mercoledì 31 agosto 2011

Anniversario per la morte di Louise May Alcott



Louise May Alcott


Louise May Alcott, notissima scrittrice americana della Pennsylvania, nacque nel 1832 e insieme alle sorelle fu educata in casa dal padre (filosofo trascendentalista e pedagogo sprovvisto di senso pratico e incapace di mantenere moglie e figlie).


Visse in una povertà così estrema da dover iniziare a lavorare giovanissima come istitutrice (e forse anche come domestica e sarta), facendosi carico del sostentamento della famiglia. Grazie a una eredità materna, nel 1840, si stabilì in un cottage del Concord nel Massaschusetts, assistendo la madre e il padre sino alla morte e adottando una piccolissima nipote, rimasta orfana.

Si era battuta per l’abolizione della schiavitù e a fianco del nascente movimento femminista a favore dei diritti e del suffragio femminile.

Morì a Boston il 6 marzo nel 1888 (120 anni addietro) per un avvelenamento di mercurio causato dall’uso di calomelano per curare i postumi di un tifo, contratto mentre era infermiera volontaria durante la guerra di Secessione; prima di morire manifestò il timore di avere la meningite, temibile malattia allora come ora (le sue ultime parole furono: «È forse meningite?»).

Dopo un esordio con lo pseudonimo di A.M. Barnard, scrisse testi duri e sensazionalistici definiti dalla critica del tempo «potboilers» (termine usato per i testi scadenti scritti a scopo di lucro), alcuni dei quali dei veri e propri thriller di gusto gotico, alla maniera del maestro del­l’horror Edgar Allan Poe.

Il primo bestseller di Alcott fu Piccole donne (1868), in cui la scrittrice Alcott narrava in modo autobiografico gli eventi quotidiani durante la guerra di quattro sorelle (Meg, Jo, Beth e Amy) e i loro tentativi di sistemazione nel lavoro ma soprattutto nel matrimonio (l’inevitabile destino esistenziale consentito alla donna nel periodo vittoriano). E Louise altro non era che Jo March, piena di fantasioso talento e di umoristico ottimismo. E come Jo, Louise – vivace e anticonformista – diceva: «Nessun ragazzo poteva essere mio amico finché non lo battevo nella corsa… nessuna ragazza se si rifiutava di arrampicarsi sugli alberi e di saltare recinti con me». Dopo l’enorme successo letterario, con soddisfazione scriveva: «Il mio libro uscì; e la gente cominciò a pensare che la scombinata Louise dopotutto valeva qualcosa»; e questo romanzo ha, certamente, influenzato il sentire e i comportamenti di diverse generazioni di ragazze.

Seguirono Buone mogli, conosciuto come Piccole donne crescono (1869), Piccoli uomini (1871) e I ragazzi di Jo (1886), ispirato dai suoi amati nipoti.

Diversi bei film sono stati tratti da Piccole donne: quello del 1933 di George Cukor con Katherine Hepburn; quello del 1949 di Mervyn Leroy con June Allyson e quello del 1994 di Gilliam Armstrong con Wynona Ryder. (www.zam.it, News, 5/3/2008)

P.S. Tre sono i film più noti tratti da Piccole donne.

Nel 1933 George Cukor girò Little Women con Katherine Hepburn (Jo), Joan Bennett (Amy), Jean Parker (Beth), Frances Dee (Meg), e Douglas Montgomery (Laurie). Il successo fu tale da indurre Cukor ad affrontare un altro grande romanzo, "David Copperfield" di Charles Dickens, che fu un nuovo grande successo. Da quel momento Cukor disse: «I became typed as a leterary director» («Sono stato classificato come un regista letterario»). Presentato alla 2ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia del 1934, Katharine Hepburn vinse la coppa Volpi come migliore attrice. Il film vinse anche un Oscar nel 1934 per la migliore sceneggiatura non originale (Sarah Y. Mason e Victor Heerman). E' un film delizioso, forse il migliore di tutte le molte versioni del romanzo. Cukor seppe dare la vita a quelli che avrebbero potuto essere soltanto dei modelli stereotipati di comportamento femminile, conferendo loro una certa modernità e sottraendoli al pericolo di una appiccicosa melassa.

Nel 1949 Mervyn Leroy girò Little Women con June Allyson (Jo), Elizabeth Taylor (Amy), Margaret O'Brien (Beth), Janet Leigh (Meg) e Peter Lawford (Laurie); molto conosciuto in Italia per i numerosi passaggi televisivi, aveva tra gli interpreti anche in nostro Rossano Brazzi, che interpretava il Professor Bhaer che fa capitolare l'irriducibile Jo March e che iniziò così a costruirsi il ruolo di "latin lover italiano". Il film si aggiudicò nel 1950 l'Oscar per la migliore scenografia a colori (Cedric Gibbons, Paul Groesse, Edwin B. Willis e Jack D. Moore) e una nomination all'Oscar per la migliore fotografia (Robert H. Planck e Charles E. Schoenbaum). Hanno scritto del film Luisa, Laura e Morando Morandini, ne "il Morandini (Zanichelli): «Potabile sul versante della commedia, insopportabile quando inclina al sentimentalismo.».

Nel 1994 la regista australiana Gilliam Armstrong girò un remake di Little Women con Wynona Ryder nel ruolo di Jo March; fu la stessa Winona Ryder a insistere perché il progetto andasse in porto, innamorata della parte. Gli altri interpreti furono Susan Sarandon (nel ruolo della madre), Kirsten Dunst (Amy), Claire Danes (Beth), Trini Alvarado (Meg), Christian Bale (Laurie) e Gabriel Byrne (il professor Bhaer). Il film ebbe tre nomination all'Oscar per la migliore attrice (Winona Ryder), per i migliori costumi (Colleen Atwood, che fu nominata anche al BAFTA Award nella stessa categoria) e la migliore colonna sonora (Thomas Newman, che vinse il BMI Film Music Award) mentre la Ryder si aggiudicò il Kansas City Film Critics Circle Award nel 1995 come miglior attrice. Si tratta di un ottimo film, che ha privilegiato gli aspetti femministi e il gusto per l'ambiente e il paesaggio (la suggestiva fotografia era di Geoffrey Simpson).

Non posso non ricordare, infine, il mitico sceneggiato televisivo Piccole donne (1955), visto da bambina e amato così tanto da essere indotta a leggere tutta la serie di libri della Alcott. Girato dal geniale Anton Giulio Majano in quattro puntate, sulla scia del film hollywoodiano della Paramount uscito sugli schermi italiani, ebbe un successo così travolgente che si dovette aggiungere una quinta puntata (fatta di flashback). Le interpreti erano Lea Padovani (Jo), Vira Silenti (Amy, Maresa Gallo (Beth) ed Emma Danieli (Meg). In quella occasione Majano scrisse che aspirava a «creare ex novo una sintassi propriamente televisiva»; egli si riferiva a una diversa rilettura di un classico e a un modo tutto televisivo di tradurre un libro in immagini. Si disse che le nostre quattro interpreti italiane furono: «meno splendenti, meno remote e più intonate ai nostri tinelli» di quanto non avrebbero potuto essere delle attrici americane.

Nel 1989 è stata presentata una miniserie in quattro puntate dal titolo Quattro piccole donne, diretta da Gianfranco Albano, sceneggiata da Lidia Ravera e Mimmo Rafele, con Simona Cavallari, Stefania Orsola Garello, Amanda Sandrelli, Susannah York, Pascale Rochard, John Philip Law e Omar Sharif, che non ha bissato però il grande successo di pubblico e di critica della storica versione di Anton Giulio Majano (forse anche per la parziale indifferenza delle nuove generazioni per i classici).



martedì 30 agosto 2011

Georges Bernanos e il suo struggente “Diario di un curato di campagna”



George Bernanos


Centoventi anni addietro nasceva (il 20 febbraio del 1888), e sessant’anni addietro (il 5 luglio del 1948) moriva a Parigi Georges Bernanos, scrittore cattolico dalla forte tensione spirituale, un polemico originale e disobbediente dinanzi ai compromessi della gerarchia ecclesiastica.


Il suo capolavoro Diario di un curato di campagna (1936) è la toccante storia di un’anima: quella di un giovane e sensibile curato (appena uscito dal seminario), chiamato da Dio e diverso da tutti gli altri preti, senza vanità e senza ambizioni, povero e solo, stanco e malato di cancro (riesce a mangiare soltanto pane raffermo inzuppato nel vino ed è così magro da essere soprannominato «triste a vedere»), con «la forza dei deboli, dei fanciulli… della razza di chi tien duro, che sta ritta».

Nella sua «prima ed ultima parrocchia» in un «villaggio miserabile… divorato dalla noia», pieno di pietà e sete di giustizia, deve lottare contro l’ipocrita ostilità dei parrocchiani – che odiano la sua semplicità e che fingono d’ignorarlo, spargendo calunnie e nascondendo atroci rivalità, profonde angosce e «spaventosi segreti» – ai quali egli non può far altro che opporre le sue tremende sofferenze. Per la volontà di veder chiaro in se stesso, decide di appuntare su «un quaderno da scolaro… il tesoro nascosto» il suo dialogare col buon Dio, i suoi prolungamenti di preghiera e le riflessioni sulla sua «solitudine profonda… inumana» e i suoi «momenti di confusione, di affanno».

Salgono così a galla debolezze e inettitudini, turbamenti psichici e dolori fisici. Egli è lacerato soprattutto dal timore di perdere la fede («No. Non ho perso la fede!... La fede non si perde… cessa d’informare la vita, ecco tutto… Dio s’e­ra ritirato da me… L’anima tace. Dio tace. Silenzio.») e di peccare contro la speranza, in preda a «una rassegnazione tenebrosa, più spaventevole dei grandi soprassalti di disperazione e delle sue immense cadute…» e a una «sorda ribellione… uno stizzoso silenzio dell’anima, quasi pieno di odio…».

Subito dopo l’infausta diagnosi, il curato–fanciullo muore per un’emorragia gastrica, lontano dalla sua parrocchia, in casa di un amico, sacerdote spretato, anch’egli lambito dalla morte (che grazie a lui si riconcilia forse con Dio), al quale dice le sue ultime sublimi parole: «Che cosa importa? Tutto è grazia.».

Nel 1951 Robert Bresson, il grande maestro francese che ha usato il cinema come una via per la ricerca della Grazia, ha ricavato dal suddetto romanzo uno struggente film, Leone d’oro a Venezia.

Pur essendo in apparenza uomo di destra e cattolico ancorato alle tradizioni e ai temi del peccato e della colpa, del perdono e della santità, della carità e della grazia, Bernanos manifesta un pensiero che non è né di destra né di sinistra ma si innalza a descrivere in forma universale il dramma dell’uomo solo davanti al mistero di Dio (e solo in faccia alla morte), in una visione della vita pessimistica (quando non addirittura apocalittica) che guarda indietro a Blaise Pascal e al suo uomo angosciato, perché prigioniero della sua finitezza, che spasima però per essere felice nonostante le umiliazioni e l’infelicità.

Georges Bernanos racconta non i fastosi personaggi dell’“establishment” cattolico istituzionale (forti e senza dubbi) ma i rappresentati più umili e fragili, individui in bilico tra spiritualità e tentazioni, tra purezza d’animo e comportamenti di degradazione.

Adriano Grande (il sensibile traduttore del grande autore francese) ha scritto che i suoi personaggi «come quelli di Dostoevskij ci sono fratelli, sono esseri che abbiamo veramente conosciuto, diventan parte della nostra umanità. A loro ripensiamo sovente come figure della nostra povera e umiliata e tragica realtà quotidiana.».

Gli “eroi perdenti e quasi perduti” di Bernanos però, quando la lotta è finalmente giunta al suo termine – pur soffocati da fardelli, vizi e sofferenze inaudite, pur tentati dalla disperazione di non poter salvare né la loro anima né quella degli altri secondo l’immensa missione loro affidata da Dio (sempre e comunque volti nella direzione del Divino) – riescono a conquistare quella Grazia e quella Santità, tanto ansiosamente ricercate. (www.zam.it, News, 19/2/2008)


P.S. Da Il diario di un curato di campagna (Journal d'un curé de campagne) di George Bernanos, romanzo scritto nel 1936, il regista francese Robert Bresson nel 1950 trasse un superbo film con Claude Laydu al suo debutto (il curato d'Ambricour) – grandissimo interprete deceduto all'età di 84 anni proprio un mese addietro (il 29 luglio) – , Jean Riveyre (il conte), Adrien Borel (il curato di Torcy), Nicole Maurey (mademoiselle Louise) e Rachel Bérendt (la contessa). Presentato in concorso alla 16ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, si aggiudicò il Premio OCIC (Office Catholique International du Cinèma). E soltanto un regista come Andre Bresson avrebbe potuto restituirci la bellezza e la profondità del libro di Bernanos, con il suo intendere il cinema non come spettacolo popolare ma come scrittura alta e nobile, con il suo rigore introspettivo e il suo background filosofico, e con il suo scavare psicologicamente all'interno dei personaggi, che lo hanno reso unico e indimenticabile nel panorama cinematografico mondiale. Intellettuale colto e sensibile, egli è stato anche l'abile sceneggiatore del film.



A Robert Bresson si deve anche l'omonima appassionata versione cinematografica di Mouchette, sceneggiata e diretta nel 1967 (in Italia si scelse il titolo Mouchette. Tutta la vita in una notte) con Nadine Nortier (Mouchette), Jean-Claude Guilbert (Arsène), Marie Cardinal (la mamma), Paul Hebert (il padre) e Jean Vimenet (Mathieu), tutti attori poco conosciuti ma bravissimi. Considerato uno dei migliori film di Bresson, scarno ed essenziale, vi si narra la triste storia di Mouchette, una contadinella adolescente che vive nell'ambiente rurale di un villaggio della Provenza. Povera e maltrattata sia dal padre alcolizzato sia dagli ottusi paesani, viene violentata da un bracconiere epilettico, soccorso dopo una crisi; nonostante sia la vittima innocente, la gente del villaggio – arida e piena di pregiudizi – la considera una vergogna per il paese e la isola spettegolando con malvagità. Mouchette decide allora di concludere quella sua esistenza di violenze e umiliazione col suicidio, che rappresenta un atto accorato di estremo rifiuto dell'orrore del mondo e della sua vita invivibile che le ha regalato soltanto delusioni e disperazione. Si avvicina pertanto alla sponda del fiume e si lascia scivolare passivamente nel fango sino all'acqua che l'accoglie nel suo grembo. Il film nel 1967 vinse al Festival di Cannes il Premio OCIC. Hanno scritto Laura, Luisa e Morando Morandini (ne "il Morandini", Zanichelli editore): «A un anno di distanza da "Au hasard Balthazar", e sulle stesse linee tematiche, Bresson ritorna a Bernanos cui si era già ispirato per "Il diario di un curato di campagna", ma continua a descrivere un mondo senza Grazia, avviandosi verso "un cristianesimo ateo, senza riscatto, in cui l'unico gesto libero che l'uomo sembra compiere è quello di morire" (A. Ferrero). Già risuonate due volte, le note del Magnificat di Monteverdi suggellano, all'insegna della discrezione e del ritegno, la sconsolata sacralità della sequenza finale.».

lunedì 29 agosto 2011

Il melodramma e la sensualità di Blasco Ibáñez


Vicente Blasco Ibáñez

Blasco Ibáñez, apprezzato scrittore spagnolo nato a Valenza il 29 gennaio 1867, fu un dissiden­te politico anti–monarchico e un repubblicano militante.

Ricevette dall’impegno politico sofferenze e carcere ma anche grandi soddisfazioni: fu parlamentare per sette legislature e uno scrittore che ebbe successo e soldi, divenendo un prolifico e noto autore di romanzi e novelle oltre che di sceneggiature e regie.

Fu anche un vero play–boy che, ricambiato, amava e corteggiava instancabilmente le donne, delle quali seppe rappresentare bene cuore e sentimenti. Era un uomo vivace ed esuberante che nella sua esistenza affascinante riuscì a realizzare i miti incarnati nelle sue storie, circondato però da invidie feroci e da detrattori implacabili.

Viaggiò molto nel Mediterraneo e nel 1923 scelse l’esilio volontario tra Genova e Mentone (Francia) ove morì ottant’anni addietro, il 28 gennaio 1928, proprio mentre si apprestava a festeggiare i suoi 61 anni. A Mentone esiste ed è visitabile il bel giardino delle ceramiche chiamato “Fontana Rosa”, di proprietà dello scrittore e della sua famiglia.

Alcune delle storie di Ibáñez, piene di tono melodrammatico e sensualità, erano perfette per trovare un’altra vita imperitura nei fotogrammi di un film. In Sangue e arena (1909), Juan Gallardo sulle orme del padre defunto è divenuto il più popolare toreador di Spagna e ha sposato Carmen, la modesta innamorata di sempre, ma s’innamora poi della vedova Doña Sol, dalla bellezza abbagliante e dalla grande volubilità. La difficile situazione sentimentale lo rende nervoso e inquieto (viene ferito durante una corrida) e gli fa trascurare la moglie e il suo spettacolo di eleganza e crudeltà. Nonostante le richieste pressanti di Carmen di abbandonare la corrida (teme per la sua vita!), Juan scende un’ultima volta nella Plaza de Toros per mostrare il suo valore, ma vedendo Doña Sol con un altro uomo si muove incontro al toro e al suo tremendo destino di morte. 

Da questo mèlo, oltre a molti altri film di produzione spagnola furono tratte due pellicole targate USA: una prima versione muta di Fred Niblo (1922) con Rudy Valentino, che si era già ritagliato il mitico ruolo di “amante immortale”, e una seconda versione di Rouben Mamoulian (1941) con Tyrone Power e Rita Hayworth che fu lanciata proprio da questo film.

Javier Elorrieta ha riproposto il tema in Ossessione d’amore (1989), un film a sfondo erotico con Sharon Stone.

Ne I quattro cavalieri dell’Apocalisse (i quattro cavalieri spaventosi che nel sogno dell’evan­gelista Giovanni precedevano la comparsa del Mostro, simboleggiando la Guerra, la Conquista, la Carestia e la Morte), Ibáñez narra le vicende ambientate durante la I Guerra mondiale delle famiglie dei due generi di un ricco patriarca argentino, andati in Europa dopo la sua morte: i Desnoyers di Parigi con Julio (innamorato di una donna francese, sposata a un altro), che nonostante l’apparente frivola indifferenza è un coraggioso nascosto resistente, e i von Hartrott di Berlino con il cugino Heinrich, implacabile ufficiale tedesco; e la morte falcerà i due, insieme agli altri giovani della famiglia.Questo dramma d’amore e guerra ebbe due trasposizioni cinematografiche: l’edizione muta di Rex Ingram (1921) con Rudy Valentino e quella di Vincente Minnelli (1962) con Charles Boyer, Glenn Ford e Ingrid Thulin, riadattata e ambientata durante la II Guerra mondiale. (www.zam.it, Recensioni, 2007)

P.S. Lo stesso Blasco Ibáñez partecipò nel 1916, insieme a Ricardo de Baños e Max André, alla regia della prima trasposizione filmica del romanzo Sangue e arena (Sangre y Arena) scritto nel 1909, senza particolare successo. Furono invece due trionfi sia il film Blood and Sand diretto da Fred Niblo nel 1922 con Rudy Valentino (Juan Gallardo) che recitava con passione e sensibilità, Lila Lee (Carmen) e Nita Naldi (Doña Sol), sia l'omonimo film diretto da Rouben Mamoulian nel 1941 con Tyrone Power (Juan), Linda Darnell (Carmen) e Rita Hayworth ai suoi esordi (Doña Sol). Quest'ultimo film nel 1942 vinse l'Oscar per la migliore fotografia: furono premiati Ernest Palmer e Ray Rennahan, i quali avevano lavorato traendo ispirazione dalla pittura spagnola classica.

Javier Elorrieta ripopose nel 1989 Sangre y arena (il titolo in Italia divenne incomprensibilmente Ossessione d'amore) con Chris Rydell (Juan), Ana Torrent (Carmen) e Sharon Stone (Doña Sol). Il film è piuttosto deludente: la Spagna viene rappresentata secondo tutti i classici stereotipi, le scene di corrida mancano di mordente e l'erotismo esasperato di Sharon Stone risulta pretestuoso. Ha scritto Fabio Bo de "Il Messaggero" (2/12/1992): «Il remake spagnolo di "Sangue e arena" spunta fuori dai fondi di magazzino grazie alla presenza di Sharon Stone l'eroina bisessuale di "Basic instinct". Immagini patinate fino all'inverosimile, dialoghi elementari, tauromachia che farebbe inorridire lo stesso Hemingway e sghignazzare il Pedro Almodovar di "Matador", cooperano con pleonastica ostinazione all'annientamento generale dell'impresa.». 





sabato 27 agosto 2011

Il cuore è un cacciatore solitario – Il profondo desolato sud americano dell’incomprensione e dell’odio razziale in Carson McCullers



Carson McCullers


Quaranta anni fa moriva la grande scrittrice americana Carson McCullers, nata in Georgia nel 1917.


Vissuta da bambina a contatto con le contraddizioni e i conflitti dell’oppressivo e desolato mondo del Sud americano, fu marchiata a fuoco da questo ambiente triste, che nei suoi testi tornò e ritornò ossessivamente (ed era la stessa provincia abulica in disfacimento descritta da William Faulkner in L’urlo e il furore).

Donna infantile e fragile, abile pianista col desiderio di diventare concertista, a 15 anni si ammalò di febbre reumatica ed ebbe diversi ictus invalidanti che la portarono giovanissima a essere appena in grado di pestare con un sol dito sui tasti di una macchina da scrivere. Non sorprende che molti suoi personaggi senza tempo né luogo, fossero infermi o tarati psichici, esclusi o emarginati, patetici o talora grotteschi. 

Trasferitasi a New York a 17 anni, nel 1940 ad appena 23 anni, pubblicò il suo primo romanzo
Il cuore è un cacciatore solitario (scritto in un momento di grave infermità), nel quale con potente lirismo svolge il tema dell’incomunicabilità e del desiderio sempre vano di non essere soli e di poter essere almeno ascoltati, se non proprio compresi. Quattro protagonisti si muovono intorno alla figura del sordomuto John Singer, un mite e tranquillo orologiaio (e proprio il padre di Carson lo era), passivo interlocutore scelto come depositario delle angosce di tutti gli alienati e disadattati di una piccola città del Sud.

Prigioniero del silenzio, John non può ascoltarli ma, pieno d’umana comprensione (ne giustifica anche la violenza e i vizi con i quali tentano di contrastare la solitudine), vorrebbe farsi carico delle loro pene. Tenta di leggere faticosamente le parole sulle loro labbra e di rispondere col movimento delle mani affusolate da cesellatore, per alleggerire il fardello del loro infelice destino («Il ricco lo considerava ricco quanto lui, il povero lo paragonava a se stesso… Ognuno descriveva il muto quale lo voleva»).

Paradossalmente, col suo silenzio riesce a dare una qualche risposta alle urla represse di quelle anime: i suoi occhi sembrano comprendere tutto («E la morte, così difficile. E la nascita, così facile. E l’eterno problema delle razze…») e tutto custodire (segreti, dolori, aspirazioni e sconfitte). Tra il muto e i quattro comprimari (un vedovo proprietario di un piccolo caffè, una strana ragazzina con la passione per la musica, un fallito agitatore socialista col vizio dell’alcol e un medico nero marxista e disilluso) si stabilisce un delicato equilibrio che finirà purtroppo tragicamente: Singer, perduto l’amico sordomuto, si sentirà lui stavolta tanto solo da spararsi.

Da questo romanzo fu tratto il film di Robert E. Miller (1968) con Alan Arkin e Sondra Locke.

Seguì il breve romanzo Riflessi in un occhio d’oro (1941), che divenne il film crudo e appassionato di J. Huston (1967) con Elizabeth Taylor e Marlon Brando. Il romanzo, ambiguo e scandaloso, è ambientato in un noioso campo militare della Georgia e mostra l’evolversi di un groviglio di nevrosi nell’ambito di un bizzarro gruppo di persone: una creatura disinibita e selvaggia, sposata a un brutale e misogino maggiore (che nasconde un’omosessualità latente) e amante di un ufficiale (dal quale è attratto anche il marito), la cui moglie è un essere fragile e tormentato; c’è pure un giovane soldato introverso e voyeur che cavalca nudo di notte. E tutti i personaggi non sanno né amare né comunicare e si legano in una tragica ragnatela di torbide relazioni.

Questi due romanzi furono un evento letterario di gran successo; Carson fu celebrata come una scrittrice dal talento superlativo e le furono riconosciuti diversi premi della critica. I successivi libri e racconti furono all’altezza dei primi testi e tutti dei bestseller: Invito di nozze (1946) – da cui fu tratto uno spettacolo teatrale premiatissimo che furoreggiò a Broadway e un film di Fred Zinnemann (1952) – che narra della crisi esistenziale di una ragazzina, Frankie, orfana e alla vigilia del matrimonio di un fratello più grande al quale è legatissima; Ballata del caffè triste (1951) – dal quale pure furono tratti una commedia e un film per la regia di Simon Callow (1990) con Vanessa Redgrave e Rod Steiger – ove nel dolore per l’amore impossibile da ricambiare agiscono i tre improbabili protagonisti di un drammatico triangolo amoroso di gusto felliniano (un donnone androgino e scorbutico, un nano deforme e l’ex–marito galeotto); e Orologio senza lancette (1961), dominato dalla lacerazione dell’odio razziale e dall’angoscia della morte (quest’ultimo lavoro non ebbe molto successo e gettò nello sconforto la scrittrice, abituata al consenso generale).


Carson, in effetti, ha scritto la storia della sua vita; la tragedia e l’ambiguità del suo privato superavano di molto quelle simili dei suoi personaggi: a 22 anni aveva sposato il militare–scrittore fallito J. Reeves McCullers (entrambi erano bisessuali e talora innamorati della stessa persona), divorziarono nel 1941 (il marito, mantenuto insieme ai suoi amorazzi da Carson, aveva falsificato degli assegni), si risposarono nel 1945, Carson che soffriva d’alcolismo tentò il suicidio nel 1948, furono entrambi sull’orlo di un duplice suicidio nel 1953, e nello stesso anno Reeves (lasciato da lei definitivamente) s’uccideva in un hotel parigino. Un’angosciosa rappresentazione di questi episodi di vita si ritrova nel dramma La radice quadrata del meraviglioso (1958).


Negli anni ’50, la scrittrice visse a Parigi e strinse amicizia con Truman Capote e Tennessee Williams, autori sulla sua stessa lunghezza d’onda e nella tradizione “gotica” del Sud americano. Intanto, la sua salute peggiorava in mezzo a depressioni (e cure psichiatriche), pleuriti, pol­moniti doppie, angine e ictus devastanti che la costrinsero infine su una sedia a rotelle, impedendole di continuare a scrivere. Negli ultimi mesi tentò faticosamente di dettare la sua biografia: la sua «canzone interrotta».


La vita infelice e disperata di questo astro brillante della letteratura fu stroncata definitivamente da un grave ictus emorragico: moriva il 29 settembre del 1967 dopo lunghe sofferenze e dopo 47 giorni di coma profondo. (www.zam.it, Recensioni, 2007)

P.S. Il cuore è un cacciatore solitario (The heart is a lonely hunter) fu adattato per il cinema dall'omonimo romanzo di Carson McCullers nel 1968 (sceneggiatore Thomas C. Ryan) per la regia di Robert Ellis Miller con Alan Arkin (John Singer) e Sondra Locke al suo debutto (Mick Kelly, la ragazza aspirante pianista). Furono entrambi nominati per l'Oscar. Il film, che non è molto noto in Italia, ricevette anche quattro nomination ai Golden Globe mentre Alan Arkin vinse un New York Film Critics Circle Awards.

Riflessi in un occhio d’oro (Reflections in a Golden Eye) fu diretto nel 1967 da John Huston con Elizabeth Taylor (Leonora Penderton), Brian Keith (il tenente colonnello Morris Langdon), Marlon Brando (il maggiore Welden Penderton), Julie Harris (la fragile Alison Langdon), Robert Foster (l'aitante e misterioso soldato Williams) e Zorro David (il cameriere filippino Anacleto, apertamente gay, col quale Alison discorre di pittura e musica). Crudo e coinvolgente, pervaso da comportamenti crudeli e ambigui, il film si dispiega sino all'esplosione del dramma: sconvolta da ciò che accade intorno a lei, Alison muore di crepacuore e, una notte, Penderton – un militarista omosessuale represso – uccide Williams venuto a spiare Leonora che dorme. Tutti credono che abbia ucciso per gelosia della moglie mentre egli amava disperatamente e segretamente Williams, a sua volta innamorato di Leonora. Insieme all'oggetto amato ha cercato di uccidere la sua – inconfessata e incoffessabile – omosessualità. E il riflesso del titolo fa riferimento all'occhio d'oro di un uccello immaginario dipinto da Anacleto. Hanno così commentato Laura, Luisa e Morando Morandini ne "il Morandini (Zanichelli editore): «Sottovalutato dalla critica e ignorato dal pubblico, l'una e l'altro disorientati da una vena grottesca che fu scambiata per involontaria parodia, è un film inquietante e suggestivo in cui Huston racconta con distacco lucido i personaggi senza dare valutazioni morali né spiegazioni psicologiche. Un quartetto d'attori di prim'ordine e un interessante uso del Technicolor, denaturato in laboratorio per ottenere una dominante di oro–arancio.». Ian Fleming, che amava la McCullers e questo breve romanzo, ne trasse ispirazione per chiamare "Golden Eye" la sua tenuta in Giamaica.

Da Invito di nozze (The member of the wedding) (1946), il regista Fred Zinnemann trasse il film Il membro del matrimonio, girato nel 1952, con la sceneggiatura di Edna e Edward Anhalt, e interpretato da Ethel Waters (Sadie Brown), Julie Harris (Frankie Addams), Brandon De Wilde (John Henry) – che si aggiudicò un Golden Globe speciale nel 1953 – , Arthur Franz (Jarvis Addams) e Nancy Gates (Janice). Il regista seppe dare spessore e intensità alla tenera storia di una dodicenne, Frankie, ragazzina solitaria, malvista da tutte le ragazze del quartiere, che vive in una opaca cittadina di provincia nel sud degli Stati Uniti. Frankie ha una sola amica, la cuoca di colore Sadie, e con lei trascorre molte ore in cucina chiacchierando ma ha anche un piccolo amico che abita vicino a lei. Molto legata al fratello Jarvis, sogna addirittura di partire con lui e con la moglie in occasione del loro viaggio di nozze, lasciando quell'ambiente così inospitale.

Dall'omonimo romanzo Ballata del caffè triste (The Ballad of the Sad Cafe), scritto dalla McCullers nel 1951, furono tratti sia la versione tetrale del 1963 di Edward Albee (il celebrato autore di "Chi ha paura di Virginia Woolf"), sia il film del 1990 diretto dal regista esordiente Simon Callow con Vanessa Redgrave (Miss Amelia), Rod Steiger (Marvin Macy) e Cork Hubbert (il nano Lymon). La storia è strana e surreale: in un villaggetto del sud degli Stati Uniti, povero e sperduto (siamo nel periodo della Grande Depressione), Miss Amelia, una donna matura e mascolina, ha un emporio e sottobanco gestisce anche una distilleria clandestina. Raggiunta da Lymon, un cugino nano e gobbo ma dal carattere lieto, che non aveva mai conosciuto, viene convinta da lui a trasformare in caffé il suo negozio. Vivono un breve periodo di gioia e la donna sembra anche ritrovare una certa dolcezza di carattere, ma ritorna dal carcere Marvin Macy, l'ex marito di Amelia, da lei cacciato la sera stessa delle nozze e finito in carcere, che è venuto a cercare vendetta. Lymon viene sottoposto a offese e umiliazioni da parte di Marvin, ma nonostante tutto cerca di procurarsi il suo affetto. Durante un litigio tra i coniugi, Amelia cerca di strozzare Marvin ma in soccorso dell'uomo accorre Lymon ed entrambi riescono a neutralizzarla. Diventati amici, i due uomini ubriachi provocano l'incendio della distilleria. Sono trascorsi molti anni da allora e una ormai vecchia Amelia ricorda il passato (Marvin intanto è nuovamente rinchiuso in galera). Ha scritto Gian Luigi Rondi (ne "Il Tempo"): «Restano fra i meriti, solo quel carattere durissimo al centro, che poi la vita distruggerà, e quell'ambientazione di sfondo ricostruita con un realismo acre non privo però di accenti tra il visionario e il simbolico: per testimoniare, sia pur senza coinvolgimenti né pietà, di una condizione umana.».

L’inventore della scienza patafisica – Cent’anni dalla morte di Alfred Jarry



Alfred Jarry


Alfred Jarry, autore francese di rottura e provocatore dalla vita breve e tumultuosa, morì in abbandono per tubercolosi e abuso d’assenzio a 34 anni (il 1 novembre del 1907).


Conquistò fama imperitura con la farsa demenziale Ubu re, il cui primo nucleo risaliva a una satira scolastica, scritta per ridicolizzare un pomposo insegnante, oggetto di lazzi e scurrili doppi sensi. Concepita per il teatro di marionette, fu rappresentata nel 1896 suscitando il rifiuto disgustato di pubblico e critica. Caratterizzata da un linguaggio oltraggioso, ricca di fraintendimenti e assurdità, riduceva a pezzi le stupide convenzioni del tempo, presentando chiari richiami al “Macbeth” di Shakespeare. Père Ubu, mostruosa maschera letteraria, è un impostore megalomane e sanguinario – ridicolo nella sua prepotenza e negatività – che va alla conquista del regno di Polonia uccidendo il re, suo benefattore, ma viene sbaragliato infine dal figlio del re spodestato. Nella commedia compaiono una macchina decervellatrice, accreditata come un personaggio, e tre attori che interpretano rispettivamente l’armata russa, l’armata polacca e la porta cigolante della prigione. Ubu, ovviamente, è l’emblema della stupidità e della brama di potere più abiette che arrivano sino agli abusi più spaventosi, sostenuti da principi discutibili (ma è cambiato qualcosa sotto il sole?).

Jarry creò una saga, il ciclo di Ubu, con Ubu incatenato (1900), Ubu sulla collina (1901) – rappresentato nel 1970 da Jean–Louis Barrault – e Ubu cornuto, uscito postumo (1944). Sulla scia dei simbolisti, creò trame contenenti elementi del comico e del tragico con tratti della parodia e della satira, dissolvendo il tradizionale teatro borghese realista di fine Ottocento. Nascose la sua disperazione esistenziale nella distorsione dell’uomo e della società allo specchio deformante di una rappresentazione grottesca, così anticipando il Surrealismo dadaista e il Teatro dell’assurdo di Jonesco e Beckett.

L’autore fu un anarcoide dall’esistenza caotica e sregolata, condita però da una buffa ironia dissacrante (scriveva: «Una cieca e inflessibile mancanza di disciplina in ogni tempo costituisce la vera forza di tutti gli uomini liberi»); tentò di vivere una realtà ammantata dalla sua visionaria avventura letteraria: negli ultimi mesi di vita parlava come Ubu e firmava le sue lettere col nome Ubu.

Jarry scrisse numerose altre opere in versi e in prosa (tra le quali, la blasfema autobiografia L’amore assoluto); nell’ultima eccentrica opera (uscita postuma nel 1911), Gesta e opinioni del dottor Faustroll, patafisico, inventò la Patafisica, una logica dell’assurdo, una scienza delle soluzioni immaginarie, destinata a occuparsi delle leggi che regolano le eccezioni. 

Dario Fo, da sempre in lotta contro gli autoritarismi e i mostri dell’egoismo sociale, ha dato il nome di Ubu – di questo simbolo universale dello spirito di rivolta contro la cieca stupidità del potere – a Ubu–Bas, il protagonista delle sue recenti e feroci farse politiche. (“La Sicilia” 7/11/2007)

P.S. Ubu re (Ubu roi), la prima opera teatrale di Alfred Jarry, fu pubblicata il 25 aprile del 1896 su "Le livre d'Art" e rappresentata per la prima volta il 10 dicembre 1896 presso il Théâtre de l'Œuvre di Parigi. Narra le sgangherate avventure di Padre Ubu, un capitano dei dragoni che ha la fiducia incondizionata di re Venceslao, e di Madre Ubu. Ubu è un antieroe su tutta la linea: è goloso e grasso, disgustoso e volgare, megalomane e grottesco, stupido e disonesto, codardo e crudele, ma nello stesso tempo molto infantile. Egli uccide il re Venceslao e s'impadronisce del trono facendo fuori tutti coloro che lo avevano beneficiato ma il figlio di Venceslao, il principe Bougrelao, medita la vendetta e la riconquista del trono.

Ubu Roi ha ispirato il film animato di Jan Lenica Ubu et la grande gidouille (1976) e l'adattamento teatrale di Jane Taylor Ubu and the Truth Commission (1998), scritto per la "South African Truth and Reconciliation Commission" per sancire la condanna delle atrocità compiute durante l'Apartheid.

E' stato adattato per il cinema nel film Ubu Król (2003) dal regista polacco Piotr Szulkin (con Katarzyna Figura e Krzysztof Kowalewski) che ne ha fatto una grottesca metafora del mondo politico polacco subito dopo la caduta del partito comunista. Tra parentesi, prima del debutto dell'opera nel 1896, Jarry lesse un discorso introduttivo con voce volutamente fioca e quasi impercettibile, annunciando che l'azione si svolgeva in Polonia, «cioè da nessuna parte».

Tradotto da Sherry C.M. Lindquist, Ubu Roi è stato dato tra il 1996 e il 1997 al Joseph Papp Public Theater di New York e all'International Festival of Puppet Theater di St. Louis (Missouri).

Ubu Roi è apparso anche in televisione su BBC2 television nel 1976 per la regia di Paul Kafno con Gyearbuor Asante, Brenda Bruce e Jacqueline Delhaye.

In Italia è da segnalare Ubu Re d'Italia, testo metaforico e politico tratto liberamente dalla farsa di Alfred Jarry e rappresentato al Teatro Ambra Jovinelli di Roma nel 2008 dal comico Paolo Rossi con la "Compagnia Babygang". Rossi ha reso Padre Ubu un interprete del confuso quadro sociale dei giorni nostri, denunciandone lo stupido conformismo e il vuoto culturale e politico.

Crepuscolo del mondo borghese – Giuseppe Giacosa



Giuseppe Giacosa


Giuseppe Giacosa, nato in provincia di Torino il 21 ottobre del 1847 (e morto nel 1906 nel paese natale, oggi chiamato Colleretto Giacosa), fu spinto dal padre magistrato agli studi di legge che condusse sino alla laurea, per scegliere poi la letteratura e il giornalismo.


Amico di Verga, ne ispirò il teatro e ne fu influenzato: Verga scrisse “Rose caduche” (1869), pub­blicata postuma, che rappresentava un vacuo ambiente mondano ove gli amori passeggeri erano destinati a sfiorire come le rose; questa caducità sarà poi quella di Come le foglie (1900), il capolavoro ricco di crepuscolare sentimentalismo, in cui Giacosa rappresentava lo sfacelo economico e morale di un’oziosa ricca famiglia e la sua faticosa ricostruzione in una seria operosità. Giacosa, al quale Verga dedicò “Cavalleria rusticana”, era convinto che il testo verghiano fosse moderno per la teatralità drammatica, l’assenza di retorica e l’essenzialità. Diceva del­l’amico: «La novità di Verga non consiste nel fare di più, ma forse, nel fare di meno, certo nel fare diversamente».

Il primo successo di Giacosa fu il «bozzetto romantico» medievale in versi Una partita a scacchi (1873); seguirono altri drammi storici ma in seguito egli, pur nel suo naturalismo e patetismo, fu coinvolto alla maniera del contemporaneo Ibsen nei drammi sociali e nelle crisi psicologiche dell’attualità contemporanea. Scrisse, pertanto, Tristi amori (1887) – in cui nobilita il consunto tema dell’amore colpevole – e I diritti dell’anima (1894).

In quel periodo, in Francia e nei paesi scandinavi (sull’onda degli studi di Freud), da parte degli intellettuali si sviluppò un vivo rigurgito antinaturalista, nel recupero di una cruda analisi psicologica: negli stessi anni, Strindberg rappresentava i suoi cupi drammi psicoanalitici, pieni d’umana sofferenza.

Giacosa, molto amato e rappresentato anche dopo la sua morte da grandi artiste, quali la Duse e la Bernhardt (aveva saputo dar voce alla sensibilità femminile), ebbe molti amici i quali frequentarono la sua casa, che il poeta F. Pastonchi definì «grande arca».

I suoi drammi erano solidi nella forma scenica, avevano dialoghi sobri che si nutrivano delle parole della quotidianità e raccontavano spesso grigie e tristi esistenze, esaltando la sana moralità della borghesia piemontese e i valori del dovere, dell’onore e della responsabilità personale.

Ha fornito inoltre, in collaborazione con il lombardo L. Illica (che scriveva la prima stesura mentre Giacosa la traduceva in versi), i libretti delle grandi opere di Puccini La Bohème, Tosca e Madame Butterfly, guardando però più al valore scenico delle parole che all’eleganza dei versi. Il compositore lo soprannominò «Buddha» per la serenità del suo carattere e la maestosa corpulenza. In realtà, Giacosa non amava quest’attività; scrisse a Ricordi: «…è lavoro senza stimoli e senza calore interno… Qui nulla che sollevi lo spirito.».

Con la sua morte prematura, finì per sempre la collaborazione tra Illica e Puccini. (“La Sicilia” 22/10/2007)

P.S. La commedia Come le foglie di Giuseppe Giacosa è stata il cavallo di battaglia di tutti i grandi attori del Novecento. Rappresentata per la prima volta al Teatro Manzoni di Milano nel 1900 (il 31 gennaio) dalla compagnia Tina Di Lorenzo–Flavio Andò, è una commedia drammatica centrata sulla giovane protagonista Nennele, travolta dal tracollo economico del padre Giovanni provocato dalla seconda moglie Giulia, superficiale e spendacciona, e dalle dissolutezze del fratello Tommaso, afflitto dal demone del gioco. L'unico pronto ad aiutare la famiglia è il nipote Massimo, buono e serio, che aiuta Giovanni a vendere la casa e a ripianare i debiti, e lo aiuta a trovare un lavoro onesto e dignitoso. Nennele, da parte sua, lavora dando lezioni d'inglese nel tentativo di aiutare la famiglia in difficoltà ma la situazione sembra precipitare sempre più: Giulia inganna il marito e ha un amante, Tommaso pensa di sposare una ricca donna equivoca con la quale è indebitato e il padre, preso dalla necessità di guadagnare di che vivere, sembra non accorgersi di nulla. Massimo, che ama Nennele, a lei che si lamenta per l'indegno comportamento di Giulia, così dice: «Vuoi ribellarti contro le foglie che il vento disperde? Trattienile se puoi. Hanno tanta grazia, e tanta eleganza, e non sai dove vanno a finire. Quella gente là non finisce. Nessuno farà mai la bricconata concludente: svolazzano di viltà in viltà e dileguano nella viltà universale. Un bel giorno, ti volti, non ci sono più.» (atto terzo). Massimo si offre poi di sposarla. Nennele però è troppo infelice e rifiuta, meditando il suicidio; di notte, entra nella camera del padre che lavora per dargli un ultimo sguardo; il padre la vede e intuisce tutto: riesce a dissuaderla. Insieme si accorgono intanto che in giardino si aggira Massimo, turbato e preoccupato, che cerca di vegliare da lontano sull'amata Nennele.


Ricordo una splendida edizione televisiva di Come le foglie del 1958, diretta da Anton Giulio Majano, con Sarah Ferrati, Alberto Lupo, Virna Lisi, Antonio Battistella e Warner Bentivegna (fu il suo esordio televisivo).

venerdì 26 agosto 2011

Cassola, lo scrittore della provincia e della quotidianità



Carlo Cassola



Cassola nacque nel 1917 (è il 90° anniversario della sua nascita) a Roma ma fece della Toscana e della Maremma la sua patria spirituale, «il luogo dell’anima» come disse il poeta Mario Luzi.

Quella difficile terra di provincia divenne una metafora della fatica del vivere e della condizione umana ma, d’altra parte, fu anche un simbolo di salvezza e d’integrità morale, ambiente di vita e fonte di felicità nell’intrecciarsi di rapporti semplici e genuini. Visse schivo e ritirato tra Grosseto e Cecina, lontano dalla critica e dall’editoria ma sempre molto amato dai suoi lettori.

È ritenuto un rappresentante del neorealismo italiano: il suo stile è infatti semplice ed essenziale, i suoi contenuti sono scarni e senza fronzoli.

Iniziò a scrivere racconti brevi nel 1937 e, pur laureato in Giurisprudenza, divenne insegnante liceale di filosofia, rimanendo però in seguito disgustato dalla scuola e dal suo fallimento (nel 1969 parlò di «scuola di criminalità… grande spacciatrice di droghe… autentico oppio del popolo»).

Antifascista, visse in prima persona la Resistenza, testimoniandola col racconto autobiografico Fausto e Anna, che diede origine a polemiche stilistiche e ideologiche.

La sua attività letteraria è divisibile in periodi: inizialmente fu affascinato dalle tematiche storico–politiche per divenire in seguito un intimista dai toni dimessi, volto a cogliere la realtà nascosta dell’esistenza nelle apparenze della quotidianità e «sotto la soglia della coscienza pratica». Parlò di «realismo subliminare», e in ciò si sentiva vicino al James Joyce di Gente di Dublino: «In Joyce scoprii il primo scrittore che concentrasse la sua attenzione su quegli aspetti della vita… di cui gli altri sembravano non accorgersi nemmeno».

Nel 1949 dopo la morte della moglie, ebbe un momento di crisi umana e letteraria che gli ispirò il racconto Il taglio del bosco.


In diversi romanzi e saggi, come I Minatori della Maremma (1953), descrive con asciutta semplicità la Maremma e i suoi ruvidi abitanti, interpretandoli anche da un punto di vista sociale. Un altro suo racconto, La ragazza di Bube, vero bestseller della narrativa italiana, che racconta di una ragazza che sposa un partigiano colpevole d’omicidio, ha imposto l’autore all’atten­zione di tutti ed è stato premiato con lo Strega nel 1960. Ne è stato tratto anche un dignitoso film di Luigi Comencini con una Claudia Cardinale giovane e bellissima.


Nel 1978 vinse il premio Bagutta con L’uomo e il cane.


Nell’ultimo periodo di vita, dominato dal senso di frustrazione per la caduta di quegli ideali per i quali era vissuto e per l’inevitabilità della storia e degli eventi umani, coltivò interessi di ecologista e antimilitarista. Paralizzato per mesi, si spense infine nel 1987 (questo anno celebriamo anche il ventennale della sua morte).


La sua opera è stata al centro di polemiche feroci. Italo Calvino rispose con parole durissime ad alcuni articoli di Cassola, attaccando la sua tematica astorica, priva d’impegno e proiettata sulla sfera interiore e sul privato (disse tra l’altro: «Romanzi sbiaditi come l’acqua della rigovernatura dei piatti, in cui nuota l’unto dei sentimenti ricucinati»).


Pier Paolo Pasolini denunciò in un epigramma «la morte del Realismo» e la «restaurazione dello stile», che imputava soprattutto a Cassola che, contrario all’uso del dialetto ma pur ritenendosi dalla parte del Realismo, aveva scritto: «Mi ritengo uno scrittore realista nel senso che amo la realtà e non desidero evaderne. Nel senso che amo il mio tempo.».


Fu stroncato in malo modo (e forse ingiustamente) anche dal “Gruppo 63” (del quale facevano parte Eco e Sanguineti), corrente di neoavanguardia, i cui componenti anticonformisti e dissacratori dell’establishment letterario bollarono lui e altri consacrati dalla fama col termine ironico di «Liale». Malgrado tutto ciò, Cassola è stato, e resta, un grande della letteratura. (www.zam.it, Recensioni, 2007)

P.S. Il film La ragazza di Bube, girato nel 1963 per la regia di Luigi Comencini, sceneggiato da Comencini e Marcello Fondato (fotografia di Gianni Di Venanzo in bianco e nero, e musiche di Carlo Rustichelli), aveva tra i suoi attori protagonisti Claudia Cardinale (Mara), George Chakiris (Bube), Marc Michel (Stefano), Emilio Esposito (padre di Mara) e Dany París (Liliana). Il produttore Franco Cristaldi (per Vides Lux Film Lux France) si aggiudicò il David di Donatello (1964) mentre Claudia Cardinale vinse Nastro d'Argento (1965) come migliore attrice protagonista.

Claudia Cardinale, che per la prima volta recitò con la sua voce roca e gutturale ma ricca di fascino, ci ha restituito una protagonista tenera e dolce. Mara, che ha solo sedici anni ed è una ragazza civetta e superficiale, conosce Arturo detto Bube – un partigiano serio e molto impegnato politicamente, amico del fratello Sante anch'egli partigiano e deceduto – e se ne innamora. Una volta diventuta «la ragazza di Bube», si sente così legata a lui (coinvolto nell'uccisione di un carabiniere e di suo figlio) da essere in grado di aspettarlo molti lunghi anni (lei così giovane). Gli resta fedele, prima, durante la sua clandestinità poi, dopo il suo arresto, durante la lunga detenzione in carcere. E nel film il personaggio di Mara sovrasta con la sua calda personalità tutti gli altri personaggi, che rimangono nell'ombra e che sono mal contestualizzati negli importanti eventi storici del dopoguerra, incapaci di esprimere la disincantata delusione di coloro che, impegnati nella Resistenza, ne vedono cadere quasi tutte le proposte rinnovatrici, delusione che appare invece molto forte nel romanzo.

Ha scritto Adelio Ferrero (Cinema nuovo, 1963): «La saldatura tra Cassola e Comencini si verifica nella riscoperta di un piccolo mondo di anime belle, nel vagheggiamento di una angusta zona del sentimento, soli valori certi e permanenti di contro al movimento ingannevole di una Storia deludente e sfuocata.».

Guenter Grass: Anniversario – Il Tamburo di Latta e la solitudine dell’uomo, parte di una massa senza nome e senza eroi


Guenter Grass


Guenter Grass, grande e scomodo scrittore tedesco, è nato a Danzica, all’epoca tedesca e non polacca, il 16 ottobre del 1927 (cade l’ottantesimo anniversario).

Col primo e più significativo capolavoro Il tamburo di latta, divenne il rispettato portavoce letterario, la “coscienza di una generazione” che, cresciuta durante il Nazismo e sopravvissuta alla guerra, aveva preso le dovute distanze da tutti i suoi orrori.

Nella nativa Danzica, aveva fatto parte della gioventù hitleriana – ma giovanissimo e del tutto inconsapevole (credeva di arruolarsi nella marina) – ed era andato in guerra negli ultimi tremendi mesi del disastro finale, venendo subito ferito e fatto prigioniero dagli Americani. Aveva sempre sottaciuto il fatto di essere stato un volontario e non un coscritto – e questo episodio gli ha procurato un senso di vergogna e rimorso perenne – ma nell’agosto del 2006 lo aveva dichiarato apertamente in un’intervista, così giustificandosi: «Il motivo fu comune per quelli della mia generazione, un modo per girare l’angolo e voltare le spalle ai genitori».

La rivelazione scatenò una vera e propria campagna d’odio da parte dei suoi detrattori: avrebbero voluto addirittura togliergli la cittadinanza tedesca e fargli restituire il premio Nobel ricevuto nel 1999.

A Dusseldorf studiò arte, divenendo un ottimo pittore e scultore, e si stabilì prima a Berlino e poi a Lubecca, ove vive tuttora.

Nel 1959, a Parigi, scrisse Il tamburo di latta, una favola cinica e violenta che gli diede un’e­nor­me fama internazionale; ha scritto: «Divenni famoso a 32 anni. E da allora abbiamo la Fama come sottoinquilina. Sta dappertutto, è molto fastidiosa e la si può ignorare solo a fatica. È una monella a volte tronfia, a volte senza vita.».

Il romanzo è grottesco e surreale, picaresco e metafisico, anarchico e fantasioso; in modo caricaturale, Grass rappresenta il mondo piccolo–borghese polacco: c’è la vita degli adulti falsa e crudele; c’è una nonna, Anna, che accoglie sotto le quattro enormi sottane della sua gonna un piccolo e tozzo polacco in fuga dai gendarmi; ne nasce una figlia, Agnes, mamma gioiosamente adultera di Oskar, un bambino malinconico (personaggio letterario leggendario e indimenticabile), che a tre anni decide di fermare il tempo rifiutandosi di crescere. Pur convinto «che l’uomo è solo, e fa parte di una massa solitaria senza nome e senza eroi», egli si sente un eroe con «una volontà che esercita da solo e senza seguito», trovando conforto nel suo inseparabile tamburo di latta, col quale rifiuta gli adulti ed esprime tutto ciò che deve essere espresso. In mezzo alla disperazione dei familiari, lo lascia parlare per ore e, quando tentano di toglierglielo, Oskar lancia urla potenti e vetricide (in grado, cioè, di distruggere tutti i vetri che gli stanno attorno). Divenuto adulto, è rimasto uno «gnomo», un «pollicino» volontario che vive in un’e­ter­na infanzia ma che ha acquisito «una grandezza messianica». A 30 anni, ricoverato in manicomio, appunta su «500 fogli di carta vergine» con cura maniacale, giorno per giorno, la storia dei suoi «anni grigi» e del suo disagio personale. Sul tamburo, batte con foga infernale tutta la sua rabbia, tutto il suo odio allucinato per il mondo (e per «le esistenze caricaturali» degli altri): alla sua deformità fisica fa da contraltare la cieca ferocia e il mostruoso degrado della Germania tra le due guerre. Alla fine, Oskar, superando gli incubi privati e le tragedie collettive, deciderà di ritornare a crescere.

Nel 1979 il libro, con la collaborazione di Grass, divenne lo stupendo film di Volker Schlondorff.

I romanzi di Grass hanno sempre suscitato polemiche a non finire; da H.M. Enzensberger, fu definito: «rompiscatole… pescecane nello stagno delle sardine… solitario selvaggio della nostra letteratura addomesticata».

Uomo di sinistra e attivo pacifista, fu impegnato nel partito socialdemocratico battendosi per il coinvolgimento politico–sociale dell’élite letteraria e analizzando in profondità il rapporto–confronto tra letteratura e politica.

Coi suoi testi, ha combattuto l’olocausto nucleare, la guerra in Vietnam e l’inquinamento ambientale, e ha difeso i movimenti studenteschi, le istanze operaie e i diritti degli stranieri. La sua opera politica e letteraria ha mirato alla crescita culturale ed etica della nazione tedesca, a suo giudizio, stanca e non così brillante come potrebbe apparire. (www.zam.it, Recensioni, 2007)

P.S. Il tamburo di latta (Die Blechtrommel), diretto da Volker Schlöndorff nel 1979, vinse la Palma d'oro come miglior film al 32° Festival di Cannes (ex aequo con "Apocalypse Now") e si aggiudicò l'Oscar per il miglior film straniero. Sceneggiato da Volker Schlöndorff, Jean–Claude Carrière e Franz Seitz, vide tra i suoi interpreti David Bennent (Oskar Matzerath), Mario Adorf (Alfred Matzerath), Angela Winker (Agnes Matzerath), Heinz Bennent (Greff), Andréa Ferréol (Lina Greff) e Charles Aznavour (Sigismund Markus).


Hanno scritto Laura, Luisa e Morando Morandini ne "il Morandini" (Zanichelli editore): «Tratto dal romanzo (1959) di Günter Grass, Nobel 1999 per la letteratura, è una sagra grottesca, visionaria e ribalda di vent'anni di storia tedesca, vissuta e vista "dal basso" all'insegna del rifiuto e del disgusto. È una trasposizione (fatta con Jean-Claude Carrière) grevemente illustrativa che soltanto a tratti restituisce la dimensione onirica, parodistica e barocca di Grass: almeno in 3 o 4 sequenze arriva al bersaglio. Il suo punto di forza è D. Bennent (1966), figlio dell'attore Heinz che compare nel film come ortolano: un piccolo dodicenne che risulta credibile a 3 come a 18 anni, genietto disinibito e asociale. Il suo sguardo mette in evidenza tutto quel che c'è di risibile, futile, atroce e infantile nel mondo degli adulti.».

Il dramma di una brava persona – John Galsworthy autore della Saga dei Forsyte


John Galsworthy


Lo scrittore inglese John Galsworthy nacque il 14 agosto del 1867 nel Surrey da antica famiglia terriera.

Indirizzato agli studi di legge dal padre (ricco avvocato), durante un viaggio conobbe Joseph Conrad che gli divenne amico, convincendolo a dedicarsi alla scrittura.

Per anni scrisse pubblicando a proprie spese sotto pseudonimo e, come disse, non riuscì a guadagnare neanche un penny con la sua professione. Divenuto indipendente con la morte del padre (1904), riprese il suo cognome e diede inizio a La Saga dei Forsyte, un ciclo di cinque romanzi (1906–1921) dedicato alla storia di tre generazioni di una rispettabile famiglia di stampo vittoriano che, raggiunta la ricchezza con gli affari, proteggeva benessere e privilegi con tenace senso di clan e gelosa precauzione.

La serie, alternativa inglese a I Buddenbrooks di Thomas Mann, definita «roman–fleuve – romanzo–fiume» da Romain Rolland, nel solco della tradizione letteraria di Turgenev e Tolstoy si occupa con acume satirico dell’antipatico avvocato Soames Forsyte che – sposata quasi per forza la bella e ribelle Irene – la tratta come mero oggetto di proprietà; la donna, innamoratasi dell’architetto Philippe (fidanzato della nipote: quale scandalo!), lo abbandona per vivere con l’amato che muore prematuramente. Il personaggio di Soames, pur negativo, suscitò l’au­tentica simpatia dei lettori. In seguito Irene sposa un altro Forsyte, l’anticonformista pittore Jolyon; Jon (figlio d’Irene e Jolyon) e Fleur (figlia di Soames e Annette) s’innamorano ma debbono rinunciare al matrimonio per gli inconciliabili rancori familiari.

La storia di Soames e Irene nascondeva la vera storia di John che, innamorato di Ada Pearson (la moglie di un cugino), aveva vissuto di nascosto con lei per dieci anni, sposandola solo dopo la morte del padre ostile alla relazione: un biografo dello scrittore scrisse però che Ada era un’a­troce ipocondriaca che aveva avvelenato la vita di quel che era una «brava persona». Infatti, durante la I guerra mondiale, in Francia John si prodigò con la Croce Rossa per i rifugiati, ospitando poi in patria i soldati feriti e disabili. Scrisse anche articoli sulla guerra e cercò di non incoraggiare l’odio contro il nemico.

Una commedia moderna, che includeva tre romanzi ambientati in periodo post–bellico, continuò la Saga.

Galsworthy fu anche un ottimo drammaturgo che amò trattare temi etici e col suo stile semplice e diretto seppe rappresentare bene lo «sbalorditivo popolo inglese», immutabile nonostante tutti i cambiamenti sociali.

Dopo la sua morte avvenuta nel 1933 per un tumore cerebrale, fu quasi dimenticato nonostante il Nobel ricevuto nel 1932 (Virginia Woolf e la sua cerchia lo attaccarono, considerandolo la piena incarnazione di ciò che aveva creduto di combattere).

Dopo la serie televisiva inglese della BBC sulla Saga (1967), l’interesse per lui ha ripreso nuovo vigore; ma resta da non dimenticare il bel film di C. Bennet (1949) con Errol Flynn e Greer Garson, che ha affascinato mamme e nonne della mia generazione! (“La Sicilia” 9/8/2007)

P.S. La saga dei Forsyte – che presenta un quadro rappresentativo della società vittoriana nel suo declino sino all'inevitabile ultimo epilogo sotto la pressione del nuovo emergente – era adatto a divenire un film. Nel 1949 Compton Bennet ne diresse una ottima versione cinematografica con due miti del tempo, Errol Flynn e Greer Garson. Errol Flinn fu un indimenticabile Soames Forsyte; con la sua innata eleganza, seppe dare rango e spessore a questo influente membro di una ricca e antica famiglia inglese – che conta quasi cinquanta personaggi, le cui storie s'intrecciano nella trama del romanzo, –  riuscendo a incarnare con dignità tutti i valori di quella classe dominante di cui Soames era uno dei più degni rappresentanti. Individualista, intraprendente, orgoglioso, dotato di forte senso di proprietà, si sente così consapevole del potere del denaro da essere convinto di poter comprare la moglie Irene, una belle e povera pianista. Greer Garson fu una Irene sensibile e anticonvenzionale: ben presto si accorgerà delle catene che la tengono stretta e tenterà di fuggire da un mondo che le ostile e dall'arido marito cercando l'amore nel moderno architetto Bosinney al quale Soames ha commissionato la costruzione della sua sontuosa villa. L'abbandono della moglie farà quasi impazzire Soames, che nei suoi goffi tentativi di riconquistare la moglie si abbandonerà alla crudeltà e anche alla violenza.

Hanno scritto Laura, Luisa e Morando Morandini ne "il Morandini" (Zanichelli editore): «Tratto dalla prima parte del famoso romanzo (1906-21) di John Galsworthy, è corretto, elegante, impettito ma noioso come una domenica piovosa inglese. La marca del leone della MGM assicura una squadra di attori di tutto rispetto.». Nel film recitavano, infatti, anche Walter Pidgeon (Jolyon Forsyte, il cugino di Soames, pittore anticonformista di cui Irene s'innamora sposandolo), Robert Young (Philip Bosinney) e Janet Leigh (la nipote June Forsyte, innamorata di Philip).