lunedì 27 febbraio 2012

Lawrence Durrell, una pietra miliare della letteratura mondiale



Lawrence Durrell



Cento anni addietro, il 27 febbraio del 1912, nasceva a Jalandhar (India Inglese) Lawrence Durrell, grande scrittore, poeta e drammaturgo britannico, che è stato però sempre considerato un cosmopolita (scopriva se stesso andando alla scoperta di posti diversi e di altri luoghi). La sua città natale si trovava nel nord dell'India vicino al Tibet e questo fece sì che negli ultimi anni Durrell si attribuisse «una mentalità tibetana (a Tibetan mentality)».

Lawrence Durrell era il fratello maggiore di Gerald Durrell (1925–1995), zoologo–esploratore e divulgatore della scienza popolare, molto noto per la “Durrell Wildlife Conservation” (volta a salvare le specie in via di estinzione) e per lo Zoo sull'isola di Jersey nelle Isole del Canale. Anche i genitori erano coloni di discendenza inglese ed irlandese nati in India (il padre Lawrence Samuel Durrell era un ingegnere). Lawrence fece i suoi primi studi presso il St. Joseph's College (North Point, Darjeeling). La famiglia si era trasferita in Inghilterra in seguito alla morte del padre avvenuta nel 1928, stabilendosi nella zona meridionale di Londra (Upper Norwood–Crystal Palace). In Inghilterra frequentò la St. Edmund's School (Canterbury) ma, alienato e disgustato dal duro regime scolastico inglese, fallì la sua ammissione all'Università. Dall'età di 15 anni aveva iniziato a scrivere poesie; la sua prima raccolta di poesie, Quaint Fragment, fu  pubblicata nel 1931: aveva soltanto 19 anni.

Nel 1935 aveva sposato la pittrice Nancy Isobel Myers (la prima delle sue quattro mogli), dalla quale ebbe la figlia Penelope Berengaria; il matrimonio finì nel 1942 e Nancy si trasferì con la bambina a Gerusalemme.

Lawrence si trovava male in Inghilterra: non amava né il clima né gli usi e i costumi inglesi; parlava di «the English death (la morte inglese)» e aggiungeva: «la vita inglese è realmente un'autopsia. è tanto tanto desolata.». Per le sue pressioni, nel 1935 i Durrell si trasferirono sull'isola greca di Corfù (prima a Kontokali, poi a Kalami) ove potevano vivere una vita meno dispendiosa e molto più calda, voluttuosa e libera (quasi bohemien). Questo fatto mutò la carriera di Lawrence e Gerald che sempre amarono e celebrarono il mondo mediterraneo: vi rimasero fino al 1939. Pur avendo conservato il passaporto inglese, Lawrence – che chiamava la sua terra «Pudding Island» – si fermava in Inghilterra il meno possibile. Di quel periodo è l'audace romanzo Pied Piper of Lovers (1935) – ne furono vendute soltanto poche copie e le altre furono distrutte; Alan Thomas – che da editor nel 1969 ne pubblicò un'ampia selezione nell'antologia “Spirit of  Place: Letters and Essays on Travel” – descriveva quel testo come: «un qualche sforzo "mai sperimentato" con nessun vero presagio di ciò che sarebbe venuto dopo». Seguì Panic Spring (1937) storia di un ricco e solitario greco, proprietario di un'isola greca, scritta con lo pseudonimo di Charles Norden, che riprendeva alcuni personaggi del primo libro. In quegli anni, colpito dal suo inquietante romanzo “Tropico del cancro (Tropic of Cancer)”, ebbe modo di conoscere per iscritto Henry Miller: iniziò così un'amicizia e una collaborazione critica durata 45 anni (nel 1962, a cura di George Wickes, fu pubblicato l'epistolario Lawrence Durrell and Henry Miller: A Private Correspondence). Questi suoi primi romanzi furono certamente influenzati dal tono grottesco e dall'umore apocalittico di Miller, del quale Durrell nel 1960 curò la raccolta antologica The Best of Henry Miller.

Le esperienze e i ricordi personali di questo periodo greco ispirarono Il libro nero (The Black Book: An Agon) (1938), sempre ispirato fortemente dall'opera e dai consigli di Miller, storia di Lawrence Lucifer, che si sforza di sfuggire alla sterilità spirituale, all'effetto di morte dell'Inghilterra per trovare calore e fertilità in Grecia; per la sua estrema originalità, il testo piacque a Thomas Stearns Eliot. Fu pubblicato a Parigi ma non in UK, sino al 1973, a causa della sua oscenità (a proposito di questo libro, Durrell disse: «nello scriverlo, per la prima volta ho sentito il suono della mia voce»).

Nel 1941, Lawrence e Nancy dovettero abbandonare la Grecia, a causa del pericolo nazista e andarono al Cairo. Durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale, Lawrence fu addetto al servizio informazioni britannico al Cairo e in Alessandria, ove conobbe Yvette Cohen, detta Eve, che gli servì da modello per il personaggio di Justine, una bellissima ebrea di Alessandria, nel suo celebre The Alexandria Quartet; quella Justine che sosteneva: «Non l'amore è cieco, ma la gelosia». Lawrence sposò Eve nel 1951, avendone la figlia Sappho Jane.  

Liberato da una prigione egiziana nel 1945, Durrell fu finalmente libero di ritornare in Grecia e trovò una sistemazione come direttore delle pubbliche relazioni delle isole del Dodecaneso a Rodi, ove rimase sino al 1947; in questo periodo pubblicò La cella di Prospero (Prospero's Cell), un libro di memorie ispirato al paesaggio e ai costumi dell'isola di Corfù che tanto aveva amato in gioventù (l'esperienza nella stessa Corfù ispirò al fratello Gerald il divertentissimo e interessante “My Family and Other Animals”). Seguirono: Cefalù (Cefalü) (1947), ripubblicato con il titolo Il labirinto oscuro (The Dark Labyrinth) (1958), storia simbolica e visionaria di un gruppo di viaggiatori che si perdono a Creta in un labirinto sotterraneo, forse quello del minotauro (fu adattato per la TV nel 1963), e Riflessioni su una Venere marina (Reflections on a Marine Venus) (1953), una guida al paesaggio di Rodi, in cui lo scrittore faceva una celebrazione lirica dell'isola.

Nel 1947 Durrell fu a Córdoba (Argentina) e nel 1949 fu mandato a Belgrado (Jugoslavia) ove rimase sino al 1952. Quest'ultimo soggiorno gli ispirò White Eagles Over Serbia (1957).

Nel 1952 andò con Eve e la bambina a Cipro, ove rimase sino al 1956, insegnando "English literature" e ritrovando la serenità per scrivere in libertà: questo periodo esistenziale è stato raccontato in Limoni amari (Bitter Lemons) (1957), che vinse il Duff Cooper Prize.

Nel 1955 Durrell si separò da Eve Cohen e nel 1961 si sposò con un'altra donna ebrea nata in Alessandria, Claude-Marie Vincendon, con la quale si trasferì a Cipro.

Raggiunse la notorietà di un autore di statura internazionale con Il Quartetto di Alessandria (The Alexandria Quartet) (1957–1960), un vero grande capolavoro del Novecento, composto da quattro romanzi ambientati in Egitto prima e durante la guerra, Justine, Balthazar, Mountolive e Clea, nei quali – in un suggestivo “Rashomon” (dal bel film di Akira Kurosawa del 1950, emblema della relatività di ogni prospettiva e dell’impossibilità di ottenere la verità su un evento in presenza di diversi testimoni) – esplorando i temi dell'amore moderno si racconta con grande ricchezza di personaggi memorabili, in una cruda atmosfera sensuale e in una società in decadenza, la medesima storia di amore e perversione osservata da quattro punti di vista diversi (lo stesso Durrell parlò di tecnica «relativistic»). La vicenda prima viene narrata da Darley, che racconta il suo amore folle per la bellissima Justine che sembra ricambiarlo; poi l'amico e medico egiziano Baltazhar interviene per dare un'altra interpretazione dei fatti; poi è la pittrice Clea che racconta la sua versione; e infine è l'ambasciatore Mountolive che rivela un recondito disegno politico (Justine tradisce il marito, un ricchissimo copto, ma si scoprirà che entrambi hanno un interesse politico nell'influenzare la politica medio–orientale, allo scopo di difendere gli interessi della minoranza copta). Sotto l'influenza di Freud e del marchese de Sade, e contro il conformismo puritano anglosassone, Durrell riuscì a dimostrare non soltanto la relatività della verità ma la stessa imperscrutabilità dell'identità umana, che esiste soltanto in funzione di chi l'osserva. L'opera impressionò la critica e il pubblico per la vivacità dei personaggi e la ricchezza dello stile, per l'andirivieni tra le vicende sentimentali e i complotti politici, per l'umbratile ambiguità e la crudele forza della seduzione, per la brutale sensualità e il languore dei sentimenti, per lo studio pieno di ombre e oscurità dell'inafferrabile psicologia umana, e infine per l'esotismo delle storie e degli ambienti (protagonisti anch'essi alla stregua dei personaggi umani). Per questa sua opera grandiosa e complessa, Durrell fu nominato per il Nobel ma fu prontamente liquidato per il suo «dubbio gusto» e per le sue «preoccupazioni monomaniacali con complicazioni erotiche». Raymond Carver aveva scritto di lui: «Ritengo che l'opera di Lawrence Durrell sia unica e insuperata per quanto riguarda il linguaggio.».

Di Alessandria d'Egitto – con le sue atmosfere decadenti e con la sua società cosmopolita che mescola razze, religioni, culture e nazionalità diverse – Durrell aveva scritto: «Cinque razze, cinque lingue, una dozzina di religioni, cinque flotte nel porto. Ma i sessi sono più di cinque… principessa e mignotta, città reale e anus mundi… Insomma, che cos'è questa nostra città? Che cosa si riassume nella parola Alessandria? In un lampo l'occhio della mente mi mostra migliaia di strade tormentate dalla polvere. Mosche e accattoni la possiedono oggi – e tutto ciò che si gode un'esistenza intermedia tra le une e gli altri.». Ma la sua era una città più visionaria che reale, impressionista nel colore e torbidamente misteriosa nella ricostruzione letteraria. Durrell era solito frequentare il caffè Pastroudis, vero e proprio caffè letterario, ritrovo negli anni quaranta e cinquanta di scrittori, artisti e intellettuali, ultimo delle illustri vestigia di Alessandria quando ancora vi abitavano Lawrence Durrell, Somerset Maugham, Noel Coward e del poeta greco alessandrino Costantino Kavafis (che viveva sopra un bordello lì vicino e all'angolo di una chiesa).

Sul Corriere della Sera (27 agosto 2008, pag. 43), in “Il Classico: Una rilettura della quadrilogia pubblicata mezzo secolo fa. Nelle pagine del grande scrittore rivive un mondo mediterraneo al crepuscolo – Lawrence Durrell: Ultima estate ad Alessandria la città degli amori impossibili”, Giorgio Montefoschi così scrive in modo impareggiabile: «Una sottile disperazione invade l'anima del lettore quando comincia a rendersi conto che Il Quartetto di Alessandria di Lawrence Durrell (ha mezzo secolo, oramai, […]) è arrivato al momento in cui si consumeranno gli addii. Molti personaggi, come Melissa la ballerina del night–club, sono morti. Altri partiti. Altri, come il diplomatico Mountolive, sono invecchiati e partiranno. Altri, talmente trasformati da rendersi irriconoscibili: come la dea di questo romanzo, Justine. […] Alessandria – la città costruita su un promontorio di ardesia come una diga per contenere la marea della tenebra africana, la città delle Cabala e di Kavafis, delle sette e dei credi, ma anche della dissipazione, non può far altro che inghiottire definitivamente se stessa, trasformarsi in un sogno, e decretare la fine di ogni amore. Infatti, è come in sogno che Darley, lo scrittore ferito nell'amore, può contemplarla dalle sponde dell'isoletta greca nella quale si è ritirato per cercare di districare il viluppo dei sentimenti e ricostruire gli avvenimenti e il tempo […] C'è un albergo, il Cecil, al centro della Corniche, nei cui specchi appare per la prima volta Justine, una delle tre donne amate da Darley (le altre sono Melissa e Clea). […] Figlia di una povera famiglia proveniente da Salonicco, Justine ha subito due traumi: è stata violentata da un parente quando era ragazzina, e un giorno la sua bambina è scomparsa. […] ama Darley, lo scrittore timido, […] dona a tutti il suo corpo, “ma è incapace di concedere il suo vero io, perché non sa dove si trovi”. Memorabili sono le due scene nelle quali Justine seduce Darley. […] “Da quel momento”, scrive Darley, “i suoi baci furono tremende pugnalate dolci che lasciavano senza fiato, interrotte solo da un riso selvaggio”. […] “Il corpo nudo e aspro di Justine”, scrive Darley, “si muoveva come trattenuto entro la lente di ingrandimento di una lacrima gigantesca”. […] Cosa temono, nell'amore, gli stranieri che abitano Alessandria? Perché ripetono ossessivamente che l'unico amore possibile è quello che si nutre della perdita o del tradimento? Che si va a letto con una persona solo per evitare di innamorarsi di quella persona? […] Assediati nelle loro case dalla tenebra africana, […]; soffocati dagli odori del sudore e delle spezie, dell'orina e del gelsomino appassito, gli alessandrini occidentali scrutano in quella foresta buia della mente, nel buio di quella vecchia carne insaziata di desideri, ma non trovano una risposta al mistero dell'amore. Neppure nelle pagine finali del romanzo riusciranno a capire perché, amando tanto, hanno sofferto tanto. […] E tutti se ne andranno, per sempre. E la città meravigliosa verrà inghiottita nella memoria, col suo mistero.».

Nel 1969 il regista americano George Cukor manifestò l'intenzione di portare sullo schermo The Alexandria Quartet ma, a causa della sua complessità, fu costretto a sfoltire e a semplificare e nel suo film Justine (della 20th Century Fox) rimase soltanto la parte melodrammatica. Lawrence B. Marcus e Ivan Moffat furono gli sceneggiatori e tutti straordinari gli interpreti: Anouk Aimée (Justine), Michael York (Darley), John Vernon (Nessim, il ricchissimo copto al quale Justine si è legata con un contratto matrimoniale che non contemplava l'amore, ma del quale era forse innamorata), Dirk Bogarde (Pursewarden, un altro scrittore che la disprezza e che forse proprio per questo Justine ama), Anna Karina (Melissa, una giovane ballerina di night–club e prostituta, tubercolotica e drogata, amante di Darley), George Baker (l'ambasciatore David Mountolive), Robert Forster (Narouz), Philippe Noiret (Pombal), Elaine Curch (Liza) e Seven Darden (Balthazar). Il regista fu costretto a mantenere alcuni temi portanti del libro (omosessualità, incesto, prostituzione infantile, droga e travestitismo) e questo creò per il film comparso in Italia col titolo Rapporto a quattro non pochi problemi con la censura italiana che tagliò ben 14 minuti del film. Su il Morandini di Laura, Luisa e Morando Morandini (Zanichelli editore, Torino) è scritto: «Nel 1938 ad Alessandria d'Egitto la bella moglie di un ricco banchiere influenza i destini di quelli che incontra. Cukor prese in corsa la direzione del film, iniziato e già guastato da Joseph Strick anche a causa di una sceneggiatura che aveva trasformato la materia narrativa di Lawrence Durrell in un fumettone alla Peyton Place con cammelli. Non fece altro che limitare i danni.».

Nel 1967 la moglie di Durrell Claude morì di cancro, lasciando Lawrence nello sconforto, che si stabilì nel sud della Francia, a Sommières, un piccolo villaggio nel Languedoc, ove aveva comprato una grande casa. Pubblicò The Revolt of Aphrodite, comprendente Tunc (1968) e Nunquam (1970), il suo lavoro più criticato, che narra la storia dell'inventore di talento Felix Charlock coinvolto in una misteriosa macchinazione.

Nel 1973 Durrell sposò la francese Ghislaine de Boysson (dalla quale divorziò nel 1979). A questo periodo appartiene The Avignon Quintet, col quale sperava di replicare il successo di The Alexandria Quartet; fu un tentativo di risolvere in modo nuovo e su diverse basi ideali gli stessi temi di The Alexandria Quartet e includeva: Monsieur, o Il principe delle tenebre (Monsieur, or the Prince of Darkness) (1974) vincitore del James Tait Black Memorial Prize, Livia, o Sepolta viva (Livia: or, Buried Alive) (1978), Constance: pratiche solitarie (Constance: or, Solitary Practices) (1982) che rappresentava la Francia sotto l'occupazione tedesca (nominato per il Booker Prize), Sebastian: or, Ruling Passions (1983) e Quinx: or, The Ripper's Tale (1985). Seguirono: Carosello siciliano (Sicilian carousel) (1977), una celebrazione della Sicilia; Le isole greche (The Greek islands) (1978), un omaggio lirico alle isole della tanto amata Grecia; e Caesar's Vast Ghost (1990), un inno alla Francia e alla Provenza.

Lawrence Durrell fu anche un raffinato poeta, amato per la vivacità dei suoi versi e per la concretezza espressiva delle sue poesie. Si ricordano: Dieci Poesie (Ten Poems) (1932), Paese privato (A Private Country) (1943), Apparenza di presunzione (On Seeming to Presume) (1948), Selected Poems: 1953–1963 (1964) e Collected poems: 1931–1974 (1980). Peter Porter, nella sua introduzione a Selected Poems, scrisse di Durrell in quanto poeta: «Uno dei migliori degli ultimi cento anni. E uno dei più divertenti.» (Porter P., ed., Lawrence Durrell: Selected Poems, Faber and Faber, 2006).

Durrell amò molto il teatro; sono da ricordare: Bromo Bombastes (1933) scritto con lo pseudonimo di Gaffer Peeslake, Saffo (Sappho: A Play in Verse) (1950), An Irish Faustus: A Morality in Nine Scenes (1963) e Acte (1964), adattato nel 1968 per la TV greca con il titolo “Skyytian välikohtaus”.

Scrisse anche saggi, tra i quali A Key to Modern British Poetry (1952) e Un sorriso nell'occhio della mente (A Smile in the Mind's Eye) (1982).

Notevoli e interessanti sono i suoi libri di viaggio (di cui abbiamo già parlato): da giramondo e cosmopolita, aveva scritto: «Viaggiare potrebbe essere una delle più forme più gratificanti dell'introspezione». Fu anche fotografo e pianista (aveva scritto: «La musica è stata inventata per confermare la solitudine umana»).

Una serie di racconti umoristici sulla sua vita e le sue esperienze nel corpo diplomatico, pubblicati precedentemente su riviste, comprendeva: Esprit de corps: sketches from diplomatic life (1957); Stiff upper lip (1959), adattato per la TV dallo stesso autore nel 1968; Sauve qui peut (1966) e la raccolta comica Antrobus Complete (1985).

Molti dei suoi testi sono stati tradotti e pubblicati in Italia da Einaudi (su L'Arcipelago Einaudi), Longanesi, Feltrinelli, Fazi e Mursia. Molte informazioni per la preparazione di questo profilo biografico sono state tratte da MacNiven, Ian S., Lawrence Durrell: A Biography. Faber and Faber, 1998.

Nel 1980 è stata creata la fondazione del “The International Lawrence Durrell Society (ILDS)” con lo scopo di facilitare lo studio e la comprensione del lavoro di Lawrence Durrell e di promuovere conferenze e seminari; pubblica la newsletter “The Herald” e il “Deus Loci: The International Lawrence Durrell Journal”. Richard Pine ha fondato la “The Durrell School of Corfu” (di cui adesso è Direttore Emerito), che tra le sue attività include seminari culturali (destinati allo studio di Lawrence e Gerald Durrell) ed escursioni per esplorare la ricca storia culturale e l'architettura del bacino del Mediterraneo (dal 20 al 27 giugno la Scuola organizzerà il convegno Lawrence Durrell and Corfu: A Centenary Appraisal).

Sofferente di enfisema cronico, distrutto dal suicidio della figlia Sappho Jane avvenuto nel 1985, Lawrence Durrell  morì per un ictus nella sua casa di Sommières in Francia il 7 novembre del 1990: aveva 78 anni.


sabato 25 febbraio 2012

Assia Noris, la diva ingenua e sognatrice



Assia Noris



Il 26 febbraio del 1912, cento anni addietro, nasceva a San Pietroburgo (capitale dell'Impero Russo) Anastasia Noris Von Gerzfeld, attrice italiana di origini russe, meglio conosciuta con lo pseudonimo di Assia Noris. Girò circa 26 film.

Figlia di un conte ufficiale tedesco e di una donna ucraina, dopo la rivoluzione di Ottobre, fuggì con la famiglia a Nizza, in Francia, ove frequentò il liceo. Aveva appena compiuto sedici anni quando, nel 1928, apparve nel film muto Venus (Venere moderna) di Louis Mercanton, insieme a Costance Talmadge (vedere: Enrico Lancia e Roberto Poppi, Dizionario del cinema italiano. Le attrici dal 1930 ai giorni nostri, Gremese editore, 2006).

Giunse in Italia nel 1929 e, ancora giovanissima, nel 1932 debuttò nel cinema con Trois hommes en habit di Mario Bonnard e – grazie alla sua versatilità nelle lingue – nel 1933 girò con lo stesso regista la versione per il mercato italiano intitolata Tre uomini in frack, insieme con Maria Wronska, Milly, Eduardo e Peppino de Filippo, e Tito Schipa. Recitò con Bonnard ancora in Ève cherche un père (1933), La marche nuptiale e la sua versione italiana La marcia nuziale (1934) con Kiki Palmer, Tullio Carminati ed Enrico Viarisio.

Fu però il regista Mario Camerini (1895–1981) – definito «il cineasta che parla sottovoce» e tecnicamente scaltro ed elegante, amò i toni crepuscolari e il chiaroscuro, l'intimismo e la levità dei sentimenti, il mondo della piccola borghesia e del proletariato, l'umanità minuta e le storie ricche di patetismo – che mise in luce il potenziale dell'attrice e le consentì di raggiungere il grande successo popolare. Camerini sposò Assia Noris nel 1940 (l'amore finì e si lasciarono nel 1943) e la trasformò da bambolina leziosetta e vanesia in una sensibile attrice, facendola recitare spesso insieme al grande divo del momento: il giovane e frizzante Vittorio De Sica nel personaggio del bravo ragazzo scherzoso e ironico, un po' sbruffone ma simpatico. Con i film di Camerini e grazie al suo tandem con De Sica (il “bel giovane rubacuori”) Assia Noris divenne l'attrice più richiesta del mondo della celluloide italiano. Aveva quella grazia gentile e delicata che le consentiva d'interpretare al meglio – in quelle commedie d'intrattenimento, dall'intreccio comico–sentimentale, leggere e garbate, tipiche del periodo – il ruolo della ragazza timida e ingenua, onesta e di nobili sentimenti, sognatrice ma in fondo con i piedi ben saldi sulla terra, la fidanzatina di tutti e la ragazza della porta accanto («pian piano alla naturale espressività aggiunse dei tempi da ottima attrice comica», scrisse Tullio Kezich). La presenza semplice e sincera di Assia – metafora di un'Italia povera ma dignitosa e pulita – rappresentò certamente uno degli elementi dominanti per il successo dei film di Camerini, quali Giallo (1933) – da un racconto di Wallace, nel ruolo di Henriette, con Sandro Ruffini ed Elio Steiner –; Darò un milione (1935) con Vittorio De Sica; Ma non è una cosa seria (1936) – da una commedia di Pirandello, nel ruolo della signorina Loletta Festa, con Vittorio De Sica nel ruolo di Memmo Speranza (la parte più importante di Gasparina toccò a Elisa Cegani) –; Il signor Max (1937) con Vittorio De Sica; Batticuore (1939) con John Lodge e Luigi Almirante; I grandi magazzini (1939) con Vittorio De Sica (presentato in concorso alla 7ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia); Centomila dollari (1940) con Amedeo Nazzari; Una romantica avventura (1940) – versione italiana di un racconto di Thomas Hardy, nel ruolo di Annetta, con Gino Cervi e Leonardo Cortese –; e Una storia d'amore (1942) con Piero Lulli e Carlo Campanini, nel ruolo sofferto di Anna Roberti, prostituta pentita che dopo aver ucciso il suo ricattatore muore di parto in prigione (vedere: Massimo Scaglione, Le dive del ventennio. Torino, Edizioni Lindau, 2003).

Grazie alla sua bellezza slava (occhi azzurri e boccoli biondi), alla sua grazia e al suo esotico accento straniero, divenne una delle grandi dive del cinema degli anni trenta, l'eroina di un mondo lindo e romantico, premiato spesso e volentieri dallo stereotipato “e vissero felici e contenti”. In quegli anni lavorò (talora soltanto in particine) con Anatole Litvak in Mayerling (1936) insieme a Charles Boyer e Danielle Darrieux; con Mario Mattoli ne L'uomo che sorride (1936) insieme a Vittorio De Sica, Umberto Melnati ed Enrico Viarisio; con Goffredo Alessandrini in Una donna tra due mondi (1936) insieme a Isa Miranda, Gustav Diessl e Mario Ferrari; con Nunzio Malasomma ne La signorina dell'autobus (1933) insieme ad Antonio Gandusio, Franco Coop e Osvaldo Valenti, e in Nina, non far la stupida (1937) insieme a Nino Besozzi; e con Marco Elter nel comico Allegri masnadieri (1937) insieme a Guido e Giorgio De Rege e a Camillo Pilotto. Fu anche in Maman Colibri (1937) di Jean Dréville con Huguette Duflos e Jean–Pierre Aumont, e in Voglio vivere con Letizia (1938) di Camillo Mastrocinque con Gino Cervi e Umberto Melnati.

Continuò a volare sulle ali del successo con Dora Nelson (1939) di Mario Soldati (delizioso film tratto dalla pièce teatrale di Louis Verneuil, nel quale Assia interpretava un ruolo doppio: l'ingenua Pierina e l'insopportabile Dora, diva piena di capricci, insieme a Carlo Ninchi e Luigi Cimara), e con i film dei registi più famosi del tempo, quali Con le donne non si scherza (1941) di Giorgio Simonelli con Umberto Melnati e Carlo Campanini; Luna di miele (1941) di Giacomo Gentilomo con Aldo Fiorelli e Luigi Cimara; Un colpo di pistola (1942) – tratto da un testo di Puškin, nel ruolo di Mascia, e la sua bellezza radiosa fu esaltata dai superbi costumi disegnati da Maria De Matteis – di un esordiente Renato Castellani con Fosco Giachetti e Antonio Centa; e Capitaine Fracasse (1942) di Abel Gance con Fernand Gravey, Roland Toutain e Alice Tissot. In alcuni di questi film si cimentò anche in ruoli drammatici, rivelando un certo spessore nella recitazione.

Pian piano, con la fine della seconda Guerra mondiale, il successo di Assia Noris sembrò destinato a tramontare. Aveva avuto modo d'incontrare Adolf  Hitler, che descrisse in modo ironico: egli avrebbe voluto utilizzare a scopo politico quell'attrice così perfetta a incarnare l'ideale ariano della pura razza eletta (la Noris gli diede una risposta negativa per recitare nel cinema di Stato tedesco). Ha scritto Roberto Festorazzi (“Assia Noris, una diva alla corte di Goebbels”, www.avvenire.it/Cultura/Pagine/Noris-alla-corte-di-goebbels.aspx, 13 ottobre 2011): «Un'artista che torna alla ribalta attraverso una rilettura del rapporto tra il mondo del cinema e i regimi forti del Novecento. […] Assia divenne così la regina del cinema autarchico di Cinecittà, vero contraltare di Hollywood celebrato dal Duce come l'arma propagandistica più forte, in grado di plasmare l'immaginario delle masse. […] Nel dopoguerra, lamentò presunte persecuzione ordite ai suoi danni dalla censura del Minculpop, poi addirittura una sua deportazione in Germania. Di questa diva dell'Asse ho trovato alcune fotografie inedite che raccontano però un'altra verità: le sue connessioni con l'alta politica del Reich nazista. Le immagini la ritraggono in compagnia di Joseph Goebbels, il potente ministro della Propaganda di Hitler. […] Le dive di celluloide, oltre che ambasciatrici dei propri rispettivi Paesi, si prestavano a divenire intime collaboratrici di quest'alleanza, o matrimonio, tra i due modelli  autoritari e antibolscevichi che a quel tempo parevano vincenti in Europa. Le attrici del cinema di Goebbels e di Mussolini, oggetto di un nuovo culto popolare, come nuove dee di un rito collettivo politeista, attraverso il loro volto e la presenza stessa nella vita delle proprie nazioni, contribuirono infatti a celebrare il mito di una nuova civiltà che trovava i suoi natali proprio nella fondazione dell’Asse. Come prodotto di esportazione, poi, il cinema totalitario ambiva ad essere strumento di attiva penetrazione delle idee–guida di quei regimi, e dunque arma propagandistica per eccellenza. Con il crollo di quei regimi che l'avevano lanciata come un astro nel firmamento pavesato di croci uncinate, Assia Noris vide franare anche gli ultimi sogni.». Al contrario, si raccontava di suoi rapporti difficili con il regime – in particolare con il Ministero della Cultura Popolare e con il ministro Gaetano Polverelli – a causa del comportamento anticonformista dell'attrice, in nulla rispondente all'“etica del regime” ipocrita e bacchettona, ma sembra che – come riporta Roberto Festorazzi – Assia fosse gradita a Roberto Farinacci, il potente ras di Cremona, ministro di Stato ed esponente dell'ala filo–germanica del regime fascista, che una volta durante una sua visita ufficiale compiuta in Germania tra la fine di settembre e l'inizio di ottobre del 1940, si servì della bionda attrice come interprete.

Tramontata la sua stella nel mondo del cinema – come ha scritto Matteo Contin (in “Rapporto Confidenziale”, numero 34, estate 2011): «il cinema italiano era appena passato dalla rivoluzione neorealista e un volto legato a un modo di fare cinema così differente, era considerato poco adatto» –, tentò la via del teatro, debuttando nel 1944 nella commedia di Anna Bonacci L'ora della fantasia con Carlo Ninchi e Roldano Lupi (da questa commedia, nel 1952, Camerini trasse il film Moglie per una notte, interpretato da una splendida Gina Lollobrigida). Nel 1945 Assia partecipò alla rivista di Morbelli Col Cappello sulle ventitré con Dina Galli e Odoardo Spadaro per la regia di Camillo Mastrocinque (vedere: Enrico Lancia e Roberto Poppi, Dizionario del cinema italiano. Le attrici dal 1930 ai giorni nostri, Gremese editore, 2006).

La Noris continuò a lavorare nel cinema con alterna fortuna; da ricordare: Le voyageur de la Toussaint (1943) di Louis Daquin con Jean Desailly, Gabrielle Dorziat e Jules Berry; Una piccola moglie (1943) di Giorgio Bianchi – tratto dall'omonimo romanzo ungherese di Zoltan Szatnyai – con Fosco Giachetti, Clara Calamai e Renato Cialente; Che distinta famiglia! (1945) di Mario Bonnard con Gino Cervi, Aroldo Tieri, Paolo Stoppa e Rina Morelli; Nessuno torna indietro (1943) di Alessandro Blasetti – tratto dall'omonimo bel romanzo di Alba de Céspedes – con molte delle più belle e brave attrici dell'epoca (Dina Sassoli, Elisa Cegani, Mariella Lotti, Doris Duranti, Maria Mercader, Valentina Cortese e Maria Denis); e La peccatrice bianca alias Amina (1950) di Goffredo Alessandrini, girato in Egitto, con Youssef Wahaby e Rouchdy Azaba.

Nel 1964, a sorpresa, Assia Noris ritornò sullo schermo da protagonista nel suo ultimo film quasi profetico, La Celestina P. R. di Carlo Lizzani (lo aveva scritto e prodotto lei stessa, scegliendo il suo regista), con Beba Loncar, Raffaella Carrà, Venantino Venantini, Marilù Tolo, Nino Crisman e Piero Mazzarella. Il film racconta di Celestina, una donna d'affari elegante e raffinata ma intraprendente e senza scrupoli, che procura ragazze disponibili (oggi diremmo “escort”) a facoltosi uomini di potere, che la donna ricatta con fotografie e videoregistrazioni per procurarsi il denaro che le consente di condurre una vita piena di agi e di lusso, in un mondo che sembra aver perso tutti i suoi ideali, fagocitati dall’arrivismo più cinico e dalla voglia di ricchezza fine a sé stessa. In una sua critica al film, Matteo Contin (in “Rapporto Confidenziale”, numero 34, estate 2011) ha scritto: «Questo film di Lizzani è una semplice commedia di costume da cui emergono in maniera divertita non solo i vizi e i segreti della Milano da bere, ma anche come il boom economico abbia trasformato tutto in commercio, anche il corpo delle donne. Il ritratto sottilmente negativo di questa Milano è una scelta ben precisa e non semplicemente il riflesso del sentire di un'epoca sulla superficie del film. L'intento del film è una chiara e (in parte) coraggiosa presa di posizione (anche se travestita da commedia), purtroppo non sostenuta a dovere dalla sceneggiatura. […] Il film, utilizzando i toni della commedia (a dire il vero abbastanza innocua), critica sarcasticamente quel tipo di società mettendosi però dalla sua parte, ovvero facendo della Celestina il personaggio con cui lo spettatore riesce a immedesimarsi di più. Partecipiamo con lei alle sue malefatte e con lei condividiamo i suoi scopi, senza arrivare mai ad odiarla del tutto anche quando, alla fine della pellicola, scappa per evitare guai giudiziari. Non sempre la sceneggiatura ([…], prendendo spunto da “La Celestina” di Fernando De Rojas) centra il bersaglio con la sua satira, forse perché i toni sono talmente pacati che graffiare qualcuno è praticamente impossibile. Ogni tanto qualche buon colpo va a segno, ma questo non basta per rendere il film corrosivo quanto avremmo voluto. […] Assia Noris si rimette in gioco e costruisce un personaggio ambiguo al punto giusto, sottilmente malvagio, la cui astuzia è trasfigurata visivamente in un corpo attoriale che si fa immagine e icona, con il suo trucco eccessivo, i gioielli sfarzosi e i numerosi cambi d'abito. La Noris s'impegna e porta a casa un personaggio interessante, che non sempre convince (soprattutto quando diventa colonna portante del film), ma che grazie a dei buoni attori di contorno, riesce a uscirne con dignità e classe.». Lizzani ammise di aver accettato il film, incuriosito dal compito di rappresentare una commedia popolare che raccontava con ironia il presente ma che voleva anche mandare un messaggio critico alla degradata società milanese del tempo.

Ritiratasi definitivamente dalle scene, la Noris tagliò tutti i ponti col passato, vivendo assolutamente appartata e negandosi a interviste o a partecipazioni televisive. Morì in ospedale a Sanremo (ove viveva) il 27 gennaio del 1998. Aveva 85 anni e portava con sé tutti i segreti della contessa Anastasia Noris Von Gerzfeld. Come tutte le dive che si rispettino, si era sposata cinque volte: il primo marito fu il conte Gaetano Assia (dal suo cognome aveva preso il nome d'arte), il secondo Roberto Rossellini (ma soltanto per due giorni), seguito da Mario Camerini, dall’ufficiale inglese Jacob Pelster (che la lasciò ben presto vedova) e dal ricco ingegnere petroliere egiziano Tony Habib.

Nel suo articolo “Aveva 85 anni. Cinque matrimoni, fu moglie di Rossellini Addio Assia Noris, diva del mistero nel cinema dei "telefoni bianchi"” (Corriere della Sera, 28 gennaio 1998), Tullio Kezich così scriveva: «Assia Noris, la semplicità e il mistero. La semplicità sullo schermo, dove per tutti gli anni Trenta e oltre fu Lauretta (il nome che appioppavano volentieri ai suoi personaggi), la ragazza della porta accanto, la fidanzatina d'Italia alla quale ogni giorno scrivevano centinaia di ammiratori. E il mistero più fitto nella vita. […] Sposata a un principe d'Assia (da cui in nome)? A Francesco Savio, in un'intervista del '73 precisò: “Mai conosciuto il principe d'Assia. Ho conosciuto Hitler, Mussolini, il re d'Inghilterra, ma questo "mio marito" non l'ho mai conosciuto”. Di mariti ne conobbe comunque altri, 4 o 5, fra i quali Roberto Rossellini non ancora regista e Mario Camerini, regista già famoso che le dedicò una decina di film. […] Era piccola di statura, aveva le gambe non belle, e tuttavia scatenò gli entusiasmi (e l'irritazione dei moralisti) apparendo in un costume estremamente succinto in “Darò un milione”; ma con Savio minimizzò: “In fondo era come andare al mare”. […] Sensibile agli umori delle platee, nel dopoguerra l'attrice diradò le apparizioni sullo schermo, andò a vivere in Egitto seguendo il marito di turno e dopo uno sfortunato tentativo di riproporsi nel '65 con “La Celestina P.R.” optò per un tranquillo ritiro a Sanremo. Nessuno riuscì a coinvolgerla nei frequenti riti celebrativi del cinema dei “telefoni bianchi”, nel frattempo tornato di moda. E nessuno ha mai saputo se era bianco anche quel telefono di casa sua, al quale era così difficile trovarla.».

domenica 19 febbraio 2012

Pierre Boulle: Il ponte sul fiume Kwai e Il pianeta delle scimmie



Pierre Boulle



Cento anni addietro, il 20 febbraio del 1912, nasceva ad Avignone Pierre Boulle, prolifico scrittore, autore di romanzi, racconti e saggi. La sua vita è stata più esotica, movimentata e appassionante di un romanzo.

Dopo essersi laureato in Ingegneria, fu in Malesia dal 1936 al 1939 come consulente tecnico nelle piantagioni di caucciù. Arruolatosi durante la seconda guerra mondiale fu mandato in Indocina e, dopo l'occupazione tedesca della Francia, partecipò alla missione della Francia Libera a Singapore.

Da agente segreto (aveva preso il nome di Peter John Rule) fece parte della Resistenza in Cina, Birmania e Indocina Francese contro gli invasori giapponesi ma nel 1943, lungo il Mekong, cadde nelle mani dei militari francesi del governo di Vichy e, in prigionia, dovette subire la durezza dei lavori forzati. Riuscì a fuggire e fece ritorno in Francia ove, dopo la fine della guerra per questi suoi innegabili meriti, gli furono conferiti il Cavalierato della Legione d'Onore, la decorazione della Croce di Guerra e la Medaglia della Resistenza.

Dopo aver fatto ritorno a Parigi, si diede alla scrittura attingendo alle sue straordinarie esperienze di guerra. Divenne famoso nel 1952 con il romanzo storico Il ponte sul fiume Kwai (Le pont de la rivière Kwai): il libro divenne un bestseller internazionale, vincendo il Prix Sainte-Beuve. Contestando la follia della guerra e certe assurdità dei valori e dell'etica delle istituzioni militari, narra la storia vera di un gruppo di prigionieri di guerra inglesi in Tailandia, costretti nel 1943 ai lavori forzati sulla “Ferrovia della Morte”, lunga 415 km e da costruirsi sul fiume Mae Klong, programmata dalle truppe giapponesi al fine di collegare la Tailandia con la Birmania. Per le spaventose condizioni di lavoro, per le privazioni e per le tremende sevizie inferte dai soldati giapponesi, morirono circa 16.000 di questi prigionieri – i loro corpi furono sepolti lungo la ferrovia – e più di 100.000 asiatici che facevano parte della manodopera, deportati dalla Malesia e dalle Indie orientali olandesi o arruolati in Thailandia e Birmania. Protagonista del romanzo è il tenente colonnello Nicholson che, dopo aver subito lunghe torture inflittegli dal comandante Saito per il suo rifiuto di far lavorare gli ufficiali in accordo con le norme della Convenzione di Ginevra, decide infine di collaborare con i giapponesi dirigendo i propri uomini nella costruzione di un ponte sul fiume Kwai. In lui c'era anche l'illusione di dimostrare la superiorità tecnica degli inglesi nella realizzazione del ponte e di conseguire una rivincita morale sugli inetti giapponesi; era anche convinto che i suoi ragazzi, finché avessero avuto la sensazione di esser comandati da lui, sarebbero stati soldati e non schiavi. Il ponte alla fine è costruito e per la sua importanza strategica viene minato dal comando alleato che intende farlo saltare al passaggio del primo treno pieno di militari giapponesi; sarà proprio Nicholson, del tutto involontariamente, a provocare l'esplosione di quel ponte che i prigionieri avevano costruito con immensa fatica e con sacrificio di vite umane. All'inizio del suo romanzo, scriveva Boulle: «L'abisso insormontabile che certe considerazioni scavano tra l'anima occidentale e l'orientale può darsi sia solo effetto di un miraggio. […] In questa guerra la necessità di “salvare la faccia” non era altrettanto imperiosa, necessaria per i Britannici come per i Giapponesi? […] Forse gli atti in apparenza opposti dei due nemici non erano per caso manifestazioni differenti ma anodine della stessa realtà immateriale? E lo spirito del colonnello giapponese Saito non era, nella sua essenza, analogo a quello del suo prigioniero, il colonnello Nicholson?» (Pierre Boulle, Il ponte sul fiume Kwai, traduzione di Enrica e Giuseppe Ciocia, Oscar Mondadori, Milano 1965).

Da questo libro fu tratto lo strepitoso ed epico film inglese di David Lean The Bridge on the River Kwa (1958), che vinse sette premi Oscar (incluso quello per la migliore sceneggiatura non originale conferito a Boulle), con Alec Guinness  nel ruolo di Nicholson si aggiudicò l'Oscar come miglior attore –, Sessue Hayakawa (il colonnello Saito), William Holden (il soldato americano Shears) e Jack Hawkins (il maggiore Warden).

Dopo diversi altri romanzi di successo, tutti pubblicati con Julliard, quali: La Face (1953), Le Bourreau (1954), L'Épreuve des hommes blancs (1955), Les Voies du salut (1958) e Un métier de seigneur (1960), nel 1963, Pierre Boulle raggiunse di nuovo l'immenso pubblico internazionale con Il pianeta delle scimmie (La Planète des Singes), prototipo e classico del genere fantascientifico distopico, ambientato nel Pianeta Soror e nel futuro, nel secolo terrestre XXXI. La storia viene raccontata quale messaggio in bottiglia, scritto da un pioniere spaziale che desidera lasciare una narrazione–testimonianza delle sue straordinarie avventure: «Affido questo manoscritto allo spazio, non con la speranza di ottenere soccorso, ma per contribuire, forse, a scongiurare lo spaventoso flagello che minaccia la razza umana. Dio abbia pietà di noi!». In Italia il romanzo fu tradotto nel 1965 da Luciano Tibiletti con il titolo Viaggio a Soror. Il pianeta delle scimmie (collana Il mosaico, Editrice Massimo, 1965). In un ambito fantascientifico e futuristico, Jinn e Phyllis, facoltosi turisti stanno facendo una gita intersiderale con la loro navicella spaziale: «Jinn e Phyllis stavano passando delle meravigliose vacanze nello spazio, il più lontano possibile dagli astri abitati. In quel tempo i viaggi interplanetari erano all'ordine del giorno.». I due notano una bottiglia fluttuante all’esterno e la recuperano, leggendo il manoscritto che si trova all'interno della bottiglia. Il pioniere spaziale, protagonista della storia, è il giornalista francese Ulisse Mérou – un personaggio simile non poteva che chiamarsi Ulisse! – che nel 2500, insieme al giovane fisico Arturo Levain e al piccolo scimpanzé Ettore, aveva seguito lo scienziato professor Antelle in un’avventura con il suo vascello spaziale destinato a raggiungere il pianeta extrasolare di Betelgeuse (distante trecento anni luce dalla Terra). Dopo due anni di viaggio, atterrano nel nuovo mondo e vi trovano una città abitata da uomini e donne di aspetto primitivo, dimentichi del linguaggio e ridotti in schiavitù, prede di una nuova genia di orangutan, gorilla e scimpanzé dall'atteggiamento umano e dal comportamento evoluto (la razza di scimmie “Simius sapiens” aveva preso il sopravvento sulla popolazione umana, sempre più debole e inetta). I nostri eroi cadono prigionieri di questa popolazione sororiana e Mérou viene rinchiuso in gabbia ed è usato come cavia e sottoposto a esperimenti scientifici per una ricerca sul comportamento sessuale in cattività (per questo scopo gli viene affiancata Nova, una donna bellissima ma quasi animalesca). Ulisse riesce a stabilire un rapporto sia con lei sia con Zira, graziosa scimpanzé, scienziata nel reparto scientifico, la quale – insieme al fidanzato Cornelius, anch'egli scienziato (e contro il saccente e borioso orangutan Zaius, suo capo d'istituto) – lo aiuta a ritrovare la libertà e lo inserisce nella società delle scimmie. Dopo il parto di Sirius (un figlio precoce e intelligente), Ulisse, Nova e il bambino vengono rimessi in orbita verso la Terra per paura che possano dare origine a una progenie evoluta. Ritornato sulla terra (sono passati 700 anni), Ulisse ha l'amara sorpresa di scoprire che anche la Terra è ora governata da scimmie intelligenti, divenute la razza dominante come a Soror. Abbandonata la Terra al suo destino allucinante, lancia il suo messaggio di sconforto nello spazio perché qualcuno lo ritrovi. Nell'epilogo si capisce che Jinn e Phyllis altro non sono che due giovani e pelosi scimpanzé. Appare evidente la forza e l'insito sarcasmo con il quale Boulle vuol capovolgere la teoria darwiniana dell'evoluzione realizzando un rovesciamento di prospettiva: sono le scimmie ad avere ora raggiunto il maggior grado di evoluzione, e non gli uomini! E adesso le cavie non sono le scimmie, ma gli uomini! A proposito della lettura del libro di Boulle, ha scritto Fernando Bassoli ne “IlClassico” il 26 gennaio del 2012: «Dirò solo che è una di quelle esperienze/condivisioni del possibile in forma di parola che tutti dovrebbero sperimentare. […] Questo per la capacità, disarmante, di Boulle di prendere quasi di peso il lettore e precipitarlo in una dimensione in perfetto equilibrio tra sogno e costanti spiegazioni scientifiche (qui torna utile allo scrittore lo studio dell’Ingegneria). La lezione da apprendere, al di là della sensibilità estrema palesata nella caratterizzazione psicologica dei personaggi chiave della vicenda (es. la bella Nova priva di una coscienza umana o l’empatica Kira, coi suoi commoventi rossori) è che quando si progetta un organismo letterario – cioè un mondo virtuale che vivrà autonomamente negli anni, raccontando cose sempre misteriosamente nuove – non bisogna porsi confini né di spazio né d’inventiva. Non bisogna porre limiti alla provvidenza. […] E allora i personaggi di questa strabiliante storia sono di quelli che continueranno a camminare al tuo fianco, come è accaduto al sottoscritto. Per tutta la vita.»
 (http://www.flaneri.com/index.php/flaneri/categoria/ilclassico).

Nel 1968 da questo fantastico romanzo fu tratto il film omonimo Planet of the Apes di Franklin J. Schaffner con James Whitmore, Charlton Heston (premiato con l'Oscar), Kim Hunter, Linda Harrison e Roddy McDowall. Il film è stato così commentato su il Morandini di Laura, Luisa e Morando Morandini (Zanichelli editore, Torino): «Thriller di anticipazione che è anche una favola filosofica sui nostri tempi con risvolti politici e sociologici. I suoi primi 20 minuti e gli ultimi 10 ne fanno un precursore della SF moderna al cinema. Vinse un Oscar speciale per il trucco creato da John Chambers.». Seguirono ben quattro sequel: L'altra faccia del pianeta delle scimmie (Beneath the Planet of the Apes) (1970) di Ted Post con James Franciscus, Charlton Heston, Kim Hunter, Linda Harrison e Maurice Evans – meno originale e più fiacco del precedente –; Fuga dal pianeta delle scimmie (Escape from the Planet of the Apes) (1971) di Don Taylor con Bradford Dillman, Kim Hunter, Ricardo Montalban, Roddy McDowall e Sal Mineo, che (come ha scritto il Morandini) «non manca di acume nel sottotesto di analisi politica»; e 1999 - Conquista della Terra (Conquest of the Planet of the Apes) (1972), con Roddy McDowall, Don Murray, Natalie Trundy e Hari Rhodes, e Anno 2670 ultimo atto (Battle for the Planet of the Apes) (1973), con Roddy McDowall, Claude Akins, Natalie Trundy e Severn Darden, entrambi diretti da J. Lee Thompson, ma inferiori per tensione e inventiva ai precedenti. Esistono anche il remake Planet of the Apes - Il pianeta delle scimmie (Planet of the Apes) (2001) girato da Tim Burton, con Mark Wahlberg, Tim Roth, Helena Bonham Carter e Paul Giamatti, e il prequel L'alba del pianeta delle scimmie (Rise of the Planet of the Apes) (2011) di Rupert Wyatt con James Franco, John Lithgow, Freida Pinto, Brian Cox e Tom Felton; Con riferimento a quest'ultimo film, ha scritto Edoardo Becattini il 26 gennaio del 2012: «“L'evoluzione diviene rivoluzione” recita la tagline americana del film. Aforisma perfetto per raccontare questo prequel–reboot espiantato direttamente dal lontano Pianeta delle scimmie datato 1968 per dimenticare l'esperimento dark–autoriale del remake di Tim Burton. Perché il film di Rupert Wyatt – […] – si racconta esattamente attraverso questi due movimenti. Una prima parte in cui si descrive l'Evoluzione della scimmia e si riscrive Frankenstein attraverso un moderno Prometeo alla ricerca di una cura per l'Alzheimer; e una seconda parte in cui la diversità e la sindrome del mostro vissute dalla Creatura–Scimpanzé creano i presupposti per un'insurrezione degna di Spartacus […] È all'interno di questi due momenti narrativi che si modella anche il progetto di questo nuovo capitolo: una dialettica schiavo–padrone in cui il film gioca a far finta di essere “schiavo” della saga originale e dei cliché del cinema di genere per poi mostrarsi perfettamente padrone degli eventi e della messa in scena.» (vedere l'articolo “Un fervido dinamismo visivo, tra tragedia classica e romanzo gotico”, su  http://www.mymovies.it/film/2011/riseoftheapes/). Ispirandosi al romanzo di Boulle, sono state realizzate anche due serie televisive nel 1972 e nel 1975, quest'ultima animata.

A questo bestseller, Boulle fece seguire molti romanzi: Un étrange événement (1957), Le jardin de Kanashima (1964), Le photographe (1967), Les jeux de l'esprit (1971), Les oreilles de jungle (1972), Les vertus de l'enfer (1974), Le bon léviatan (1977), Les coulisses du ciel (1979), L'énergie du désespoir (1981), Miroitements (1982), La baleine des Malouines (1983), Pour l'amour de l'art (1985), Le professeur Mortimer (1988), Le malheur des uns (1990) e À nous deux Satan (1992). In Francia, diversi romanzi sono stati trasposti per il cinema e per la TV.

Pierre Boulle scrisse anche molte interessanti raccolte di racconti, storie ricche di humour ironico, disincantate e ciniche, ferocemente candide ma al di là del plausibile e al limite dell'assurdo, a conferma di quanto incomprensibili possano essere la vita e la quotidianità: Contes de l'absurde (1953), Histoires charitables (1965), Quia absurdum: sur la Terre comme au Ciel (1970), Histoires Perfides (1976), e L'Enlèvement de l'Obélisque, uscita postuma nel 2007. Numerosi racconti hanno ispirato film per il cinema e la TV.

Sono degni di essere citati anche i suoi saggi L'ètrange croisade de l'empereur Frédéric II (1968) e L'Univers ondoyant (1987), e il dramma teatrale in quattro atti William Conrad (1962), prodotto per la TV nel 1973.


Nel 1990 pubblicò il romanzo autobiografico L'Ilon: souvenirs


Pierre Boulle morì a Parigi il 30 gennaio del 1994, all'età di 81 anni, senza essersi mai sposato, accudito da una sorella vedova e dalla figlia di lei. In un suo articolo scritto per ricordarlo, Alessandro Gnocci per “il Giornale” (http://sottoosservazione.wordpress.com/2011/08/17/il-bestsellerista-bacchetta-ecologisti-e-giudici/#more-23326), così scrive: «Pierre Boulle è il classico scrittore di cui si può dire: tutti sanno chi è, anche se pochi lo hanno sentito nominare. Alla sua morte non fu pubblicato alcun necrologio; eppure è stato un bestsellerista da milioni di copie. E un bestsellerista anomalo, di quelli che, con un pizzico di fortuna, se non vengono promossi in serie A, almeno ascendono allo status di “autore di culto”. Come Philip K. Dick. Al quale, con le dovute differenze, Boulle può essere nel complesso accostato. Togliete il senso di opprimente paranoia allo scrittore americano e aggiungete ironia a profusione. Togliete un po’ di dramma e aggiungete il gusto della provocazione intellettuale. Ed ecco Pierre Boulle, l’autore francese noto a chiunque per essere l’autore di romanzi divenuti prima casi editoriali e poi immortali classici cinematografici. […] La produzione è torrenziale, tocca tutti i generi ma mantiene una personalità originale perché scettica e dissacrante in tutte le direzioni. […] Il tema ricorrente è l’impossibilità di tracciare una linea netta tra il bene e il male, la normalità e la follia, la ragione e la fede. Ogni forma di pensiero assolutista, come ha scritto Giuseppe Scaraffia, viene smascherato da Boulle. […] L’assurdo si annida ovunque. […] Boulle ha affrontato a modo suo, cioè con perfido sarcasmo, temi difficili e attuali come la giustizia o l’ecologia. […] Con Boulle, questa è la regola, nessuna delle nostre «certezze» dettate dalla moda e dal conformismo è al sicuro. Il che fa di lui uno scrittore indispensabile.».

venerdì 17 febbraio 2012

Andre Norton, la Grande Signora della Fantascienza e del Fantasy



Andre Norton



Cento anni addietro, il 17 febbraio del 1912, nasceva a  Cleveland (Ohio, USA) Andre Norton – nata Alice Mary Norton –, notissima autrice americana di storie di fantasy e di fantascienza, premiata con il Gandalf Grand Master Award dalla SFWA (Science Fiction and Fantasy Writers of America) nel 1977, col Damon Knight Memorial Grand Master Award nel 1983  e con il Nebula Grand Master Award nel 1984.

Nella famiglia della Norton molta attenzione veniva attribuita ai libri (le visite alla biblioteca pubblica erano settimanali) e, prima che avesse imparato a leggere, la madre era solita leggere e recitare poesie alla piccola Alice Mary, che iniziò a scrivere giovanissima. Frequentava ancora la Collinwood High School di Cleveland, quando scriveva racconti per il giornalino della scuola “The Collingwood Spotlight”. Proseguì gli studi presso la Flora Stone Mather College della Western Reserve University ma dovette rinunciarvi per lavorare, a causa di problemi economici; continuò, però, la sua educazione in classi notturne di giornalismo e di scrittura creativa.

Nel 1934 pubblicò il primo romanzo The Prince Commands (una storia romantica ambientata in una piccola monarchia europea di fantasia), scritto insieme a Kate Seredy usando lo pseudonimo maschile di Andre Norton; era convinta di scrivere per ragazzi e di poter così più facilmente penetrare il mondo del fantasy, in mano tra l'altro  di scrittori prevalentemente di sesso maschile (ha usato anche gli pseudonimi di Andrew North e Allen Weston). I suoi lettori si stupivano nel vedere poi che “Mr. North” era una snella e bruna signora con occhi verdi e occhiali.

Il suo primo libro di fantascienza comparve nel 1952. Era Star Man's Son 2250 A.D., la storia di un uomo alla ricerca di una nuova identità dopo un evento apocalittico. Con esso iniziò a scrivere di “space opera”; seguirono: Star Rangers, The Stars Are Ours, Star Guard (Riscatto cosmico), Star Born e Star Gate (1958). La Norton ebbe il merito di aver creato la magica parola di “stargate” (porta delle stelle), che ha ispirato quel complesso dispositivo immaginario dell'universo fantascientifico nato nel 1994 con il costosissimo film “Stargate” di Roland Emmerich (sceneggiatura di Dean Devlin, nel cast James Spader e Kurt Russell), che raccontava di un antico e immenso reperto storico che funzionava da porta tra due mondi. Questo dispositivo fantastico si è ulteriormente sviluppato lungo le serie televisive “Stargate SG-1”,“Stargate Atlantis”,“Stargate Infinity” e “Stargate Universe”, nelle quali venivano forniti molti dettagli fantascientifici sul funzionamento di questo complesso “portale per viaggi interstellari” (già suggerito dalla Norton per giustificare un universo colonizzato attraverso l'uso di questo portale).

Dal 1932 la Norton incominciò a lavorare per la Cleveland Library System nella biblioteca Nottingham Branch a Cleveland, ove rimase per 18 anni occupandosi della sezione dedicata ai bambini. Nel 1940 e 1941 fu anche bibliotecaria presso l'American Library of Congress (Washington, DC), partecipando a un progetto di acquisizione della cittadinanza americana da parte degli immigrati, interrotto purtroppo dalla seconda Guerra Mondiale. L'amore per i libri la spinse nel 1941 ad acquisire la libreria "Mystery House" (Mount Rainier, Maryland) ma il progetto fallì e la Norton ritornò alla biblioteca pubblica di Cleveland ove rimase sino al 1950. Dopo aver lavorato per otto anni come correttore di bozze presso la "Gnome Press" e come editor di fantascienza presso la "World Publishing", riuscì finalmente a dedicarsi a tempo pieno alla scrittura di quel che fu definito il «Fantasy Eroico», divenendo anche un membro della SAGA (Swordsmen and Sorcerers' Guild of America).

Durante la guerra collaborò con il “Cleveland Press World Friends Club” ed ebbe accesso alle lettere che provenivano dall'Olanda occupata; questo materiale ispirò tre intriganti storie di spionaggio: The Sword Is Drawn (1944), Sword In Sheath (1949) e At Sword's Point (1954) (serie “Lorens Van Norreys”, conosciuta anche come “Swords”). In questo periodo iniziò a scrivere anche romanzi storici che spaziavano dal Maryland coloniale (Follow The Drum 1942), ai pirati delle Indie Occidentali (Scarface 1948, scritto con Lorence F. Bjorklund) sino alla rivoluzione americana (Yankee Privateer 1955) e alle battaglie degli Apache (Stand To Horse 1956).

Problemi di salute la spinsero a cercare il caldo della Florida, ove si trasferì a Winter Park nel novembre del 1966, rimanendovi sino al 1997, e passando poi a Murfreesboro (Nashville, Tennessee) ove morì per una grave insufficienza cardiaca il 17 marzo 2005 (aveva 93 anni), confortata dai tanti gatti che aveva amato teneramente. Non aveva immediati familiari e nel suo testamento lasciò scritto di voler essere cremata insieme con una copia del suo primo e del suo ultimo libro.

Nel febbraio del 2005 (pochi giorni prima della sua morte), lo SFWA (Science Fiction and Fantasy Writers of America) creò il Premio annuale Andre Norton per ragazzi, attribuito ai migliori lavori giovanili di fantasy e fantascienza.

In un'intervista, il suo biografo J.M Cornwell definì Andre Norton come la «Grande Dame of Science Fiction and Fantasy» (“An Interview with Andre Norton”. Theroseandthornezine.com. Retrieved 2011-12-22), e certamente la prolifica Andre Norton (autrice di moltissimi romanzi pubblicati in più di 70 anni e scritti spesso in collaborazione) ha influenzato diverse generazioni di scrittori e autori di libri e di film di fantascienza.

La sua produzione fu veramente immensa e un terzo dei suoi libri è stato tradotto in Italia (da Longanesi, Mondadori, Libra Editrice e TEA). Sono state individuate all'interno della sua produzione più di dodici serie o cicli narrativi:

— “Astra” (conosciuta anche come “Pax”): The Stars are Ours! (1954), Star Born (1957) e
Star Flight (omnibus) (2007).

“Beast Master” (conosciuta anche come “Hosteen Storm”, in collaborazione con Lyn McConchie): The Beast Master (1959), Lord of Thunder (1962), Beast Master's Ark (2002), Beast Master's Circus (2004) e Beast Master's Quest (2006). Tra il 1999 e il 2002 è stata trasmessa la serie TV “Beast Master”, ispirata ai libri di questa serie. Dal primo romanzo, The Beast Master, furono tratti il film di argomento medioevale “Kaan principe guerriero” (1982) di Don Coscarelli con Marc Singer, Tanya Roberts e Rip Torn,  e il film “Beastmaster 2: Through the Portal of Time” (1991) di Sylvio Tabet con James Avery, Michael Berryman e David Carrera.

“Cycle or The Book of Oak, Yew, Ash, and Rowan” (in collaborazione con Sasha Miller): To the King a Daughter: The Book of the Oak (2000), Knight or Knave: The Book of the Yew (2001), A Crown Disowned: The Book of the Ash and the Rowan (2002), Dragon Blade: The Book of the Rowan (2005) e Knight of the Red Beard (2008).

“Carolus Rex” (con Rosemary Edghill): The Shadow of Albion (1999) e Leopard in Exile (2001).

— “Catfantastic” (in collaborazione con Martin H. Greenberg): Catfantastic I–V (1989-1999).

Central Asia” (con Susan Shwartz): Imperial Lady: A Fantasy of Han China (1989) ed Empire of the Eagle (1993).

“Central Control”: Star Rangers (1953), The Last Planet (1955) e Star Guard (1955).

“Crosstime” (conosciuta anche come “Blake Walker series”): The Crossroads of Time e Quest Crosstime (1965).

“Dipple”: Catseye (1961) e Night of Masks (1964).

“Drew Rennie”: Ride Proud Rebel (1961) e Rebel Spurs (1962).

“Elvenbane” (conosciuta anche come “The Halfblood Chronicles”, con Mercedes Lackey): The Elvenbane (1991) ed Elvenblood (1995).

“Five Senses”: Wind in the Stone (Hearing) (1999), Mirror of Destiny (Sight) (1995), The Scent of Magic (Smell) (1998), A Taste of Magic (Taste) (2006) con Jean Rabe, e The Hands of Lyr (Touch) (1994).

“Forerunner”: Forerunner (1981) e Forerunner: The Second Venture (1985).

“Janus”: Judgment on Janus (1963) e Victory on Janus (1966).

“The Magic Sequence”: Steel Magic (1965), Gray Magic (1967), Octagon Magic (1967), Fur Magic (1968), Dragon Magic (1972), LavenderGreen Magic (1974) e Red Hart Magic (1976).

“Moon Magic” (conosciuta anche come “Free Traders” o “Moon Singer”): Moon of 3 Rings (1966), Exiles of the Stars (Gli esuli delle stelle) (1971), Flight in Yiktor (1986) e Dare to Go A-Hunting (1989).

“Solar Queen”: Sargasso of Space (1955), Plague Ship (1956), Voodoo Planet (1959), Postmarked the Stars (1969), Redline the Stars (1993) con P.M. Griffin, e Derelict for Trade (1997) e A Mind for Trade (1997) con Sherwood Smith.

“Star Ka'at” (con Dorothy Madlee): Star Ka'at (1976), Star Ka'at World (1978), Star Ka'ats and the Plant People (1979) e Star Ka'ats and the Winged Warriors (1981).

“The Time Traders” (conosciuta anche come “Time War” o “Ross Murdock” o “Time Travel”): The Time Traders (1958), Galactic Derelict (1959), The Defiant Agents (1962), Key Out of Time (1963), Firehand (1994) con P. M. Griffin, ed Echoes in Time (1999) e Atlantis Endgame (2002) con Sherwood Smith.

“Trillium” (Giglio): Black Trillium (1990) con Marion Zimmer Bradley & Julian May, Blood Trillium (1993) di Julian May, Golden Trillium (1993), Lady of the Trillium (1995) di Marion Zimmer Bradley & Elisabeth Waters, e Sky Trillium (1997) di Julian May.

— “Witch World”, enorme ciclo costituito da molti libri e divisibile in:
            Estcarp Cycle: Witch World (Il mondo delle streghe) (1963), Web of the Witch World (Il segreto del mondo delle streghe) (1964), Three Against the Witch World (Tre contro il mondo delle streghe) (1965), Warlock of the Witch World (1967), Sorceress of the Witch World (1968), Trey of Swords (1977), Ware Hawk (1983), The Gate of the Cat (1987), e Ciara's Song (1998) e The Dukes Ballad (2005) con Lyn McConchie. Con questa, costituita da più di due dozzine di libri, la Norton guadagnò una larga audience femminile al fantasy e alla fantascienza, in un periodo in cui essi erano diretti soltanto ai ragazzi. In queste storie, Simon Tregarth, insieme alla moglie Jaelithe e ai suoi tre bambini, veniva trasportato sul pianeta Estcarp attraverso una vecchia pietra della Cornovaglia e si ritrovava in una società semifeudale e matriarcale che derivava il suo potere da gioielli che aumentavano le capacità mentali.
            – High Hallack Cycle: Year of the Unicorn (L'anno dell'unicorno) 1965 (la Norton scelse come protagonista una donna, cosa inusuale nei libri di fantascienza), The Crystal Gryphon (1972) (parte della trilogia del Grifone), Spell of the Witch World (1972), The Jargoon Pard (1974), Zarsthor's Bane (1978), Lore of the Witch World (1980), Gryphon in Glory (1981) (parte della trilogia del Grifone), Horn Crown (1981), Gryphon's Eyrie (1984) con A.C. Crispin (parte della trilogia del Grifone), Songsmith (1992) con A.C. Crispin e Silver May Tarnish (2005) con Lyn McConchie.
            Secrets of the Witch World (anche parte di The Turning): The Key of the Keplian (1995) con Lyn McConchie, The Magestone (1996) con Mary H. Schaub, e The Warding of Witch World (1996)
            Zero Stone (conosciuta anche come Murdoc Jern): The Zero Stone (La gemma aliena) (1968) e Uncharted Stars (1969).

In molti dei libri della Norton, la storia si svolge in ampie zone aperte (le atmosfere sono descritte nel dettaglio e in modo fantasioso) e in epoche diverse, e soltanto brevi episodi riguardano un ambiente cittadino. I protagonisti, coraggiosi e indipendenti, spesso degli adolescenti, agivano da soli o in piccoli gruppi – scout, spie o guerriglieri – subendo ma superando delle situazioni fortemente conflittuali. Misurandosi con la propria individualità e attraverso veri e propri «riti di passaggio», i suoi eroi e le sue eroine scoprivano la loro stessa interiorità insieme al mondo in cui vivevano. Con cura erano rappresentate le culture medioevali e tribali mentre il mondo degli alieni e il loro equipaggiamento erano descritti con impareggiabile ricchezza di particolari scientifici. Il mondo delle creature non umane veniva rappresentato con simpatia, ricreando delle somiglianze col mondo dell'umano, e nei suoi libri hanno trovato un ruolo importante sia animali terrestri (specie i gatti prediletti) sia straordinari esotici animali di fantasia, intelligenti e attivi in modo antropomorfico. Spesso mescolava archeologia, civiltà perdute, antropologia, fantascienza e tecnologia aliena.

I suoi libri sono pieni di galassie, pianeti noti e sconosciuti, stelle e comete, mondi antichi e futuri. Ne Gli esuli delle stelle, la Norton così iniziava il suo racconto: «Attraverso le scintillanti spirali della Via Lattea, tra soli palpitanti e astri antichi e spenti, la vita scorre sulle onde del cosmo, e in ogni angolo dell'infinito si manifesta, nasce, brucia la sua esistenza, muore. Quando i primi pionieri del cosmo partirono dalla Terra, centinaia e centinaia di anni or sono, si trovarono sulla soglia dell'infinito: da una parte, la strada di una civiltà soffocante, destinata a crollare sotto il suo stesso peso, la civiltà del sovraffollamento, dell'olocausto atomico, della fame; dall'altra, la strada del pericolo e dell'avventura, la strada dell'ignoto, quell'ignoto insondabile composto di mille soli, di astri giovani e spenti, di popoli umani e umanoidi e completamente alieni.» (Andre Norton, Gli esuli delle stelle, traduzione di Roberta Rambelli, Libra, 1978).

Nell'incipit di Tre contro il mondo delle streghe, con la sua scrittura appassionata e coinvolgente, così scriveva: «Io non sono un creatore di canti, per forgiare una lama di poesia capace di mandare gli uomini ruggendo in battaglia […] Non so neppure usare le parole con la cura con cui gli uomini tagliano le pietre per costruire il muro di una fortezza destinato a restare negli anni, affinché tutte le generazioni future possano ammirare la loro industriosa ingegnosità. Eppure, quando un uomo vive tempi grandi, o affronta azioni quali pochissimi sognano, si desta dentro di lui il desiderio di trascrivere, sia pure in forma maldestra, la parte da lui avuta in quegli eventi, in modo che quanti verranno dietro di lui a scaldare il suo alto seggio, a impugnare la sua spada, ad accendere il fuoco del suo camino, possano meglio comprendere ciò che compirono lui ed i suoi simili, e ripetere le stesse imprese dopo il passare del tempo.» (Andre Norton, Tre contro il mondo delle streghe, traduzione di Roberta Rambelli, Libra, 1979).

Nell'aprile del 2005 fu pubblicato postumo l'ultimo suo romanzo, Three Hands for Scorpio, mentre nel 2006 uscì Return to Quag Keep (sequel del romanzo del 1979 Quag Keep),  pubblicato dal suo collaboratore Jean Rabe. In questi mesi, il produttore Scott Brown ha tra le mani il “progetto Andre Norton”, con lo scopo di produrre un film documentario su questa straordinaria scrittrice americana.

martedì 14 febbraio 2012

Vladimir Sokoloff, Anselmo in Per chi suona la campana



Vladimir Sokoloff 



Il 15 febbraio di cinquanta anni addietro, nel 1962, moriva il popolare attore russo naturalizzato americano Vladimir Nikolayevič Sokoloff, nato a Mosca il 26 dicembre del 1889.

Conosciuto come attore cinematografico, teatrale e televisivo, Sokoloff era un uomo colto e sensibile: aveva fatto studi di filosofia e letteratura, e presso l'Accademia Moscovita di Arte Drammatica era stato allievo del grande Kostantin Sergeevič Alekseev, detto Stanislavskij (1863–1938), che nei primi del '900 aveva creato un suo stile d'insegnamento di recitazione denominato anche psicotecnica, basato sullo studio psicologico del personaggio e sull'approfondimento e la rielaborazione interiore dell'attore, il quale doveva imparare l'estrinsecazione delle sue emozioni interne.

Come attore e assistente alla regia, Sokoloff si fece le ossa nel prestigioso Teatro d'Arte di Mosca. Nel 1923 fu in Germania (Berlino) e nel 1925 debuttò nel cinema. Con l'incombere del Nazismo, si trasferì in Francia (Parigi) ove nel 1933 trionfò nel Don Chisciotte (Don Quixote) di Georg Wilhelm Pabst, con il quale aveva girato anche Il giglio nelle tenebre (Die Liebe der Jeanne Ney) (1927), L'opera da tre soldi (Die 3 Groschen–Oper) (1931) e L'Atlantide (Die Herrin von Atlantis) (1932).

Nel 1934 fu ne Il lago delle vergini (Lac aux dames), diretto dal grande regista francese Marc Allégret e nel 1936, diretto dallo stesso regista, partecipò a Sous les yeux d'occident. Nel 1936 recitò in Mayerling di Anatole Litvak.

Col maturare degli eventi che precedettero lo scoppio della guerra, nel 1937, emigrò negli Stati Uniti al seguito della compagnia di Max Reinhardt. Iniziò così una brillante carriera hollywoodiana di caratterista multietnico, grazie anche ai suoi particolari tratti somatici (vivaci, interessanti e piuttosto esotici) e alla straordinaria versatilità nell'interpretare protagonisti provenienti da molte e diverse parti geografiche. Fu lanciato dall'interpretazione del pittore Paul Cezanne nel film Emilio Zola (The Life of Emile Zola) (1937) di William Dieterle (col quale girò poi diversi altri film).

Nel 1937 apparve nell'indimenticabile e romantico Maria Walewska (Conquest) di Clarence Brown con Charles Boyer e Greta Garbo, storia d'amore immortale tra Maria Walewska – una nobile polacca spinta dal desiderio d'indipendenza del suo paese – e Napoleone Bonaparte

Nel 1942 Sokoloff era l'arabo Hyder Khan in Avventura al Marocco (Road to Morocco) di David Butler; nel 1943 era il prete greco in La dama e l'avventuriero (Mr. Lucky) di H.C. Potter; nel 1945 era il filippino Buenaventura J. Bello ne Gli eroi del Pacifico (Back to Bataan) di Edward Dmytryk; nel 1946 era l'italiano Polda nel film di Fritz Lang Maschere e pugnali (Cloak and Dagger), nel 1948 era il cinese Lum Chi Chow nel semidocumentaristico Oppio (To the Ends of the Heart) di Robert Stevenson; nel 1952 interpretò un altro cinese (Kwan Sum Tang) ne L'avventuriero di Macao (Macao) di Josef von Sternberg; e nel 1957 fu Aziz Rakim in Istanbul di Joseph Pevney, con il quale nel 1958 partecipò anche a Il capitano dei mari del Sud (Twilight for the Gods).

Fu però nel 1943 che, interpretando il ruolo del guerrigliero spagnolo Anselmo in Per chi suona la campana (For Whom the Bell Tolls), divenne noto al grande pubblico. Il film era tratto dall'omonimo romanzo che Ernest Hemingway (1899–1961) pubblicò nel 1940, ispirandosi alla sua vicenda autobiografica di amore e morte, violenza e tragedia, eroismo e sconfitta, pulsione al suicidio e voglia di vivere, ma anche solidale cameratismo virile e amor di patria. Durante la guerra civile spagnola del 1936–1939, lo scrittore si era aggregato ai repubblicani partecipando come corrispondente di guerra (schierato da una parte, pur nella violenta contrapposizione fra sinistra e destra, era convinto che in ogni caso si trattasse di uomini in guerra contro altri uomini). Il libro fu nominato per il Pulitzer ma non lo vinse e la Paramount per esso pagò a Hemingway una cifra astronomica per quel tempo (circa 150.000 dollari), chiamando per la sceneggiatura Dudley Nichols che preferì focalizzare la vicenda sentimentale più che gli aspetti politico–ideologici.

Il film – interpretato da Gary Cooper (Robert Jordan), Akim Tamiroff (Pablo) e Ingrid Bergman (Marìa) – racconta le vicende del giornalista Robert Jordan (l’«Inglès»), volontario in Spagna, incaricato dal generale spagnolo repubblicano Russo Golz di distruggere un ponte sotto il controllo franchista, sito fra Madrid e Segovia; e Anselmo (interpretato appunto da Sokoloff) era il membro anziano della banda di Pablo e la guida dell’«Inglès» verso il campo del capo. Anselmo rimarrà da solo a controllare il ponte durante una terribile e improvvisa tempesta di neve; Robert e Anselmo uccideranno le due sentinelle del ponte, posizioneranno la dinamite e riusciranno a far esplodere il ponte; dopo l’esplosione, però, una grossa scheggia colpirà e ucciderà l'eroico Anselmo. Dietro le linee nemiche, Robert Jordan farà conoscenza con Marìa, orfana e psicologicamente segnata da uno stupro, la cui vita è stata devastata dalle brutalità della guerra civile. Il film ebbe nove nomination ma vinse un solo Oscar, attribuito a Katina Paxinou quale attrice non protagonista (per il suo ruolo in Pilar). Il doppiatore romano Amilcare Pettinelli (1886–1963) – la magica voce di Victor Sjöström ne "Il posto delle fragole" – ha doppiato Vladimir Sokoloff  nel ruolo di Anselmo.

Il titolo del libro di Ernest Hemingway fu tratto dai versi del religioso inglese John Donne (1572–1631) Nessun uomo è un’isola, contenuti in “Meditation XII” che celebravano l’amore universale. Poeta e predicatore, Donne fu uno scrittore di poemi religiosi e sermoni, e un uomo profondamente diviso tra scienza e filosofia, cattolicesimo e protestantesimo, nuovo razionalismo e sensibilità poetica, amore umano e amore divino; ricavò la sua notorietà dai versi d’amore profano composti in età giovanile. Così recita la sua poesia: «Nessun uomo è un’isola, / completo in se stesso; / ogni uomo è un pezzo del continente, / una parte del tutto. / Se anche una sola zolla / venisse lavata via dal mare, / l’Europa ne sarebbe diminuita, / come se le mancasse un promontorio, / come se venisse a mancare / una dimora di amici tuoi, / o la tua stessa casa. / ... / La morte di qualsiasi uomo / mi sminuisce / perché io sono parte dell’umanità. / E dunque non chiedere mai / per chi suona la campana: / suona per te.».

Dopo questo successo internazionale, Vladimir Sokoloff continuò a lavorare nel cinema segnalandosi con Il mostro dell'inferno verde (Monster from the Green Hell) di Kenneth G. Crane (1958), I magnifici sette (The Magnificent Seven) di John Sturges – ove interpretava il saggio e solidale anziano coinvolto nel destino dei suoi paesani –, Cimarron di Anthony Mann (1960), Fuga da Zahrain (Escape from Zahrain) di Ronald Neame e Taras il magnifico (Taras Bulba) di J. Lee Thompson (1962) (in diversi film recitò insieme a Yul Brynner).

Dagli anni sessanta il suo interesse slittò verso la televisione: partecipò ad alcune serie di successo, quali Alfred Hitchcock presenta (Alfred Hitchcock Presents) (1958), Carovane verso il West (Wagon Train) (1961), Gli intoccabili (The Untouchables) (1960–1961) e Ai confini della realtà (The Twilight Zone) (1961-1962).


Sokoloff morì per un ictus a 72 anni nel 1962 in West Hollywood (California, USA) e fu seppellito in Hollywood Forever Cemetery. Con la sua interpretazione di Anselmo, eroico guerrigliero disponibile al sacrificio, sullo sfondo dell’orrida guerra e sul solco del “tema del coraggio” tanto amato da Hemingway, Vladimir Sokoloff aiutò lo scrittore ad esaltare l’inevitabile coinvolgimento morale di ciascuno di noi nei problemi esistenziali e nelle tragedie politico–sociali di tutti.