si mettono alla ricerca di un regista e di una compagnia di attori che vogliano rappresentare il loro dramma inespresso. Si crea allora un acuto contrasto tra il regista e i personaggi, e tra i personaggi e gli attori, che vorrebbero intromettersi nella rappresentazione e che vengono considerati dai personaggi come teatranti falsi e freddi, non all’altezza di rappresentare il loro dramma. I personaggi pretendono di raccontare e di rivivere personalmente con crudele e lucida verità la loro tremenda vicenda che culmina nella tragedia dell'annegamento di una bimba e nel suicidio di un ragazzo. Gli attori e il regista restano completamente sconvolti dall'orrore di questa tremenda rappresentazione, non riuscendo più a distinguere tra finzione e realtà. è inutile dire che tutto il gioco teatrale è abile e riesce a creare un coinvolgimento umano straordinario!

Nell'ultimo periodo esistenziale, pur continuando a essere creativo e vitale, Pirandello visse una certa involuzione intellettualistica che fece divenire sempre più complicate e cerebrali le sue commedie. Iniziò allora a creare delle maschere e dei simboli troppo rigidi (quasi delle marionette senza vita) piuttosto che personaggi dotati di calda umanità e di accesi sentimenti. Appartengono a questo periodo L'amica delle mogli, Diana e la Tuda, e O di uno o di nessuno, nelle quali tentò di rappresentare l'erotismo represso, l'«atroce solitudine» e le debolezze umane, la giovinezza rimpianta e la vecchiaia incipiente con le sue pene, e tutti gli altri orrori della vita (tra i quali in modo autobiografico affiorano la follia dell'amata moglie e la sua segregazione in manicomio, che Luigi visse sempre con persistente doloroso senso di colpa).

In questa fase della vita, Pirandello fu però l'attivissimo e innovatore direttore artistico del Teatro d'Arte di Roma, divenendo il capocomico di una compagnia teatrale di cui faceva parte la giovanissima attrice Marta Abba, che fu la sua ispiratrice e la sua «musa vivente». A Marta, Luigi fu legato da un forte sentimento amoroso, nonostante che lui fosse sessantenne e lei venticinquenne. Con lei instaurò un fittissimo epistolario, durato dal 1926 al 1936, nel quale confondeva vita vissuta e parola scritta, realtà vera e creazione fantastica, e con lei Pirandello se ne andò in giro per il mondo, rappresentando le sue commedie e facendo conoscere le sue idee così originali. Si lamentò spesso che la celebrità l'aveva reso «un immutabile idolo» (vedere il testo teatrale autobiografico Quando si è qualcuno, nel quale il protagonista è uno scrittore prigioniero della maschera che gli altri hanno costruito per lui, che preferisce morire come poeta per rinascere come uomo, perché l'Arte è ormai morta). L'ultima lettera all'amata Marta è del 4 dicembre del 1936; scritta dieci giorni prima della morte di Pirandello, Abba la ricevette dopo la morte del «maestro» a New York mentre recitava a Broadway. In quest'ultima lettera, Luigi le scriveva: «Marta ti amo, vivo con te e per te».

Pirandello moriva a 69 anni, a Roma, il 10 dicembre del 1936 in seguito a una banale polmonite, mentre era immerso nella composizione dell'opera teatrale I giganti della montagna rimasta incompiuta, vero e proprio testamento spirituale.

Sulla scia della rappresentazione di questo testo teatrale corale che ho avuto modo di vedere in questi giorni nell'ottima produzione del Teatro Verga di Catania (Stagione 2011-2012), per la regia di Giuseppe Dipasquale (superbe le scene di Antonio Fiorentino e belli i costumi di Elena Mannini) con Magda Mercatali, Vincenzo Pirrotta, Gian Paolo Poddighe e Anna Malvica e tanti altri attori di valore, voglio attirare la vostra attenzione su questo dramma e sulla sua gestazione. Già famoso, a capo della sua compagnia teatrale Luigi Pirandello aveva girato il mondo, venendo a contatto con la cultura europea e americana e cogliendone soprattutto gli aspetti di alienazione della condizione umana. Ha scritto in una sua elaborazione la Prof.ssa Giovanna Di Giorgio: «Nelle ultime opere teatrali, La Nuova Colonia, Lazzaro, La Favola del figlio cambiato e I Giganti della Montagna, più che nelle opere precedenti, lo scrittore rivela in modo particolare, il carattere surrealista della sua opera, anche se con un messaggio ambiguo e con un'arte meno sicura di sé. […] L’autore chiama “Miti” queste ultime sue opere, perché sono “utopie”, frutti di pura fantasia, rappresentazioni che esprimono la favola e il sogno; Miti, che Pirandello intende mettere in scena, facendo rivivere nel teatro moderno le più genuine e ataviche manifestazioni di quella funzione religiosa ed artistica, capace di turbare e anche di "scuotere" lo spettatore.». E in queste ultime opere sono del tutto frantumati i confini fra la realtà e il sogno, e ogni cosa appare immersa in una fantastica atmosfera spettrale. La Di Giorgio, parlando de I giganti della montagna, li considera: «opera particolarmente interessante, perché nasconde nuovi possibili sviluppi dell'arte pirandelliana, che se da un lato aiutano notevolmente a comprendere l'umanità propria e più vera di Pirandello “uomo”, dall'altro possono rischiarire di una nuova luce tutta la precedente sua opera, nella quale erano già presenti le sensazioni, le speranze e i desideri che vi appaiono. […] nasce da una crisi profonda dello scrittore e della sua arte: il personaggio pirandelliano, scoprendo la propria inadeguatezza nell'affrontare la realtà, si isola e questo isolamento lo conduce sempre a una sconfitta che si verifica ancor prima della lotta. […] I Giganti rappresenterebbero il momento della sconfitta dell’arte e, in un certo modo, la sconfitta metafisica di Pirandello» (http://www.robertobernardini.it/letteratura /testi/giganti.htm).

Ricordiamo che il testo teatrale era stato scritto tra il 1931 e il 1933 ma la Prima risale al 5 giugno del 1937, quando stavano creandosi le condizioni storiche per l’oppressione e la violenza, quando si stava annunziando il periodo cupo di una spaventosa tragedia europea. Nel 1910 aveva scritto la novella Lo stormo e l'Angelo Centuno, il nucleo da cui prese origine il dramma. Il testo è difficile, la trama complessa e piena di simbolismo, ambientata come scrive Pirandello in «tempo e luogo indeterminati: al limite, fra la favola e la realtà», e ove ritorna l'affascinante idea del “teatro nel teatro” celebrata in Sei personaggi in cerca d'autore. è rimasta memorabile la rappresentazione realizzata da Giorgio Strehler al Piccolo di Milano nel 1995 con una grande Valentina Cortese.

La contessa Ilse Paulsen (esemplificazione dell’Autore ma anche simbolo dell'Arte), una grande attrice, è la moglie di un conte pallido e biondo «che conserva nei tratti e nei modi il deluso squallore d'una grande nobiltà»; per lui, aveva lasciato la sua arte ed era diventata contessa, ma era poi tornata al teatro e alla sua vera vita. Adesso è la prima attrice (con i capelli «color di rame caldo… l'abito dimesso e doloroso, di velo violaceo, scollato, un po' logoro…») e la capocomica di una compagnia di teatranti poveri e girovaghi ma nutriti di poesia. La compagnia brama dal desiderio di rappresentare la: nella realtà, è un dramma dello stesso Pirandello, nel quale le Donne, streghe dell'aria, hanno rapito a una madre il figlio in fasce – sano e bello – portandolo a corte sostituendolo con uno brutto e ammalato (quasi mostruoso); quando il principino torna al paese natale e viene a sapere di essere il figlio scambiato, rinuncia agli onori per rimanere con la madre ritrovata. “La Favola del figlio cambiato” è l'opera di un giovane poeta, suicidatosi perché respinto da Ilse che vuol farlo vivere ancora nella rappresentazione del suo dramma («la vita negata a lui, ho dovuto darla alla sua opera»). Nel loro peregrinare, con la loro carretta, stanchi del viaggio, gli attori arrivano a “La Scalogna”, una villa decaduta e in abbandono, dall'intonaco scolorito, abitata dagli spiriti e da Cotrone, un mago contadino (quasi uno sciamano che vive modestamente dei suoi incantesimi). Cotrone fa affiorare «tutte quelle verità che la coscienza rifiuta», fa «venir fuori dal segreto dei sensi, o a seconda, le più spaventose verità dalle caverne dell'istinto», e insegna a inventarsi la verità – alterando il piano della realtà con quello del sogno («Fuori di noi!») e mescolandolo con l’apparenza o l’illusione e con la magia o l’incanto – e insegna a vivere del superfluo rinunziando al necessario («padroni di niente e di tutto»). Cotrone è a capo di un gruppo di poveri individui, gli Scalognati, che si dibattono tra la favola e la realtà, tra il sogno e la veglia, abbandonati alle sue magie e alle evocazioni spiritiche di un uomo «che inventa la vita» e che è convinto che la verità dei sogni sia «più vera di noi stessi». Certa di poter fornire uno spettacolo artistico di prim'ordine, Ilse decide di recitare di nuovo “La Favola del figlio cambiato” (la prima volta aveva ricevuto «fischi che ne tremarono i muri») dinanzi agli uomini e ai “Giganti della montagna”, i robusti padroni del mondo che vivono sulla Montagna che sta al di sopra della villa degli Scalognati, simbolo degli uomini duri e orgogliosi, razionali e padroni del loro destino, individui senza sogni e senza Poesia (a proposito dei Giganti che sentiamo muoversi con grande clamore ma che non vedremo mai, scrive il regista Giuseppe Dipasquale nelle note di regia dello spettacolo del teatro Stabile di Catania: «Questa estrema impossibilità è anche l'estremo atto di denuncia del limite dell'Arte nei confronti della Vita.»).

Ho notato qualcosa di autobiografico (pensando al rapporto controverso di Luigi con Marta Abba) in una dolente discussione tra Ilse e il marito, il conte che per lei si è ridotto sul lastrico consumando tutto il suo patrimonio ma che l'ama non avendo rimpianti (anche Ilse sa che in fondo hanno perso ben poco, perché la ricchezza è servita a comprarsi quella povertà ricca d'Arte e di Poesia). La donna gli dice di aver paura di lui, perché la segue come un mendicante, facendola sentire «tutta, non so, come appiccicata da questa tua mollezza di timidità supplichevole»: ce l'ha negli occhi e nelle mani. Si sente tormentata dalle sue continue profferte amorose come se volesse riprendersi in lei tutto quello che ha perduto e vorrebbe scappare. L'uomo le risponde che l'ama e che non pensa di aver perduto nulla, se ha lei; la guarda negli occhi perché vorrebbe richiamarla a quella che era stata un tempo per lui. Teme di rimanere solo, che lei non lo ami più e che il suo sentimento non sia più quello di prima. Ilse gli risponde che l'ama, che non sa vedersi senza di lui (ma non deve pretendere il suo amore sempre, ma riceverlo soltanto quando lei è in grado di sentirlo), che è sempre la stessa, quella di prima. Aggiunge Ilse: «Sei proprio sicuro di prima? che il mio sentimento sarebbe durato in quelle altre condizioni? Così almeno dura, come può. Ma non vedi come sono? è un miracolo se, a toccarci, non ci sentiamo mancare sotto le mani persino la certezza del nostro stesso corpo.».

Cotrone va dai Giganti a chiedere il permesso per la recita e si ode il clamore provocato dall'arrivo dei Giganti, le musiche e le urla quasi selvagge; la scrittura di Luigi Pirandello s'interrompe con le ultime parole di Diamante, la seconda attrice della compagnia: «Ho paura…». Da questo punto, il testo nel terzo atto è stato completato dal figlio Stefano (anch'egli drammaturgo) secondo i racconti di Luigi morente. I Giganti rifiutano l’offerta di Ilse, perché occupati nelle loro opere grandiose e perché incapaci di comprendere la poesia, ma sono disposti a pagare profumatamente perché gli attori recitino dinanzi ai loro servi e ai loro operai, i quali sono in realtà desiderosi soltanto di ridere con uno spettacolo leggero di ballerine e di sciantose. Gli attori capiscono di essere dati in pasto alle belve, a una plebaglia ignorante, ma Ilse, che è convinta della bellezza della favola e della potenza dell'Arte, insiste nell'imporre con tutta l'energia possibile la parola, la voce del poeta, che è la sola realtà nella quale possa vivere. Insiste per recitare dinanzi a quel pubblico primitivo, che non la capirà e che provocherà il frantumarsi della sua favola e la sua stessa morte (non è chiaro se Ilse muore per il dolore e per lo sconforto o perché dilaniata dai servi durante una zuffa, come era accaduto al musico greco Orfeo, figura della mitologia greca, l'artista per antonomasia che incarnava i valori eterni dell'arte e che con la potenza incantatrice della sua lira e del suo canto placava le bestie feroci e animava gli alberi e le pietre, il quale morì dilaniato dalle Menidi). Nel finale ricostruito da Stefano Pirandello, Cotrone cerca di far capire agli attori che la plebaglia non ha rifiutato la Poesia, non ha capito invece quei «servi fanatici dell'Arte, che non sanno parlare agli uomini perché si sono esclusi dalla vita, ma non tanto poi da appagarsi soltanto dei propri sogni, anzi pretendendo di imporli a chi ha altro da fare, che credere in essi.». I Giganti mandano il loro maggiordomo a chiedere scusa agli attori della compagnia e a offrire un congruo indennizzo che il marito–conte accetterà per erigere una tomba illustre e imperitura alla sua sposa («Ma si sentirà che egli, pur piangendo e protestando i suoi nobili sensi di fedeltà alla morta poesia, s'è a un tratto come alleggerito, come liberato da un incubo.»). Gli attori prendono il corpo di Ilse, spezzato alla guisa di un fantoccio, lo caricano sulla carretta e ripartono così com'erano venuti.

A proposito del finale, che era riuscito a ricostruire su quello che gli aveva detto il padre negli ultimi momenti di vita, ha scritto Stefano Pirandello: «Questo è quanto io ne so, e l'ho esposto, purtroppo, senza la necessaria efficacia; spero però senza arbitri. […] non posso sapere, dico, né nessuno potrà mai sapere se in quell'ultimo concepimento la materia non gli si fosse atteggiata altrimenti, né se Egli non avesse già trovato altri movimenti all'azione, o sensi più alti al Mito.».

Concludendo, nelle opere di Pirandello si esprime in modo emblematico soprattutto quel moderno ed eterno “gioco delle parti” che è il contrasto tra quel che si vorrebbe essere e quel che si deve essere, tra quel che si appare agli altri e quel che si è nella realtà (ciascun individuo, in fondo in fondo, neppure lui sa quel che è). Questi sono i temi più tipici di Pirandello: ogni nostra conoscenza è relativa e non c’è dato il poter scegliere tra le possibili diverse verità personali (argomento della commedia Così è, se vi pare); non esistono limiti tra realtà e illusioni, tra pazzia e salute mentale (tema del dramma Enrico IV); ci si sente spesso diversi da quel che si appare agli altri e si vorrebbe figurare meglio (nodo narrativo della commedia Vestire gli ignudi); esiste talora la necessità di plasmare il nostro essere secondo l’immagine di chi ci ama (nucleo della commedia Come tu mi vuoi); un individuo è come una entità molteplice che tenta di creare una propria immagine personale ma è uno per sé e uno diverso per ciascuno di coloro che lo conoscono (l’idea guida di Uno, nessuno e centomila). E si potrebbe continuare ancora!

Nessun commento:

Posta un commento