venerdì 30 dicembre 2011

Lucy Ball, la rossa Regina della Commedia



Lucille Ball



Nata Lucille Désirée Ball, vide la luce a Jamestown (NY) il 6 agosto di cento anni addietro (nel 1911). Fu un concentrato insuperabile di comicità, impastata di mimica clownesca, ironico istrionismo e fascino femminile.

Famosissima soprattutto nella TV, fu non solo mito ma icona oltre che pioniera del mondo della comunicazione e della produzione televisiva; portò per tutto il mondo i suoi programmi sempreverdi, che sono stati visti da centinaia di milioni di spettatori e che hanno contribuito alla rivoluzione del costume e del linguaggio (è stata celebrata da TV Guide come «the Greatest TV Star of All Time»).

Gli anni Trenta possono, in effetti, considerarsi nel cinema e nel teatro l'«età dell'oro» per le attrici comiche: oltre a Lucille Ball, suscitarono le risate del pubblico anche Carole Lombard, Ginger Rogers, Joan Blondell, Martha Raye, Fanny Brice e la grande Mae West.

Dai caratteristici capelli rossi e di strepitosa bellezza, esordì come modella in una rivista di Florenz Ziegfeld facendo poi il salto nel cinema di serie B con una particina ne Il museo degli scandali (Roman Scandals) (1933) di Frank Tuttle. Seguirono i ruoli brillanti in alcuni film di Ginger Rogers (che era una sua lontana cugina) e di Fred Astaire, e in Servizio in camera (Room Service) (1938) di William A. Seiter con i fratelli Marx. Si fece notare, però, anche in ruoli drammatici sia per il ritmo recitativo sia per le pause sceniche: in Palcoscenico (Stage Door) (1937) di Gregory La Cava con Katharine Hepburn, in Dedizione (The Big Street) (1942) di Irving Reis con Henry Fonda, nel quale interpretava una cantante di nightclub paralizzata ma egoista e cinica mentre Fonda era un autista di autobus ingenuo e onesto che l'amava disperatamente, e ne Lo sparviero di Londra (Lured) (1947) di Douglas Sirk con George Sanders, un noir pieno di atmosfera nel quale era una ballerina che aiutava la polizia a catturare un serial killer. 

Nel 1940 aveva sposato Desi Arnaz, di sei anni più giovane, un musicista americano di origini cubane, noto per la sua orchestra di musica latino–americana; divennero inseparabili e iniziò un fruttuoso sodalizio che culminò nella situation–come­dy televisiva Lucy ed io (I Love Lucy), adattata dalla sua famosissima trasmissione radiofonica My Favorite Husband. La serie fu leader di ascolti durante tutti i 180 episodi presentati tra il 1951 e il 1957, scintillanti per humour e vivacità, e divenne un clas­sico della televisione allora agli esordi (il "nuovo giocattolo" in grado di mettere in crisi il cinema mondiale): con verve e simpatia, interpretava una mamma pasticciona ma accattivante alle prese con la famiglia e con le sue aspirazioni artistiche. Desi Arnaz interpretava quasi se stesso: era il direttore di un'orchestra cubana di nome "Ricky" Ricardo. Si può dire che in un sottile gioco d'immedesimazione, guardandosi allo specchio, le famiglie nel mondo seguivano la serie che raccontava la storia d'amore e il ménage familiare della coppia televisiva più famosa dello spettacolo, e contribuirono non poco a salvare il traballante matrimonio dei due, consci di rappresentare un prototipo coniugale indistruttibile. Seguì poi, per tre anni (1957–60) e con immutato successo, The Lucy–Desi Comedy Hour. Tutti ricordiamo Lucy e Desi insieme nel divertentissimo 12 metri d'amore (The Long, Long Trailer) del 1954 di Vincente Minnelli, tragicomica avventura di due campeggiatori alle prese con una roulotte gigantesca; fu considerata dai critici, però, come un episodio più ampio di "Lucy ed io".

Simpatizzante di sinistra, nel 1953 la Ball fu accusata di essere comunista; il marito Desi Arnaz registrando nello studio televisivo una puntata di "Lucy ed io", presentò la moglie dicendo: «La sola cosa rossa di Lucy sono i suoi capelli, e persino questo non è considerato legittimo». Ricevettero dal pubblico un'ovazione.

Matrimo­nio e sodalizio finirono con il divorzio nel 1960, avvenuto due mesi dopo la registrazione dell'episodio finale della serie. Ebbero due figli: Desi jr., anch'egli attore e musicista (fu legato da una seria relazione con Liza Minnelli), e Lucie, che recitò il ruolo della celebre Elizabeth Short nel film TV Chi è Black Dahlia?, divenendo una famosa Dalia Nera.

Nel 1961 Lucy Ball sposò l'attore comico Gary Morton, più giovane di tredici anni, conosciuto durante la sua performance nel musical di Broadway Wildcat (era il secondo marito della co–protagonista Paula Stewart). Rimasero insieme per quasi trent'anni, sino alla morte di lei.

Lucy fu accanto a Bob Hope in Un adulterio difficile (The Facts of Life) (1960) di Melvin Frank – esilarante commedia ambientata in un motel ove due aspiranti adulteri desistono dal loro proposito di tradimento per tutta una serie di comiche avventure e in Critic's Choice (Mia moglie ci prova) (1963) di Don Weis, storia di un inflessibile critico teatrale di New York che recensisce con durezza la brutta commedia scritta dalla moglie, con tutto quel che segue.

Nel 1962 la Ball ritornò al successo televisivo con The Lucy Show, che catalizzò l'interesse del pubblico sino al 1968. La serie televisiva cambiò quindi nome e, con Here's Lucy, l'attrice recitò insieme ai figli prolungando il suo successo sino al 1974. In quello stesso anno partecipò al film Mame di Gene Saks, tratto dal musical di Broadway di Jerry Herman.

Nel 1986 ritornò poi alla televisione con la sit–com Life with Lucy, che non fu però più premiata dall'amore del suo pubblico, divenuto ormai troppo smaliziato (la serie fu interrotta dopo appena otto episodi e questa interruzione procurò all'attrice una brutta depressione).

Ebbe tredici nomination all'Emmy Award e ne vinse quattro; si aggiudicò inoltre numerosi altri importanti premi nazionali: Film Crystal Award, Golden Globe Cecil B. DeMille Award, Lifetime Achievement Award from the Kennedy Center Honors e the Governors Award from the Academy of Television Arts & Sciences.

Lucy Ball fu anche donna d'affari e produttore: insieme con Desi Arnaz, nel 1957, aveva rilevato gli studi della RKO, creando la Desilu che contribuì a spostare la produzione degli show televisivi da New York a Hollywood e che rivoluzionò alcune tecniche della neonata televisione (ebbe il merito di dare al pubblico presente in studio l'illusione, quasi la realtà, di partecipare al programma).

Morì a Beverly Hills il 26 aprile del 1989 per un aneurisma dissecante dell'aorta, trattato felicemente con un intervento di cardiochirurgia ma recidivato dopo qualche settimana.

Inizialmente fu seppellita presso il Cimitero di Hollywood Hills in Los Angeles ma nel 2002 i suoi resti furono traslati per desiderio dei figli nel Lake View Cemetery in Jamestown (NY), la sua città natale, che le ha dedicato il "The Lucille Ball Little Theater" e che ha sponsorizzato il "Lucille BallDesi Arnaz Center Museum".


Il presidente degli Stati Uniti George Bush il 6 luglio del 1989 le ha concesso postuma la Medaglia Presidenziale della Libertà.

giovedì 29 dicembre 2011

Jean Harlow, il biondo argento vivo di Hollywood



Jean Harlow


Nel mese di marzo di cento anni addietro (il 3 marzo del 1911) a Kansas City nasceva Jean Harlow (pseudonimo di Harlean Carpenter), attrice brillante statunitense che s'impose per l'ironico sex appeal e la gioiosa sensualità.

Figlia di un dentista, dopo il divorzio dei genitori si trasferì a Hollywood e fu spinta dalla madre sulla strada del cinema (e proprio il nome di lei, assunse come pseudonimo, debuttando in alcune comiche di Stanlio e Ollio). Malgrado l'aspetto di bionda aggressiva, era timida e aveva aspirazioni borghesi (un matrimonio felice e una famiglia serena), nonostante un matrimonio sbagliato a sedici anni con il ricco Charles McGrew finito male.

Il successo la travolse nel 1931, quando il giovanissimo regista–produttore Howard Hughes la scritturò per la versione sonora del film Gli angeli dell'inferno (Hell's Angels); alla prima, il pubblico straripante e la critica restarono stregati dall'arguzia, dalla solare fisicità, dalla sfrontata carica erotica velata d'ingenuità e dalla tenera fragilità di quella nuova attrice dai capelli color del platino. Adottata dai grandi studios di Hollywood, recitò accanto a James Cagney nel noir Nemico pubblico (The Public Enemy) (1931) di William A. Wellman – scrisse Graham Greene: «Attrice dotata di una tecnica straordinaria... usava il seno alla stessa maniera di un uomo che maneggia una pistola» (www.cinekolossal.com) – ; fu poi accanto a Robert Williams nel film La donna di platino (The Platinume Blonde) (1932) di Frank Capra: fece impallidire la coprotagonista Loretta Young meritandosi l'appellativo di «The Blonde Bombshell».

Jean Harlow divenne allora un'icona e molte donne americane imitarono il suo stile, i suoi abiti, la sua sfumatura di biondo, le sue sopracciglia rasate e disegnate con la matita, il suo rifiuto del reggiseno. La sua bellezza esuberante e il suo fisico atletico (che l'attrice scolpiva con sport e dieta vegetariana, rinunziando a fumo e alcolici) le consentivano di vestire quegli aderenti abiti di lamé disegnati appositamente per lei e di posare o recitare nuda.

Scritturata dalla MGM, nel 1932 sposò il produttore Paul Bern, un introverso intellettuale più grande di lei, che a due mesi dalle nozze si uccise con un colpo di pistola alla testa. Lo scandalo fu enorme, e crudeli furono i numerosi articoli di stampa che frugarono senza pietà tra eventi veri e presunti del breve matrimonio di Jean.

Nonostante l'enorme dolore, la Harlow si rifugiò nel lavoro e in pochi anni interpretò più di dieci film per la MGM, recitando con tutti i mostri sacri del cinema e mostrando una crescente sensibilità interpretativa e un discreto perfezionamento dello stile. Da ricordare: Lo schiaffo (Red Dust) (1932) di Victor Fleming con Clark Gable (col quale ebbe una rovente relazione sentimentale); Red–Headed Woman (1932) di Jack Conway, ove rese la sua migliore interpretazione; Pranzo alle otto (Dinner at Eight) (1933), commedia sofisticata di George Cukor, considerato «il regista delle dive» e l'artefice di un «cinema per la donna»; Sui mari della Cina (China Seas) (1935) di Tay Garnett con Gable; Tentazione bionda (Reckless) (1935) di Victor Fleming con William Powell; Riffraff (1936) di Robert Z. Leonard con Spencer Tracy; La donna del giorno (Libeled Lady) (1936) di Jack Conway con William Powell; e Proprietà riservata (Personal Property) (1937) di W.S. Van Dyke II con Robert Taylor. I suoi film subirono spesso le proteste e la censura dei puritani e dei circoli più moralisti.

Schiavizzata dalla madre e dal patrigno (il dandy italo–americano Marino Bello, interessato soltanto al denaro), Jean soffriva nella vita privata ma trionfava sullo schermo ove talora ironizzava sulle sue vicende personali: nel comico Argento vivo (Bombshell) (1933), diretto da Victor Fleming, interpretava una diva chiusa nel suo successo, oppressa dal suo agente che la costringeva agli scandali per aumentare la sua popolarità e tormentata da parenti parassiti.

Nel 1934 aveva, intanto, sposato l'anziano operatore cinematografico Hal Rosson: il matrimonio durò purtroppo meno di un anno; ritornò allora a vivere con la madre, che programmava la sua vita e la sua carriera in modo autoritario. Sembrava aver trovato finalmente amore e tranquillità con William Powell (grande star degli anni trenta), quando durante le riprese del film Saratoga (1937) di Jack Conway, sempre con Clark Gable, a causa di una nefrite acuta ebbe un malore ed entrò in coma; morì dopo alcuni giorni per uremia presso il Good Samaritan Hospital: era il 7 giugno del 1937, aveva appena compiuto ventisei anni e brillava all'apice della carriera (il film fu completato grazie a una controfigura e a un'attrice abile nell'imitare il suo timbro di voce lievemente nasale).

Il funerale fu un vero evento mediatico e Powell pose sulla sua bara una corona di fiori con un biglietto su cui era scritto: «Buonanotte tesoro». Seppellita nel cimitero di Forest Lawn Glendale (a Los Angeles), sulla sua lapide anonima la madre fece scrivere soltanto «Our baby» (a lei, Jean lasciò un enorme patrimonio calcolabile sul milione di dollari di allora).

A riprova del fatto che dietro la maschera di bomba sexy si nascondeva una donna intelligente, nel 1934 scrisse il romanzo erotico Today is Tonight – A novel sui leggendari anni trenta, bloccato dalla MGM e pubblicato postumo soltanto negli anni sessanta. Nel 1965 Gordon Douglas diresse il film Jean Harlow, la donna che non sapeva amare con Carroll Baker, che ebbe successo nonostante la Baker sembrasse inadeguata per l'età più avanzata rispetto a quella di Jean.


Si racconta che Marilyn Monroe – che amava molto Jean Harlow e la sua personalità di vamp ingenua – volle che a decolorare i suoi capelli fosse proprio Pearl Porterfield, l'anziana parrucchiera della Harlow. ("Persinsala.it", 10 marzo 2011)


giovedì 22 dicembre 2011

Pietro De Vico, caratterista di bravura strepitosa



Pietro De Vico


A Napoli cento anni addietro (il 21 febbraio del 1911) nasceva Pietro De Vico da Adolfo e Carmela Mollo, in una famiglia che fu la sua scuola d'arte (il nonno era un musicista, il padre un amante del teatro e lo zio un professore di musica), in un ambiente che fu uno straordinario humus culturale.

Ancora bambino, debuttò nella compagnia di Vincenzino Scarpetta con la farsa Miseria e nobiltà di Eduardo Scarpetta, interpretando Peppiniello. Negli anni trenta (era appena ventenne) lavorò nella compagnia di avanspettacolo del padre insieme ai fratelli Antonio e Mario (il "Trio De Vico"), che fu per lui una vera palestra di recitazione. Dotato di notevole senso comico e di fantastiche capacità mimiche, s'ispirò per far ridere alla balbuzie di Ciccio De Rege (con il quale aveva lavorato).

Si è detto anche che avesse riscoperto la macchietta del "Balbuziente" di Trilussa: certamente divenne il balbuziente per antonomasia. Una mitica serie televisiva per ragazzi, La nonna del corsaro nero (andata in onda tra il 1961 e il 1966), gli diede una popolarità enorme: De Vico era il balbuziente e pauroso nostromo Nicolino; la moglie Anna Campori, cantante d'operetta e attrice romana sposata nel 1937, era Giovanna – «la nonna che è più forte di un bicchiere di gin» –; e Giulio Marchetti interpretava il maggiordomo Battista, compito e fedele.

In tarda età, De Vico è entrato nella prosa impegnata dalla porta principale: nel 1962, con Eduardo De Filippo, in Natale in casa Cupiello, nella parte di Nennillo (sostituendo Peppino De Filippo); fu poi chiamato dal grande regista salernitano Antonio Calenda, facendosi notare in Farsa (1981) di Antonio Petito con Pupella Maggio, Cinecittà (1984) di Pier Benedetto Bertoli e dello stesso Calenda con Anna Campori e Rosalia Maggio, Aspettando Godot (1987) di Beckett con Mario Scaccia, Pupella Maggio e Sergio Castellitto, e nel 1988 come interprete de L'aria del continente di Nino Martoglio con Nino Frassica e di Alta distensione da Achille Campanile con Anna Campori. Dal 1971, e per molto anni, recitò nel teatro napoletano insieme a Luisa Conte, Nino Veglia e Ugo D'Alessio, avendo grande successo (trionfò soprattutto con Annella di Portacapuana, che inaugurò il nuovo teatro Sannazzaro di Napoli, soprannominato la "Bomboniera di via Chiaia").

Nel cinema è stato un superbo caratterista e una duttile spalla comica (ad esempio con Totò) in più di settanta film, alcuni considerati impropriamente di serie B, quali: Totò cerca casa (1949) di Steno e Monicelli, Il giudizio universale (1961) di De Sica, Totò diabolicus (1962) di Steno, Che fine ha fatto Totò Baby? (1964) di Alessi, Brancaleone alle crociate (1970) di Monicelli, Sgarro alla camorra (1973) di Fizzarotti, La mazzetta (1978) di Corbucci, La messa è finita (1985) di Moretti, Scandalo segreto (1990) di Monica Vitti, e Ladri di futuro (1991) di Enzo De Caro.

De Vico morì a Roma il 10 dicembre del 1999 (due giorni dopo Pupella Maggio): aveva ottantotto anni, e sette anni prima era stato colpito da un ictus. In un articolo dal titolo "Addio De Vico, sorriso del varietà", comparso sul Corriere della Sera in occasione della sua morte (11 dicembre 1999), Maurizio Porro scriveva: «Il teatro napoletano perde un altro protagonista: dall'avanspettacolo arrivò fino a Beckett. Si spengono i riflettori, traballa il varietà, crolla la passerella: è morto un pilastro, Pietro De Vico, figlio d'arte... Una vita passata a strabuzzare gli occhi, a prender papere, a fare il tonto, la spalla, il balbuziente, secondo le regole dell'avanspettacolo tramandate dalla commedia dell'arte... Era quel mondo sublime e plebeo amato da Fellini, le passerelle del "felicibumta", le paillettes usate, le soubrettine del cappuccino e brioche, treni di terza classe, paghe scarse. ... nel DNA di De Vico, un artista purosangue a tre colori, il comico, il tragico e il folle, c'era qualcosa di eterno, una risata la cui eco ci seguirà.».

Ha scritto Bruno Gambarotta: «Forse la nostalgia non è più quella di un tempo, ma i ragazzi di cinquant'anni hanno in comune il ricordo di un mitico programma della Tv dei Ragazzi, "Giovanna, la nonna del Corsaro Nero"... L'autore dei testi di "Giovanna", il grande umorista Vittorio Metz, ambientava gli episodi (recitati, cantati e ballati) nelle epoche e nei luoghi più vari: nel regno degli Incas, al tempo di Robin Hood, nel regno di Atlantide, fra i Thugs di salgariana memoria, nella Spagna dei toreri, in Scozia. Ogni volta costumista e scenografo si lanciavano in una maniacale documentazione neanche si fosse trattato di un film storico...».


Nel suo libro "I programmi che hanno cambiato l'Italia" (1994, Feltrinelli), dedicato a quarant'anni di televisione, Walter Veltroni ha riservato un commosso capitolo ai protagonisti di questa indimenticabile serie televisiva. ("Persinsala.it", 24 febbraio 2011)

mercoledì 21 dicembre 2011

Merle Oberon, attrice di leggendaria esotica bellezza



Merle Oberon


Nel febbraio di cento anni addietro (il 18 – o secondo altre fonti il 19 – del 1911) nasceva a Bombay (oggi Mumbai) Merle Oberon, nata Estelle Merle O'Brien Thompson.

Britannica ma naturalizzata statunitense, fu un'attrice dal fascino esotico molto amata dal pubblico (il suo nome è stato iscritto nella Walk of Fame di Hollywood).

Nacque in India da padre irlandese (un ingegnere ferroviario) e da Charlotte, una inglese dalle origini Māori–cingalesi; il documentario australiano "The Trouble with Merle" (2002) ha sostenuto però che Merle avesse avuto un padre diverso e fosse in effetti nipote di Charlotte e figlia biologica di Costance (partorita da Charlotte a 14 anni).

Dopo la morte prematura del padre (aveva soltanto tre anni) trascorse l'infanzia con la madre in miseria, prima a Bombay e poi a Calcutta, ove frequentò la Calcutta Amateur Dramatic Society.

All'inizio della sua carriera ebbe grandi difficoltà, in quanto considerata una mezzosangue: ciò la portò a nascondere, sempre e strenuamente, le sue origini (sostenne di essere nata in Tasmania, Australia). Trasferitasi in Europa, a Nizza, conobbe il noto regista–produttore inglese Rex Ingram (1892–1950), attivo tra il 1916 e il 1932, che la scritturò per una piccola parte: era rimasto fulminato dalla particolare grazia femminile e dalla fotogenia della giovanissima Merle.

Andata in Inghilterra nel 1928, lavorò in un night club con il nome d'arte di "Queenie" (preso in onore della regina Mary che aveva visitato l'India nel 1911) e continuò a recitare in piccolissimi ruoli nel cinema. La sua carriera prese il volo quando conobbe il grande regista anglo–ungherese Alexander Korda (1893–1956), che con lo pseudonimo di Merle Oberon la chiamò a recitare per Le sei mogli di Enrico VIII (The Private Life of Henry VIII) (1933) insieme con Charles Laughton – interpretava Anna Bolena – e per La primula rossa (The Scarlet Pimpernel) (1934) con Leslie Howard (del quale s'innamorò).

Nel 1939 sposò Korda (divorziò nel 1945) e insieme al marito fece il grande salto per Hollywood sotto l'ala protettrice del produttore Samuel Goldwyn: interpretò prima L'angelo delle tenebre (The Dark Angel) (1935) di Sidney Franklin con Fredric March (aggiudicandosi una nomination agli Oscar come migliore attrice non protagonista), poi il ruolo di Cathy in Cime tempestose (Wuthering Heights) (1939) di William Wyler (tra gli sceneggiatori, John Huston) con Laurence Olivier (che avrebbe voluto la compagna Vivien Leigh) e David Niven (col quale aveva avuto una seria relazione sentimentale). Il film era tratto dallo straordinario romanzo–poema di notevole forza fantastica, scritto dalla grande scrittrice inglese Emily Brontë e caratterizzato da una immaginazione tesa al sovrannaturale. Libro e film narrano l’amore romantico e tragico tra Catherine e Heathcliff (si tratta, in effetti, di un triangolo perché Catherine nutre anche affetto, seppur di natura molto diversa, per il marito Edgard Linton). Il film seppe rendere a meraviglia quest'amore cupo e allucinato, fatale e distruttivo, che spezza i cuori di tutti non lasciando spazio a nessuno, tutto distruggendo e calpestando intorno a sé con ferocia e disperazione, compresi gli stessi protagonisti. Merle Oberon interpretò alla grande una sensibile giovane donna in crisi con l'ordine stabilito, devastata da un amore violento, e armonizzò in modo intenso con la natura selvaggia e la brughiera solitaria (battuta dal vento, verdeggiante di muschio e fiorita di erica), che furono filmate in modo superbo creando uno scenario e un’atmosfera dal fascino irrepetibile.

Nel 1937, durante le riprese di Io, Claudio (I, Claudius), diretto da Josef von Sternberg e prodotto da Korda (aveva il ruolo di Messalina), la Oberon subì un terribile incidente che le lasciò delle vistose cicatrici al volto che dovette mascherare con uno spesso cerone (si parlò anche di un'allergia ai cosmetici). Seguì L'eterna armonia (A Song to Remember) (1945) di Charles Vidor con Paul Muni, in cui interpretava il ruolo della eccentrica scrittrice George Sand.

Dopo aver sposato nel 1945 Lucien Ballard (1908–1988), direttore della fotografia statunitense (aveva studiato una particolare tecnica di luce per eliminare i problemi del viso della moglie, conosciuta come "Obie") – divorziò nel 1949 – , Merle Oberon si era fidanzata con Giorgio Cini, figlio del nobile finanziere italiano Vittorio Cini e dell'attrice Lyda Borelli, e assistette di persona all'incidente aereo che ne provocò la morte subito dopo il decollo dall'aeroporto di Cannes (Vittorio Cini istituì in memoria del figlio la "Fondazione Cini", noto centro di arte e cultura).

La fine degli anni quaranta vide il declino di Merle Oberon: tra i film più importanti interpretati in seguito è da ricordare Désirée (1954) di Henry Koster con Marlon Brando e Jean Simmons, in cui l'attrice interpretava il ruolo di Joséphine de Beauharnais. Dagli anni cinquanta fece, inoltre, molta televisione.

Nel 1957 aveva sposato l'industriale italiano Bruno Pagliai (divorziò nel 1973), col quale visse in Messico, adottando due bambini. Dal 1975 sino alla sua morte visse con il quarto marito Robert Wolders, un attore televisivo olandese che divenne poi il compagno dell'attrice Audrey Hepburn.

Colpita da infarto, Merle Oberon moriva il 23 novembre del 1979 a Malibu, in California (si era ritirata dalle scene nel 1973).

Fu sepolta al Forest Lawn Memorial Park Cemetery di Glendale, nei pressi di Los Angeles.


Nel 1983 Charles Higham and Roy Moseley pubblicarono "An Autobiography of Merle Oberon" e nel 1895 Michael Korda (nipote di Alexander Korda) pubblicò un romanzo a metà tra realtà e finzione dal titolo "Queenie" (1985), divenuto un best–seller (diede origine a una miniserie televisiva nel 1987). ("Persinsala.it", 19 febbraio 2011)

martedì 20 dicembre 2011

Giorgio Prosperi, grande studioso dello spettacolo


Giorgio Prosperi
(La foto di Giorgio Prosperi è di Cristiana Cappelletti)

Cento anni addietro, il 17 febbraio del 1911, nasceva a Roma il regista e sceneggiatore, oltre che autore teatrale e televisivo, Giorgio Prosperi (morì a Roma il 25 aprile del 1997).

Iscrittosi al Partito Nazionale Fascista, si segnalò partecipando alla prima edizione dei Littoriali – manifestazioni culturali e sportive svoltesi in Italia tra il 1932 e il 1940 – con un panegirico su Mussolini, che faceva riferimento al Fascismo come a una categoria assoluta ed eterna. Passò poi come redattore–capo alla rivista "La Sapienza", organizzando nel 1935 un convegno in opposizione al neo–idealismo del filosofo Giovanni Gentile. Laureato in Lettere, Prosperi si faceva notare per una scrittura nobile e raffinata, anche se non priva di una certa retorica. Come critico cinematografico e teatrale, scrisse su "La Fiera Letteraria" e su "Cinema. Nuova serie", e per più di quarant'anni collaborò con "Il Tempo" di Roma.

Fu uno sceneggiatore di valore. Tra le sue numerosissime sceneggiature scritte tra il 1947 e il 1962, alcune primeggiano in modo particolare. Insieme con undici sceneggiatori (incluso Jean Cocteau) partecipò alla stesura del film italiano di Georg Wilhelm Pabst La voce del silenzio (1953) con Aldo Fabrizi, Cosetta Greco e Jean Marais. Sua, la sceneggiatura del commovente quarto episodio del film collettivo Siamo donne (1953), diretto da Luigi Zampa con Isa Miranda (scritto in collaborazione con Luigi Chiarini, lo stesso Zampa e Cesare Zavattini). Sua, la sceneggiatura del film italo–americano Stazione Termini (1953) di Vittorio De Sica con Jennifer Jones e Montgomery Clift, languida vicenda di un amore impossibile sceneggiata con Zavattini e Chiarini. Come dimenticare, inoltre, la sua collaborazione allo scriptum del grandissimo capolavoro di Luchino Visconti Senso (1954) con Alida Valli e Farley Granger (insieme con Carlo Alianello, Giorgio Bassani, Suso Cecchi d'Amico, lo stesso Visconti, e i grandi Tennessee Williams e Paul Bowles per i dialoghi inglesi della versione statunitense del 1968). Collaborò anche alla sceneggiatura di Estate violenta (1959) di Valerio Zurlini con Jean–Louis Trintignant ed Eleonora Rossi Drago (insieme con lo stesso Zurlini e con Suso Cecchi D'Amico).

Indimenticabili le sue regie teatrali di Liolà (1968) con Domenico Modugno (il quale scrisse delle musiche rimaste inedite) e de Il governo di Verre (1970) con Renzo Giovampietro, il quale lo ha poi ripreso in qualità di regista. A proposito di Pirandello visto da Andrea Camilleri (che, tra l'altro, nel 1967 aveva fatto una regia radiofonica di Liolà con Alberto Lionello e Mario Scaccia), si narra quest'aneddoto riportato dal club telematico dei fan di Andrea Camilleri (www.vigata.org): Prosperi sul "Tempo" aveva scritto: «Camilleri, per il suo lungo studio su Pirandello, le sue messe in scena pirandelliane, il fatto che è conterraneo di Pirandello, è l'unico regista in Italia che possa dargli del tu.»; Camilleri lo ringraziò, rispondendogli: «Guardi, Pirandello io l'ho visto una sola volta in vita mia quando avevo dieci anni e se dovessi rincontrarlo gli darei del vossia, anzi gli darei del voscenza, che da noi significa vostra eccellenza. Mai gli darei del tu.».

Notevoli sono anche le sceneggiature televisive di Prosperi; da ricordare soprattutto Vita di Michelangelo (1964) diretto da Silverio Blasi; Vita di Dante (1965) per la regia di Vittorio Cottafavi; Vita di Cavour (1967) di Piero Schivazappa; Il giovane Garibaldi (1973) diretto da Franco Rossi (la sceneggiatura è stata scritta insieme con Lucio Mandarà); e Canossa (1974) per la regia di Silverio Blasi. Prosperi fu anche un drammaturgo ricco di grande forza scenica: il suo dramma La congiura, rappresentato nella stagione 1959–60 per la regia di Luigi Squarzina, si meritò il premio Marzotto.

A lui, che si era fatta fama di grande studioso italiano nel campo dello spettacolo, è stato dedicato nel 2005 il libro "Sinceramente preoccupato di intendere. Sessant'anni di critica teatrale (1940–1996) di Giorgio Prosperi" (editore Bulzoni). Il nipote di Giorgio Prosperi, Diego Zucca, alla maniera del nonno, si è anch'egli dedicato alla scrittura. ("Persinsala.it", 17 febbraio 2011)

lunedì 19 dicembre 2011

Jean–Pierre Aumont, attore francese di grande charme



Jean–Pierre Aumont


Il 5 gennaio di cento anni addietro, nel 1911, nasceva a Parigi Jean–Pierre Aumont (vero nome Jean–Pierre Philippe Salomons), attore francese dal fascino indiscusso.

Apparteneva a una famiglia benestante con la passione per il teatro: il padre, commerciante olandese di origini ebraiche, era il proprietario de "La Maison du Blanc", prestigiosa catena di negozi di lino, ma lo zio paterno era il famoso attore Georges Berr (1867–1942), membro della Comédie–Française. Jean–Pierre sino all'età di 16 anni studiò dramma al Conservatorio di Parigi e iniziò la sua attività cinematografica all'età di 20 anni con il film Jean de la Lune di Jean Choux, insieme con Madeleine Renaud e Michel Simon. Per il suo aspetto piacevole e i suoi biondi capelli, nel 1934 fu scelto da Jean Cocteau per il ruolo di Oedipus ne La Machine infernale, diretto da Louis Jouvet.

Iniziò quindi la stagione dei successi nel grande cinema francese d'autore degli anni trenta; sono da ricordare: Il lago delle vergini (1934) di Marc Allégret con Michel Simon, tratto da un romanzo di Vicki Baum e sceneggiato da Jean–Georges Auriol con dialoghi di Colette; Maman Colibri (1937) di Georges de Chambry; Lo strano dramma del dottor Molyneux (1937) di Marcel Carné, scritto da Jacques Prévert, con Michel Simon e Jean–Louis Barrault; e Hôtel du Nord (1938) di Marcel Carné con Arletty nel ruolo di Annabella. La straordinaria crescita del suo successo fu arrestata bruscamente dallo scoppio della Seconda guerra mondiale. Perseguitato dai nazisti per le sue origini ebraiche, nei primi anni Quaranta, Aumont fu costretto a rifugiarsi negli Stati Uniti; da New York si trasferì a Hollywood iniziando a recitare con gli MGM Studios: è di questo periodo il film di propaganda anti–nazista La croce di Lorena (1943) di Tay Garnett con Gene Kelly e Peter Lorre. Decise, quindi, di arruolarsi per correre in soccorso della Francia libera: fu inviato prima nel Nord–Africa ove si distinse nell'Operazione Torch in Tunisia, poi in Italia e in Francia insieme con gli Alleati. Si comportò da vero eroe, venendo ferito due volte e ricevendo sia la Legion d'Onore sia la Croix de Guerre.

Al suo ritorno dalla guerra, riprese la sua attività cinematografica che si svolse per lo più a Hollywood e in Gran Bretagna: notevole il suo ruolo di Nikolai Rimsky–Korsakov nel film Song of Scheherazade (1947) di Walter Reisch con Yvonne De Carlo e grande la sua interpretazione del mago illusionista nel film Lili (1953), diretto da Charles Walters con Mel Ferrer e la tenera Leslie Caron (questo film, presentato al 6º Festival di Cannes, era tratto dal racconto "The Man Who Hated People" dello scrittore statunitense Paul Gallico e fu premiato con sei nomination agli Oscar del 1954, vincendone uno per la miglior colonna sonora originale). Negli anni sessanta e settanta, Aumont apparve in numerose produzioni di Broadway, incluso il grande successo musicale Gigi.

Ritornato in Francia, a questo periodo appartengono le interpretazioni in Effetto notte (1973) di Francois Truffaut con Jacqueline Bisset e Valentina Cortese; Il gatto, il topo, la paura e l'amore (1975) di Claude Lelouch con Michèle Morgan e Serge Reggiani; e Il sangue degli altri (1984) di Claude Chabrol con Jodie Foster. Una delle sue ultime più importanti apparizioni cinematografiche fu quella in Jefferson in Paris (1995) di James Ivory con Nick Nolte e Greta Scacchi.

Molto amato in patria, Aumont ricevette la croce di Commandeur des Arts et des Lettres e il César alla carriera nel 1991.

Dopo un primo matrimonio con Blanche Montel (finito nel 1940), ebbe due grandi amori. Il primo, per Maria Montez, nota attrice dominicana conosciuta come "The Queen of Techni­color", che sposò a Hollywood e che morì prematuramente nel 1951 (Maria fu trovata morta nel bagno, apparentemente per un attacco cardiaco); da lei ebbe la figlia Marie–Christine, l'attrice Tina Aumont, anch'essa morta prematuramente nel 2006, la quale aveva sposato l'attore Christian Marquand. Il secondo, per Marisa Pavan (attrice italiana, sorella di Anna Maria Pierangeli), che Aumont sposò nel 1956 e che – dopo il divorzio avvenuto nel 1963 – risposò nel 1969; da lei ebbe i due figli Jean–Claude e Patrick.

Jean–Pierre Aumont morì a Saint Tropez il 30 gennaio del 2001 per un infarto (aveva 90 anni).


Nel suo articolo del 1° febbraio del 2001 – pubblicato su "The Independent" per ricordare l'attore dopo la sua morte – James Kirkup scrisse che «a prescindere dal livello culturale dei lavori in cui era apparso, l'abilità recitativa di Aumont era supportata da un fascino personale inimitabile e da una classe tutta particolare»; il critico puntualizzò inoltre la grande ironia dell'attore francese che nel 1991 – al momento di accettare il César – disse: «Io credo che questo premio mi è stato dato per avere sopravvissuto così a lungo». Per Kirkup la migliore interpretazione di Aumont fu quella in Allons z'enfants (Figli di eroi) (1981) di Yves Boisset, film socio–politico tratto da un romanzo autobiografico di Yves Gibeau, che era la cronaca polemica della vita di un ragazzo degli anni trenta, il quale passava dall'adolescenza all'età adulta attraversando diverse esperienze negative, segnato dalla sadica educazione vissuta in un collegio militare; ha scritto Kirkup: «Per me, essa costituisce il picco della carriera di Jean–Pierre Aumont». ("Persinsala.it", 6 gennaio 2011)


giovedì 15 dicembre 2011

Tino Carraro, un grande attore da rimpiangere



Tino Carraro



Cento anni addietro nasceva a Milano (era il 1° dicembre del 1910) Tino Carraro, grande attore italiano di teatro, televisione e cinema (morì a Milano per un arresto cardiaco il 12 gennaio del 1995).

Figlio di un tipografo, si formò artisticamente presso l'Accademia dei Filodrammatici di Milano, mantenendosi agli studi con lavoretti vari.

Dotato di autentico talento teatrale, lavorò con le più importanti compagnie del suo tempo: recitò con Evi Maltagliati e Luigi Cimara (strabiliante la sua interpretazione di Vronskij nella celeberrima Anna Karenina del 1941), e con Laura Adani ed Ernesto Calindri. Fu con Orazio Costa presso il Teatro Piccolo di Roma, ove si fece notare con Le colonne della società di Ibsen e Così è (se vi pare) di Pirandello. Dal 1952 primeggiò presso il Piccolo Teatro di Milano ove rimase sino al 1962; per anni, fu l'attore–feticcio del regista Giorgio Strehler, rappresentando al meglio la linea stilistica e il metodo recitativo del Piccolo Teatro. Carraro aveva, infatti, un suo infallibile modo di recitare volto a modellare il ruolo dell'attore attraverso uno studio meticoloso che non indulgeva alle esagerazioni attoriali e all'istrionismo che dominavano il teatro del­l'epoca (senza andar lontano, quelli del pur grande Gianni Santuccio, di cui aveva preso il posto nel Piccolo Teatro). Tipici in lui furono misura, assenza di divismo e un minimalismo di grande spessore che scavava nei meandri dei sentimenti dell'uomo. In questo periodo, come riportato da Maria Grazia Gregori (m.g.g.) nel "Dizionario dello Spettacolo del 900", brillano come prove indelebili le sue interpretazioni ne L'ingranaggio (1952) di Sartre, Giulio Cesare (1953) di Shakespeare, Trilogia della villeggiatura (1954) di Goldoni, Giardino dei ciliegi (1954) di Cechov con la grandissima Sarah Ferrati, Nost Milan (1955) di Bertolazzi, Opera da tre soldi (1956) di Brecht con Milly e Mario Carotenuto, Coriolano (1957) di Shakespeare, Platonov (1959) di Cechov con Sarah Ferrati, e L'egoista (1960) di Bertolazzi in cui diede una delle sue più grandi interpretazioni. Il sodalizio con Giorgio Strehler si ruppe nel 1963, quando il regista per Vita di Galileo di Brecht gli preferì Tino Buazzelli (ma soltanto per un fatto estetico: la somiglianza di Buazzelli a Galileo Galilei per la sua stazza). Nel 1966 partecipò alla versione de Il giardino dei ciliegi (1966), messa in scena da Luchino Visconti con Paolo Stoppa, Rina Morelli e Micaela Esdra. Ma al Piccolo Teatro Tino Carraro ritornò negli anni settanta (che videro alcuni dei suoi più strepitosi successi): Re Lear (1972) e Tempesta (1978) di Shakespeare, Temporale (1980) di Strindberg e I giganti della montagna (1994) di Pirandello, col quale diede l'addio al teatro (per qualche recita, con grande fatica, perché la sua salute era ormai molto compromessa, recitò l'epilogo del dramma rimasto incompiuto, così come Pirandello lo aveva narrato sul suo letto di morte al figlio Stefano).

Tino Carraro contribuì anche alla televisione dei grandi sceneggiati televisivi: come dimenticare l'interpretazione del gelido e implacabile poliziotto Javert ne I miserabili (1964) – che sovrastò la pur grande interpretazione di Gastone Moschin (Jean Valjean) – o quella del pavido Don Abbondio ne I promessi sposi (1967), diretti entrambi da Sandro Bolchi, o quella del professore Ernest Reinhardt in A come Andromeda (1972) di Vittorio Cottafavi. Ma fu anche un magistrale protagonista de Il mulino del Po (1963) e Le mie prigioni (1968) di Sandro Bolchi, I grandi camaleonti (1964) di Edmo Fenoglio, La donna di quadri (1968) di Leonardo Cortese, Con rabbia e con dolore (1972) di Giuseppe Fina, Piccolo mondo antico (1983) di Salvatore Nocita, e di molte altre grandi produzioni televisive.

Fu anche interprete di numerosi radiodrammi, insieme ai più grandi attori del tempo che non disdegnavano la radio: Ubaldo Lay, Riccardo Cucciolla, Giancarlo Sbragia, Sergio Fantoni, Valentina Fortunato, Sergio Tofano, Carlo Romano, Adriana Innocenti, Emma Gramatica, Lea Padovani, Paolo Carlini, e molti altri ancora.

E innumerevoli furono anche, tra il 1952 e il 1987, le sue interpretazioni cinematografiche; ne ricordo soltanto alcune: Giorno per giorno disperatamente (1961) di Alfredo Giannetti, Le belve (1971) di Gianni Grimaldi, Cadaveri eccellenti (1976) di Francesco Rosi e Notte italiana (1987) di Carlo Mazzacurati.

Tino Carraro non può, e non deve essere dimenticato: questo grande attore che stupì le platee per le sue altissime qualità interpretative, sostenute da una forte disciplina e da un intenso approfondimento psicologico. ("Persinsala.it", 1 dicembre 2010)

martedì 13 dicembre 2011

Clark Gable, il declino e la rinascita – Parte 2



Clark Gable, maturo



Arruolatosi nell'aviazione e reduce dalla recente morte dell'amata moglie Carole Lombard, Clark Gable partecipò alla seconda guerra mondiale con diverse coraggiose missioni di guerra sui B–17 che gli meritarono due decorazioni e una fama di eroe intrepido e spavaldo nella vita oltre che nel cinema.


Al ritorno dalla guerra, congedato con il grado di maggiore, non era più un ragazzo ma un uomo appesantito che non aveva perso però un'oncia del suo appeal virile e del suo magnetismo.

La sua stella subì però un certo appannamento: Avventura (Adventure) (1945) di Victor Fleming, I trafficanti (The Hucksters) (1947) con Ava Gardner, e Mogambo (1953) con Grace Kelly non avevano avuto un grande successo, tanto che la MGM nel 1954 non gli rinnovò più il contratto.

Era entrato in un periodo grigio sia dal punto di vista della carriera sia da quello personale: nel 1949 sposò Sylvia Ashley, una lady inglese, vedova dell'attore Douglas Fairbanks senior (il matrimonio fu un vero disastro e divorziarono un anno dopo), ma nel 1955 si unì a Kay Spreckels (nata Kathleen Williams), un'attrice–modella pluridivorziata, che gli regalò una vita serena e la ripresa del successo lavorativo (era divenuto un attore libero e molto pagato, che  prendeva delle ricche percentuali sugli incassi).

Appartengono a questa fase: L'avventuriero di Hong Kong (Soldier of Fortune) (1955), Un re per quattro regine (King and Four Queens) (1956), La banda degli angeli (Band of Angels) (1957), Mare caldo (Run Silent Run Deep) (1958), Dieci in amore (Teacher's Pet) (1958), Ma non per me (But Not for Me) (1959) e La baia di Napoli (It Started in Naples) (1960).

In questo periodo, l'attore – che era stato un forte bevitore di whiskey ed era un fortissimo fumatore – aveva preso a ingrassare e dovette sottoporsi a numerosi regimi dietetici con l'uso anche di farmaci dimagranti.

Come scrive Daniela Zacconi (ne "L'amico pubblico n. 1",  Film TV, n. 47, novembre 2005), «in sostanza continua a replicare il personaggio su cui poggia la sua popolarità. Che è quello del seduttore ironico, irriverente e un po' mascalzone che Gable ha declinato in tutte le possibili accezioni.».

Il suo ultimo film fu Gli spostati (The Misfits) (1960), denso e possente, scritto da Arthur Miller e diretto da John Huston, con Marilyn Monroe e Montgomery Clift. L'interpretazione di Clark Gable fu considerata notevole e di spessore: interpretava un rude e attempato cowboy, un fallito anti–eroe che vive faticosamente catturando cavalli selvaggi e che ritrova nell'amore per la fragile divorziata Marilyn il suo possibile riscatto e la sua dimensione umana.

Questo film simbolico e premonitore fu sfortunato – e l'ultimo – anche per la Monroe.

A proposito di Marilyn, pur rimproverandole di essere «così maledettamente poco professionale», Gable espresse giudizi lusinghieri: «assolutamente femminile, senza artifizi... superlativa... Ogni cosa che fa è diversa, strana, eccitante... Fa sì che un uomo sia orgoglioso di essere uomo» (in Mike Evans, "Marilyn", traduzione di Michele Lauro, Giunti Editore, 2006).

Le riprese del film furono difficilissime ed estenuanti per tutti, e proprio alla fine del film, a novembre, Clark Gable fu colpito da infarto. Ricoverato a Los Angeles, nel momento in cui sembrava essersi ripreso moriva improvvisamente passando dal sonno alla morte: la moglie aspettava il suo unico figlio (John Clark), che egli non riuscì a conoscere.

Scrive Daniela Zacconi: «...un attacco di cuore spegne bruscamente i riflettori del divo cinquantanovenne. Appesantito e malinconico, Gable ha appena finito di girare quello che resterà il testamento spirituale suo e di Marilyn Monroe (che con lui condivide la scena e la prematura scomparsa), il crepuscolare Gli spostati, probabilmente il suo film migliore.».


Dopo il funerale, cui parteciparono tutti i giganti di Hollywood, fu seppellito nel "The Great Mausoleum" di Forest Lawn a Glendale, accanto all'amata Carole Lombard. Ha scritto Maria Grazia Bosu (in "Clarke Gable – Biografia" su Ecodelcinema): «La sua morte sancì la fine di un’epoca, quella dell’uomo duro, virile e seducente, rude ma mai immorale.». ("Persinsala.it", 16 novembre 2010)

Clark Gable, "The King of Hollywood" – Parte 1


Clark Gable, giovane

Il 16 novembre di cinquanta anni addietro (era il 1960) moriva a Los Angeles Clark Gable, vero mito di Hollywood. Era nato a Cadiz, Ohio, il 1º febbraio del 1901, e dopo una dura gavetta iniziò una lunga carriera che si estese dagli anni venti sino all'anno della morte.


Uomo pieno di fascino e carisma, ha segnato gli anni più importanti della grande cinematografia americana. Interpretando lo straordinario personaggio di Rhett Butler, rude e ribelle avventuriero, nel superbo film Via col vento (tratto dal famosissimo romanzo di Margaret Mitchell e premiato con cinque Premi Oscar), divenne una star meritandosi l'appellativo di "The King of Hollywood". Daniela Zacconi (ne "L'amico pubblico n. 1", Film TV, n. 47, novembre 2005) par­­la di «baffetti da sparviero, sguardo malandrino, fisico aitante... modello di riferimento dell'immaginario cinematografico».

Rimasto orfano di madre piccolissimo, fu cresciuto dalla seconda moglie del padre Jennie Dunlap che lo accolse con dolcezza (era una sensibile pianista e gli insegnò a suonare il piano): Clark la idolatrava e disse di lei che era stata «uno degli essere umani più teneri».

Gli inizi di carriera non furono facili: lasciò la scuola a 16 anni e fu fattore, operaio, taglialegna e venditore di cravatte, ma presto si volse alla recitazione unendosi a una compagnia girovaga (sostenuto in ciò da Jennie, mentre il padre – col quale sorsero seri contrasti – avrebbe voluto che lavorasse con lui nella trivellazione dei pozzi petroliferi).

Era il 1921, e Clark rappresentava l'ideale incarnazione del maschio americano! La sua vita sentimentale fu piena e confusa: nel 1924 aveva sposato l'attrice–regista Josephine Dillon (più grande di lui di ben quattordici anni), che gli insegnò tutto – a modulare il giusto tono di voce, a vestirsi con garbo e ad agire con buone maniere – e che creò per il suo pupillo quell'immagine immortale di uomo volitivo e spregiudicato che lo ha accompagnato per tutta la carriera, nella vita e nella finzione.

Grazie a lei girò tra il 1924 e il 1930 diversi film che lo delusero, spingendolo a continuare a recitare in teatro con Lionel Barrymore e a trasferirsi a Broadway, ove nel 1928 raccolse un grande successo con Machinal nella parte dell'amante della protagonista (scrisse il Morning Telegraph: «È giovane, vigoroso e brutalmente virile»).

Dopo qualche anno conobbe in Texas la multimilionaria pluridivorziata Ria Langham (anch'essa molto più anziana di lui: Clark sembrava quasi alla ricerca di quella madre che gli era mancata!), che sposò nel 1930 dopo il divorzio dalla prima moglie e che lo introdusse nell'alta società di Houston.

Scrisse la Dillon: «Clark mi ha detto apertamente che voleva sposare Ria Langham perché poteva aiutarlo di più finanziariamente. È difficile vivere con lui: la sua carriera e le sue ambizioni vengono prima di ogni altra cosa.» (in "Clark Gable – Il re di Hollywood", Il Cinema, Istituto Geografico De Agostini, 1981).

Scritturato dalla più forte casa di produzione americana, la MGM (ma fu prestato anche alla Columbia), fu sottoposto a un intervento alle orecchie che aveva grandi e a sventola (disse Darryl F. Zanuck che lo considerava poco fotogenico: «le sue orecchie sono troppo grandi e sembra una scimmia») e a una sistemazione della dentatura che gli regalò quell'accattivante luminoso sorriso segnato da due profonde fossette che tutte abbiamo amato.

I suoi ruoli, che ruotavano attorno all'immagine del simpatico mascalzone non privo di carica erotica, contribuirono a fare di lui un'icona del fascino mascolino: fu il camionista manesco de L'angelo bianco (Night Nurse) (1931); fu il gangster cinico di Un animo libero (A Free Soul) e La via del male (Dance, Fools, Dance) (1931); fu il giornalista istrionico e sfacciato di Accadde una notte (It Happened One Night) (1934) – deliziosa commedia di Frank Capra con Claudette Colbert (vinse l'Oscar e fu doppiato nella versione italiana da un ironico Gino Cervi) – ; fu il temerario marinaio de La tragedia del Bounty (Mutiny on the Bounty) (1935) (ebbe un'altra nomination), e fu la simpatica canaglia di San Francisco (1936).

Aveva intanto conosciuto la nota e simpatica attrice Carole Lombard, l'amatissima, che nel 1939 dopo il divorzio dalla seconda moglie divenne la sua terza moglie (morirà purtroppo tragicamente ad appena 33 anni nel 1942 in un incidente aereo vicino a Las Vegas, durante un tour per la raccolta di fondi per le truppe dopo Pearl Harbor).

Clark rimase devastato e solo (inutilmente avevano tentato di avere un bambino e la Lombard aveva avuto un aborto nel 1940), e quasi impazzì; disse Esther Williams: «Da allora egli non è stato più lo stesso.». Restò a vivere per sempre nel ranch di Encino in California, acquistato con Carole.

Ebbe numerose relazioni con diverse stelle del cinema (Joan Crawford – richiedeva proprio lui come partner e fu con lui in otto film – Marion Davies, Loretta Young – da cui ebbe una figlia tenuta segreta – e Paulette Goddard).

La sua carriera prese il volo nel 1939 con Via col vento (Gone with the Wind) (1939), che gli fece raggiungere la vetta della celebrità e che gli meritò una nuova nomination all'Oscar.


Si racconta che Clarke Gable non si fosse rassegnato ad aver perso l'Oscar (Vivien Leigh, attrice inglese, lo vinse) che fu invece conferito all'attore inglese Robert Donat per Goodbye Mr. Chips, e che dicesse: «Questi maledetti europei, ci ruberanno tutto» (in "Scheda su cinematocasa.it."). ("Persinsala.it", 15 novembre 2010)

lunedì 12 dicembre 2011

Lev Nikolaevič Tolstoj nel cinema e nella televisione



Lev Nikolaevič Tolstoj


Il sette novembre di cento anni addietro moriva Lev Nikolaevič Tolstoj, grandissimo scrittore russo, nato il 28 agosto del 1828 alla periferia di Mosca, nella tenuta agricola di Jasnaja Poljana, da un'antica e nobile famiglia.

Rimasto orfano, fu cresciuto insieme ai quattro fratellini tra Mosca e Pietroburgo da alcune zie. Da giovane seguì studi di filosofia e giurisprudenza, conducendo una vita inquieta e scioperata (giocando e perdendo molto denaro al tappeto verde); seguì la carriera burocratica e si arruolò poi tra i granatieri. Nel 1862 sposò Sòfja, una nobile ragazza diciassettenne che amò per quasi cinquant'anni (dandole tredici figli): la moglie lo aiutò nella stesura del suo lungo capolavoro Guerra e pace (copiò e ricopiò con dedizione le migliaia di pagine del manoscritto).

In età avanzata lo scrittore si ritirò nella tenuta natale, ove lavorò moltissimo dal punto di vista letterario e ove assunse il ruolo di opinionista molto apprezzato e di guida morale molto ascoltata dai contemporanei (era chiamato «il profeta di Jasnaja Poljana»).

Il suo grande romanzo Guerra e pace (1869) ha ispirato film, sceneggiati televisivi e adattamenti radiofonici. Nel firmamento del cinema, indimenticabile resta il classico film War and Peace (1956), diretto da King Vidor, alla cui complicata sceneggiatura parteciparono anche gli italiani Mario Camerini, Ennio De Concini, Ivo Perilli, Gian Gaspare Napolitano e Mario Soldati,  con le musiche di Nino Rota, e con la partecipazione di Audrey Hepburn (interpretò Nataša Rostova), Henry Fonda (era Pierre Bezukhov), Mel Ferrer (prestò il suo volto al Principe Andrej Bolkonskij) e Vittorio Gassman (interpretò Anatole Kuragin). Nel 1957 il film si aggiudicò il Golden Globe (come migliore film straniero), due Nastri d'argento (per la scenografia e la musica), e ricevette tre nomination ai Premi Oscar.

Com'è noto il ponderoso romanzo corale è dedicato agli avvenimenti storici che partono dalla invasione napoleonica del 1812, e le vicende di guerra si mescolano ai sentimenti dei protagonisti, l'ufficiale vedovo Bolkonskij e la fidanzata, la giovane Nataša, che lascia libera quando s'innamora di un altro. La guerra li disperderà ma si ritroveranno poi a Mosca, mentre la città brucia.  

Anche l'altro grande romanzo Anna Karenina, ispirato a un fatto realmente accaduto e scritto durante un periodo di forte crisi spirituale, è stato cannibalizzato da cinema, teatro e televisione. Narra l'intensa storia d'amore di Anna, sorella del principe Oblonskij, sposo infedele di Dolly che vorrebbe lasciarlo dopo aver scoperto il suo ultimo tradimento. Andata a trovarli da Pietroburgo a Mosca, Anna riesce a ricomporre con abile semplicità il dissidio tra i due sposi ma involontariamente ruba alla sorella di Dolly, Kitty, il corteggiatore Vronskij, ufficiale bello e prestante.

Per lui, Anna abbandona il marito (un alto burocrate rigido e perbenista) e il figlio; si amano, viaggiano, hanno una bimba, e Anna impara a vivere soltanto per Vronskij, che è la sua felicità ma anche la sua infelicità. Il marito la punisce con l'allontanamento dal figlio e il fermo rifiuto del divorzio, costringendola a vivere nel disprezzo sociale. Dimessosi dalla carriera militare, annoiato dalla vita presente, Vronskij inizia a provare del rancore per Anna e pensa forse di abbandonarla. In preda a un folle furore amoroso, timorosa per la fine della loro passione e disperata, Anna si abbandona a un fatale suicidio.

Questa storia struggente ha ispirato una serie interminabile di film, tra i quali ricordo soltanto la versione di Clarence Brown (1935) con la grande Greta Garbo (che era Anna per la seconda volta: la prima volta l'aveva interpretata nel film Love di Edmund Goulding del 1927) e con Fredric March. Desidero inoltre ricordare il nostro grandioso sceneggiato televisivo del 1974 per la sapiente regia di Sandro Bolchi (quella vecchia televisione che fu e che non esiste più!), prodotto in concomitanza del centenario della pubblicazione dell'opera tolstojana, con la sensibilissima Lea Massari (ha regalato misura e modernità ad Anna, solitamente, un'eroina smisuratamente romantica e appassionata), con Pino Colizzi e con Giancarlo Sbragia (il critico Maurizio Porro ha ritenuto Bolchi «capace di una sottigliezza e di una ferocia espressiva rare... di vitalità nuova... di un'aderenza che non rinuncia ad alcuna delle ricchezze politiche, religiose, sociali dell'autore»; mentre Aldo Grasso ha sottolineato come esso «venendo incontro alle richieste di un pubblico che sembrava reclamare gli sceneggiati della televisione delle origini, si sforzasse di mantenere in vita un genere in cui la RAI incominciava a non credere più»).

Gli ultimi anni della vita di Tolstoj non furono purtroppo felici, poiché si guastarono in modo irrimediabile i rapporti con la moglie, che non comprendeva più le sue idee e che non approvava più suoi comportamenti (la rinunzia dei diritti d’autore in favore di una setta religiosa aveva ridotto la famiglia sul lastrico).

Alla fine dell’ottobre del 1910, a ottantadue anni, stanco e amareggiato, lo scrittore riuscì a trovare il coraggio per una fuga da casa ma, dopo appena dieci giorni, moriva nella piccola isolata stazione di periferia Astapovo, stroncato dal freddo e dalla malattia. 

Quest'ultima triste fase della sua vita è stata il soggetto dell'ottimo film di Michael Hoffman (2010), dal titolo The Last Station: la fine di Tolstoj (basato sul romanzo omonimo di Jay Parini), con Helen Mirren (la moglie Sofja) – rappresentata in modo forse duro: più interessata a rivendicare per lei e per i figli i diritti sul patrimonio letterario che alle sofferenze del marito morente (che avrebbe voluto lasciare i suoi diritti d'autore al popolo russo) – e Christopher Plummer (il vecchio e stanco Tolstoj).


Negli ultimi istanti di vita di Lev, però i due sposi finalmente si ritroveranno. ("Persinsala.it", 8 novembre 2010)

venerdì 9 dicembre 2011

Rob Marshall, i cinquant'anni del Re del Musical


Rob Marshall

Il 17 ottobre di cinquant'anni addietro nasceva a Madison (nel Wisconsin) il coreografo–regista americano Rob Marshall.

Cresciuto a Pittsburgh (in Pennsylvania) ove frequentò la Taylor Allderdice High School, si laureò nel 1982 alla Carnegie Mellon University e si trasferì quindi a New York per lavorare nei teatri di Broadway.

Come coreografo di Broadway mise in scena Victor/Victoria e altri superbi musical mostrando grandi capacità illusionistiche e guadagnandosi ben presto una fama incontrastata (è stato nominato ai Tony, Academy e agli Emmy Awards, oltre che ai Golden Globes). Nel 1998 riadattò con grande successo Cabaret e nello stesso anno fu nominato per il "Laurence Olivier Theatre Award" come migliore coreografo teatrale per Damn Yankees!.

Alla fine degli anni '90, iniziò ad adattare per il piccolo schermo alcuni celebri musical divenendo famoso anche presso il grande pubblico televisivo. Come regista televisivo, ha diretto inoltre Annie (1999), The Kennedy Center Honors: A Celebration of the Performing Arts (2001), e Tony Bennett: An American Classic (2006).

Fece quindi il grande salto come regista cinematografico, trionfando con il brillante e fortunato Chicago (2002) che – per la magia e lo slancio della rappresentazione, per le invenzioni coreografiche, per i balletti energici ed esuberanti e per i costumi variopinti – vinse l'Oscar come miglior film, classificandosi come uno dei maggiori incassi dell'anno.

Marshall ha avuto il merito di raccogliere un ottimo gruppo di attori (Renée Zellweger, Catherine Zeta–Jones, Richard Gere, John C. Reilly e Queen Latifah) – tre dei quali ricevettero la nomination all'Oscar mentre la Zeta–Jones si guadagnò la statuetta – e s'impose all'attenzione del pubblico e della critica, divenendo una star di primo piano.

A proposito dei divi americani scrisse: «... alla fine dobbiamo riconoscere che le star internazionali sono fantastiche. Sono i grandi attori nel mondo, e poca gente capisce questo.».

Il film racconta la storia scoppiettante di Velma Kelly, una star di nightclub, che dopo l'assassinio del marito e della sorella (sua partner) conosce in carcere Roxie Hart, la quale volendo divenire una celebre cantante aveva ucciso l'amante che si era rifiutato di lanciarla nel mondo del varietà. Roxie assume il miglior avvocato di Chicago, Billy Flynn, che trasforma la sua vicenda giudiziaria in una fantasmagorica e visionaria messinscena, manipolando cinicamente la stampa e l'opinione pubblica e facendo divenire popolarissime Roxie e Velma.

Marshall ha ripetuto l'en plein con Memorie di una geisha (Memoirs of a Geisha) (2005), un film non musicale, elegante e raffinato, adattamento del best–seller di Arthur Golden (oltre cinque milioni di copie vendute e circa trenta traduzioni), interpretato da Zhang Ziyi, Gong Li, Michelle Yeoh e Ken Watanabe, che gli fece aggiudicare tre premi Oscar.

Affascinato dal soggetto, Steven Spielberg aveva insistito per produrlo e aveva voluto proprio Marshall.

Ambientato in Giappone nel 1929, racconta la storia di Chiyo Sakamoto, che – vissuta in un paesino di pescatori – a nove anni, insieme alla sorella più grande Satsu, viene affidata dal padre anziano e dalla madre gravemente ammalata a un "affettuoso" vicino di casa, Tanaka, che vende Satsu a un bordello e Chiyo alla Nitta Okiya, una casa per geishe. Dopo una lunga e faticosa formazione, Chiyo diviene l'ammiratissima geisha Sayuri (dice Sayuri: «Una storia come la mia non andrebbe mai raccontata, perché il mio mondo è tanto proibito quanto fragile, senza i suoi misteri non può sopravvivere. Di certo non ero nata per una vita da geisha, come molte cose nella mia strana vita, ci fui trasportata dalla corrente... Mia madre diceva sempre che mia sorella Satsu era come il legno, radicata al terreno come un albero sakura. A me diceva invece che ero come l’acqua che si scava la strada attraverso la pietra, e quando è intrappolata, l’acqua si crea un nuovo varco.».

Come il libro, anche il film ha visto numerose polemiche soprattutto perché il regista scelse tre grandi attrici cinesi per interpretare le tre geishe giapponesi, offendendo sia la Cina sia il Giappone.

Nel suo articolo "Profumi d'Oriente" ("Film Tv", 17, 2005) Daniela Zacconi ha scritto: «Marshall (che ha dichiarato: "Volevo raccontare la storia di Sayuri come un'impressione di tempo e di luogo"), ha applicato la cura che aveva già caratterizzato "Chicago" per ricostruire minuziosamente il fascinoso mondo delle geishe, lasciando in sottofondo la cornice storica e politica per privilegiare usi e costumi, riti e consuetudini di un ambiente totalmente "alieno" per gli occidentali e, anche per questo, tanto più attraente.»; la Zacconi ricorda anche «l'amara consapevolezza che il destino di notorietà riservato alle geishe migliori è inevitabilmente accompagnato dal tarlo della solitudine».

A proposito della geisha, Marshall ha scritto: «La gente crede che la geisha sia una prostituta, perché alcune prostitute usano un trucco simile, vestono un chimono di seta e si autodefiniscono geishe, e il confine diviene confuso. La parola in effetti significa "artista". Sì, esse intrattengono gli uomini. Ma, cosa più importante, sono grandi danzatrici e musiciste e abili conversatrici. Sono le persone più affascinanti del loro tempo. Sono simili alle nostre supermodelle.».

L'ultimo e terzo film, Nine, che nasce come una reverente celebrazione di "8 e mezzo" di Federico Fellini (tratto dal famoso musical che lo stesso Fellini aveva sconfessato, impedendo l'uso del titolo originale), si è avvalso di un cast che definire stellare è poco (Daniel Day–Lewis – che offre una prova superba – , Penélope Cruz, Nicole Kidman, Judi Dench, Marion Cotillard, Kate Hudson e Sophia Loren) ma purtroppo non ha saputo mantenere le ambiziose premesse e ha tradito la "visione onirica" dell'opera felliniana.

Il film ha avuto poco successo; dopo l'uscita del film, comunque, per mesi Rob Marshall è stata la celebrità più cliccata su "Hollywood Life". Girato per la maggior parte in Italia, Marshall ha omaggiato il nostro cinema coinvolgendo un gran numero di attori italiani, tra i quali Sandro Dori, Ricky Tognazzi, Giuseppe Cederna, Elio Germano, Roberto Nobile, Valerio Mastandrea, Remo Remotti, Martina Stella, Monica Scattini e Roberto Citran (l'Italia, purtroppo, viene ritratta come in una cartolina con tutti i suoi cliché più stantii).

Come ha scritto Ilaria Feole ne "Il regista dei grandi musical" (www.mymovies.it): «Il film porta il marchio caratteristico di Marshall, coniugando ancora una volta il grande amore del regista per il fascino magico del musical classico, fatto di lustrini e assi del palcoscenico, con il ritmo incalzante e frammentato che viene dal suo sguardo di artista della modernità.». ("Persinsala.it", 17 ottobre 2010)

P.S. Rob Marshall nel 2011 ha portato sugli schermi Pirati dei Caraibi: Mari stregati (Pirates of the Caribbean: On Stranger Tides), con Johnny Depp, Penélope Cruz, Ian McShane e Geoffrey Rush, che costituisce il quarto capitolo della saga dei "Pirati dei Caraibi (Pirates of the Caribbean)" della Disney. Il film si è ispirato al romanzo fantasy "Mari stregati", scritto da Tim Powers nel 1987, nel quale fantasiosi elementi pirateschi si coniugano con affascinanti eventi soprannaturali che contribuiscono a realizzare un'opera veramente irresistibile.