sabato 14 settembre 2013

Goethe, Werther e il suicidio per amore



Johann Wolfgang Goethe

Qualche anno prima delle Ultime lettere di Jacopo Ortis (1802) di Ugo Foscolo (1778-1827), un altro testo aveva celebrato, in forma epistolare e con la medesima grande ispirazione, l’amore e il suicidio: era il romanzo I dolori del giovane Werther (1774) del poeta e scrittore tedesco Johann Wolfgang Goethe (1749-1832).

Ortis e Werther sono fratelli nel mal d’amore e nell’infelice destino finale. Il romanzo epistolare di Goethe – la forma si presta mirabilmente a legare i momenti lirici con i brani di tipo narrativo – è stato definito il «primo successo mondiale tedesco»; di carattere autobiografico, privilegia la forza della fantasia nella voluttà dell’amore e della morte. Simbolo dell’amore romantico, questo testo è riuscito a esprimere una condizione umana universale, influenzando innumerevoli generazioni di giovani, anche se dai moralisti del tempo fu accusato d’indurre gli amanti infelici al suicidio.

Tra il maggio e il settembre del 1771 Goethe era stato a Wetzlar come praticante presso il tribunale e si era innamorato di Charlotte Buff (fidanzata a un altro, J.Ch. Kestner): di ritorno a Francoforte, il poeta traspose questo amore irrealizzabile nel suo romanzo epistolare. Lo stesso Goethe scrisse ammise di avere «ucciso il suo eroe per salvare se stesso».

Werther è un giovane sensibile ed entusiasta; quando si innamora, si sente cambiato – quasi cresciuto d’importanza – e scrive a Guglielmo (il romanzo consiste per l’appunto nelle lettere inviate da Werther all’amico tra il 4 maggio e il 6 dicembre del 1771): «Ma io l’ho avuta: ed io ho sentito il suo cuore e la sua anima, la cui presenza mi faceva essere più di quello che io sono, perché ero tutto ciò che io posso essere […] Sento che ella mi ama! Mi ama… Come sono diventato caro a me stesso! […] come appaio elevato ai miei stessi occhi, da quando ella mi ama! è presunzione questa? Od è invece la coscienza dei veraci sentimenti che ci legano? […] O Guglielmo, la nostra anima che cosa diverrebbe senza l’amore? Simile ad una lanterna magica senza luce.». Quando però deve rinunziare a Carlotta (che diviene sposa del buon Alberto, cui era stata promessa dalla madre morente che le aveva affidato i numerosi fratellini), Werther scrive: «[…] da allora il sole, la luna e le stelle possono continuare tranquillamente il loro corso, io non so se sia giorno o notte, e tutto il mondo scompare d’intorno.». Guglielmo è preoccupato per le parole di Werther, che paragona il suicidio alle grandi imprese, che è preso da una furente e sconfinata passione, e che parla di «esiziale passione che consumerà tutte le tue energie» e di desiderio di «distruggere le sue pene nella morte che tutto annienta».

Quando ormai sanno che debbono lasciarsi, Carlotta dice all’amato Werther: «Noi sopravviveremo! […] Ma, Werther, ci ritroveremo? Potremo riconoscerci? Che cosa crede, che cosa dice lei?»; e Werther, con gli occhi pieni di lacrime, le risponde: «Ci rivedremo! Quaggiù o lassù, noi ci rivedremo! […] Ci rivedremo, esclamai, ci ritroveremo, e ci riconosceremo fra tutti.». E poi scrive all’amico: «Non riuscii a proseguire. Guglielmo, doveva ella farmi una domanda simile, mentre avevo il cuore colmo dell’angoscia e dell’addio?».

Straziato, per il bene di entrambi, Werther decide di allontanarsi e Carlotta sposa il suo Alberto. Werther è talmente triste per la lontananza che così scrive all’amico: «Non so precisamente perché mi alzi, perché vada a dormire. Mi manca il lievito che mette in fermento la mia vita; è svanito il fascino che mi teneva desto sino a tarda notte; è finito l’incanto che al mattino mi destava dal sonno. […] Se ella mi dimenticasse diventerei pazzo. […] Io… suo marito […] Ella, mia moglie! […] Devo dirtelo? Perché no, Guglielmo? Ella sarebbe stata più felice con me che con lui. Oh, non è questo l’uomo che possa appagare tutti i desideri del suo cuore. Una certa mancanza di sensibilità, una noncuranza… chiamala come vuoi…; ma io non sento il suo cuore battere all’unisono con quello di lui, su qualche libro prediletto, dove invece il mio cuore e quello di Carlotta hanno un medesimo battito […] Vedi, quello che mi turba di più è che Alberto non mi sembra così felice come… sperava, come potrei esserlo io se… […] Ah, qual vuoto! Quale orribile vuoto sento nel mio petto! […] ho tante cose e senza di lei ogni cosa si dissolve […] Nell’animo mi si nasconde la fonte di ogni dolore […] Soffro molto perché non ho più quella che era per me l’unica gioia della mia vita, la santa forza animatrice con cui creavo mondi intorno a me.».

Dinanzi agli splendori di quella Natura che prima lo esaltavano, Werther si sente come «una fonte inaridita… un secchio svuotato… un uomo finito»; ritornato a casa accanto a Carlotta, scrive angosciato all’amico (nell’ultima lettera inviatagli il 6 dicembre del 1771): «Ella non ha coscienza di preparare un veleno che ci trascinerà entrambi in un precipizio […] Ella sente quanto io soffra; oggi il suo sguardo mi è sceso fin nel fondo dell’anima […] Come la sua immagine mi perseguita! Che io vegli o sogni, mi riempie tutta l’anima. Qui, se chiudo gli occhi, qui sulla mia fronte, dove si racchiude tutta la potenza visiva, stanno i suoi occhi neri. Qui! Non te lo so spiegare. Io chiudo gli occhi, ed eccoti come un oceano davanti a me, dentro di me, occupano tutti i miei pensieri.». Da medico esperto delle tante sofferenze umane, intravvedo in Werther tutti i segni funesti di una bruttissima depressione! La tristezza e lo scoraggiamento hanno infatti distrutto l’armonia dello spirito di Werther: si sente «escluso da ogni possibilità per l’avvenire», sente la sua passione sconfitta e inappagata, e muove sempre più inesorabilmente verso la sua triste fine; tra l’altro, anche la Natura sembra porsi contro di lui, distruggendo con una tremenda inondazione la valle che viene trasformata in un mare tempestoso: il giovane sente quasi l’impulso a inabissarsi ma non è ancora arrivata la sua ora. Con voluttà Werther sogna di stringere Carlotta e di sommergere di baci la sua bocca ma avverte anche il desiderio di sparire: «Sollevare il sipario ed introdurvisi: questo è tutto! Perché indugiare, perché temere? Forse perché c’è ignoto cosa avviene al di là di esso? O perché di là non si ritorna? Perché la nostra mente è fatta in modo da pensare che vi siano tenebre e caos là dove non sappiamo nulla di certo.».

Di giorno in giorno, di ora in ora, la sua decisione distruttiva si rafforza; in un’ultima lettera scrive all’amata: «Ho deciso, Carlotta, voglio morire; io ti scrivo senza romantiche esaltazioni, calmo, la mattina dell’ultimo giorno in cui ti vedrò. […] Non è disperazione: è la consapevolezza di aver esaurito il mio compito e di sacrificarmi per te. Sì, Carlotta, perché dovrei tacerlo? Uno di noi tre deve sparire, e voglio essere io quello! […] Ero tranquillo, cominciando a scrivere, ed ora… ora piango come un bambino, pensando al rigoglio di vita che si svolge intorno a me […] Io voglio, devo! Come sono felice di aver deciso!». Werther e Carlotta s’incontrano, e lei si fa leggere da lui le tristi vicende amorose narrate da Ossian; spinti dall’emozione del racconto, si perdono in un abbraccio e in un bacio appassionato, e Carlotta fugge «tremando d’amore e ira» e dicendo che non s’incontreranno mai più. Ritornato a casa distrutto, Werther aggiunge alla lettera per Carlotta la sua ultima testimonianza: «Per l’ultima volta apro gli occhi […] o Natura, metti il lutto! Tuo figlio, il tuo amico, il tuo amante, sta vivendo la sua fine […] Che cosa significa morire? La morte è un sogno […] Come posso io morire? Morire? Che cosa significa? Questa parola non ha senso per me. […] Perdonami, perdonami! Ieri… Ieri avrebbe dovuto essere l’ultimo istante della mia vita. Mio angelo! Per la prima volta, per la prima volta, questo sentimento pieno di desiderio mi ha sconvolto: ella mi ama! Mi ama! Il sacro fuoco che fluiva dalle tue labbra brucia ancora in me; un nuovo ardore è nel mio cuore. Perdonami, perdonami! […] Questo braccio l’ha stretta, queste labbra hanno tremato sulle sue labbra, questa bocca ha sussurrato sulla sua. Ella è mia! Sei mia, Carlotta, per sempre! […] Io ti precedo […] io ti verrò incontro e ti abbraccerò, e resterò con te in un eterno abbraccio al cospetto dell’infinito. Non sogno, non vaneggio! Vicino alla tomba tutto è più chiaro. Noi vivremo, ci rivedremo […] il mio destino si compie! Carlotta, addio! Addio!». E Werther si spara alla testa con una delle due pistole avute in prestito da Alberto e spolverate proprio da Carlotta, che alla notizia del suicidio resta così sconvolta da far temere per la sua vita. [I brani riportati sono tratti da: Goethe J.W., I dolori del giovane Werther, a cura di Angelo G. Sabatini, Newton Compton Editori, Roma, 1993]

Come scrive Angelo G. Sabatini, il curatore dell’edizione integrale del testo di Goethe del quale mi sono servita per le citazioni, questo romanzo è «la storia di un amore moderno vissuto nello spirito della tragedia antica […] il simbolo della passione sfrenata e travolgente, a cui si attribuisce la paternità dello “Sturm und Drang” […] Werther ama; Carlotta ama l’amore di Werther.». Ricordo che lo “Sturm und Drang” (letteralmente “Tempesta e Impeto”) fu il movimento cultural–letterario fiorito tra il 1770 e il 1785 e divenuto sinonimo di ribellismo giovanile, che incarnò la rivolta dei giovani intellettuali contro le superate condizioni socio–politiche della Germania del tempo.

Johann Wolfgang Goethe nacque a Francoforte Sul Meno il 28 agosto del 1749 in un’agiata famiglia (era il primogenito di un consigliere imperiale), e si dimostrò un genio precoce imparando facilmente diverse lingue straniere (oltre alla lingua tedesca, parlava il latino, il greco, il francese, l’italiano, l’inglese e l’ebraico). Compì i suoi studi prima a Francoforte, quindi a Lipsia per gli studi di Legge, e infine a Strasburgo. Quelli furono anni d’intenso coinvolgimento culturale e di svariati interessi (tra i quali la medicina, le arti figurative, il disegno e la musica) ma anche di dispiaceri e preoccupazioni (una breve e infelice relazione sentimentale con Kathchen Schonkopf e una seria malattia, caratterizzata da coliche e vomito ematico, al suo ritorno a Francoforte nel 1768). In quel periodo, venendo in contatto con l’ambiente religioso dei pietisti, Goethe conobbe Susanne von Klettenberg, una signora quarantacinquenne amica della madre, che lo ispirerà per il personaggio dell’«anima bella» nel Meister.

Nel 1770 s’innamorò di Friederike Brion, la figlia del pastore protestante di Sesenheim, e quest’amore gli diede così tanta gioia e soddisfazione da ispirargli delle bellissime poesie, mentre il senso di colpa seguito alla fine dell’idillio gli suggerì le parti più coinvolgenti del rapporto di Faust con Margherita. Nel 1771 Goethe scrisse una prima versione (la seconda fu pubblicata nel 1773) del dramma Gotz von Berlichingen, imperniato su un cavaliere dell’epoca della Riforma che con il suo “ribellismo libertario” aveva sollevato i giovani scrittori dello Sturm und Drang. In quel periodo, le sue poesie grondavano una “consapevolezza orgogliosa” della lotta e del dolore degli uomini, mentre vivido era il “senso della vita dell’umanità come acqua che scorre dalla sorgente al mare”: si è parlato di «momento titanico» di Goethe, che ispirò i versi del cosiddetto “Ciclo del viandante” (1772-1774) e che si concluse (quando il poeta era già a Weimar) con il Viaggio d’inverno nello Harz (Harzreise im Winter).

Nel 1771 Goethe pubblicò I dolori del giovane Werther (Die Leiden des jungen Werther) e il successo fu così travolgente e ko scandalo suscitato tale che fecero di Goethe un idolo e una stella splendente nel firmamento della scena letteraria internazionale.

Goethe s’innamorò di nuovo di Lili Schònemann, figlia sedicenne di un banchiere, e questo diverso sentimento gl’ispirò numerose poesie, il dramma Clavigo (che ha per protagonista un fidanzato infedele), e quello che è stato considerato un “dramma per innamorati”, Stella, dedicato al tema del “doppio matrimonio”. Anche questo fidanzamento finì male e la rottura arrivò nel 1775, anno in cui Goethe divenne il precettore del duca di Weimar Karl August (di appena diciotto anni) e si trasferì a Weimar, piccola capitale che contava allora appena seimila abitanti di un ducato minuscolo e arretrato.

Nel decennio 1775-1778 lo scrittore fu interessato allo studio delle scienze (mineralogia, botanica, geologia, ottica, anatomia e osteologia) e fu coinvolto in una lunga relazione sia sentimentale sia intellettuale con Charlotte von Stein, con la quale scambiò un intenso carteggio, della quale educò il figlio, e alla quale dedicò molte bellissime poesie. Lavorava intanto alla stesura del Meister e del Faust.

Stanco di Weimar, Goethe decise un viaggio in Italia sotto falso nome, alla ricerca della classicità, della grecità e della “naturalezza” italiana (nell’armonia magica tra natura e cultura). Fu a Roma nel 1786 (scrisse: «Sì, io posso dire che solamente a Roma ho sentito cosa voglia dire essere un uomo.»), visitò poi la Sicilia e Palermo (scrisse: «L’Italia senza la Sicilia, non lascia nello spirito immagine alcuna. È in Sicilia che si trova la chiave di tutto.»), andò a Napoli salendo anche sul Vesuvio (scrisse: «Napoli è un paradiso! Si vive in una specie di ebbrezza e di oblio di se stesso!») e in Trentino, rimanendo in Italia sino al 1788 (ritornerà in Italia per un breve viaggio a Venezia nel 1790). Le note su queste travolgenti esperienze di viaggio apparvero nel 1828, ben quarant’anni dopo, con il titolo Viaggio in Italia (Italienische Reise).

Ritornato a Weimar (ove trovò una fredda accoglienza), lasciò Charlotte von Stein e si legò a Cristiane Vulpius (una giovane fioraia che sposerà nel 1806 e dalla quale avrà il figlio August), trovandosi in crisi con la società mondana che frequentava e con l’ambiente della stessa corte. Nel 1792 seguì il duca di Weimar nella campagna contro la Francia e visse la sconfitta e la penosa ritirata. Di questo periodo è il forte sodalizio con Schiller (nell’interesse comune per il Classicismo), che in qualche modo lo salvò della grave crisi di quegli anni. In quegli anni, però, questo classicismo in un autore inizialmente romantico non fu capito e – venerato in Europa per come aveva saputo descrivere lo sviluppo della personalità dell’uomo (centro e misura di tutte le cose) – Goethe si sentì invece piuttosto isolato in patria (in effetti, fu proprio lui a scegliere quella sorta d’isolamento sociale e spirituale).

Nel 1809 pubblicò Le affinità elettive (Die Wahlverwandtschaften) e si diede alla composizione della sua autobiografia Della mia vita. Poesia e verità (Aus meinem Leben. Dichtung ung Wahrheit), uscita un anno prima della sua morte nel 1831. Tra gli anni 1814-1819, incontrò Marianne von Willemer e fu affascinato dalla poesia orientale; il risultato di queste esperienze fu il volume di poesie Divano occidentale–orientale (Westöstlicher Divan). Negli anni 1821-1823, dopo la morte della moglie nel 1816, s’innamorò di nuovo di una giovanissima donna, Ulrike von Levetzow.

Negli ultimi anni Goethe scrisse moltissimo e riuscì a portare finalmente a termine il Meister (storia del giovane Wilhelm Meister, che rinuncia alla realtà della vita per il teatro e che giunge infine a capire la necessità del singolo di rinunciare alla sua felicità per il bene comune), che era costituito da una prima parte, intitolata Meister, Gli anni dell’apprendistato (Wilhelm Meisters Lehrjahre), che fu pubblicata fra il 1795 e il 1796, e da una seconda parte dal titolo Meister, Gli anni di peregrinazione di Wilhelm Meister (Wilhelm Meisters Wanderjahre) che uscì postuma. Completò anche il Faust, “magnum opus”, la cui trama verte sul «vendere l’anima al diavolo» in cambio di potere nel mondo terreno, al quale lavorò per circa sessant’anni, la cui prima parte era uscita nel 1808, mentre la seconda parte in cinque atti fu pubblicata postuma l’anno stesso della morte del poeta. Esso ha ispirato compositori per opere liriche, poemi sinfonici e cantate, autori di teatro, movimenti poetici, correnti filosofiche e molto altro ancora.

Goethe morì a Weimar il 22 marzo 1832 per un probabile attacco cardiaco; riposa nella Cripta dei Principi nel Cimitero storico della piccola cittadina.

giovedì 12 settembre 2013

Ugo Foscolo, il poeta affetto dal mal d’amore



Ugo Foscolo

Riporto due sonetti di argomento amoroso tra i dodici approvati dal Foscolo (il poeta ha scritto molto più di quanto non abbia poi pubblicato), ricchi di alta tensione lirica e di grande maturità nonostante siano stati scritti in un’età giovanile.

Sonetto IV
Perché taccia il rumor di mia catena
di lagrime, di speme e d’amor vivo
e di silenzio, ché pietà mi affrena
se con lei parlo, o di lei penso e scrivo.

Tu sol mi ascolti, o solitario rivo,
ove ogni notte Amor seco mi mena:
qui affido il pianto, e i miei danni descrivo,
qui tutta verso del dolor la piena.

E narro come i grandi occhi ridenti
arsero d’immortal raggio il mio core;
come la rosea bocca e i rilucenti

odorati capelli, ed il candore
delle divine membra, e i cari accenti
m’insegnaron alfin pianger d’amore.

Sonetto V
Così gl’interi giorni in lungo incerto
sonno gemo! Ma poi quando la bruna
notte gli astri nel ciel chiama e la luna,
e il fresco aer di mute ombre è coverto;
           
            dove selvoso è il piano e più deserto
allor lento io vagando ad una ad una
palpo le piaghe onde la rea fortuna
e amore e il mondo hanno il mio core aperto.

            Stanco mi appoggio or al troncon d’un pino,
ed or prostrato ove strepitan l’onde,
con le speranze mie parlo e deliro.

            Ma per te le mortali ire e il destino
spesso obliando, a te, donna, io sospiro:
luce degli occhi miei chi mi t’asconde?
[Da “Sonetti” (1802-1803 )]

Questi versi guardano certamente al Petrarca, forse anche all’Alfieri, ma soprattutto ai poeti elegiaci latini. I sonetti furono ispirati quasi sicuramente da Isabella Roncioni, bellissima diciottenne «dalle chiome bionde e dagli occhi azzurri nuotanti» (incontrata dal poeta a Firenze), che egli chiamava la «divina fanciulla». I versi lasciano intravvedere un amore violento ma struggente per la donna del sogno, che Ugo in realtà dimenticò ben presto per una nuova e più ardente passione amorosa. Allo stesso modo che in altri sonetti e nell’Ortis, ritorna il tema della solitudine quale compagna fedele di tutti gli ammalati di mal d’amore, quasi un “esilio” dalla realtà. A proposito di questi sonetti, Foscolo scriveva: «Non è professione di letteratura ma bisogno imperioso dell’anima: non atteggiamento… ma febbre o delirio o beatitudine, o tormento fugace: un brivido d’amore: un rimpianto, un ricordo, un presentimento: un istante di vita interiore, singolarmente intenso».

La vita del poeta non fu felice ma egli seppe esprimere appieno tutte le novità e le contraddizioni del suo tempo. Primo di quattro figli, nacque – da un chirurgo veneziano e da una donna greca di nascita e religione – a Zante, una delle isole Ionie appartenenti alla Repubblica Veneziana, il 6 febbraio del 1778. Da ragazzo visse a Spalato e aveva appena dieci anni quando perse il padre; nel 1792 si trasferì a Venezia (ove la madre era andata a vivere), centro culturale allora molto libero e vivido, ove Ugo (il suo vero nome era però Niccolò) si dedicò a studi intensi ma irregolari, ricco di entusiasmo, di spirito d’avventura e di fervidi sentimenti repubblicani. Giovanissimo, s’innamorò di Isabella Teotochi Albrizzi (di origini greche), donna bella e intellettuale, della quale frequentò con assiduità il salotto letterario (il poeta la vagheggerà nei suoi versi ora con il nome di Temira, ora con quello di Laura). Nel 1797, a diciannove anni, fece rappresentare a Venezia la sua prima tragedia, il Tieste, che scagliandosi contro la tirannide arieggiava l’Alfieri e che gli diede immediatamente una discreta fama sia come artista sia come liberale.

Aperto agli ideali di libertà e alle aspirazioni repubblicane, amò la carriera militare e si arruolò come volontario nell’esercito napoleonico, anche se – con il trattato di Campoformio e l’intenzione di Bonaparte di sacrificare la Repubblica Veneta (e Venezia) all’Austria – vide cadere miseramente tutti i suoi romantici sogni di democrazia. Si trasferì allora a Milano (capitale della Repubblica Cisalpina e sede della cultura più nobile), ove ebbe occasione di conoscere Ippolito Pindemonte e Parini; frequentò anche Vincenzo Monti, della cui moglie Teresa Pikler – donna di bellezza straordinaria – s’innamorò appassionatamente ma infelicemente. Nel 1801 visse il grande dolore del suicidio del fratello Gian Dionigi, causato dallo scandalo creato da un’appropriazione indebita di denaro pubblico; entrambi i fratelli, accesi idealisti e non esperti di problemi pratici, avevano manie di grandezza e amavano la vita dispendiosa. Anche in Ugo ritroviamo l’ossessione del suicidio, inteso come massima espressione di virilità e ben esemplificato nelle sue opere; non per nulla Jacopo Ortis muore suicida: «[…] e sotto il verso “Libertà va cercando ch’è si cara” scrisse l’altro verso che gli vien dietro “Come sa chi per lei vita rifiuta” […]».

Aveva intanto cominciato a lavorare alle Ultime lettere di Jacopo Ortis (che completò nel 1802), nelle quali in modo acceso e autobiografico rappresentava un uomo in crisi esistenziale col suo complesso e tormentato mondo spirituale (vera proiezione fantastica del poeta). Jacopo è un giovane esule a Venezia dopo il trattato di Campoformio, che si tormenta con le sue passioni e inquietudini, in bilico tra l’amore per Teresa (la donna amata) e quello per l’Italia (la patria amatissima). In un’introduzione all’ultima edizione dell’Ortis (1817), parlando di un diario di vita vissuta, Foscolo narrava delle «sue angosciose passioni com’ei le provava d’ora in ora, e le andava di giorno in giorno scrivendo». Per l’esaltata e cupa disperazione e per l’irresponsabile giustificazione ideale del suicidio, il libro fu considerato dalla critica come un testo moralmente malsano, in grado d’influenzare negativamente la gioventù del tempo. Nella lettera del 14 maggio, scritta di sera, con moderna acutezza psicologica ci presenta la romantica rappresentazione di un incontro amoroso: «[…] Sì; ho baciato Teresa; i fiori e le piante esalavano in quel momento un odore soave; le aure erano tutte armonia; i rivi risuonavano da lontano; e tutte le cose s’abbellivano allo splendore della Luna che era tutta piena della luce infinita della Divinità. Gli elementi e gli esseri esultavano nella gioia di due cuori ebbri di amore – ho baciata e ribaciata quella mano – e Teresa mi abbracciava tutta tremante, e trasfondea i suoi sospiri nella mia bocca, e il suo cuore palpitava su questo petto: mirandomi co’ suoi grandi occhi languenti, mi baciava, e le sue labbra umide, socchiuse, mormoravano su le mie – ahi! che ad un tratto mi si è staccata dal seno quasi atterrita: chiamò sua sorella, e s’alzò correndole incontro. Io me le sono prostrato, e tendeva le braccia come per afferrar le sue vesti – ma non ho ardito di rattenerla, né richiamarla. La sua virtù – e non tanto la sua virtù quanto la sua passione, mi sgomentava: sentiva e sento rimorso di averla io prima eccitata nel suo cuore innocente. Ed è rimorso – rimorso di tradimento! Ahi mio cuore codardo! – Me le sono accostato tremando: – Non posso essere vostra mai! – e pronunciò queste parole dal cuore profondo, e con un’occhiata con cui parea rimproverarsi e compiangermi. […]». In questo brano dominano i grandi sentimenti e il mito dell’amore romantico, con i palpiti veri e sensuali di un uomo e di una donna fatti di carne e sangue, senza smancerie o artificiosità arcadico-pastorali. Quando Jacopo ha già deciso la sua morte ed è combattuto tra la passione amorosa e il triste disinganno, scrive: «I nostri occhi morenti chiedono altrui qualche stilla di pianto, e il nostro cuore ama che il recente cadavere sia sostenuto da bracci amorose, e cerca un petto dove trasfondere l’ultimo nostro respiro. Geme la Natura perfin nella tomba, e il suo gemito vince il silenzio e l’oscurità della morte […] Forse Teresa verrà solitaria sull’alba a rattristarsi dolcemente su le mie antiche memorie, e a dirmi un altro addio. No! la morte non è dolorosa. Che se taluno metterà le mani nella sepoltura e scompiglierà il mio scheletro per trarre dalla notte, in cui giaceranno, le mie ardenti passioni, le mie opinioni, i miei delitti – forse; non mi difendere, Lorenzo; rispondi soltanto: “Era uomo, e infelice”.».

Ugo Foscolo aveva intanto conosciuto e amato Isabella Roncioni, che gli diede nuova ispirazione per la seconda redazione dell’Ortis. Nel 1802 compose l’ode All’amica risanata, dedicata stavolta alla contessa Antonietta Fagnani Arese con cui visse una turbolenta e torbida relazione sentimentale. Nel 1803 uscirono le edizioni definitive delle Odi e dei Sonetti. Dopo aver ripreso il servizio nell’esercito, Ugo fece continui viaggi per l’Italia e la Francia; a Valenciennes conobbe una giovane prigioniera inglese, dalla quale ebbe la figlia Floriana, che lasciò alla madre e che ritrovò adulta nel periodo inglese della sua vita. Nel 1807 pubblicò i Sepolcri, che costituiscono l’ultima sua grande opera di poesia, con la quale – in un angoscioso presentimento della morte – si rivolgeva al lettore da uomo ad uomo. Ispirato dalla letteratura sepolcrale inglese, vi presentava le sue meditazioni liriche sul tema della tragicità della morte, sulle memorie che durano nel tempo e sulle tombe quale unica possibile «illusione» di un muto colloquio tra i vivi e i morti e quale luogo esclusivo in grado di «render l’uomo vittorioso del nulla e della morte», al di là delle devastazioni del tempo. Nel 1809, per un periodo brevissimo, fu professore universitario d’eloquenza a Pavia (in una «solitudine, solitudine, senza pace»), ricoprendo quella cattedra che era stata tenuta dal Monti e che purtroppo gli fu revocata dopo pochi mesi. Ebbe appena l’opportunità di tenere cinque lezioni di valore e la superba prima lezione inaugurale richiamò un grande pubblico di studenti e di ascoltatori, compreso il Monti. Nel 1811 compose la tragedia Aiace, che fu rappresentata alla Scala senza troppo successo e che fu censurata perché ritenuta di sentimenti e intenti anti–napoleonici. Si struggeva, intanto, alla composizione dell’opera in versi Grazie, rimasta incompiuta e costituita da tre inni dedicati all’opera delle Grazie confortatrici dell’uomo (fu pubblicata postuma nel 1848 e secondo alcuni critici rappresenta la punta più alta della poesia di Foscolo).

Caduto Napoleone e scoppiati i gravi disordini di Milano, gli Austriaci giunsero a ristabilire l’ordine e, almeno in un primo momento, sembrarono mostrare un volto da illuminati liberatori; nel 1815, però, poiché l’Austria chiedeva il giuramento di fedeltà agli ex ufficiali napoleonici, Ugo scelse “l’Esilio”, riparando prima in Svizzera e quindi in Inghilterra, ove inizialmente fu accolto con stima e considerazione. Si dedicò alla traduzione dell’Iliade e alla saggistica critica, collaborando con le maggiori riviste inglesi e riuscendo a cogliere nella sua acuta analisi letteraria la grande «poesia della storia». In seguito, questi buoni rapporti si guastarono a causa del carattere contraddittorio di Foscolo e delle sue tristi vicende personali.  Uomo dal temperamento malinconico ma volubilissimo, romantico e passionale, irritabile e collerico, intellettuale avido di esperienze sempre nuove e trasgressive ma esposto a grandi “illusioni” e ad altrettanto grandi “disillusioni”, Foscolo subì il contrasto tra la smisurata grandezza dei suoi sogni e la misera mediocrità della vita d’ogni giorno.

Grande individualista, da cittadino, visse importanti avventure civili e campagne militari mentre, da uomo, fu dominato da una persistente inquietudine sentimentale, abbandonandosi a innumerevoli amori infelici e non riuscendo a riconoscere la sincerità dell’amore; trascurò per esempio il fedele sentimento di Quirina Mocenni Magiotti, che egli chiamava la «donna gentile» e che da lontano gli fu sempre vicina con affetto e generosità tentando costantemente di richiamarlo in Toscana. A proposito dei suoi numerosi amori, Ugo scriveva: «Parmi che la coscienza di amare, e di sentirsi l’anima piena di qualche cosa che la riscaldi, sia un istinto ed una necessità, alla quale i mortali debbono in un modo o in un altro soddisfare».

In Inghilterra Foscolo fu un uomo perennemente in crisi: amareggiato, sfiduciato, non stimato, sradicato da tutto ciò che amava ma soprattutto perseguitato dai creditori (non sapeva limitare le spese e viveva sempre al di sopra dei suoi redditi). Sperperò in modo futile persino il piccolo patrimonio della figlia Floriana (rimasta orfana della madre), che lo seguì nel suo girovagare per abitazioni diverse e sempre più modeste nel tentativo di sfuggire tutti coloro ai quali doveva del denaro. Fu addirittura arrestato per debiti nel 1824! L’anno dopo si ammalò gravemente di fegato e morì a Turnham Green (Londra) il 10 settembre del 1827, distrutto dalla malattia e dagli affanni economici. Fu seppellito nel cimitero di Chiswick ma dal 1871 le sue ossa riposano nella chiesa di S. Croce a Firenze, città che aveva celebrato nei Sepolcri.

Di Foscolo è rimasto un vasto epistolario che, raccogliendo le vicende di tutta una vita, ci ha fatto conoscere i suoi difetti e i suoi limiti caratteriali ma anche la sua grande caratura di artista. Con la sua attenzione alla dimensione psicologica e ai valori assoluti dell’esistenza, Ugo divenne per i suoi contemporanei e per gli uomini delle generazioni successive il romantico modello di vita, l’amato e ammirato leader civile di gran fascino, il forte ispiratore delle grandi passioni del Risorgimento.

P.S. La tragedia in cinque atti Aiace (che fu un fiasco clamoroso alla Scala di Milano nel 1811) è, in effetti, una favola che racconta la gara fra Aiace (il Telamonio) e Ulisse per entrare in possesso delle armi del morto Achille (l’esercito sta per Aiace mentre Agamennone e i re parteggiano per Ulisse che le ha guadagnate grazie alle sue astuzie). L’orgoglioso Aiace, accusato da Ulisse di essere un traditore (ha sposato, senza amarla, Tecmessa, un’orfana principessa troiana), si uccide raccomandando ai suoi l’obbedienza al re Agamennone. Questa tragedia sembra non essere mai rappresentata in epoca recente. Nell’'articolo La tragedia classica italiana: questa sconosciuta, si fa rilevare come la tragedia italiana (nata ai primi del ‘500) costituisca un «genere della letteratura classica italiana che più degli altri ha patito gli improperi della critica romantica e post–romantica»; si osserva, inoltre, come basti leggere una qualsiasi storia del teatro come, per esempio, quella assai celebre di Silvio D’Amico (“Storia del teatro drammatico”, Bulzoni, Roma 1982) per «rendersi conto di quanto sia profonda l’incomprensione della modernità nei riguardi di quei poemi». Aveva scritto Silvio D’Amico che il classicismo era il suo difetto maggiore: «Il letterato italiano credette che ad attinger lo spirito tragico gli bastasse guardare ai modelli dell’antichità», e – alludendo alle dispute di letterati e critici cinquecenteschi sulle famose unità aristoteliche – aggiungeva: «Le torture di quelle strettoie si estesero da quel secolo [il XVI] ai successivi; né per abbatterle ci volle da meno del Romanticismo.». Continua l’estensore dell’articolo: «Questo giudizio di D’Amico non era altro che uno dei tanti di una lunga serie, che da De Sanctis, attraverso Carducci e Croce, è giunto fin nel cuore del XX secolo. Questo vero e proprio odio metafisico per la tragedia italiana ha fatto sì che essa sia praticamente scomparsa dagli scaffali delle moderne librerie, dove possiamo trovare nelle sezioni dedicate al teatro, certamente cattive traduzioni in italiano di Shakespeare, Schiller o Goethe, o al massimo qualche volume di tragedie alfieriane, ma dell’antico teatro italiano si è come perduto il ricordo. Le antologie di letteratura poi a mala pena menzionano qualche nome, ma nessuna o quasi ne riporta il benché minimo brano. I teatri stabili a loro volta hanno cancellato dai cartelloni la messa in scena di qualcuna di quelle antiche opere drammaturgiche.». Questa “damnatio memoriae” (condanna della memoria) non sembrerebbe giustificata né da un punto di vista culturale, né da un punto di vista artistico: «Senza infatti la feroce determinazione dei tragedi italiani del ‘500, che sulla scorta degli antichi modelli classici, resuscitarono di bel nuovo un genere letterario e una forma compositiva, […], non avremmo sicuramente, né le tragedie shakespeariane, né quelle spagnole del “siglo de oro”, e neppure, infine, la tragedia classica francese di Corneille e Racine.». Ne deriva che sarebbe importante conoscere i migliori tragediografi classici italiani: «Molti di loro infatti furono dei veri poeti e i loro drammi degni di essere letti, rappresentati ed imitati.». E proprio contro questa condanna della memoria una sezione del sito sulla Poesia Classica (http://www.poesiaclassica.it/tragediografi.html) è dedicata alla tragedia classica, e in essa il testo dell’Aiace di Foscolo può essere reperito facilmente e letto nella sua superba interezza
(http://www.liberliber.it/mediateca/libri/f/foscolo/ajace/pdf/ajace_p.pdf).

lunedì 26 agosto 2013

Clifford Odets, icona immortale del teatro americano


Clifford Odets

Sono passati cinquant'anni dalla morte prematura di Clifford Odets (avvenuta il 14 agosto ma secondo diverse biografie il 18 agosto del 1963 a Los Angeles in California per un cancro gastrico), attore, regista e autore teatrale e cinematografico statunitense, nato il 18 luglio 1906 a Filadelfia (Pennsylvania). Le sue opere straordinarie, che hanno vissuto un revival di recente, sono state più volte rappresentate sia in USA, sia all'estero (e anche in Italia). Ben sei biografie critiche sono state dedicate a Odets tra il 1962 e il 2003.

Nato da genitori immigranti (il padre era russo e il suo vero cognome era Gorodetsky, e la madre era una rumena–ebrea), si trasferì con la famiglia a New York nel 1908 e, dopo aver lasciato gli studi superiori (studiava “Drama”), andò al Greenwich Village per divenire attore presso il “Poet's Theatre”, diretto dal leggendario poeta e scrittore Harry Hibbard Kemp (1883–1960), idolo dei giovani americani del tempo, che amava farsi chiamare «the Vagabond Poet». Spinto da una grande passione, Odets si fece poi le ossa nella compagnia teatrale del prestigioso “Theatre Guild” di New York. Sottoutilizzato come attore, aveva preso intanto a scrivere testi per il teatro sotto la supervisione del regista e critico teatrale Harold Clurman (1901–1980). Con Clurman, Lee Strasberg e Cheryl Crawford (la casting director del “Theatre Guild”), Odets partecipò nel 1931 alla fondazione del “Group Theatre”, un teatro destinato ad avere una grande influenza artistica, del quale divenne un autore privilegiato. Questo teatro utilizzava tecniche recitative d'avanguardia, basate sul nuovo sistema ideato e sviluppato dall'attore e regista russo Constantin Stanislavski, portate alla notorietà come The Method o Method Acting da Strasberg, che ebbe un grande peso sulla crescita intellettuale e drammaturgica di Odets.

Tra le sue performance d'attore, sono da ricordare: Midnight (Mezzanotte) del 1930; Big Night (La grande notte), They All Come to Moscow e Men in White (Uomo in bianco) del 1933; e Gold Eagle Guy del 1934.

Le opere giovanili di Odets, ricche di un vivace substrato autobiografico e con “eroi della working class”, avevano una grande forza sociale e forti motivazioni politiche, ambientate com'erano negli anni Trenta pieni di stimoli intellettuali e di avvenimenti cruciali. In quegli anni, nel mondo dello spettacolo, le idee progressiste erano portate avanti da attivisti di sinistra che «erano profughi europei o provenivano dall'ambiente teatrale» (Hollywood e il nazismo, ne “Il Cinema – Grande storia illustrata”, Ist. Geografico De Agostini, Novara, 1981, vol. 2, pag. 98). è da segnalare Waiting for Lefty (In attesa di Lefty) (1935), che raccontava una serie di episodi che coinvolgevano i lavoratori di una compagnia di taxi e i loro clienti; il testo drammatico era stata suggerito a Odets da uno sciopero reale di taxi e – rappresentata anche per strada – gli diede fama internazionale; parte della critica gli rimproverò di fare della propaganda di sinistra contro il sistema capitalistico, mentre un'altra parte lo accusò invece di «viltà politica».

Awake and Sing! (Svegliati e canta!), dello stesso 1935, ebbe un'accoglienza entusiastica ed è considerato tutt'ora il capolavoro di Odets: raccontava le vicende della famiglia ebrea Berger che viveva nel Bronx sotto l'incubo della crisi economica, e a Broadway fu definito come «il primo testo squisitamente ebreo, al di fuori del teatro Yiddish». Il testo è stato ripreso dal “Lincoln Center” nel 2006, per la regia di Bartlett Sher, ed ha vinto un “Tony Award for Best Revival of a Play”. Seguirono sempre nel 1935 Till the Day I Die (Fino al giorno che morrò), I can't Sleep (Non posso dormire) e Paradise Lost (Il Paradiso perduto).

Golden Boy (Ragazzo d'oro) (1937) era il ritratto di un giovane uomo stretto tra l'aspirazione artistica e il desiderio di una realizzazione economica, e fu il maggior successo commerciale del Group Theatre, servendo da sceneggiatura (non scritta da Odets ma da un pool di almeno quattro sceneggiatori) per l'omonimo film del 1939 diretto da Rouben Mamoulian, con Lee J. Cobb, William Holden e Barbara Stanwyck. Hanno scritto Laura, Luisa e Morando Morandini: «Per smania di successo, giovane lascia il violino per la boxe, ma la morte di un avversario sul ring lo mette in crisi. Aiutato dalla donna amata, torna alla musica. […] il film cala il suo discorso etico–sociale in sagaci cadenze melodrammatiche. Un'ottima Stanwyck tiene a battesimo l'esordiente Holden. Un po' datato, ma diretto con sobria eleganza.» (il Morandini, http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=17735). Il testo teatrale è stato ripreso nel 2012 con grande successo di pubblico e di critica dal “Lincoln Center”, sempre per la regia di Bartlett Sher, guadagnandosi otto nomination ai “Tony Award” e rilanciando alla grande il nome e l'opera di Odets.

Seguirono Rocket to the Moon (Razzo per la Luna) (1938), opera molto meno politica e più riflessiva, che gli guadagnò l'interesse della critica e una copertina su «Time» magazine (fu ripresa da Daniel Fish, prodotta dal “Long Wharf Theater” nel 2005), Night Music (1940) e The Russian People (Il popolo russo), romanzo adattato per il teatro nel 1942.

I testi teatrali scritti dopo il 1940 sembrano mancare della precedente forza etico–sociale, anche se erano più maturi e ragionati. Ricordo Clash by Night (Scontro nella notte) (1941), che servì come sceneggiatura (non scritta da Odets ma da Alfred Hayes) per l'omonimo film diretto nel 1952 da Fritz Lang (in Italia comparve con il titolo La confessione della signora Doyle), con Barbara Stanwyck, Paul Douglas, Robert Ryan, Marilyn Monroe e Keith Andes. Era la storia di un drammatico triangolo amoroso: Mae Doyle ritorna nella città natale di Monterey e sposa una brava persona, un umile pescatore, ma lo tradisce con il suo migliore amico, un individuo senza scrupoli, e fugge con lui; vincendo la prima violenta reazione, più tardi, il marito la perdonerà accogliendola a casa con la figlioletta.

Seguì The Big Knife (Il grande coltello) (1949), trasformato nel 1955 in un film (del quale Odets non scrisse la sceneggiatura, che fu elaborata invece da James Poe), per la regia di Robert Aldrich, con Jack Palance, Ida Lupino, Rod Steiger e Shelley Winters. è la storia di un attore, una stella di Hollywood, che si è abbandonato agli eccessi, al lusso e alle facili illusioni, separandosi dalla moglie che l'ama e che ama, e soggiacendo all'influenza tirannica e nefasta di un magnate del cinema che vorrebbe coinvolgerlo in un delitto. Soltanto allora troverà la forza di ribellarsi, rivelando gli intrighi del magnate e ponendo fine alla sua vita. Il film si aggiudicò il Leone d'argento alla Mostra del Cinema di Venezia del 1955. Il testo teatrale è stato ripresentato dalla “The Roundabout Theatre Company” nel 2013, presso l'“American Airlines Theatre” di New York, per la regia di Doug Hughes, interprete principale Bobby Cannavale.

Fu poi la volta di The Country Girl (La ragazza di campagna) (1950), trasformata nel 1954 in un film (di cui Odets non scrisse la sceneggiatura), diretto da George Seaton che preparò da sé la sceneggiatura, con William Holden, Grace Kelly, Bing Crosby e Gene Reynolds. Nel 1955 Seaton vinse l’Oscar proprio come sceneggiatore – e fu nominato come miglior regista. Grace Kelly diede la migliore delle sue interpretazioni nel ruolo di Georgie Elgin, moglie di un attore bravo e famoso ma divenuto semialcolizzato dopo la morte del loro figlio avvenuta dieci anni prima, così come Bing Crosby, che interpretava il marito Frank Elgin che fa credere di essere succube della moglie mentre lei è la vittima, e William Holden ch'era il regista di teatro Bernie Dodd che fa lavorare Frank e sembra odiare Georgie, considerandola la causa del declino del marito. La moglie s’innamora poi del regista e, pur ricambiata, resta leale al marito che alla fine riconquista il successo professionale e il suo affetto. La drammatica interpretazione di tutti gli attori fu superba e il film ebbe sette nomination; la Kelly, mai così sensibile e intensa, vinse l’Oscar nel 1955 e si meritò anche il Golden Globe mentre il National Board of Review Awards nel 1954 premiò sia Crosby che la Kelly; il film fu presentato anche con successo all’8º Festival di Cannes e fu nominato per la Palma d’Oro. Nel 1955 il testo di Country girl fu presentato con successo in Italia presso il Teatro Odeon di Milano, nella traduzione di Mirella Ducceschi, per la regia di Franco Enriquez, con Renzo Ricci, Anna Proclemer, Giorgio Albertazzi, Giulio Oppi, Bianca Toccafondi, Giulio Bosetti e Orlando Orazio.

Del 1954 è The Flowering Peach (Il pesco in fiore), lavoro prodotto a Broadway, che nel 1955 stava quasi per vincere il premio Pulitzer, che fu attribuito invece ad “A Cat on a Hot Tin Roof” (Una gatta sul tetto che scotta) di Tennessee Williams, e servito da base per il musical di Broadway Two by Two (1970), presentato all'“Imperial Theatre”, libretto di Peter Stone, versi di Martin Charnin e musica di Richard Rodgers, con Danny Kaye, Marilyn Cooper, Joan Copeland, Harry Goz e Madeline Kahn.

Naturalmente un drammaturgo così interessante e di successo non poteva non attrarre l'attenzione dei furbi produttori del cinema americano. Nel 1936 egli accetto l'attività di sceneggiatore per aiutare economicamente il suo teatro ma si trovò poi così invischiato da passare tutta la sua vita a Hollywood.

La sua prima sceneggiatura fu quella del film di spionaggio The General Died at Dawn (Il generale morì all'alba) (1936), per la Paramount, sotto la direzione di Lewis Milestone, con Gary Cooper e Madeleine Carroll; ricevette diverse critiche favorevoli ma si è scritto tuttavia: «Subito dopo la prima parte del film, uno di coloro che avevano sostenuto lo sceneggiatore fu udito borbottare: “Odets, dove hai lasciato il tuo pungiglione?”». Bisogna pensare, però, che si trattava pur sempre di un autore stipendiato da «padroni capitalisti e reazionari» e che Hollywood, capitale del cinema americano, era allora «una roccaforte del conservatorismo» (Hollywood e il nazismo, “Il Cinema – Grande storia illustrata”, Ist. Geografico De Agostini, Novara, 1981). Da quel momento, Odets lavorò all'interno del sistema degli Studios fino all'avvento della produzione indipendente negli anni Cinquanta. Di questo periodo ricordiamo la regia del film None but the Lonely Heart (Il ribelle) (1944), prodotto dalla RKO, da un soggetto di Richard Llewellyn, con Cary Grant (che fu nominato all'Oscar nel 1945 come miglior attore protagonista), Ethel Barrymore (che vinse l'Oscar nel 1945 come miglior attrice non protagonista), Barry Fitzgerald, June Duprez e Jane Wyatt; Humoresque (Perdutamente) (1946) film scritto da Odets insieme con Zachary Gold (basato su una novella di Fannie Hurst), con Joan Crawford e John Garfield, storia di una donna anziana e di un giovane uomo, un violinista e la sua protettrice; la sceneggiatura non accreditata delle scene d'amore di Notorious (Notorious - L'amante perduta) (1946) diretto da Alfred Hitchcock con Cary Grant e Ingrid Bergman; Deadline at Dawn (In nome dell'amore) del 1946 diretto da Harold Clurman con Paul Lukas, Susan Hayward e Bill Williams; e la sceneggiatura del film Sweet Smell of Success (Piombo rovente) (1957) diretto da Alexander Mackendrick, un noir ambientato nel mondo dei giornali, basato su un romanzo di Ernest Lehman e prodotto dalla compagnia indipendente Hill-Hecht-Lancaster, con uno stupendo Burt Lancaster e con Tony Curtis (ispirò l'omonimo musical del 2002). Odets diresse un altro film, del quale aveva scritto anche la sceneggiatura, The Story on Page One (Inchiesta in prima pagina) (1959) con Rita Hayworth, Gig Young e Anthony Franciosa; si tratta di un film giudiziario «ambientato interamente in tribunale, con tutti i pregi e i difetti del genere»; racconta di Jo, una moglie maltrattata da un marito violento che si consola con l'amicizia di Larry, un ragioniere rimasto vedovo da poco, e quella che è inizialmente soltanto l'amicizia di due infelici si trasforma in un grande amore; il marito di Jo li scopre in flagrante adulterio e viene ucciso durante una colluttazione: «Da un lato è troppo prevedibile e lungo, dall'altro però si avvale di un'ottima sceneggiatura (dello stesso Odets), di interpreti impeccabili e della musica di Elmer Bernstein.»
(http://www.filmtv.it/film/3510/inchiesta-in-prima-pagina/).

Odets scrisse poi la sceneggiatura di Wild in the Country (Paese selvaggio) (1961) diretto da Philip Dunne, con Elvis Presley e Hope Lange (storia di un ragazzo problematico, maltrattato da padre e fratello, che rischia di divenire un delinquente e che si salva grazie a una psicologa che scopre in lui un vivace talento di scrittore e che di lui s'innamora, suscitando lo scandalo in paese). Due sceneggiature sono comparse postume: Big Mitch (1963) e The Mafia Man (1964), come pure un libretto per un musical tratto da Golden Boy, completato da William Gibson (ch'era stato uno studente di Odets).

Nel maggio del 1952, Odets fu chiamato dinanzi alla “House Committee on Un-American Activities (HUAC)” perché era stato iscritto al partito comunista tra il 1934 e il 1935, aveva sponsorizzato dei gruppi di sinistra ed era andato a Cuba come capo di una delegazione per investigare sulle atrocità compiute contro artisti e scrittori cubani. Collaborò con il Committee come un “friendly witness” (testimone amichevole), facendo i nomi dei membri del partito comunista già noti al HUAC, ma dicendo che erano suoi amici e dimostrandosi contrario a ogni “blacklist”. Le reazioni sfavorevoli alla sua testimonianza lo amareggiarono sino alla sua morte e si può senz'altro dire che la sua produttività iniziò a declinare a partire proprio da quella sua testimonianza nel 1952.

Dal 1937 al 1940 Clifford Odets fu sposato con l'attrice Luise Rainer (1910-), vincitrice di due Oscar consecutivi nel 1937 e 1938, mentre dal 1943 al 1951 fu coniugato con l'attrice Bette Grayson (1922–1954); ebbe due figli, Nora (nata nel 1945) e Walt Whitman (nato nel 1947). Tra le due riconciliazioni con la moglie Luise Rainer, Odets ebbe una tempestosa relazione con l'attrice Frances Farmer (1913–1970), dal carattere libero e indipendente, in lotta continua nei confronti dello star system (Graeme Clifford ha dedicato alla vita della Farmer, al suo rapporto conflittuale con la madre e al suo drammatico ricovero psichiatrico il film “Frances” del 1982, con Jessica Lange, Kim Stanley e Sam Shepard; Jeffrey DeMunn interpretava Clifford Odets).

Presso il “Billy Rose Theatre Division” sono conservate carte, documenti, note, corrispondenze, programmi e fotografie (anche private) di Odets, del periodo compreso tra il 1926 e il 1963, in una raccolta aperta al pubblico che è in grado di mostrare i processi di tecnica creativa del grande drammaturgo americano
 (http://www.oac.cdlib.org/findaid/ark:/13030/tf22900479/).

Per concludere, lo stile drammatico di Odets è molto particolare, istrionico ed esuberante, umanistico e conflittuale, quasi checoviano,con una sorta di linguaggio poetico ricco di parole etniche e della quotidianità, degne di un drammaturgo socialista con un substrato proletario, influenzato fortemente da un altro autore socialista, il dublinese Sean O'Casey (1880–1964), scrittore–operaio che partecipò attivamente al movimento rivoluzionario di rinascita irlandese del 1922. Al momento della comparsa del suo primo dramma, Arthur Miller scrisse: «Veramente per la prima volta in America, il linguaggio stesso… segnava un drammaturgo “as unique”.» (Miller A., Timebends, Penguin, New York, 1995, p. 229). Jean Renoir stimava tanto Odets e gli era così amico che gli dedicò un capitolo della sua autobiografia (Renoir J., My Life and My Films, Atheneum, New York 1974).

sabato 24 agosto 2013

Lilla Brignone, una vera “Regina” del teatro, avrebbe compiuto cento anni


Lilla Brignone

La grande attrice romana Lilla Brignone (vero nome Adelaide), forse la più celebre attrice del dopoguerra in Italia, nacque il 23 agosto del 1913. Figlia d'arte, appartenente a una vera dinastia di artisti, sin da bambina respirò la polvere del palcoscenico e calcò i set cinematografici. 

Era, infatti, la figlia del regista milanese Guido Brignone  (1886–1959), a sua volta figlio dell'attore teatrale e caratterista cinematografico Giuseppe Brignone (1854–1937) – noto «per il garbo e la cura della recitazione» (N. Leonelli, Enciclopedia biografica e bibliografica Italiana, Attori tragici, attori comici, 2° vol., Roma 1944) –, fratello dell'attrice brillante Mercedes Brignone (1885–1967) – che ho conosciuto perché qualche anno prima di morire nel 1964 fu chiamata dalla TV per partecipare allo spettacolo musicale Biblioteca di Studio Uno – e cognato dell'attore Uberto Palmieri (coniuge di Mercedes dal 1903). Guido Brignone aveva sposato l'attrice cinematografica Lola Visconti e fu molto noto nel periodo del cinema muto per il film Odette (1915); fu, inoltre, il primo regista italiano a vincere la Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica (1934) con il film storico Teresa Confalonieri, al quale Lilla aveva partecipato nel ruolo della marchesina al ballo; col padre girò ancora Passaporto rosso (1935) e Vivere (1937).

Appena quindicenne, Lilla Brignone debuttò nella compagnia teatrale di Kiki Palmer (pseudonimo di Giulia Fogliata, 1907–1949, madre adottiva di Renzo Palmer), che con la sua recitazione moderna e spontanea, seppe insegnarle i rudimenti della perfetta dizione, dell'intensità drammatica e dell'asciuttezza interpretativa.

Da allora fu tutto un trionfo e arrivò sino a divenire una delle attrici più significative del 900. Recitò accanto a “miti” del teatro italiano e nelle compagnie del “Gotha” teatrale italiano, quali  quelle di Gandusio-Carli (creatori del teatro “brillante” e della pochade), Ruggero Ruggeri (fu un breve sodalizio, segnato dal successo Sesso debole di E. Bourdet, che secondo G. Prosperi ebbe una grande importanza in quanto «qualcosa di lui le restò addosso come una preziosa marca di fabbrica: un modo essenziale di concentrarsi, tutto interiore, la forza della battuta vibrata a bassa voce, tesa e scandita»), Memo Benassi (fu notata da R. Simoni in Novità di Parigi, atto unico di S. Lopez presentato al teatro Odeon di Milano nel 1937), e Renzo Ricci (col quale fu in Festa di S. Benelli al teatro Nuovo di Milano nel 1940 e in Oro puro di G. Gherardi al teatro Alfieri nel 1941, ove fu nuovamente notata dal critico Simoni), Giorgio Strehler, Salvo Randone (esperienza nel 1954-55 con la Compagnia Italiana di prosa Brignone-Randone-Santuccio: mitica La parigina H. Becque, cui partecipò anche Antonio Battistella) e Luchino Visconti.

La sua vicenda artistica teatrale è stata così enorme e ricca, maturata attraverso le più svariate e impegnative esperienze, che le sue performance sono state grandi e numerose. Mi limito a ricordare soltanto l'essenziale.

Decisivo l'incontro con il Piccolo Teatro di Milano e con Giorgio Strehler, durante il quale, come scrive Canova: «raggiunge la pienezza della sua espressività di attrice intelligente e versatile nelle interpretazioni di Shakespeare, Pirandello, Sofocle e Anouilh.» (Cinema, le garzantine, a cura di Gianni Canova, Garzanti, Milano 2009). Tra il 1947 e il 1953 recitò in numerosi capolavori teatrali: L'albergo dei poveri di M. Gorkij, Le notti dell'ira di A. Salacrou e I giganti della montagna di L. Pirandello (1947); Delitto e castigo, La tempesta e Romeo e Giulietta di Shakespeare, Assassinio nella cattedrale di Th. Stearns Eliot e Il gabbiano di A. Cechov (1948); La bisbetica domata di Shakespeare e Il piccolo Eyolf di H. Ibsen (1949); La parigina di Becque, Estate e fumo di Tennessee Williams e Il misantropo di Molière (1950); Casa di bambola di H. Ibsen e La dodicesima notte di Shakespeare (1951); Macbeth di Shakespeare ed Elisabetta d'Inghilterra di F. Bruckner (1952); Sei personaggi in cerca d'autore di Pirandello e Lulù di Carlo Bertolazzi (1953); e Questa sera si recita a soggetto di Pirandello (1956).

Compagna nella vita e nell'arte di Gianni Santuccio, formò con il grande attore una fra le coppie più celebrate e indimenticabili del teatro italiano. La compagnia Brignone-Santuccio, cui si aggiunsero M. Benassi, S. Randone, L. Volonghi e C. Pilotto, «ebbe esiti brillanti per i requisiti intrinseci delle opere in repertorio e per le irripetibili “gare di bravura” degli interpreti»
[http://www.treccani.it/enciclopedia/adelaide-brignone_(Dizionario-Biografico)/].
Ricordiamo l'Allodola di J. Anouilh al teatro di via Manzoni di Milano nel 1953 (E. Possenti scrisse che di Giovanna d'Arco la Brignone fece «con la sua bella, dolce, incantata interpretazione» una delle «più felici figure della sua carriera»); Processo di famiglia di D. Fabbri al teatro Carignano di Torino nello stesso anno; e Anche le donne hanno perso la guerra di C. Malaparte al teatro La Fenice di Venezia nel 1954 (Possenti parlò di «una dolorosa e dura fierezza»). Dopo un periodo di separazione artistica, Lilla Brignone e Gianni Santuccio si riunirono per la stagione 1960-61 e furono ancora insieme «con momenti di splendida bravura» nella compagnia Brignone-Santuccio-Millo, interpretando Danza di morte di A. Strindberg presso il teatro Comunale di Ferrara nel 1969 (il dramma fu trasmesso con successo strepitoso in TV nel 1971). Di Lilla Brignone è stato scritto: «Mostrava ormai d'aver maturato uno stile inconfondibile (voce leggermente roca ma morbida, gesto netto, portamento dignitoso, talvolta sostenuto, mai sussiegoso) che, nei momenti più difficili, si distillerà in una sorta di ritmo misurato e distaccato che sarà caratteristico della sua recitazione soprattutto negli ultimi anni della carriera. Sul suo viso le labbra sottili e il taglio a mandorla degli occhi richiamavano i lineamenti di una maschera orientale ingentilita da tratti mediterranei, una preziosità, questa, certamente più adatta al teatro drammatico che ad altri generi di spettacolo: il suo partner “ideale” divenne, a questo punto, G. Santuccio, col quale intese completarsi nel rappresentare le più riposte pieghe psicologiche della coppia (il sodalizio era cominciato al tempo di “Piccoli borghesi” e l'incontro con lo Strehler fu pertanto contemporaneo e determinante ai fini della loro evoluzione artistica).»
(http://www.treccani.it/enciclopedia/adelaide-brignone_(Dizionario-Biografico)/).

Con Luchino Visconti la Brignone portò al successo Come le foglie di G. Giacosa (1954), La signorina Giulia di A. Strindberg (1957), Il crogiuolo A. Miller (1955), Immagini e tempi di Eleonora Duse di G. Guerrieri e Veglia la mia casa, Angelo di Ketti Frings (dal romanzo di Thomas Wolfe, nella versione di Suso Cecchi D'Amico) (1958), e La monaca di Monza di G. Testori (1967).

Fu, quindi, con Anna Proclemer e Giorgio Albertazzi (da ricordare l'affascinante spettacolo Maria Stuarda di F. Schiller, per la regia di L. Squarzina, presentato al teatro E. Duse di Genova nel 1965).

Nel 1968 recitò In memoria di una signora amica (trasmessa in TV nel 1978), scritta per lei da Giuseppe Patroni Griffi che la diresse nella compagnia Lilla Brignone-Pupella Maggio, presentata al teatro La Fenice di Venezia, in occasione del XXII Festival del Teatro (l'interpretazione le meritò la maschera con lauro d'oro IDI 1964, destinata alla migliore interprete di una novità italiana).

Con il teatro Stabile di Genova e Luigi Squarzina fu la protagonista dei seguenti spettacoli di successo: Casa nova di C. Goldoni (1973), Cerchio di gesso del Caucaso di B. Brecht (1974) e Un lungo giorno di viaggio nella notte di E. O'Neill (1974).

Negli ultimi anni di attività, con Giancarlo Sepe (definito «un estroso “rilettore” di alcuni stagionati testi del teatro contemporaneo»), ripropose Come le foglie (1979) e fu protagonista della Casa di Bernarda Alba di F. Garcia Lorca (1980), di Danza macabra di A. Strindberg (1981) e di Così è (se vi pare) di Pirandello (1982), che fu il suo vero e proprio canto del cigno, in cui «il gusto del rischio che mai le era venuto meno la indusse alla interpretazione della parte della signora Frola in chiave di teatro dell'assurdo con un risultato accattivante»
(http://www.treccani.it/enciclopedia/adelaide-brignone_(Dizionario-Biografico)/).

Naturalmente non poteva ignorarla la TV degli anni d'oro che la fece conoscere agli italiani, i quali non disponevano ancora dei teatri stabili e impararono ad amare il teatro e i suoi protagonisti attraverso la prosa televisiva e gli sceneggiati. Da ricordare: Casa di bambola, (1958) diretta da Vittorio Cottafavi, Una tragedia americana (1962) per la regia di Anton Giulio Majano, La figlia del capitano (1965) diretta da Leonardo Cortese, e I promessi sposi (1967) e I demoni di S. Bolchi e Diego Fabbri da F. Dostoevskij (1972) per la regia di Sandro Bolchi.

Prediletta anche dal cinema, fu diretta da Raffaello Matarazzo (Il serpente a sonagli, 1935, con Nino Besozzi, Andreina Pagnani e Paolo Stoppa, e La risaia, 1956, con Elsa Martinelli e Folco Lulli), Alessandro Blasetti (La cena delle beffe, 1941, con Amedeo Nazzari, Clara Calamai, Osvaldo Valenti ed Elisa Cegani), Renato Castellani (I sogni nel cassetto, 1957, con Lea Massari, Enrico Pagani e Sergio Tofano), Valerio Zurlini (Estate violenta, 1959, con Jean-Louis Trintignant ed Eleonora Rossi Drago – nella parte della madre di Roberta, questo fu «tra i pochi film in cui poté, nello spazio di una scena d'intenso respiro, dimostrare il suo talento» – e Il deserto dei Tartari, 1976, con Vittorio Gassman Giuliano Gemma e Philippe Noiret in una scena breve ma significativa che ne costituiva il prologo), Antonio Pietrangeli (Fantasmi a Roma, 1960, con Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman, Eduardo De Filippo e Tino Buazzelli), Michelangelo Antonioni (L'eclisse, 1962, con Alain Delon e Monica Vitti), Jean Delannoy (Venere imperiale, 1962, con Gina Lollobrigida, Stephen Boyd e Raymond Pellegrin), Bernard Borderie (Rocambole, 1962, con Nadia Gray e Alberto Lupo), Gianni Puccini (L'attico, 1963, con Daniela Rocca, Tomas Milian e Philippe Leroy), Franco Giraldi (La bambolona, 1968, con Ugo Tognazzi,), Pasquale Squitieri (Camorra, 1972, con Fabio Testi, Jean Seberg e Raymond Pellegrin), Salvatore Samperi (Malizia, 1973, e Peccato veniale, 1974, con Laura Antonelli), e infine Alberto Lattuada (Oh, Serafina!, 1976, con Renato Pozzetto, moderna favola ecologista tratta dall'omonimo romanzo di Giuseppe Berto). Si è scritto: «Benché l'attività teatrale abbia avuto, nella sua carriera, la preminenza su quella cinematografica, la Brignone è riuscita a creare, in alcuni film di innegabile valore, personaggi di grande intensità drammatica, come quello della madre di Vittoria (Monica Vitti), la protagonista de “L'eclisse” realizzato nel 1962 da Michelangelo Antonioni), e quello della madre di Ivana, la protagonista de “La bambolona” (1968, regia di Franco Giraldi; protagonista maschile, Ugo Tognazzi), delineati entrambi con estrema bravura e con opposti registri drammatici, perfettamente adeguati ai personaggi, nevrotico e carico di tensione il primo, il secondo in apparenza ottuso, ma in realtà sottilmente calcolatore.» 
(http://www.mymovies.it/biografia/?a=5359).

Lilla Brignone si dedicò anche in modo intenso alla prosa radiofonica e in modo saltuario al doppiaggio.

Morì nella sua amata città di Roma (che nel 1972 l'aveva premiata con l'“Oscar capitolino”) il 24 marzo 1984 (aveva appena 70 anni). Il 30 ottobre 1984 nel foyer del Politeama di Genova è stata aperta una mostra intitolata “Omaggio a Lilla Brignone”, realizzata grazie al materiale che la figlia Maria Teresa (che vive a Genova) ha donato al Museo Biblioteca dell'Attore. Si trattava di «un viaggio in cinquant'anni di storia del teatro curiosando tra i bauli dell'attrice», deceduta nel marzo precedente. All'inaugurazione hanno partecipato Ivo Chiesa e Sandro D'Amico, Vittorio Gassman e Ombretta Colli. In quell'occasione ha detto Vittorio Gassman: «La conoscevo da quarant'anni l'ho apprezzata tantissimo, soprattutto per la duttilità dei ruoli. Ma non ho mai recitato assieme a lei: l'unica volta che fui in scena con la Brignone, facevo la comparsa e basta, non dissi neppure una battuta. Il suo comunque fu un approccio moderno, però sempre legato ai valori della tradizione.».
(http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1984/10/30/in-memoria-della-signora-lilla-brignone.html).

mercoledì 21 agosto 2013

Diana Torrieri, attrice di un'altra generazione dal ricordo sempre vivo


Diana Torrieri

Avrebbe compiuto 100 anni in questi giorni l'attrice Diana Torrieri (il suo vero nome era Angela), nata a Canosa di Puglia (Bari) il 13 agosto 1913 (alcune biografie riportano, però, il 9 agosto come data della sua nascita).

Io ho avuto il piacere di conoscerla, e di mai dimenticarla, grazie alla televisione degli ultimi anni Cinquanta e primi anni Sessanta, quando la TV sembrava privilegiare il grande teatro italiano. Ero bambina e la ricordo in un film di Daniele D'Anza Ma non è una cosa seria (tratto dal testo di Pirandello nel 1957) con Gianni Santuccio (era il playboy Memmo Speranza) mentre la Torrieri interpretava Gasparina, proprietaria di pensione, donna umile e sottomessa, insignificante e apparentemente senza attrattive muliebri, che Memmo sposa legalmente ma per finta (per proteggersi dal pericolo di un vero matrimonio) ma che diviene tanto interessante e desiderabile da costringere Memmo Speranza a modificare quel “matrimonio per scherzo” in una unione seria.

Considerata una delle grandi interpreti del teatro italiano del Novecento, Diana Torrieri iniziò a calcare il palcoscenico nei primi anni Trenta con la Compagnia di Paola Borboni e Luigi Cimara (andarono anche negli USA per una lunga tournée).

Si distinse poi nella compagnia di Anton Giulio Bragaglia che ne fece la prima–attrice del Teatro delle Arti di Roma, del quale sarà direttore dal 1937 fino al 1943 (con Bragaglia interpretò, fra l'altro, la parte di Lavinia ne Il lutto si addice ad Elettra di Eugene O'Neill e fu la protagonista de La nuova colonia di Pirandello). Ebbe esperienze anche nelle compagnie di Wanda Capodaglio, Salvo Randone, Tino Carraro, Ivo Garrani, Vittorio Gassman, Elena Zareschi e Memo Benassi (con cui interpretò Spettri di Ibsen, Amleto di Shakespeare e Non si sa come di Pirandello). Nel 1943 entrò nella compagnia dell'Eti recitando ne Il piccolo Eyolf di Ibsen ed in Zio Vanja di Cechov.

Lavorò anche con la Compagnia del Quirino di Roma diretto da Sergio Tofano, e a Milano con Giorgio Strehler.

Durante la guerra, nel 1943, nelle file del Partito d'Azione svolse attività partigiana; nel medaglione dedicato a Diana Torrieri dall'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia è scritto: «La Torrieri era, comunque, impegnata in prima persona nella Resistenza. Militante del Partito d'Azione, nel 1943 entrò come staffetta in una formazione di “Giustizia e Libertà” e, nei giorni della Liberazione, fu ferita di striscio, mentre si trovava vicina al “Piccolo” di Milano, teatro di cui fu anche capocomico.» (http://www.anpi.it/donne-e-uomini/diana-torrieri/)

Nel 1949 l'attrice tentò il suicidio ma riprese ben presto la sua attività teatrale dedicandosi sia a opere classiche sia a testi moderni e rimanendo attiva sulla scena sino alla fine degli anni Sessanta (con qualche partecipazione anche sino agli anni Ottanta). Nel 1952 si dedicò all'organizzazione del Teatro Stabile di Venezia. Tra le presenze teatrali più significative degli anni Cinquanta, vorrei ricordare La vedova scaltra di Carlo Goldoni (1951) con Vittorio Gassman, Mario Feliciani, Mario Scaccia, Raoul Grassilli, Elena Zareschi, Mario Ferrari e Ferruccio Stagni, per la regia di Luigi Squarzina, al Teatro Valle di Roma, e Un uomo da nulla di Luigi Candoni (1953), con Enrico Maria Salerno, Pina Cei, Ivo Garrani e Ottorino Guerrini, che facevano parte della Compagnia del Teatro Stabile di Venezia di Diana Torrieri, per la regia di Gianfrando De Bosio, presentata al Teatro la Fenice di Venezia.

Aveva intanto conosciuto Giuseppe Ungaretti e nella stagione 1956-7 interpretò Fedra di Racine nella traduzione del grande poeta. Fra le sue ultime grandi interpretazioni, sono degne di nota La pietà di novembre di Carlo Brusati (1967) con Giorgio Albertazzi, e Più grandiose dimore di O'Neill (1969), rappresentata al Teatro San Babila di Milano per la regia di Vittorio Cottafavi.

Diana Torrieri si dedicò anche alla prosa radiofonica, amatissima dal pubblico del tempo. Da ricordare: Le tre sorelle di Anton Čechov (1942) con Carlo D'angelo per la regia di Enzo Ferrieri, e L'albergo dei poveri di Maxim Gorkij (1946) con Ruggero Ruggeri per la regia dello stesso Enzo Ferrieri. Nel 1957 si rivelò al suo pubblico radiofonico con Un'attrice allo specchio, confidenze poetiche di Diana Torrieri.

La prosa televisiva RAI svelò il suo viso e le sue interpretazioni, facendola conoscere al grande pubblico. Sono da ricordare: Gli spettri di Henrik Ibsen (1954) con Tino Buazzelli, Giorgio Albertazzi, Romolo Valli e Edda Albertini, per la regia di Mario Ferrero; Il piacere di lasciarsi di Jules Renard (1956) con Tino Bianchi, per la regia di Vito Molinari; Ventiquattr'ore felici di Cesare Meano (1956) con Emma Gramatica, Pina Cei, Luigi Vannucchi, Ivo Garrani e Sandro Tuminelli, per la regia di Claudio Fino; Il litigio di Charles Vildrac (1957) con Armando Francioli, Neda Naldi, Ernesto Calindri, Salvo Randone e Mercedes Brignone, per la regia dello stesso Claudio Fino; Il tunnel (1958), tratto dal dramma in un atto di Mabel Costanduros e Haward Hagg, con Ferruccio Solieri, Nicola Arigliano, Monica Vitti e Franco Volpi, per la regia di Giacomo Vaccari; Tana di ladri (1961) con Carlo Dapporto, Elsa Merlini, Michele Malaspina, Carlo Ninchi e Luigi Cimara, per la regia di Eros Macchi; Marea di settembre di Daphne duMaurier (1963) con Laura Efrikian, Enzo Tarascio e Gabriele Antonini, per la regia di Alessandro Brissoni; Processo a Gesù di Diego Fabbri (1963) con Mariolina Bovo, Mario Feliciani e Nando Gazzolo, per la regia di Sandro Bolchi; Piccole volpi di Lillian Hellman (1965) con Laura Efrikian, Mario Feliciani, Lyda Ferro, Giancarlo Sbragia e Roldano Lupi, per la regia di Vittorio Cottafavi; e infine La donna di fiori (1965), miniserie televisiva con Ubaldo Lai nel ruolo del tenente Sheridan, per la regia di Anton Giulio Majano. Nel 1965-1966 fu Emma Micawber nello sceneggiato televisivo David Copperfield; nel 1969 comparve nel film TV Dal tuo al mio e nel 1979 ne La promessa (interpretava la signora Schrott); nel 1980 partecipò, infine, alla miniserie TV Bambole: scene di un delitto perfetto.

Il cinema non predilesse granché Diana Torrieri; con lei negli anni Quaranta si ricordano quattro film: Il barone di Corbò (1939) – era la madre di Lulù – per la regia di Gennaro Righelli con Enrico Glori, Vanna Vanni, Laura Nucci, Wandina Guillaume e Nino Marchetti; Don Pasquale (1940) – era Zelinda, la damigella di Norina – per la regia di Camillo Mastrocinque con Laura Solari, Armando Falconi, Greta Gonda e Fausto Guerzoni; La primadonna (1943) – era Fanny Agrate – per la regia di Ivo Perilli con Maria Mercader, Annelise Uhlig, Renato Bossi, Romano Calò e Carlo Lombardi; e Incontro con Laura (1945) per la regia di Carlo Alberto Felice e prodotto da Filmservice, con Ernesto Calindri e l'allora ventiduenne Vittorio Gassman (pellicola purtroppo andata perduta). A proposito di questo film, è riportato così nel medaglione dedicato a Diana Torrieri dall'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia: «La pellicola aveva, per così dire, un risvolto resistenziale: era stata finanziata dall'industriale Gino Bonazzi, proprietario di quattordici filande. Improvvisandosi produttore cinematografico, Bonazzi riuscì ad impedire che i suoi operai (utilizzati nel film come comparse), venissero deportati dai tedeschi.» 
(http://www.anpi.it/donne-e-uomini/diana-torrieri/). 
Ha raccontato Diana Bonazzi, produttrice di Filmservice e figlia di Gino Bonazzi: «Nel film, Calindri recitava la parte di un orologiaio, il giovane Gassman era l'amico di sua moglie, interpretata dalla Torrieri.». Un critico del dopoguerra lo definì un film «girato clandestinamente con attori per lo più nuovi allo schermo».

Con il figlio Sergio Velitti, Diana Torrieri girò più tardi il film commedia La duchessa d'Urbino (1957) (diretto insieme a Ruggero Jacobbi) con Paola Mannoni ed Ernesto Calindri; il film storico Il silenzio del mare (1968) con Giancarlo Sbragia, Renzo Ricci e Claudia Giannotti; e il film drammatico La Malquerida (1969) con Lino Troisi e Marcello Tusco. [Sergio Velitti è anche noto per avere presentato nel 1961 “Storia di Pablo” – liberamente tratto dal romanzo Il compagno di Cesare Pavese – al Piccolo teatro di Milano, per la regia di Virginio Puecher, con Angelo Corti, Ottavio Fanfani, Gabriella Giacobbe, Franco Interlenghi, Vittorio Sanipoli, Franco Sportelli ed Enzo Tarascio]

Nel 1968 l'attrice fu inviata di Radio2 per fare un reportage in Brasile: durante il viaggio, sulla nave Augustus, intervistò e registrò dal vivo le parole di due geni della musica brasiliana, Vinicius De Moraes e Dorival Caymmi.

Dal 1991 fu sostenuta dal vitalizio previsto dalla Legge Bacchelli per gli artisti e visse senza venir mai meno al suo impegno democratico. Scomparve a Roma il 26 marzo del 2007 (aveva 93 anni).

è stato così commentato: «Attrice di prosa di notevole reputazione, graziosa, fine, caratterizzata da un sorriso dolce e ambiguo a un tempo, fu tra le prime mattatrici del palcoscenico a essere impiegate in TV fin dal periodo sperimentale. Interprete di ruoli di fine e romantica signora come ne “I Cari Inganni”,“Marea di Settembre”,“Il litigio”, diede comunque ottima prova anche in ruoli fortemente drammatici come quello della madre nel dramma “Gli spettri” di Ibsen e soprattutto in “”Piccole volpi“” a cui prese parte in entrambe le edizioni TV con una magnifica interpretazione del malefico personaggio di Regina Giddens.»
(http://www.mymovies.it/biografia/default.asp?a=6255).

Carlotta Degl'Innocenti nel suo necrologio pubblicato sulla Stampa mercoledì 28 marzo 2007, dal titolo “Diana Torrieri. Grandi interpreti del Novecento. Scompare una Stella”, riporta come si sia detto dell'attrice: «Interprete originale, incisiva nel registro comico e appassionata in quello drammatico, dotata di forte energia comunicativa. […] Nel 1949-50, la Torrieri risale sul palcoscenico accanto a Tino Carraro, lavorando per Giorgio Strehler, uno dei fondatori della moderna regia in Italia. Interpreta opere teatrali d’avanguardia e testi classici: “La macchina infernale” di Cocteau, “Sei personaggi in cerca d'autore” di Luigi Pirandello, “Albertina” di Valentino Silvio Bompiani e “L'annuncio a Maria” di Paul Claudel. […] Continua a recitare in numerose opere affiancando attori e registi di grosso calibro come nell'“Oreste” di Alfieri, accanto a Gassman e la Zareschi nel 1955, in tournée in America del Sud con Sergio Tofano in “Vestire gli ignudi” e “Pensaci, Giacomino!” di Luigi Pirandello […] Nel 1955-56 è inoltre interprete e regista di “Un tram che si chiama desiderio” di Tennessee Williams. […] Sul viale del tramonto, recitato dietro le telecamere, Diana Torrieri, la “signora del teatro”, cede al postmodernismo, condannata anche lei, come altri protagonisti della grande stagione culturale italiana, a ricevere un vitalizio dal governo italiano nel 1991.»
(http://www.fondazioneitaliani.it/index.php?option=com_content&task=view&id=794&Itemid=1)

Si è scritto ancora: «Le possibilità espressive della Torrieri e i toni stessi della sua recitazione trovano però la loro più felice espressione quando possono riversare nell'interpretazione di una figura femminile quei singolari accenti di vigorosa amarezza e di inquietante tensione che le sono congeniali.» [http://www.treccani.it/enciclopedia/diana-torrieri_(Enciclopedia-Italiana)/].