martedì 27 novembre 2012

Eugène Ionesco e il Teatro dell'assurdo


Eugène Ionesco


Cento anni addietro (il 26 novembre del 1912) nasceva il grande commediografo francese di origini rumene Eugène Ionesco (nato Eugen Ionescu, morì a Parigi il 28 marzo del 1994) vedere il mio post del 2 novembre del 2011 per dettagli biografici. In effetti l'età della nascita di Ionesco appare piuttosto controversa, perché diverse fonti (tra cui l'Enciclopedia britannica) lo danno nato nel 1909. Questa ricorrenza è, però, soltanto un pretesto per parlare del Teatro dell'assurdo.

Già Alfred Jarry (1873-1907), il creatore della saga di Ubu – che tentò di vivere una realtà ammantata dalla sua visionaria avventura letteraria (negli ultimi mesi di vita parlava come Ubu e firmava le sue lettere col nome Ubu) – aveva aperto la strada al Teatro dell'assurdo, nascondendo la sua disperazione esistenziale nella distorsione dell'uomo e della società allo specchio deformante di una rappresentazione grottesca, così anticipando il Surrealismo dadaista. Un “fil rouge” lega senz'altro Ionesco al grande Jarry che, per primo, iniziò a disgregare il teatro borghese realista di fine Ottocento servendosi della parodia e del grottesco.

Ionesco incontrò quel “nouveau théâtre”, che – radicalmente opposto al realismo – sovvertiva la scena parigina ed europea del secondo dopoguerra, e lo fece suo in «una frantumazione del tutto esteriore»; egli preferì, però, parlare di “teatro della derisione” perché nel suo teatro – con l'insensatezza e la ripetitività dei suoi dialoghi e con la successione di eventi privi di significato – aveva privilegiato l'a­spetto ridicolo e l'humour acido dell'esistere disperato dell'uomo moderno in una società umana priva di realtà e svuotata nella disgregazione. In un suo saggio su Kafka, Ionesco aveva scritto: «recise le sue radici religiose, metafisiche e trascendentali, l'uomo è perduto; tutte le sue azioni diventano insensate, ridicole, inutili» e, in occasione della sua prima pièce La Cantatrice Calva (La Cantatrice chauve) (1950), aveva parlato di «tragedia del linguaggio». E non si debbono dimenticare Jean Vauthier (1910-1992) con il suo Capitaine Bada (1950), il quale aveva privilegiato la ricerca interiore di tipo poetico– onirico e i valori del gesto e del ritmo, e Jean Genet (1910-1986), scoperto da Jean Paul Sartre – nel suo saggio San Genet, commediante e martire del 1952, Sartre ne glorificò la “primitiva ingenuità” e il “ragionatissimo mimetismo da grande guitto” – , il quale aveva detto di voltare le spalle all'Essere per abitare il Nulla e di preferire l'Immaginazione al Realtà (da ricordare Le cameriere - Les Bonnes del 1947). E neppure bisogna dimenticare Arthur Adamov (1908-1970), drammaturgo francese di origine armena, considerato uno dei padri del teatro dell'assurdo: con i suoi drammi satirico–grotteschi (da ricordare soprattutto La Parodie del 1949), ha riportato la dissacrazione del linguaggio e la distorsione delle regole teatrali a un esplicito e «violento» intento polemico socio–politico.

Il termine di “Teatro dell’assurdo” fu coniato dal critico e drammaturgo anglo–ungarico Martin Esslin (1918-2002), che nel 1961 aveva pubblicato The Theatre of the Absurd, nel quale scriveva: «per la prima volta l'Assurdo filosofico e l'Assurdo poetico e scenico sono perfettamente fusi». Con quel termine si definì lo stile teatrale di quei drammaturghi europei (e non solo) che tra gli anni 40–60 realizzarono nell'arte drammatica il concetto filosofico esistenzialista dell'assurdità del­l'esistenza, sulla via segnata dagli scritti di Jean-Paul Sartre e Albert Camus. Il “Théâtre de l’absurde” ha, quindi, una chiara origine geografica nella Parigi dell'avanguardia e nei teatrini de “la Rive gauche”, prevalentemente del “Quartier latin”.

Quasi contemporaneamente, l'irlandese Samuel Beckett (1906-1989) distruggeva il linguaggio col silenzio ma in una grande ricchezza di «densità letteraria ed esistenziale» nel suo Aspettando Godot (Waiting for Godot) (1953) – e il nucleo dell'opera stava nella battuta: «Non succede nulla, non viene nessuno, nessuno se ne va, è terribile». Quel “fil rouge” legava anche Harold Pinter (1930-2008) in Inghilterra che – amico ed estimatore di Beckett – esordì nel 1957 con l'atto unico La stanza (The Room) ed Edward Albee (1928-) negli Stati Uniti – vincitore di tre premi Pulitzer – che (ispirandosi a Ionesco) nel suo dramma Chi ha paura di Virginia Woolf? (Who's Afraid of Virginia Woolf?) (1962) svelava la drammatica solitudine dell'uomo nascosta sotto la crosta dell'ipocrisia piccolo–borghese. E forse sarebbe anche da ricordare come partecipe del teatro dell'assurdo l'autore italiano Achille Campanile, il quale però mai accettò però questo legame.

Nel Teatro dell'assurdo l'autore, deliberatamente, decideva di non utilizzare la costruzione tradizionale drammaturgica e il logico linguaggio razionale per accettare soltanto una traccia labile che univa eventi effimeri (spesso non accadeva nulla) o stati d'animo senza alcun significato apparente (i personaggi spesso non avevano identità), entrambi espressi attraverso dialoghi ripetitivi, sconnessi e insensati, eppur capaci di suscitare un sentimento del tragico. Il “Théâtre de l’absurde” non fu però né un movimento né una scuola, essendo tutti gli autori che ne facevano parte degli individualisti “estremi” e costituendo un gruppo quanto mai eterogeneo (ciò che avevano in comune era il non appartenere al contesto borghese e il rifiuto totale del teatro tradizionale borghese).

A proposito di quei drammaturghi considerati appartenenti al Teatro dell'assurdo, è stato  commentato: «I loro testi teatrali non intendono trasmettere delle informazioni, né presentare i problemi o i destini di personaggi, né esporre tesi o discutere ideologie, ma solo tradurre in un coerente “reticolo” di immagini poetiche la realtà interiore dell'autore. Altrettanto significativa è la posizione verso il linguaggio; ma è in essa che si rivela la fragilità della etichetta comune. […] Il teatro dell'assurdo ebbe grande fortuna presso il pubblico e presso i teatranti, ma scarsa influenza nello sviluppo delle nuove forme teatrali.» (La Nuova Enciclopedia della Letteratura Garzanti, Garzanti Editore, 1985). 

Lungi dal costituire un gioco senza senso (come può sembrare in apparenza), il Teatro dell'assurdo lacerava il conformismo e le banalità che minavano l'individualità dell'uomo e che esprimevano l'incapacità umana a comunicare. Lo stesso Ionesco sapeva che il suo teatro assolutamente comico, le sue anti–commedie, il suo anti–teatro, le sue farse tragiche nascevano da una visione pessimistica dell'esistenza, caratterizzata da solitudine, isolamento e impossibilità a comunicare con gli altri, e soffocata dal conformismo della società, dall'incertezza della propria identità – i personaggi sono spesso ridotti al ruolo di “pantins” (marionette) – e dall'angosciosa paura della morte. Certamente i protagonisti di questo teatro erano soprattutto degli anti–eroi e dei mediocri alle prese con la loro miseria metafisica, in un mondo ostile e in un agitarsi senza scopo, spinti da negative forze invisibili.

venerdì 23 novembre 2012

Francis Durbridge e gli sceneggiati storici della RAI


Francis Durbridge

            
                                            Sceneggiati RAI

Il 25 novembre del 1912, cento anni addietro, nasceva in Inghilterra Francis Henry Durbridge, brillante scrittore di gialli e fantasioso sceneggiatore dotato di humour e suspense, che ebbe il merito di avere ispirato molti dei migliori sceneggiati Tv della RAI a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta.

Durbridge nacque in una cittadina dello Yorkshire (Kingston upon Hull), fu educato alla Bradford Grammar School (ove l'insegnante d'inglese lo incoraggiò a scrivere) e si laureò in Letteratura inglese a Birmingham. Iniziò a lavorare come agente di cambio ma intanto scriveva: nel 1933 (aveva appena 21 anni) la BBC acquistò un suo radiodramma ed ebbe così inizio una luminosa e soddisfacente attività di scrittore e autore di commedie, film e sceneggiati televisivi che fecero conoscere il suo nome non soltanto in Inghilterra ma anche in tutta Europa (soprattutto in Italia, Germania, Olanda e Finlandia).

Probabilmente il primo detective radiofonico inglese fu “the Inspector Hornleigh”, creato da Durbridge, le cui avventure furono trasmesse il lunedì sera alle sette (tra il 1937 e il 1940), personaggio che nello stesso periodo apparve anche in tre film.

La creatura più fortunata di Durbridge fu Paul Temple, un ricchissimo scrittore di gialli che lavora soltanto tre mesi l'anno e che negli altri nove mesi si gode la vita viaggiando per l'Europa, accompagnato dalla moglie Steve Trent, giornalista, ma gli succedono sempre le più strane avventure tanto da trasformarsi in un detective dilettante e un criminologo (tanto abile da correre in soccorso di Scotland Yard). Era il 1938 e Durbridge aveva soltanto 26 anni. Il primo libro Send for Paul Temple, scritto in collaborazione con John Thewes, era destinato a un serial radiofonico (questi serial furono poi, in effetti, 16). Durbridge scrisse ininterrottamente, dal 1938 al 1968, per la BBC, storie ricche di dialogo e di personaggi della classe media inglese, imperniate su Paul Temple (ma uscirono altre narrazioni in versione cartacea sino ai tardi anni Ottanta). Tra i libri su Paul Temple, ricordo soltanto quelli tradotti in italiano: Ritorna Paul Temple (News of Paul Temple) (1940), Una strana rapina (Paul Temple and the Harkdale Robbery) (1970), Il mistero di Ginevra, (Paul Temple and the Geneva Mistery) (1971), e Delitto a tempo di rock (Paul Temple and the Margo Mystery) (1986). Cinque film inglesi sul personaggio di Paul Temple con Anthony Hulme (il primo) e John Bentley (gli altri quattro) – girati tra gli anni quaranta e cinquanta presso “The Nettlefold studios” – risultarono pellicole piuttosto insignificanti (soltanto dei B-movie). Grande fu, invece, il successo televisivo in Inghilterra e ben 52 furono gli episodi TV dedicati a Paul Temple tra il 1969 e il 1971, in quattro stagioni, interpretati da Francis Matthews (Paul Temple) e Ros Drinkwater (Steve Temple), nati da una co-produzione tra la BBC e la tedesca Taurus film di Monaco di Baviera. In Italia furono trasmessi soltanto tredici episodi (nove, la domenica pomeriggio nell'autunno del 1972, e quattro, in prima serata tra agosto e settembre del 1973). Il personaggio era così noto che negli anni cinquanta uscì anche una “comic strip” sul detective durata venti anni. La serie, divenuta un cult, ispirò le serie americane “Attenti a quei due (The Persuaders)” e “Cuore e batticuore (Hart to Hart)”.

Nel 1940 Durbridge aveva sposato Norah Elizabeth Lawley e aveva avuto due figli.

Nel 1960, insieme con altri autori, creò il nuovo personaggio televisivo Tim Frazer (interpretato da Jack Hedley), un agente sotto copertura che apparve in tre libri; nel 1960-61 The World of Tim Frazer fu rappresentato in 18 episodi con ascolti stratosferici.

Durbridge pubblicò più di 40 romanzi, alcuni basati sulle serie radiofoniche o televisive, scritti spesso in collaborazione con John Thewes, Douglas Rutherford (con quest'ultimo, alcuni libri apparvero con il pen name di Paul Temple, rendendo reale lo scrittore della finzione) e Charles Hatton. In Italia le sue storie sono state pubblicate dall'editore Longanesi e nella collana “Il Giallo Mondadori”.

Francis Durbridge fu anche un drammaturgo di successo: da ricordare Suddenly at Home (1973), in cartellone a London’s West End per di un anno, The Gentle Hook (1974), House Guest (1976), Murder with Love (1976), Deadly Nightcap (1983), A Touch of Danger (1987), The Small Hours (1991) e Sweet Revenge (1993).

Tra il 1952 e il 1980 Durbridge scrisse 17 TV serial per la BBC, prima col titolo A Francis Durbridge Serial, poi con quello di Francis Durbridge Presents e, anche dopo che Durbridge smise di scrivere, alcuni serial furono ripresi negli anni Ottanta e Novanta. Francis Henry Durbridge morì nella sua casa di Barnes, all'età di 85, l'11 aprile del 1998.

Nel grande periodo della Tv italiana che faceva entrare nelle case la grande letteratura e non (pur nei limiti degli interni e dei fondali dipinti), nel periodo dei “libri tradotti in immagini”, dei “personaggi restituiti in carne e ossa” e “della finzione che restituisce la tragicità della reale”, i libri di Durbridge sceneggiati per la TV italiana rivelarono a milioni di spettatori un mondo nuovo e delle atmosfere inglesi di grande fascino e crearono un solido legame con i telespettatori nella “ritualità” dell'appuntamento fisso scandito dal succedersi delle puntate (che creavano attesa e complicità). Molti lavori, tratti dalle storie di questo prolifico giallista britannico, hanno contribuito a creare in Italia il mito dello sceneggiato televisivo RAI. Si era creato addirittura un pool, costituito dalla traduttrice Franca Cancogni (sue le traduzioni degli indimenticabili sceneggiati Umiliati e offesi e Jane Eyre), dallo sceneggiatore Biagio Proietti (che curò con eccezionale bravura gli adattamenti televisivi), da un gruppo di validissimi registi (i maestri del tempo) e dai migliori attori del momento. Gli sceneggiati erano contrassegnati, tra l'altro, da bellissime canzoni e da musiche rimaste indimenticabili. Ricordo:

- di Guglielmo Morandi: La sciarpa (The Scarf) (1963), che racconta l'indagine per l'omicidio di una ragazza strangolata con una sciarpa nei sobborghi di Londra (interpreti: Nando Gazzolo, Roldano Lupi, Francesco Mulè, Aroldo Tieri e Franco Volpi).

- di Daniele D'Anza: Paura per Janet (A Time of Day) (1964), che prende le mosse dalla scomparsa di una bambina rapita e dai genitori disperati, delusi dalle indagini di Scotland Yard che vanno troppo a rilento, che scopriranno alla fine che il rapimento è stato architettato da una persona del loro entourage (interpreti: Valentina Fortunato, Aroldo Tieri, Massimo Girotti, Ernesto Calindri e Lia Zoppelli); Melissa (My Wife Melissa) (1966) in sei puntate – con pregevoli e dispendiosi esterni di ambientazione inglese – imperniata sull'assassinio dell'avvenente Melissa Foster uccisa in Regent’s Park, assassinio del quale è sospettato il marito Guy a causa delle turbolenze familiari, e per il quale D'Anza preparò diversi finali per incuriosire e creare suspense (interpreti: Massimo Serato, Dina Sassoli, Rossano Brazzi, Aroldo Tieri e Turi Ferro); e Giocando a golf una mattina (A Game of Murder) (1969) in sei puntate, che muove i passi dalla scomparsa sul green di Bob Kirby, noto campione inglese di golf e fratello dell' ispettore di Scotland Yard Jack, che – messo in allarme da un dettaglio – si ritrova coinvolto in intrighi e in un gioco criminale più grande di lui ((interpreti: Luigi Vannucchi, Aroldo Tieri, Gastone Bartolucci, Andrea Checchi, Marina Berti, Aldo Massasso, Luisella Boni, Mario Carotenuto, Marina Berti, Sergio Graziani, Giuliana Lojodice, Luigi Montini e Mariolina Bovo). Lo sceneggiato era attraversato dalle belle musiche di Gigi Cichellero.

- di Leonardo Cortese: Un certo Harry Brent (A Man Called Harry Brent) (1970) in sei puntate, basato su una produzione della BBC e girato in esterni nella cittadina di Sevenoaks e dintorni, che si occupa dell'omicidio di Sam Felding, un industriale-inventore principale di Susan Bates, fidanzata di Harry Brent, il proprietario londinese di un'agenzia di viaggi: indelebile è rimasto il brano della sigla iniziale inglese, “Roots of oak”, scritta e interpretata dal noto cantautore scozzese Donovan, e indimenticato il riassunto delle puntate precedenti realizzato da una voce narrante su disegni realizzati da Dino Di Santo (interpreti: Alberto Lupo, Claudia Giannotti, Ferruccio De Ceresa, Carlo Hinterman, Enzo Garinei, Annamaria Ackermann, Carlo Bagno, Stefanella Giovannini, Roberto Herlitzka, Valeria Fabrizi e Tino Schirinzi); e Traffico d'armi nel Golfo (The World of Tim Frazer) (1977), incentrato sulle avventure dell'archeologo inglese Tim Frazer, il quale lavora a Pompei e non riesce a incontrare in una pensione di Castellammare un amico di vecchia data Harry Denston, che gli deve dei soldi, mentre trova invece un uomo in fin di vita che gli sussurra una parola incomprensibile: l'arrivo di Helen (ex fidanzata di Tim e futura sposa di Harry) rende la vicenda ancor più complicata (interpreti: Giancarlo Zanetti, Renato De Carmine e Lorenza Guerrieri); struggente la musica di Dino Siani.

- di Silverio Blasi: Come un uragano (Bat Out of Hell) (1971), così intrecciato di cadaveri e di enigmi da confondere l'ispettore di Scotland Yard John Clay, mandato da Londra ad Alenburym in seguito alla scomparsa di Geoffrey Stewart, per indagare su una rete di scommesse illecite che interessano l'ippodromo locale (interpreti: Alberto Lupo, Delia Boccardo, Corrado Pani, Renato De Carmine, Renzo Montagnani, lo stesso Silverio Blasi, Adriana Asti, Nora Ricci, Corrado Pani, Delia Boccardo, Renzo Montagnani, Renato De Carmine, Sergio Rossi, Mariolina Bovo e Lucia Modugno).

- di Alberto Negrin: Lungo il fiume e sull'acqua (The Other Man) (1973) in cinque puntate – la sigla “Vincent” era di Don McLean – , un thriller psicologico che inizia con l'inspiegabile assassinio di una ragazza nelle vicinanze di una sonnolente cittadina universitaria inglese, del quale viene sospettato il professor David Henderson incalzato dall'ispettore Mike Ford (interpreti: Sergio Fantoni, Nicoletta Machiavelli, Laura Belli, Renato De Carmine, Giampiero Albertini, Daniele Formica, Franco Graziosi ed Elena Cotta). Le belle musiche erano di Roberto De Simone. Pur avendo avuto circa 20 milioni di telespettatori (fu il secondo programma più seguito dell'anno) e pur essendo stato considerato uno dei migliori sceneggiati degli anni settanta, segnò l'inizio della crisi di tale prodotto.

- di Salvatore Nocita: Dimenticare Lisa (1976) in tre puntate, che descrive l'incontro in aereo in viaggio per Napoli, casuale ma fatale, tra il ricco antiquario inglese Peter Goodrich che vive nella città partenopea e una misteriosa e affascinante protagonista femminile, Lisa Carter, rimasta vedova poco prima, che sparisce in circostanze misteriose lasciando Peter nello sgomento (interpreti: Ugo Pagliai, Carlo Enrici, Marilù Tolo e Paola Gasmann). La bella canzone “I Only Have Eyes for You” (A. Dubin-H. Warren) era cantata da Art Garfunkel (notevoli anche le altre musiche di Pino Calvi=.

- di Alberto Sironi (che diventerà poi il regista di Montalbano): Poco a poco (The Gentle Hook) (1980), in tre puntate, adattato da Giuseppe D'Agata, che abbandona le atmosfere inglesi per ambientare la storia in Italia (a Milano, sullo sfondo dei Navigli la cui malinconia viene interpretata dalla nostalgica musica di Paolo Conte); coreografo famoso sta preparando un balletto per il Teatro alla Scala ed è vittima di un pestaggio (viene poi aggredita anche una sua costumista italo-americana) e l'indagine è affidata al commissario Mario Braschi che, partendo da indizi molto labili, scandaglia le “amicizie particolari” dell'uomo (interpreti: Flavio Bucci, Teresa Ann Savoy, Franco Fabrizi, Renato Scarpa e Diego Abatantuono); le musiche sono di Paolo Conte. A proposito dell'adattamento di G. D'Agata, è stato osservato: «L'adattamento – Giuseppe D'Agata (Il medico della mutua, Il segno del comando, ecc.) si è assunto il compito di intervenire sull'originale di Durbridge (tradotto da Franca Cancogni). La ristrutturazione è stata condotta con la finalità – favorita dalla trama di partenza – di giungere a un racconto il più lineare possibile, compatibilmente con le regole del “genere”, per accrescere lo spessore psicologico dei personaggi e collocare la vicenda oltre gli stessi confini del “giallo”, nell'ambito di uno sceneggiato legato alla realtà contemporanea. […] In pratica, con una sorta di operazione di meccanica sofisticata, il “congegno” narrativo di Durbridge è stato collocato in una realtà italiana appositamente reinventata. La vicenda è così ambientata a Milano, un luogo che dà credibilità ai personaggi, in prevalenza appartenenti ad una borghesia urbana attiva ed efficiente. […] Il successo di Durbridge, come “giallista”, autore di originali appositamente scritti per la tv, si spiega con l'indiscusso professionismo di questo autore: le sue trame sono ben congegnate, i colpi di scena sono dosati con sapienza, e qualche macchinosità viene compensata da un sicuro senso dell'intrattenimento.» (“Altri brividi gialli firmati Durbridge”, «La Stampa Sera», 29 novembre 1980). Gianni Cerasuolo parla di Durbridge come del «“giallista” più saccheggiato dalla nostra TV» e così scrive: «Sironi e D’Agata hanno in pratica smontato la scatola su cui si regge l’intrigo giallo di Durbridge – che è sostanzialmente mutuato da atmosfere di mistero un po' rarefatte – per puntare sui singoli personaggi della storia, immersi in una realtà che non è certo quella londinese. Assistiamo così a un'operazione inversa da quella compiuta in passato, tranne qualche eccezione, sugli sceneggiati tratti dallo scrittore inglese. Un racconto, cioè, non più puntato sulla spettacolarità, necessaria a far apparire reale, nei confronti del pubblico italiano, un'atmosfera tutta britannica, ma una storia che usa il “giallo” per indagare le singole psicologie e l'ambiente in cui vivono dei personaggi che potremmo incontrare domani sull'autobus. […]» (“Arriva da Londra un commissario tutto italiano”, «L’Unità», 30 novembre 1980). Ugo Buzzolan osserva: « Ma che strana operazione quella del giallo Poco a poco […]. Tutti sanno chi è Durbridge: è un distinto signore inglese che da più di vent'anni, ogni giorno dalle 9 alle 12 e dalle 15 alle 19 (con l'intervallo per il tè), scrive copioni gialli. Quanti ne abbia sfornati, non si sa; pare che il totale si aggiri sul centinaio fra sceneggiati radiofonici e sceneggiati televisivi, e commedie. Durbrige ha venduto i suoi prodotti a tutte le tv europee. […] Poco a poco è una delle sue ultime creazioni. La Rai ha subito fatto l'acquisto, ma cosa è successo dopo? Si è scoperto che il copione era “troppo inglese” e che era basato per tre quarti su un'atmosfera tipicamente britannica, con personaggi molto britannici. Realizzarlo in Italia era impossibile, ne sarebbe uscito un falso, con Londra finta e il policeman dall'accento romanesco. Realizzarlo in Inghilterra era egualmente impossibile perché sarebbe costato una cifra spropositata. E allora si è compiuta la “strana operazione”. È stato chiamato uno scrittore come Giuseppe D'Agata e D'Agata, lavorando sulla traduzione di Franca Cancogni, ha proceduto – è lui stesso che lo dice – ad «alcuni ampi ritocchi all'intreccio di Durbridge» e ha trasferito la storia dall'Inghilterra a Milano, e così il pudding britannico è diventato un risotto alla milanese. Pieno d'ingegno D'Agata; ma non era più semplice, più logico, e forse più economico incaricare D'Agata di scrivere un copione originale considerato che egli è l'autore de Il segno del comando, il giallo italiano che ha avuto il maggiore successo sul video? […]»(“Thriller britannico che diventa milanese”, «La Stampa», 7 dicembre 1980) (vedere anche
http://www.giuseppedagata.it/film/poco.html).


Il successo di queste serie Tv era tale che si favoleggia di proprietari di cinema infuriati per il calo degli spettatori (in Germania) e di doppi finali girati per evitare la fuga di notizie circa il colpevole e la perdita della suspense (in Italia). è stato così commentato: «Da allora… sono semplicemente trascorsi trentadue anni in cui, perlomeno sul fronte RAI, l'ottimo Durbridge è caduto nell'oblio. Chi scrive, da buongustaio del genere, se ne duole perché quella era televisione di qualità, in cui la buona letteratura veniva proposta nel miglior modo possibile, anche dovendosi confrontare con budget non sempre faraonici. I cast erano di ottima levatura e il telespettatore non si accorgeva, o poco gli importava, che qualche esterno fosse palesemente girato in studio o che alle spalle di un Aroldo Tieri, di un Alberto Lupo o di un Turi Ferro si aprisse una finestra che dava su un fondale raffigurante il panorama circostante, in quanto era letteralmente rapito dalla vicenda e dalla magistrale interpretazione dei protagonisti. Tutto sommato, però, forse è meglio che Durbridge sia finito nel dimenticatoio, in quanto, a giudicare da come sia stato maltrattato Nero Wolfe nella serie andata in onda la scorsa primavera su RAI 1, è preferibile che i gialli di qualità restino negli scaffali delle librerie a disposizione dei lettori, piuttosto che proposti sullo schermo da produzioni sprovviste non tanto dei mezzi necessari, ma della sensibilità indispensabile a proporre al pubblico un prodotto che, se ben realizzato, può agevolmente raggiungere livelli di assoluta eccellenza.» 
(Elhitro Elhitro, http://www.alboscuole.it/Articoli.)


mercoledì 14 novembre 2012

Quando l'amore è profondo ed eterno


Jane Austen                        Locandina di “Becoming Jane” (Anne Hathaway)


Tutti i pensatori che si sono occupati dell'Amore hanno posto l'accento sull'importanza della condivisione da parte degli amanti o dei coniugi di uno stesso progetto esistenziale.

L'eroico aviatore Antoine de Saint–Exupéry (1900-1944), autore del sempreverde Il piccolo Principe, osservava: «Amore non è guardarsi a vicenda; è guardare insieme nella stessa direzione». Com'è vero tutto ciò, per la riuscita di un amore intenso e duraturo! Una notizia non recentissima, degna di un “Guinness dei primati”, ha riportato che i due sposi inglesi Percy e Florence Arrowsmith, rispettivamente di 105 e 100 anni, avevano felicemente festeggiato gli ottanta anni di matrimonio senza essersi mai venuti a noia e vivendo un affetto veramente duraturo. E Florence assicurava che Percy, oltre che essere il suo grande amore era il suo più sincero amico, mentre Percy sosteneva che il suo sentimento per Florence era una delle poche cose che non fossero state distrutte dalla cruda realtà dell'esistenza e dalle prove del tempo. Entrambi erano convinti, inoltre, che ogni minuto della loro vita vissuta insieme fosse stato degno di essere vissuto. Richiesti di spiegare il segreto di questa lunga armonia, avevano svelato che consisteva nella reciproca dolcezza e tolleranza: avevano riferito di interpellarsi sempre e soltanto con «Sì, caro» e «Sì, cara». A Catania, due innamorati molto avanti negli anni (lui 80 e lei 75) hanno fatto quella fuga d'amore che in dialetto siciliano si chiama “fuitina”; ironicamente, un giornalista del quotidiano locale “La Sicilia” aveva parlato di fuga d'amore per mettere su, non casa, ma «casa di riposo».

Il sociologo e scrittore Francesco Alberoni (1929-) nel suo best–seller Innamoramento e amore (Garzanti, Milano 1979) – frutto di un'approfondita ricerca durata 15 anni – ha studiato i meccanismi dell'innamoramento. L'innamoramento farebbe emergere la coppia amante–amato come «una piccolissima collettività caratterizzata da un'altissima solidarietà e dotata di valore… un movimento collettivo a due». In questo atto di liberazione, gli innamorati sono «legati, fascinati, vivono in un universo isolato, loro due soli, chiusi nel loro egoismo». E nello stato nascente si realizzano «esperienze emotive ricorrenti e universali» perché si cimentano profondi meccanismi di evoluzione sociale. L'innamoramento porta quindi a costruire qualcosa di nuovo e unito, partendo da due entità separate; scrive Alberoni: «L'innamoramento tende alla fusione, ma alla fusione di due persone diverse. Perché ci sia innamoramento occorre che ci sia diversità e l'innamoramento è una volontà, una forza per superare questa diversità che però esiste e deve esistere.». Secondo il sociologo «[…] con l'innamoramento nasce una forza terribile che tende alla nostra fusione e rende ciascuno di noi insostituibile, unico per l'altro. L'altro, l'amato, diventa colui che non può essere che lui, l'assolutamente particolare. […] E quando viene la risposta dell'altro, dell'amato, appare come qualcosa di immeritato, un dono meraviglioso che non si sarebbe mai pensato di poter avere. Un dono che viene tutto dall'altro, dall'amato, per scelta sua. […] E l'innamoramento è anche fiducia, affidarsi, abbandonarsi fiduciosamente all'altro. […] Noi vogliamo essere amati in quanto esseri unici, straordinari, insostituibili, assolutamente noi stessi. […] Questo è il movimento dell'individuazione. Ma nello stesso tempo l'innamoramento mette in atto un altro movimento in un certo senso opposto al primo, quello della fusione. L'amore è anche una lotta. Nell'amore ciascuno cerca di valorizzare la parte migliore di sé […] e muta se stesso per piacere all'altro […] La polarità della vita quotidiana è fra la tranquillità e il disappunto; quella dell'innamoramento fra l'estasi e il tormento. La vita quotidiana è un eterno purgatorio. Nell'innamoramento c'è solo o il paradiso o l'inferno; o siamo salvi o siamo dannati. […] la forza dello stato nascente spezza, in poche ore o in pochi istanti, barriere inconsce che, nella psicoanalisi, resistono talvolta per anni. La cosa è possibile perché cessa la paura del passato. I due innamorati compiono una confessione reciproca e ciascuno ha il potere di assolvere l'altro dal suo passato. […] nello stato nascente l'uomo strappa al cherubino la spada fiammeggiante ed entra nel giardino dell'Eden. Certo non può farne la sua stabile dimora; l'innamoramento non dura sempre […] Però quello è il giardino dell'Eden. Tutti noi lo conosciamo, tutti noi vi siamo stati, tutti noi l'abbiamo perduto, tutti noi sappiamo riconoscerlo.».

Secondo Alberoni s'innamora chi è predisposto a innamorarsi, chi è disponibile e sente il desiderio d'innamorarsi, chi non è soddisfatto di ciò che è o di ciò che possiede, chi si sente una nullità e sa che non ha nulla da perdere cambiando; soltanto l'amante–amato hanno la probabilità di «riconoscersi» in una forte e misteriosa affinità spirituale, e chi ama riesce a trascinare l'amato nel suo amore («ch'a nullo amato amar perdona»). E non esiste gelosia: se essa compare significa che uno dei due non è innamorato, e naturalmente esiste anche la possibilità di far innamorare qualcuno senza esserne innamorato. Il sociologo sostiene, inoltre, l'«opportunità di tener distinti i due momenti dell'innamoramento e dell'amore, pur riconoscendo tutta una serie di ponti e di strade che li congiungono e fanno dell'amore uno sbocco dell'innamoramento»; egli ritiene che l'innamoramento sia la verità dell'amore e che dall'innamoramento sorgano l'amore duraturo e il patto del matrimonio, passando attraverso tutta una serie di prove di verità e di reciprocità, che debbono essere superate per stabilire dei limiti accettati ma invalicabili.

Nel caso contrario del «disinnamoramento», scrive Alberoni: «Il fallimento della prova porta alla pietrificazione, all'odio, alla nostalgia». E mentre è possibile evitare d'innamorarsi con la volontà, distruggendo immediatamente il primo nucleo di attrazione, non è possibile disinnamorarsi con la propria volontà. Ovviamente, è possibile che un amore sorga senza un innamoramento ma, per esempio, soltanto dal piacere di stare insieme. Per Alberoni è possibile amare contemporaneamente due persone o amarne una ed essere innamorati di un'altra, ma non è possibile essere innamorati di due persone contemporaneamente, perché nella coppia l'individuo – essendo unico e indispensabile – non può essere sostituito da nessun altro. Quando arriva un figlio – che diventa un nuovo destinatario d'amore – i genitori s'innamorano di lui e cessa il loro innamoramento che si trasforma in amore («L'entusiasmo si spegne dolcemente in un'amorevole dedizione all'altro»). Quando tutto va bene, quindi, l'innamoramento termina nell'amore («il movimento, quando riesce, produce una istituzione») e conclude Alberoni: «Il frutto nasce dal fiore, ma il frutto non è il fiore. Quando c'è il frutto il fiore non c'è più.». E la fenomenologia dell'innamoramento omosessuale è identica a quella dell'innamoramento eterosessuale, è però più difficile il passaggio all'amore, alla istituzione o alla stabilizzazione attraverso un figlio per le ben note resistenze sociali e culturali (e ciò rende l'innamoramento più ansioso e più triste).

Lasciando il bellissimo saggio di Alberoni, un grande luogo comune da sfatare è che l'amore sia fatto soltanto per i belli. Nulla di più falso! Gli uomini e le donne molto belli sono spesso troppo narcisisti per amare veramente. Con riferimento a ciò e a Che cos'è l'io?, ricordo il pensiero del filosofo–scienziato francese Blaise Pascal (1623-1662): «[…] ma colui che ama qualcuno a causa della sua bellezza, lo ama? No, perché il vaiolo, che ucciderà la bellezza senza uccidere la persona, non gliela farà più amare. Ma se mi amano per la mia intelligenza, per la mia memoria, amano davvero me? No, perché posso perdere queste qualità senza perdere me stesso. Dov'è dunque questo io se non si trova nel corpo e neppure nell'anima? E come amare il corpo o l'anima, se non per queste qualità, che sono ciò di cui è fatto l'io, dal momento che sono caduche? Si può amare la sostanza dell'anima di una persona in modo astratto, indipendentemente delle sue qualità? Non è possibile e non sarebbe giusto. Non amiamo dunque mai nessuno, ma solo le sue qualità.». Pascal arriva sino al paradosso, scrivendo: «Non prendiamoci più gioco di quelli che si fanno onorare a causa di cariche e di uffici, perché non si ama nessuno se non per qualità a prestito» (Pascal, Pensieri, a cura di Diego Fusaro). Su queste basi, possiamo però spiegarci il grande fascino esercitato dagli uomini di potere, a prescindere delle loro qualità fisiche (spesso inesistenti) o spirituali (spesso latitanti).

Queste parole di Pascal mi hanno fatto ripensare al sonetto più bello (il sonetto XIV, uno dei più amati della letteratura anglosassone) della poetessa inglese Elizabeth Barrett (1806-1861) che, malata alla colonna vertebrale e già avanti negli anni, corrispose all'amore del più giovane e attraente Robert Browning (1812-1889), grandissimo poeta–drammaturgo inglese. A quest'amore ricco di ripercussioni letterarie, alle liriche dedicate da Elizabeth a Robert, e da lui a lei, al loro fitto epistolario scambiato durante il fidanzamento segreto, ho dedicato il saggio Se devi amarmi… amami per amore – Biografia d’amore di Elizabeth Barrett e Robert Browning (Aracne, Roma 2012). A distanza e senza conoscerla, Robert si era innamorato di lei leggendo le sue poesie e nel 1846 la convinse a sposarlo segretamente e a scappare via da casa, lontano dalle cure morbose di un padre troppo oppressivo. Il sonetto così recita:
«Se devi amarmi, fa che per null'altro sia
che per amore. Non dir: “Per il sorriso
l'amo – lo sguardo – il modo di parlar piano
– per un abito di pensiero che bene
si addice al mio e che tal giorno invero
mi portò dolce sollievo” – Diletto,
tutto ciò può mutarsi, o per te mutare –
e può così modellato l'amore
perdere forma ancora. E non amarmi
per la tua cara pietà che le guance
asciuga, – ché il pianto può scordare
chi ebbe lungo conforto, e così perderti!
Ma amami per amore che tu sempre
amar possa, nell'eternità d'amore!» (Oltre i fiumi - Sonetti dal Portoghese, a cura di Daniela Marcheschi, Via del Vento Edizioni, Pistoia 1998).
La poetessa innamorata volle che un grande scultore riproducesse le due mani (la sua e quella di Robert) strettamente intrecciate: «Che mai si sciolgano queste mani avvinte».

Qualcosa di simile l'ho ritrovato nei versi del grande poeta spagnolo Pedro Solinas (1892-1951), “il poeta–professore” – nato a Madrid ma emigrato in America nel 1936 – che componeva nel solco della poesia spagnola amorosa tradizionale ma con accenti ancora più caldi e struggenti; nella concatenazione dei sentimenti e nelle riflessioni sull'amore riusciva a trovare il significato profondo e il valore vero dell'esistenza. In una delle sue più belle poesie d'amore scriveva: «Sì, al di là della gente / ti cerco. / Non nel tuo nome, se lo dicono, / non nella tua immagine, se la dipingono. / Al di là, più in là, più oltre […]»; in un'altra lirica, aggiungeva: «Ansia […] / di raggiungere / di là da tutto / quanto in te cambia / ciò che è nudo ed eterno. / E mentre girano e girano / offrendosi / ingannandosi / i tuoi volti, i tuoi capricci, i tuoi baci, / le tue delizie volubili […] / aver raggiunto il centro puro, immobile, di te stessa.» [da La voce che ti devo (La voz a ti debida), Signo, Madrid, dicembre 1933].

Definendo l'amore su basi spirituali, esso è l'unico porto saldo in un mare d'incertezze e il motore trascendente che evita la solitudine e il nulla, che diviene ragione di vita, che consente una piena realizzazione nell'ascolto e nel dialogo, e che stabilisce una comunicazione di unione dinamica tale da risvegliare il meglio dell'essere umano e da farlo aprire verso l'esterno, superando una posizione di chiusa solitudine e di narcisismo. Con l'amore, si esce dalla propria interiorità e ci si rapporta con la vita dell'altro, e con il resto del mondo, esistendo proiettati nella persona dell'altro. Ritornando a Pascal e alla Barrett, il nostro amore non si può limitare alla bellezza esteriore o alla perfezione del volto amato. Se così fosse l'amore dovrebbe immediatamente scomparire con lo sfiorire della bellezza; ma quando l'amore tra due esseri umani ( di qualsiasi sesso) è perfetto, questo non succede e il sentimento resiste alla malattia e al declino fisico perdurando immutato sino alla morte. Prendendo in considerazione l'amore tra Elizabeth e Robert Browning, ciascuno ebbe una comprensione vera e profonda dell'altro, furono due anime «erette e forti… faccia a faccia»; ed è questo l'amore che dura per sempre, che non teme né i capelli bianchi né le rughe né il declino della malattia, e che non ha bisogno di lifting o di silicone. In un suo grado estremo questo amore può divenire “caritas”, che è quel sentimento intenso e assoluto, diretto anche verso ciò che non è bello ma anzi ributtante; e ciò accade perché è l'amore stesso a conferire la bellezza e la perfezione agli esseri sfigurati. Questo è l'amore di sacrificio e di donazione di Teresa di Calcutta e dei grandi missionari, che purtroppo è quasi impossibile e ignoto a molti di noi. E, sempre ritornando a Pascal, l'amore dovrebbe indirizzarsi non all'esteriorità o alle qualità dell'altro (questo è amore che dura pochissimo), ma alla sua persona interiore e al nucleo esistenziale soggettivo e profondo dell'essere amato, nel tentativo di conoscerlo nella sua sostanza più intima, di comunicare con lui e di comprenderlo in tutte le sue scelte e le sue azioni ideali.

E' questo l'amore che dura per sempre, l'amore che tutti sognano di possedere!

L'interesse per le vicende amorose descritte in letteratura è certamente sempre vivo. Da adolescente, amavo molto la scrittrice inglese Jane Austen (nata a Steventon il 16 dicembre 1775 e morta a Winchester il 18 luglio 1817 a soli 41 anni), autrice inglese preromantica, una delle scrittrici più famose d'Inghilterra, l'illustre antesignana della letteratura rosa, meno romantica e più nobile (con lei in realtà si dovrebbe parlare più appropriatamente di letteratura al femminile). Con arguzia ironica seppe rappresentare il mondo della campagna inglese, raccontandoci gli amori di eroine modeste e giudiziose, ricche di buon senso e moderazione, che – attraverso delusioni momentanee, disamori superati e ostacoli quasi insuperabili, attendendo pazientemente – riescono a conquistare con una certa difficoltà l'amore vero dei loro sogni giovanili e a costruire nel modo migliore una tanto desiderata felicità matrimoniale duratura e soddisfacente (lei, che non aveva potuto realizzare il suo sogno matrimoniale non sposandosi mai, come l'amata sorella Cassandra Elizabeth). E questo è accaduto nei suoi sei romanzi, divenuti la colonna vertebrale del romanzo d'amore preromantico: Ragione e sentimento (Sense and Sensibility) (1811); Orgoglio e pregiudizio (Pride and Prejudice) (1813); Mansfield Park (Mansfield Park) (1814); Emma (1815); e L'abbazia di Northanger (Northanger Abbey) e Persuasione (Persuasion) pubblicati postumi nel 1818. La grande Virginia Woolf, che l'amava, le dedicò molte citazioni del suo saggio “Una stanza tutta per sé (A room of one's own)” e i due articoli “Jane fa i suoi esercizi” (recensione di Amore e Amicizia pubblicata su The New Statesman nel 1922) e “Jane Austen” (pubblicato su The Common Reader: First Series nel 1923); Virginia la definì: «l'artista più perfetta tra le donne, la scrittrice i cui libri sono tutti immortali»; disse anche: «Mai un romanziere ha saputo usare a questo modo il suo senso impeccabile dei valori umani».

La Austen amava il romanzo, così come il poeta ama la poesia, nonostante ai suoi contemporanei esso apparisse come un genere sottovalutato, venendo trattato «come cosa dappoco». In Northanger Abbey, con il suo ben noto sarcasmo, Jane così scriveva: «Sì, romanzi; – poiché io non intendo adottare l'uso ingeneroso e impolitico tanto diffuso tra i romanzieri di denigrare con la loro sprezzante critica le opere che loro stessi contribuiscono ad accrescere – facendo lega con i loro maggiori nemici nell'attribuire i più duri epiteti a quelle opere e non permettendo mai che vengano lette dalla loro eroina: questa se casualmente prende un romanzo, ne sfoglia con disgusto le insipide pagine. Ahimè! se l'eroina di un romanzo non viene incoraggiata dall'eroina di un altro, da chi può attendersi protezione e rispetto? Non posso approvare tale atteggiamento. Lasciamo siano i critici a offendere a loro piacimento quelle effusioni di fantasia e a parlare seccamente, all'uscita di ogni nuovo romanzo, del pattume che invade la stampa. Noi non abbandoniamoci l'un l'altro; siamo una classe oppressa. Sebbene la nostra produzione abbia offerto autentico piacere più della produzione di ogni altra corporazione letteraria, nessun'altra opera letteraria è stata tanto maltrattata. Per orgoglio, ignoranza o rispetto della moda i nostri nemici sono tanti quanto i nostri lettori.» (A cura di Anna Luisa Zazo, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1982). Nell'introduzione al romanzo Emma dell'Austen, scritta nel 1815 da Walter Scott (1771-1832) e apparsa sulla “Quarterly Review” del 14 marzo 1816, il poeta–romanziere scozzese parla del romanzo come di un «pane mangiato di nascosto» e, ricordando l'«universale fascino della narrativa», così scrive: «[…] quando prendiamo in considerazione quante ore di fiacchezza e ansia, di vecchiaia abbandonata a se stessa e di celibato solitario, e persino di dolore e povertà sono ingannate dalla lettura di questi leggeri volumi non possiamo condannare austeramente la fonte da cui si ricava il sollievo di una tale porzione di miseria umana […] Se tali scuse possono essere ammesse nel giudicare gli sforzi di comuni romanzieri, il dovere del critico diviene doppiamente quello di trattare con gentilezza e sincerità opere, che, come quella di fronte a noi, proclamano una conoscenza del cuore umano, insieme alla capacità e alla risolutezza di portare quella conoscenza al servizio dell'onore e della virtù.» (Jane Austen. Critical Assessment, a cura di I. Littlewood, vol. I, East Sussex 1998, pp. 287-96, nella traduzione di Daniela Caselli).

P.S. Del 2007 è il film Becoming Jane Il ritratto di una donna contro, di Julian Jarrold con Anne Hathaway (Jane Austen) e James McAvoy (il giovane avvocato rampante e innamorato Thomas Langlois Lefroy, che Jane non poté sposare per l'intervento della famiglia di lui che desiderava una sposa più aristocratica e ricca), trasmesso alcuni giorni fa da Raimovie. Il film racconta gli anni giovanili di un'Austen ancora soltanto aspirante autrice la quale, da femminista ante–litteram, rinunzia a diverse offerte di matrimonio senza sentimento e una volta innamoratasi infelicemente rimarrà fedele all'amore perduto e riuscirà a vivere dei frutti della sua penna. Nella sua recensione al film “L'educazione sentimentale di Jane Austen attraverso un'attenta radiografia del tessuto sociale della sua epoca”, Marzia Gandolfi ricorda come Jane Austen sia una giovane donna in età da marito nell'Hampshire del 1795 e come sia stata educata dal padre alla letteratura e alla musica. Jane sogna un matrimonio d'amore ma la madre, più prosaicamente, caldeggia il suo matrimonio con l'aristocratico ma poco interessante Sir Wisley (nipote della ricca Lady Gresham). La vita e gli equilibri della ragazza vengono, poi, sconvolti dall'arrivo in campagna del giovane avvocato irlandese Tom Lefroy, colto e sfrontato. Scrive la Gandolfi: «Invaghitosi, ricambiato, dell'orgogliosa Jane, Tom ispirerà col suo amore il cuore e le pagine della Austen. Come si diventa Jane Austen? Rinunciando al sentimento, accettando il proprio status di zitella e concentrandosi sul comportamento sociale della borghesia del primo Ottocento. L'educazione sentimentale della scrittrice inglese anticipa i temi che la stessa Austen approfondirà in seguito nei suoi romanzi: gli affari amorosi delle fanciulle, l'eterno binomio mente e cuore, etica ed estetica, ragione e istinto, i gruppi di famiglia, il ballo. […] Contro l'ipocrisia elevata a norma di vita dell'aristocrazia britannica e contro l'anacronismo che costringeva figlie e mogli in una condizione di immaturità psicologica e culturale, Jane si proponeva come un modello di donna emancipata. […] La storia dell'amore impossibile della Austen per Tom Lefroy diventa (anche) un pretesto per radiografare il tessuto sociale dell'epoca, arcaico e rigidamente pregiudiziale. […] Al regista interessano i dinamismi di gruppo, i microcosmi e le regole che li governano: il rito del cibo, con le sue liturgie della disposizione degli invitati intorno alla tavola, il rito della danza con il ballo della stagione invernale, che restituisce l'affanno celato sotto le educate conversazioni e i cortesi inchini. […]»

(http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=49559).

venerdì 9 novembre 2012

La Bibbia, Dostoevskij, Giobbe e il suo incrollabile amore per Dio


Satana colpisce Giobbe         Giobbe è rimproverato dai tre amici (William Blake, 1757–1827)


Fëdor Michàjlovič Dostoevskij è un grande autore classico che si caratterizza per il suo universo pieno di oscurità e tenebra, di odio e disperazione, per il suo racconto di uomini e donne che sono individui di grande modernità sia per la coscienza di quel che è la natura profonda dell'uomo (con i suoi aspetti più segreti e sordidi ma anche quelli più nobili e pietosi), sia per la consapevolezza del proprio destino. Tra i suoi ricordi di bambino, c’erano quelli sulla storia sacra – che era curioso di conoscere – e ha sempre parlato del suo entusiasmo per Giobbe e per il suo amore verso di Dio senza “se” e senza “ma”.

La madre di Fëdor Michàjlovič, Màr’ja, amava molto la lettura e – prendendosi cura della prima istruzione di Fëdor – gli insegnò a leggere utilizzando un libro di storie sacre del Vecchio e del Nuovo Testamento (in casa Dostoevskij vigeva l’abitudine della lettura serale ad alta voce). Scrive Igor Sibaldi: «Centoquattro storie sacre del Vecchio e del Nuovo Testamento, scritto ai primi del settecento da Johann Hübner e tradotto in russo un secolo più tardi: è il primo libro letto da Dostoevskij (e in seguito egli ricorderà che Giobbe fu tra le figure che più lo colpirono durante l’infanzia).» (vedere Dostoevskij F.M., La mite e Il sogno di un uomo ridicolo, traduzione di Giovanna Spendel e Grazia Lombardo, introduzione di Giovanna Spendel, Oscar Mondadori, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1995).

Fu la madre, quindi, a far conoscere a Dostoevskij molto presto la “Bibbia”, della quale scrisse: «La Bibbia appartiene a tutti, agli atei e ai credenti in uguale misura… Questo libro è uno dei primi che mi abbiano colpito nella vita, e allora ero quasi un fanciullo» (Dal Santo L., Dostoevskij inedito. Quaderni e taccuini 1860–1881, Vallecchi, Firenze 1980).

L'episodio di Giobbe è stato oggetto di una lunga narrazione ne I fratelli Karamazov (Parte seconda, “Libro vi. Il monaco russo”, ii. Vita dello stàrec Zòsima…, Notizie biografiche, b) Delle sacre scritture nella vita di padre Zò­sima). Lo stàrec Zòsima aveva da bambino un libro di storia sacra con illustrazioni (appunto Centoquattro storie sacre del Vecchio e del Nuovo Testamento) con il quale aveva imparato a leggere e che conservava ancora con lui «come una preziosa reliquia del passato». Già prima d’imparare a leggere, aveva provato la sua prima «emozione spirituale». Un lunedì della Settimana di Passione era stato condotto a messa e aveva visto l’incenso alzarsi dal turibolo, salire lentamente e fondersi con i raggi che da una stretta finestra della cupola scendevano nella chiesa: «Io assistevo commosso e per la prima volta, da che ero nato, accolsi consapevolmente nella mia anima il seme della Parola Divina». Infatti, un adolescente si era fatto avanti con un gran libro che aveva deposto sul leggio, aprendolo e mettendosi a leggere: «di colpo compresi per la prima volta qualcosa di ciò che si legge nel tempio di Dio». Il ragazzo leggeva di un uomo giusto e pio della terra di Hus, che aveva molte ricchezze, cammelli, asini e pecore, e i suoi figli si divertivano ed egli pregava Dio per loro. Un giorno il diavolo era salito in cielo e Dio gli mostrò il suo servo Giobbe ed elogiò quel suo grande e santo servitore: «E il diavolo sorrise alle parole di Dio: “Lascialo a me e vedrai che il servo Tuo mormorerà e maledirà il Tuo nome”. E Dio lasciò al diavolo il giusto che Egli tanto amava e il diavolo colpì i suoi figli, e il suo bestiame, e disperse la sua ricchezza, e tutto ciò all’improvviso, come folgore di Dio, ma Giobbe lacerò le sue vesti e si gettò al suolo gridando: “Nudo uscii dal ventre di mia ma­dre e nudo tornerò alla terra. Dio mi ha tolto quel che mi aveva dato. Sia il nome del Signore benedetto ora e sempre!”.».

Parlando con i suoi ospiti, padre Zòsima era scoppiato in lacrime dicendo che era come se in quel momento la sua fanciullezza resuscitasse dinanzi a lui, e respirava co­me allora e come allora provava «stupore, turbamento e gioia», tanto quel racconto aveva impressionato la sua immaginazione. Da allora, non poteva leggere quella santissima storia senza piangere: «Vi si trova qualcosa di così grande, così misterioso, così inimmaginabile!».

In seguito aveva sentito dai detrattori che – con le loro parole orgogliose – sostenevano che era inaudito che Dio avesse lasciato «il prediletto tra i Suoi santi» in balia del diavolo con uno scopo insignificante: «[…] Solo per gloriarsi agli occhi di Satana: “Ecco quel che può sopportare in mio nome uno dei Miei santi!”. Ma la grandezza qui sta nel mistero, sta in questo: che la fugace apparenza terrena e l’eterna verità si sono qui congiunte. Al cospetto della verità terrena si compie l’opera della verità eterna.». Era come se il Creatore, guardando Giobbe, tornasse a vantarsi della sua opera: «E Giobbe, lodando il Signore, si pone non solo al Suo servizio, ma a quello di tutto il creato, di generazione in generazione e nei secoli dei secoli, perché questo era il suo destino.».

Dio risollevò Giobbe, gli restituì la ricchezza e gli diede altri figli che Giobbe amò. Si chiede Dostoevskij com'era plausibile che egli potesse amare quei nuovi figli, dopo aver perso gli altri, e che potesse essere pienamente felice come una volta: «Ma certo, certo: il vecchio dolore, per un grande mistero della vita umana si trasforma a poco a poco in tenera gioia serena; al fervido sangue giovanile succede la mite e placida vecchiaia: […]». Giobbe amava il tramonto e gli obliqui raggi del sole, i commossi ricordi, le care immagini di una lunga via benedetta, ma sopra ogni cosa la divina verità: «La mia vita è al termine e lo sento, eppure in ognuno di questi ultimi giorni sento come la vita terrena già si stia congiungendo a una nuova eterna, ignota, una prossima vita, il cui presentimento fa trepidare la mia anima di entusiasmo, splendere il mio spirito e piangere di gioia il mio cuore.». [Brani tratti da Dostevskij F.M., I fratelli Karamazov, traduz. di Alfredo Polledro, introduz. di Eraldo Affinati, Grandi Tascabili Economici Newton, Newton e Compton editori, Roma 2010].

Trovo così bello questo libro di “Giobbe” (lo considero come vera grande letteratura drammatica), che desidero farne una integrale sintesi antologica. è stato scritto: «L'ignoto autore di questo capolavoro universale è il più grande poeta della Bibbia». Giobbe è un sapiente sceicco arabo «scelto a protagonista di un dramma angoscioso per l'umanità» che ha a che fare con la «sofferenza dell'innocente» e con «il valore inestimabile della sofferenza nel piano divino di salvezza». Come abbiamo già detto, col permesso di Dio, Giobbe è sottoposto da Satana a prove durissime e, prima, si pone in polemica con Dio ma poi – comprendendo che Dio non può essere ingiusto – accetta con fede il mistero delle sue azioni. [Brani tratti da La Sacra Bibbia – Antico Testamento, Edizione Ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana – CEI S.R.L. per il Testo Sacro, Roma 1974]

In 1 Virtù e felicità di Giobbe., si racconta di Giobbe: «uomo integro e retto, temeva Dio ed era alieno dal male», il quale aveva sette figli e tre figlie ed «era il più grande fra tutti i figli d'oriente». In Dio permette che sia messo alla prova., Satana si scaglia contro Giobbe: i suoi buoi e le sue asine vengono predate, un fuoco divino divora pecore e guardiani, i Caldei rubano i cammelli, e figli e le figlie – mentre stavano mangiando e bevendo – muoiono a causa della rovina della casa investita da un vento impetuoso: «Allora Giobbe si alzò e si stracciò le vesti, si rase il capo, cadde a terra, si prostrò e disse: “Nudo uscii dal seno di mia madre, / e nudo vi ritornerò. / Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, / sia benedetto il nome del Signore!”. / In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di ingiusto.».

In 2 Malattia di Giobbe., Satana si ripresenta al Signore, che gli dice: «Egli è ancora saldo nella sua integrità; tu mi hai spinto contro di lui, senza ragione, per rovinarlo.», ma Satana gli risponde che sarebbe cambiato se soltanto lo avesse «toccato nell'osso e nella carne»; il Signore restituì Giobbe nelle mani di Satana che lo colpì con «una piaga maligna, dalla pianta dei piedi alla cima del capo» ma Giobbe disse alla moglie: «Se da Dio accettiamo il bene perché non dovremmo accettare il male?». In Tre amici vanno a vistare Giobbe., i tre dotti amici di Giobbe, Elifaz, Bildad e Zofar, sono partiti dalle loro contrade e raggiungono il vecchio amico con lo scopo di «condolersi con lui e consolarlo»; si stracciano le vesti, si cospargono di cenere e per sette giorni e sette notti si siedono accanto a Giobbe.

In 3 Lamento di Giobbe., il vecchio così colpito si lagna: «[…] / Perisca il giorno in cui nacqui / e la notte in cui si disse: “è stato concepito un uomo!” / […] / E perché non sono morto fin dal seno di mia madre / e non spirai appena uscito dal grembo? / Perché due ginocchia mi hanno accolto / due mammelle mi hanno allattato? / Sì, ora giacerei tranquillo, / dormirei e avrei pace. / […] / Oppure, come aborto nascosto, più non sarei/ come i bimbi che non hanno visto la luce. / […] Perché dare la luce a un infelice / e la vita a chi ha l'amarezza nel cuore, / a quelli che aspettano la morte e non viene, / che la cercano più di un tesoro, / che godono alla vista di un tumulo, / gioiscono se possono trovare una tomba… / […] / Non ho pace, non ho requie, / non ho riposo e viene il tormento!».

In 4 primo discorso di Elifaz., l'amico incoraggia e rimprovera Giobbe: «[…] / Ecco, tu hai istruito molti / e a mani fiacche hai ridato vigore; / le tue parole hanno sorretto chi vacillava / e le ginocchia che si piegavano hai rafforzato. / Ma ora questo accade a te e ti abbatti; / capita a te e ne sei sconvolto. / […]». In 5 Elifaz invita Giobbe a rifugiarsi in Dio., l'amico insiste impietoso: «[…] / Felice l'uomo che è corretto da Dio: / perciò tu non sdegnare la correzione dell'Onnipotente, / perché egli fa la piaga e la fascia, / ferisce e la sua mano risana. / […]».
In 6 Risposta di Giobbe., amaramente gli risponde il vecchio infelice: «[…] / Oh, mi accadesse quello che invoco, / e Dio mi concedesse quello che spero! / Volesse Dio schiacciarmi, / stendere la mano e sopprimermi! / […] / La mia forza è forza di macigni? / La mia carne è forse di bronzo? / Non c'è proprio aiuto per me? / Ogni soccorso mi è precluso? / […]». In 7 Giobbe si sfoga con Dio., il vecchio è scoraggiato e quasi irritato: «[…] / Ricoperta di vermi e croste è la mia carne, / raggrinzita è la mia pelle e si disfà. / I miei giorni sono stati più veloci d'una spola, / sono finiti senza speranza. / […] / Ma io non terrò chiusa la bocca, / parlerò nell'angoscia del mio spirito, / mi lamenterò nell'amarezza del mio cuore! / […] / Se ho peccato, che cosa ti ho fatto, / o custode dell'uomo? / Perché m'hai preso a bersaglio / e ti son diventato di peso? / Perché non cancelli il mio peccato / e non dimentichi la mia iniquità? / Ben presto giacerò nella polvere, / mi cercherai, ma più non sarò!».

In 8 Discorso di Bildad., il secondo amico prende a parlare a Giobbe col tono del primo amico: «[…] / Dunque, Dio non rigetta l'uomo integro, / e non sostiene la mano dei malfattori. / Diffonderà di nuovo sulla tua bocca il sorriso / e sulle tue labbra la gioia. / I tuoi nemici saran coperti di vergogna / e la tenda degli empi più non sarà.». In 9 Risposta di Giobbe., il vecchio infelice continua a lagnarsi di Dio: «[…] / Egli come in una tempesta mi schiaccia, / moltiplica le mie piaghe senza ragione, / non mi lascia riprendere il fiato, / anzi mi sazia di amarezze. / […] / Sono innocente? Non lo so neppure io, / detesto la mia vita! / Per questo io dico: “è la stessa cosa”; / egli fa perire l'innocente e il reo! / […] / Allontani da me la sua verga / sì che non mi spaventi il suo terrore: / allora io potrò parlare senza temerlo, / perché così non sono in me stesso.». In 10 Lamento di Giobbe.,  il povero vecchio continua: «Stanco io sono della mia vita! / Darò libero sfogo al mio lamento, / parlerò nell'amarezza del mio cuore. / Dirò a Dio: Non condannarmi! / Fammi sapere perché mi sei avversario. / […] / Le tue mani mi hanno plasmato e mi hanno fatto / integro in ogni parte; vorresti ora distruggermi? / Ricordati che come argilla mi hai plasmato / e in polvere mi farai tornare. / […] / Perché tu mi hai tratto dal seno materno? / Fossi morto e nessun occhio m'avesse mai visto? / Sarei come se non fossi mai esistito; / dal ventre sarei stato portato alla tomba! / […]».

In 11 Discorso di Zofar., tono e parole sono simili a quelli dei due amici precedenti: «[…] / Ora, se a Dio dirigerai il cuore / e tenderai a lui le tue palme, / se allontanerai l'iniquità che è nella tua mano / e non farai abitare l'ingiustizia nelle tue tende, / allora potrai alzare la faccia senza macchia / e sarai saldo e non avrai timori / perché dimenticherai l'affanno / e te ne ricorderai come di acqua passata; / […]». In 12 Risposta di Giobbe., l'infelice risponde, dimostrando di avercela sempre con Dio: «[…] / Egli ha in mano l'anima di ogni vivente / e il soffio di ogni carne umana. / […] / Ecco, se egli demolisce, non si può ricostruire, / se imprigiona uno, non si può liberare. / Se trattiene le acque, tutto si secca, / se le lascia andare, devastano la terra. / Presso di lui c'è potenza e sagacia, / a lui appartiene l'ingannato e l'ingannatore. / […]». In 13 Giobbe spera comprensione da Dio., l'infelice rivolgendosi a Dio cambia tono: «[…] / Quel che sapete voi; / non sono da meno di voi. / Ma io all'Onnipotente vorrei parlare, / a Dio vorrei fare rimostranze. / […] / Voglio afferrare la mia carne con i denti, / e mettere sulle mie mani la mia vita. / Mi uccida pure, non me ne dolgo; / voglio solo difendere davanti a lui la mia condotta! / […] / Perché mi nascondi la tua faccia / e mi consideri come un nemico? / Vuoi spaventare una foglia dispersa nel vento / e dar la caccia a una paglia secca? / […] / Intanto io mi disfò come legno tarlato / o come vestito corroso da tignola.». In 14 Brevità della vita umana., Giobbe continua: «L'uomo, nato di donna, / breve di giorni e sazio d'inquietudine, / come un fiore spunta e avvizzisce, / fugge come l'ombra e mai si ferma. / […] / Se i suoi giorni sono contati / se il numero dei suoi mesi dipende da te, / se hai fissato un termine che non può oltrepassare, / distogli lo sguardo da lui e lascialo stare / finché abbia compiuto, come un salariato, la sua giornata! / […] / Oh, se tu volessi nascondermi nella tomba, / occultarmi, finché sarà passata la tua ira, / fissarmi un termine e poi ricordarti di me! / […] / Tu lo abbatti per sempre ed egli se ne va, / tu sfiguri il suo volto e lo scacci. / Siano pure onorati i suoi figli, non lo sa; / siano disprezzati, lo ignora! / Soltanto i suoi dolori egli sente / e piange sopra di sé.».

In 15 Secondo discorso di Elifaz., continuano le rimostranze dell'amico: «[…] Non io, ma la tua bocca ti condanna / e le tue labbra attestano contro di te. / Sei forse tu il primo uomo che è nato, / o, prima dei monti, sei venuto al mondo? / […]». E in 16 Risposta di Giobbe., così risponde il povero vecchio: «[…] / Ora però egli m'ha spossato, fiaccato, / […] / La sua collera mi dilania e mi perseguita; / digrigna i denti contro di me, / il mio nemico su di me aguzza gli occhi. / […] / Dio mi consegna come preda all'empio, / e mi getta nelle mani dei malvagi. / Me ne stavo tranquillo ed egli mi ha rovinato, / mi ha afferrato per il collo e mi ha stritolato; / ha fatto di me il suo bersaglio. / I suoi arcieri mi circondano; / mi trafigge i fianchi senza pietà, / versa a terra il mio fiele, / mi apre ferita su ferita, / mi si avventa contro come un guerriero. / […] / La mia faccia è rossa per il pianto / […] / O terra, non coprire il mio sangue / e non abbia sosta il mio grido! / […]». In 17 Nuovi gemiti., il lamento di Giobbe continua senza soste: «Il mio spirito vien meno, / i miei giorni si spengono; / non c'è per me che la tomba! / […] / Si offusca per il dolore il mio occhio / e le mie membra non sono che ombra. / […] / Se posso sperare qualche cosa, la tomba è la mia casa / nelle tenebre distendo il mio giaciglio. / Al sepolcro io grido: “Padre mio sei tu!”, / e ai vermi: “Madre mia, sorelle mie voi siete!” / […]».

In 18 Secondo discorso di Bildad., il dotto amico interpella Giobbe con rimprovero: «[…] Tu che ti rodi l'anima nel tuo furore, / forse per causa tua sarà abbandonata la terra / e le rupi si staccheranno dal loro posto? / […]». In 19 Risposta di Giobbe., amareggiato, Giobbe risponde: «Fino a quando mi tormenterete / e mi sopprimerete con le vostre parole? / Son dieci volte che mi insultate / e mi maltrattate senza pudore. / […] / Sappiate dunque che Dio mi ha piegato / e mi ha avviluppato nella sua rete. / Ecco grido contro la violenza, ma non ho risposta, / chiedo aiuto, ma non c'è giustizia! / Mi ha sbarrato la strada perché non passi / e sul mio sentiero ha disteso le tenebre. / Mi ha spogliato della mia gloria / e mi ha tolto dal capo la corona. / Mi ha disfatto da ogni parte e io sparisco, / mi ha strappato, come un albero, la speranza. / […] / Il mio fiato è ripugnante per mia moglie / e faccio schifo ai figli di mia madre. / […] / Pietà, pietà di me, almeno voi miei amici, / perché la mano di Dio mi ha percosso! / Perché vi accanite contro di me, come Dio, / e non siete mai sazi della mia carne? / […] / Io lo so che il mio Vendicatore è vivo / e che ultimo si ergerà sulla polvere! / Dopo che questa mia pelle sarà distrutta, / senza la mia carne, vedrò Dio. / […]».

In 20 Secondo discorso di Zofar., la musica non cambia: «[…] / Non sai tu che da sempre, / da quando l'uomo fu posto sulla terra, / il trionfo degli empi è breve, / e la gioia del depravato è d'un istante? / […]». In 21 Risposta di Giobbe., l'infelice Giobbe gli chiede di ascoltarlo: «[…] / Perché vivono i malvagi, / invecchiano, anzi sono potenti e gagliardi? / La loro prole prospera insieme con essi, / e i loro rampolli crescono sotto i loro occhi. / Le loro case sono tranquille e senza timori; / il bastone di Dio non pesa su di loro. / […] / Finiscono nel benessere i loro giorni/ e scendono tranquilli negli inferi. / […] / Uno muore in piena salute, / tutto tranquillo e prospero; / i suoi fianchi sono coperti di grasso / e il midollo delle sue ossa è ben nutrito. / Un altro muore con l'amarezza in cuore / senza aver mai gustato il bene, / Nelle polvere giacciono insieme / e i vermi li ricoprono. / […] / Non potete negare le prove, / che nel giorno della sciagura è risparmiato il malvagio / e nel giorno dell'ira egli la scampa. / […] / Egli sarà portato al sepolcro, / sul suo tumulo si veglia / e gli sono lievi le zolle della tomba. / […]».

In 22 Terzo discorso di Elifaz., l'amico fa a Giobbe alcune raccomandazioni circa il suo comportamento con Dio: «[…] / Su, riconciliati con lui e tornerai felice, / ne riceverai un gran vantaggio. / Accogli la legge dalla sua bocca / e poni le sue parole nel tuo cuore. / Se ti rivolgerai all'Onnipotente con umiltà, / […] / allora sarà l'Onnipotente il tuo oro / e sarà per te argento a mucchi. / Allora sì, nell'Onnipotente ti delizierai / e alzerai a Dio la tua faccia. / […]». In 23 Risposta di Giobbe., l'infelice risponde: «Ancor oggi il mio lamento è amaro / e la sua mano grava sopra i miei gemiti. / […] / Oh, potessi sapere dove trovarlo, / potessi arrivare fino al suo trono! / Esporrei davanti a lui la mia causa / e avrei piene le labbra di ragioni. / […] / Ma se vado in avanti, egli non c'è, / se vado indietro, non lo sento. / A sinistra lo cerco e non lo scorgo, / mi volgo a destra e non lo vedo. / […] / Alle sue orme si è attaccato il mio piede, / al suo cammino mi sono attenuto e non ho deviato; / dai comandi delle sue labbra non mi sono allontanato, / nel cuore ho riposto i detti della sua bocca. / […] / Dio ha fiaccato il mio cuore, / l'Onnipotente mi ha atterrito; / non sono infatti perduto a causa della tenebra, / né a causa dell'oscurità che ricopre il mio volto.». In 24 Baldanza degli empi., l'infelice Giobbe continua: «[…] / Quando non c'è luce, si alza l'omicida / per uccidere il misero e il povero; / nella notte si aggira il ladro / e si mette il velo sul volto. / L'occhio dell'adultero spia il buio / e pensa: “Nessuno mi osserva!”. / Nelle tenebre forzano le case, / di giorno se ne stanno nascosti: / non vogliono saperne della luce; / l'alba è per tutti loro come uno spettro di morte; / quando schiarisce, provano i terrori del buio fondo. / […]».

In 25 Terzo discorso di Bildad., molto breve, il dotto amico deplora il comportamento di Giobbe: «[…] / Come può giustificarsi un uomo davanti a Dio / e apparire puro un nato di donna? / Ecco la luna stessa manca di chiarore / e le stelle non sono pure ai suoi occhi: / quanto meno l'uomo, questo verme, / l'essere umano, questo bruco!». In 26 Ironica risposta di Giobbe., il vecchio infelice risponde: «[…] / Egli stende il settentrione sopra il vuoto, / tiene sospesa la terra sopra il nulla. / Rinchiude le acque dentro le nubi, / e le nubi non si squarciano sotto il loro peso. / […] / Ma il tuono della sua potenza chi può comprenderlo?». In 27 Ripetuta affermazione d'innocenza., il povero Giobbe insiste: «[…] / Lungi da me che io mai vi dia ragione; / fino alla morte non rinunzierò alla mia integrità. / Mi terrò saldo nella mia giustizia senza cedere, / la mia coscienza non mi rimprovera nessuno dei miei giorni. / […]». In 28 Elogio della sapienza., il pover'uomo s'interroga: «[…] / Ma la sapienza da dove si trae? / E il luogo dell'intelligenza dov'è? / L'uomo non ne conosce la via, / essa non si trova sulla terra dei viventi. / […] / Ma da dove viene la sapienza? / E il luogo dell'intelligenza dov'è? / è nascosta agli occhi di ogni vivente / ed è ignota agli uccelli del cielo. / […] / Dio solo ne conosce la via, / lui solo sa dove si trovi, / perché volge lo sguardo fino alle estremità della terra, / vede quanto è sotto la volta del cielo. / […] / e disse all'uomo: / “Ecco, temere Dio, questo è sapienza e schivare il male, questo è intelligenza”». In 29 Soliloquio di Giobbe., il vecchio continua a sentenziare: «Oh, potessi tornare com'ero ai mesi di un tempo, / ai giorni in cui Dio mi proteggeva, / quando brillava la sua lucerna sopra il mio capo / e alla sua luce camminavo in mezzo alle tenebre; / […] / Mi ero rivestito di giustizia come di un vestimento; / come mantello e turbante era la mia equità. / […]». In 30 Infelicità presente., Giobbe si lagna: «Ora invece si ridono di me / i più giovani di me in età, / i cui padri non avrei degnato / di mettere tra i cani del mio gregge. / […] / Ed ora io sono la loro canzone, / sono diventato la loro favola! / […] / Hanno demolito il mio sentiero, / cospirando per la mia disfatta / e nessuno si oppone a loro. / […] / I terrori si sono volti contro di me; / si è dileguata come vento, la mia grandezza / e come nube è passata la mia felicità. / […] / Mi ha gettato nel fango: / son diventato polvere e cenere. / Io grido a te, ma tu non mi rispondi, / insisto, ma tu non mi dai retta. / […] / Eppure aspettavo il bene ed è venuto il male, / aspettavo la luce ed è venuto il buio. / […] / La mia pelle si è annerita, mi si stacca / e le mie ossa bruciano dall'arsura. / La mia cetra serve per lamenti / e il mio flauto per la voce di chi piange.». In 31 Apologia di Giobbe., il vecchio esalta i suoi comportamenti: «[…] / Che parte mi assegna Dio di lassù, / che porzione mi assegna l'Onnipotente dall'alto? / Non è forse la rovina riservata all'iniquo / e la sventura a chi compie il male? / […] / mi pesi pure sulla bilancia della giustizia / e Dio riconoscerà la mia integrità. / […] / mai da solo ho mangiato il mio tozzo di pane, / senza che ne mangiasse l'orfano, / […] / Ho gioito forse della disgrazia del mio nemico? / […] / Oh, avessi uno che mi ascoltasse! / […]».

In 32 Intervento di Eliu., alla fine del suo discorrere, i tre amici cessano di rispondere a Giobbe poiché egli si ritiene giusto, ma si risveglia lo sdegno di Eliu contro Giobbe che pretende di aver  ragione di fronte a Dio: «[…] / Ho atteso, ma poiché non parlano più, / poiché stanno lì senza risposta, / voglio anch'io dire la mia parte, / anch'io esporrò il mio parere; / mi sento infatti pieno di parole, / mi preme lo spirito che è dentro di me. / […]». In 33 Dio ammaestra l'uomo con il dolore., Eliu dice a Giobbe: «Non hai fatto che dire ai miei orecchi / e ho ben udito il suono dei tuoi detti: / “Puro son io, senza peccato, / io sono mondo, non ho colpa; / ma egli contro di me trova pretesti / e mi stima mio nemico; / pone in ceppi i miei piedi / e spia tutti i miei passi!”. / Ecco, in questo ti rispondo: non hai ragione. / Dio è infatti più grande dell'uomo. / Perché ti lamenti di lui, / se non risponde a ogni tua parola? / […]». In 34 Secondo discorso., Eliu continua a dire: «[…] / E in verità Dio non agisce da ingiusto / e l'Onnipotente non sovverte il diritto! / […] / E tu osi condannare il Gran Giusto? / […] / Se egli tace, chi lo può condannare? / Se vela la faccia, chi lo può vedere? / Ma sulle nazioni e sugli individui egli veglia, / perché non regni un uomo perverso, / perché il popolo non abbia inciampi. / […]». In 35 Terzo discorso., Eliu continua a dire: «[…] / Si grida per la gravità dell'oppressione, / si invoca aiuto sotto il braccio dei potenti, / ma non si dice: “Dov'è quel Dio che mi ha creato, / che concede nella notte canti di gioia; / che ci rende più istruiti delle bestie selvatiche, / che ci fa più saggi degli uccelli del cielo?”. / Si grida, allora, ma egli non risponde / di fronte alla superbia dei malvagi. / […]». In 36 Quarto discorso., Eliu continua a celebrare Dio: «[…] / Ma se colmi la misura con giudizi da empio, / giustizia e condanna ti verranno addosso. / La collera non ti trasporti alla bestemmia, / la gravità dell'espiazione non ti faccia fuorviare. / Può forse farti uscire dall'angustia il tuo grido, / con tutti i tentativi di forza? / […] / Ricordati che devi esaltare la sua opera / che altri uomini hanno cantato. / […]». In 37 Inno all'onnipotenza di Dio., Eliu si esalta: «[…] / L'Onnipotente noi non lo possiamo raggiungere, / sublime in potenza e rettitudine / e grande per giustizia; egli non ha da rispondere. / Perciò gli uomini lo temono: / a lui la venerazione di tutti i saggi di mente.».

In 38 Intervento di Dio., finalmente il Signore risponde a Giobbe nel mezzo di un turbine: «[…] / Dov'eri tu quando ponevo le fondamenta della terra? / […] / Da quando vivi, hai mai comandato al mattino / e assegnato il posto all'aurora, / perché essa afferri i lembi della terra / e ne scuota via i malvagi? / […] / Fai tu spuntare a suo tempo la stella del mattino / o puoi guidare l'Orsa insieme con i suoi figli? / Conosci tu le leggi del cielo / o ne applichi le norme sulla terra? / […]». In 39 Meraviglie del mondo animale., Dio continua a parlare: «Sai tu quando figliano le camozze [femmine del camoscio] / e assisti al parto delle cerve? / […] / O al tuo comando l'aquila s'innalza / e pone il suo nido sulle alture? / […]». In 40 Umile risposta di Giobbe., il vecchio infelice dice rivolto al Signore: «[…] / Ecco sono ben meschino: che ti posso rispondere? / Mi metto la mano sulla bocca. / Ho parlato una volta, ma non replicherò, / ho parlato due volte, ma non continuerò.». Ma in Dio parla ancora., il Signore gli dice ancora: «Oseresti proprio cancellare il mio giudizio / e darmi torto per avere tu ragione? / […]». In 41 La forza del coccodrillo., Dio dice: «Ecco, la tua speranza è fallita / al solo vederlo uno stramazza. / […] / Nessuno sulla terra è pari a lui, / fatto per non aver paura. / Lo teme ogni essere più altero; / egli è il re su tutte le fiere più superbe.». In 42 Giobbe ritratta le sue parole., il vecchio ormai placato risponde al Signore: «Comprendo che puoi tutto / e che nessuna cosa è impossibile per te. / Chi è costui che, senza aver scienza, / può oscurare il tuo consiglio? / Ho esposto dunque senza discernimento / cose troppo superiori a me, che io non comprendo. / “Ascoltami e io parlerò. / io t'interrogherò e tu istruiscimi”. / Io ti conoscevo per sentito dire, / ma ora i miei occhi ti vedono. / Perciò mi ricredo / e ne provo pentimento su polvere e cenere.». In Reintegrazione di Giobbe., dopo che ha parlato con Giobbe, il Signore rimprovera Elifaz e gli ordina di prendere sette vitelli e sette montoni, di andare dal suo servo Giobbe e di offrirli in olocausto per non aver detto cose vere sul Signore. Fatto questo, il Signore ristabilisce Giobbe nello stato di prima, accrescendo del doppio ciò che aveva posseduto, benedicendo la nuova condizione più della prima, e dandogli anche sette figli e tre figlie: «Dopo tutto questo, Giobbe visse ancora centoquarant'anni e vide figli e nipoti di quattro generazioni. Poi Giobbe morì, vecchio e sazio di giorni.».
  
A proposito della narrazione di Giobbe, in modo condivisibile da tutti, Dostoevskij con entusiasmo scriveva: «Oh Signore, che libro e quali insegnamenti! Che libro è mai questa Sacra Bibbia, che portento e che forza furono dati con esso all’uomo, è come la raffigurazione del mondo e dell’uomo e dei caratteri umani, e tutto vi è nominato e indicato per i secoli dei secoli. E quanti misteri risolti e svelati!».

Vorrei infine ricordare Le leggende degli ebrei. III. Giuseppe, i figli di Giacobbe, Giobbe, a cura di Elena Loewenthal (Adelphi, 1999) e la sofferta meditazione sulla Parola nel pensiero ebraico che resiste anche a un silenzio di Dio che appare ostile. E Giobbe, gridando i suoi perché, lamentandosi e pregando, si appella a Dio nonostante i suoi silenzi e scrive Elena Loewenthal che, per questo motivo, Giobbe «è più sapiente, è più credente» rispetto ai discorsi dei suoi dotti amici.

P.S. Will Smith, in veste di attore e di produttore (con la sua casa di produzione Overbrook Entertainment), ha in cantiere un film “biblico” in chiave moderna, ispirato alla storia di  Giobbe, dal titolo Joe, sceneggiato da Eric Johnson e Paul Tamasy (candidati all’Oscar per “The Fighter”), e il regista potrebbe essere David O. Russell. Dallo stesso Tamasy, il prossimo film è stato definito una “dramedy”: «una commedia con un cuore molto drammatico», nella quale – come nel libro di Giobbe – Dio e Satana (che s'incontrano ogni 1000 anni) scommettono sulla vita di Joe, un uomo ricco di beni e di affetti (una moglie e dei bambini), il cui destino viene messo improvvisamente e insensatamente a repentaglio.