domenica 28 ottobre 2012

Don Siegel: il regista dell'anti–eroe “duro e puro” in lotta contro la società


Don Siegel


Il 26 Ottobre avrebbe compiuto cento anni Don Siegel (nato nel 1912 a Chicago, Illinois, USA, col nome di Donald), regista e attore ma non solo fu anche un ottimo montatore: aveva montato mirabilmente il mitico “Casablanca”. Indiscusso grande maestro seppe fornire al poliziesco d'azione e al cinema di fantascienza un'appassionante suspense, un ritmo frenetico e la giusta sintesi. Dal carattere schietto e al limite dell'anticonformismo, Siegel amò cantare l'antieroe e il protagonista antisociale, rappresentandolo nei suoi 35 film girati con forza e vigore, tensione e dinamismo.

Di origini ebraiche, si diplomò presso il Jesus College a Cambridge in Inghilterra (ove frequentò anche la Royal Academy of Dramatic Art) e per un breve periodo studiò Beaux Arts a Parigi. Questi prestigiosi studi europei gli meritarono la definizione d'“intellettuale d'azione” da parte di Peter Bogdanovich. Più tardi, intorno ai venti anni, si recò a Los Angeles e come attore calcò il palcoscenico con il Contemporary Theatre Group of Hollywood.

Siegel forgiò il suo talento in una lunga gavetta e in un continuo apprendistato: dal 1934 al 1942 lavorò in un centinaio di film per la Warner Brothers come direttore del montaggio; dal 1939 al 1943, sempre per la Warner Brothers, fu assistente alla regia e regista di seconda unità, facendosi le ossa (e che ossa!) in almeno una quarantina di film. Esplose, quindi, con due cortometraggi girati nel 1945: Star in the night (moderna e metaforica parabola sulla nascita di Cristo) e Hitler lives?, che vinsero l'Oscar per il miglior corto e il miglior documentario.

Era pronto, anzi prontissimo, per girare con piena maturità il suo primo film: La morte viene da Scotland Yard (The Verdict) (1946), tratto da un romanzo dello scrittore inglese Israel Zangwill (1864-1926) –  distintosi non soltanto per l'attività letteraria ma anche per l'impegno sionista –, basato sul meccanismo narrativo del “giallo in una camera chiusa” (un delitto viene compiuto in una stanza chiusa e inaccessibile), in epoca vittoriana e in una Londra rievocata in un modo evocativo mirabile. Iniziò così una carriera che per grande parte svolse “maltratto” dai produttori che lo costrinsero a budget modestissimi, ad attori di serie B e a tempi di riprese brevissimi e logoranti. Siegel era, tra l'altro, deciso a difendere con le mani e con i denti la propria indipendenza di regista.

La critica ha diviso i film di Siegel in due periodi: «il primo si situa tra il 1954 e il 1958, quando impresse al film d'azione a basso costo un vigore e un'intelligenza inconfondibile; il secondo tra il 1967 e il 1973, quando le maggiori risorse offertegli dai produttori gli consentirono un più ampio respiro» (“Don Siegel”, ne Il Cinema – Grande storia illustrata, Ist. Geografico De Agostini, Novara, 1981, vol. 7, pag. 190-192). La critica ha fatto osservare come nei suoi film manchino spesso gli intrecci complicati e le psicologie complesse mentre il suo mondo narrativo appare talora povero ma rappresentato con un realismo crudo e serrato.

Al primo film seguì tutta una serie di film dignitosi e interessanti, tra i quali Il tesoro di Vera Cruz (The Big Seal) (1949), Fuga dall'Ovest (No time for flowers) (1952), Duello al Rio d'argento (Duel at silver creek) (1952), Le ore sono contate (Count the hours) (1953), Avventura in Cina (China venture) (1953), e Rivolta al blocco 11 (Riot in cell block 11) (1954), il suo primo film carcerario, un cinema verità nel quale usò come comparse detenuti veri, che «ruota esclusivamente attorno allo scontro tra detenuti e autorità, quasi mai uscendo dai limiti della prigione né cercando di approfondire il retroterra umano dei protagonisti» (“Don Siegel”, ne Il Cinema – Grande storia illustrata, Ist. Geografico De Agostini, Novara, 1981, vol. 7, pag. 190-192); il film racconta la rivolta dei detenuti che desiderano soltanto un trattamento più umano (il direttore sembrerebbe dalla loro parte ma un politicante provoca un duro scontro), e fu visto come un sentito e vigoroso atto d'accusa contro il sistema carcerario (nel 1979 culminò in Fuga da Alcatraz, classico dei classici del cinema carcerario).

Il 1956 fu l'anno della sua grande svolta con L'invasione degli Ultracorpi (The invasion of the body snatchers) (1956), un classico di fantascienza–horror, si è parlato di «film-incubo leggibile in chiave politica… che soprattutto scandisce la disgregazione di una comunità di provincia ritratta attraverso il punto di vista soggettivo di un suo membro» – 
http://www.treccani.it/enciclopedia/don-siegel_(Enciclopedia-del-Cinema)/.
Scarno e “cattivo”, maturo e simbolico, fu interpretato anche come una metafora della Guerra Fredda e del Maccartismo, una parabola della paranoia anticomunista, un'allegoria del trionfo dell'individualismo e della paura del diverso e dello straniero ma anche come l'esemplificazione dell'incapacità di distinguere tra Bene e Male, tra essere umano e alieno. Tratto dall'omonimo romanzo di fantascienza di Jack Finney del 1955 e sceneggiato tra gli altri da S. Peckinpah (il quale comparve anche in un piccolo cameo d'attore), racconta che, nella piccola e perbenista cittadina di provincia californiana Santa Mira, alcune persone si accorgono che i loro parenti non sono più quelli che conoscono, e un medico, il dottor Miles J. Bennell (il bravissimo Kevin McCarthy) scopre prima un essere senza vita che sta per assumere le sembianze di un amico, poi un grosso baccello che sta germogliando dei duplicati e infine un camion che ha avuto un incidente e che porta degli enormi baccelli. Il terrore diviene palpabile perché molti uomini e donne durante il sonno potrebbero essere diventati dei duplicati a opera degli alieni, ma finalmente l'inascoltato e angosciato medico riuscirà a provocare, nella cittadina diabolicamente posseduta da alieni privi di sentimenti, in un crescendo ansiogeno, la messa in allarme generale. Don avrebbe voluto un finale più disperato ma il produttore Walter Wanger, che aveva partecipato in qualche modo alla sceneggiatura, lo convinse a una fine più consolatoria che lasciava un margine di speranza. Girato in un bianco e nero cupo e tagliente, a costi ridottissimi, con effetti speciali minimi (i misteriosi baccelli oggi appaiono abbastanza puerili), ebbe incassi non rilevanti ma col tempo è divenuto un leggendario film di culto. Più tardi disse del film lo stesso Siegel: «Né lo sceneggiatore, né io pensavamo a un qualunque simbolismo politico. Nostra intenzione era attaccare un'abulica concezione della vita.» (citato da Andrea Bosco in Ciak, anno VI, n° 5, maggio 1990). Nel 1978 il regista Philip Kaufman ne ha realizzato un remake a colori con notevoli effetti speciali, dal titolo Terrore dallo spazio profondo (Invasion of the Body Snatchers), con Donald Sutherland e Don Siegel in un cameo. Nel 1993 Abel Ferrara ha realizzato un secondo remake dal titolo Ultracorpi - L'invasione continua (Body Snatchers).

Beniamino Biondi ha scritto: «L'invasione degli ultracorpi fu un fiasco. Stati Uniti, 1956. Sono gli anni della Guerra Fredda […]. La verosimile fantascienza del film di Don Siegel, con la sua morale squisitamente ambigua tra perversione anticomunista e disubbidienza anticapitalista, era inevitabile si traducesse in un fallimento; gli americani non poterono comprendere, e laddove poterono non vollero farlo, la complessa ragnatela dei sottotesti simbolici del film e il sostanziale principio di ipostatizzazione compiuto attraverso la figura anfibia dell'alieno come (non) Totalmente Altro. […] Sono gli anni del realismo sociale; un realismo che non aggredisce e sfuma talvolta nell'oleografia, ma ad ogni modo un tentativo sincero di comprensione delle dinamiche sociali e della relazione tra miseria e delinquenza. Sono gli anni del cinema dell’inquietudine giovanile: Nicholas Ray con Gioventù bruciata, Laszlo Benedek con Il selvaggio. […] In fondo è lo scontro fra una visione umanistica e classica della cultura contro una visione antropologica e moderna, quasi che sia una lotta fra destino e storia. […] L’uomo di Siegel, nel corpus della sua restante opera, possiede un'umanità tale per cui egli stesso è il punto di fuga e di contestazione dalle sue proprie necessità e dalle sue conseguenze logiche d'azione, l'uomo fallibile nel suo stesso destino.»
(http://www.taxidrivers.it/28376/rubriche/delitto-nella-strada-di-don-siegel.html)

Nello stesso 1971 seguì Delitto nella strada (Crime in the streets) (1956), parabola del disagio giovanile di una classe sociale senza mezzi e senza valori, in una periferia urbana degradata, che fu un grande successo di pubblico e di critica sia negli Stati Uniti sia in Europa. Tratto dal teledramma del drammaturgo Reginald Rose (1920-2002), scritto nel 1955 per la trasmissione dell'ABC The Elgin Hour (12° episodio) diretto da Sidney Lumet, fu nel 1957 rielaborato da entrambi nel claustrofobico La parola ai giurati (Twelve Angry Men) (portato in scena recentemente in Italia da Alessandro Gasmann). Siegel ebbe il merito di chiamare alcuni bravi attori del teledramma di Lumet: John Cassavetes nel ruolo duro ed esaltato di Frankie (privato degli affetti e nichilista), e Sal Mineo nella parte di Angelo, che si meritò un Oscar per la sua interpretazione nervosa e di grande spessore psicologico. Questo film dipinge vita, imprese e amori di alcuni ragazzi ribelli nel quartiere italiano, che non hanno conosciuto altro che miseria e abbandono. Di notte le strade del quartiere newyorchese divengono terra di nessuno, alla mercé dei teppisti e della loro violenza. Il più duro di questi ragazzi disadattati, Frankie Dane, un ragazzo violento ma tormentato, è stato denunciato per una rissa e condannato a un anno di riformatorio; scontata la pena, Frankie medita la vendetta, seguito nel suo proposito omicida da due ragazzi della sua banda. Nella sua escalation di violenza arriva a picchiare la madre (che si sacrifica duramente per strappare i figli dalla miseria) e viene trattato da vigliacco dall'assistente sociale che lo segue senza successo ma che lui stima e nel quale vede forse l'assente figura paterna. Soltanto l'amore e la forza di un fratellino più piccolo, buono e affezionato, che lo ama e lo teme (del quale Frankie è geloso e che ha sempre umiliato), lo trattiene sull'orlo del delitto abbracciandolo e guardandolo con il suo sguardo innocente e puro. Frankie si costituirà insieme all'assistente sociale. «Ogni giorno si replica lo stesso disperato rituale: esasperato. L'odio feroce che il “duro” nutre per il mondo, chiuso nella solitudine più rocciosa, nel pessimismo più nero, nell'insensibilità più tenace. Infrante le speranze che i genitori avevano riposto in loro, per le quali si sono sacrificati tutta la vita e ora non possono far altro che piangere. Acuta la solitudine del ragazzo che ha coltivato soltanto rancore e soltanto rancore raccoglie.»
(http://www.scaruffi.com/director/siegel.html).

Con Michey Rooney, Siegel girò il film gangsteristico Faccia d'angelo (Baby Face Nebon) (1957) dedicato a un gangster psicopatico rivisitando temi e ritmi delle pellicole di gangster degli anni Trenta, filmato in 19 giorni e costato pochissimo; con Audie Murphy, Agguato nei Caraibi (The gun runners) (1958), tratto dal romanzo di Ernest Hemingway Avere o non avere (To Have and Have Not); con Elvis Presley e Dolores del Río, Stella di fuoco (Flaming Star) (1960); con Steve McQueen, L'inferno è per gli eroi (Hell is for heroes) (1962), film di guerra scarno e rigoroso, protagonista un suo primo antieroe – si è parlato di «ulteriore riflessione sull'asocialità e la solitudine dell'eroe, provocatoriamente disincantato, ma estraneo alla retorica patriottica come a quella antimilitarista», http://www.treccani.it/enciclopedia/don-siegel_(Enciclopedia-del-Cinema) – ; con Lee Marvin e James Coburn, Contratto per uccidere (The Killers) (1964) – remake del film di Siodmak I gangsters del 1964, tratto da un testo di Hemingway, del quale Siegel fu anche produttore – avrebbe dovuto essere un film Tv ma la NBC non lo mise in onda, giudicandolo troppo violento, e fu distribuito nel circuito cinematografico dalla Universal (si racconta che Ronald Reagan, che era tra i protagonisti, era il boss, lo odiasse perché temeva che potesse nuocere alla sua carriera politica per la sua spregiudicatezza e crudeltà); con Richard Widmark (nel ruolo del detective Daniel Madigan che ha soltanto tre giorni di tempo per acciuffare un bandito), Squadra omicidi, sparate a vista! (Madigan) (1968) sceneggiato da R. Polanski (nel 1972 dal film fu tratta una serie televisiva di successo in sei episodi della NBC, dal titolo Madigan, interpretata dallo stesso Richard Widmark); e con Walter Matthau, Chi ucciderà Charley Varrick? (Charley Varrick) (1973) (il regista si ritagliò un cameo come giocatore di ping–pong e fu anche il produttore del film), film pieno di azione e suspense, non privo di un certo umorismo che narra una rapina in banca, ove la mafia ricicla il suo denaro sporco, da parte di un vero acrobata che riesce a fregare tutti (vedere anche “10 capolavori di Don Siegel”, http://www.ifellini.com/10-capolavori-di-don-siegel/). è stato commentato: «Se Callaghan sembra incarnare uno smarrimento reazionario, Varrick impersona un moto libertario, ma entrambi i film raccontano la lotta di un personaggio solitario, in conflitto con quanti lo circondano, proteso alla ricerca di una soluzione personale che esclude quelle offerte dalla società.» –
http://www.treccani.it/enciclopedia/don-siegel_(Enciclopedia-del-Cinema)/. Si è scritto anche: «Dopo un giallo, Hanged Man (1964), iniziò infatti la serie dei grandi polizieschi, in cui l'eroe è un comune agente impegnato nella quotidiana lotta contro la malavita. Lo stile è quasi documentario: concisi, tesi, polemici. Sono anche squarci realisti della vita nelle metropoli americane. E sono impeccabili film d'azione. La metropoli è un labirinto popolato da criminali e il poliziotto è l'eroe che rischia la vita per mantenere l'ordine. […] è l'apologia di tutti i metodi duri e sbrigativi, non lascia nessuno spiraglio per discorsi sociologici o umanitari. […] è un altro trascinante film d'azione, ma sul versante più ironico della commedia degli equivoci. Al tempo stesso è venato di nostalgia per un'era d'individualismo che non potrà mai più tornare. […] I personaggi di Siegel tendono ad essere automi in un mondo in cui amore, pietà, amicizia, non esistono più. Ogni personaggio appartiene a una organizzazione (polizia, gang, etc.) non si riconosce più in essa ma ne accetta meccanicamente le regole. Non agiscono per difendere i loro valori morali o se stessi, come in Hawks, né per rapacità, come in Huston. Agiscono perché sono programmati per distruggere il loro nemico.»
(http://www.scaruffi.com/director/siegel.html).

Negli anni Settanta il destino di Don Siegel s'incrociò con quello di Clint Eastwood ed entrambi videro un rilancio della loro carriera. Eastwood era allora noto soltanto come il “cowboy di ghiaccio” della trilogia dei film di Sergio Leone ed era alla ricerca di nuove esperienze d'attore. D'altra parte, collaborando con una delle star maschili più popolari del periodo, Siegel ebbe maggiore libertà di scelta, budget discreti e tempi di lavorazione meno ansiogeni, ed ebbe la possibilità di divenire un “vero autore” distruggendo la nomea di “regista commerciale” che lo aveva sin lì sminuito. Con Clint Eastwood, Siegel girò cinque film, facendo di Clint il grande attore e l'indimenticabile maschera che è, e il grandissimo regista che è diventato (vincitore di quattro premi Oscar); si può dire senz'altro, infatti, che Eastwood ha raccolto il testimone da Siegel nel cinema di questi ultimi decenni. Clint gli ha in parte dedicato l'Oscar vinto nel 1992 per Gli Spietati di Sergio Leone. Nel 1969 Eastwood interpretò L'uomo dalla cravatta di cuoio (Coogan's bluff) (1969) – del film Siegel fu anche il produttore – che racconta di un ambiguo poliziotto anticonformista che dà la caccia a un ricercato a New York (a quell' uomo di legge, senza legge, Clint prestò la sua bella faccia maschia deformata da “un ghigno brutale” e la sua capacità di tenerezza ma anche d'inaudita violenza) ; disse Clint che Siegel aveva detto: «Se l'idea funziona me ne prenderò il merito. Se non funziona, sarà colpa tua» (citazione riportata in Richard Schickel, Clint Eastwood - L'uomo dalla cravatta di cuoio, prefazione a cura di Gianni Canova, Sperling & Kupfer Editori, 1999). Dello stesso anno è Gli avvoltoi hanno fame (Two mules for Sister Sara), una sorta di western–commedia con il solito antilirismo combinato a violenza esplicita e a humour graffiante tipici del regista: Clint è un mercenario che salva una falsa suora (Shirley McLaine) e infine fugge con i soldi rubati al governo e con la ragazza che lo ama. Iniziò così un modo di filmare più violento e rapido, e nacque un rapporto di amicizia così solido che – proprio grazie a Siegel – Eastwood poté iscriversi al sindacato americano dei registi ed esordire con il suo primo lungometraggio Brivido nella notte (Play Misty for Me), film sullo stalking, nel quale Don Siegel gli fece il dono di una sua piccola interpretazione come attore.

Nel 1971, sempre con Don, Eastwood fu il protagonista del film gotico e claustrofobico, quasi un'“agrodolce ghost-story”, La notte brava del soldato Jonathan (The Beguiled), che fu prodotto dallo stesso Siegel (melodramma cinico sulla guerra civile americana ma anche impietoso e acuto documento d'introspezione psicologica: un soldato nordista ferito giunge in un convento e «Pensa di essere arrivato in Paradiso ma è l'anticamere dell'Inferno»). «Film minore, ma vero capolavoro di Siegel. Un soldato ferito giunge, durante la guerra di secessione, in un collegio abitato esclusivamente da donne. In breve tempo diventa l'oggetto sessuale di tutte e, per questo motivo, andrà incontro a una sorte terribile. La macchina da presa ci conduce nel sottile gioco psicologico che s'instaura tra i protagonisti, disvelando angosce, tabù e perversioni nascoste nelle pieghe della società borghese» (da “10 capolavori di Don Siegel”, http://www.ifellini.com/10-capolavori-di-don-siegel/).

Seguì nello stesso 1971 il primo film della serie dell'ispettore Callaghan (Dirty Harry Callahan nella versione originale), Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo (Dirty Harry) (Siegel ne fu anche il produttore). In quel ruolo di poliziotto che diviene un “puro e duro giustiziere” travestito da carogna, con poca fiducia nella legge e con poca volontà di farla rispettare, Clint inizia una sua guerra privata contro un odioso assassino (da lui catturato ma rimesso in libertà per cavilli legali); lo ucciderà per poi buttare nel fiume il suo distintivo di poliziotto. L'attore provocò l'entusiasmo del pubblico e divenne una star indiscussa di Hollywood ma ebbe alcune puntualizzazioni della critica che non amò quel poliziotto “reazionario e fascistoide”, dai metodi troppo spicci e brutali, e dalla pistola troppo facile, sempre in lotta contro il sistema. Il film sorprese tutti perché Siegel aveva fama di progressista e fu visto come un attacco alle procedure garantiste e come «un'apologia di quel movimento conservatore “per la legge e l'ordine” sorto agli inizi degli anni Settanta»: «Ad alcuni parve che il film incoraggiasse atteggiamenti fascisti e liberticidi e che caldeggiasse una gestione meno garantista dei problemi della legge e dell'ordine» anche se in effetti si trattava dell'«estrinsecarsi di una moralità individualistica e romantica» (“Clin Eastwood”, ne Il Cinema – Grande storia illustrata, Ist. Geografico De Agostini, Novara, 1981, vol. 7, pag. 196). Ritenuto una pietra miliare del poliziesco metropolitano (che da allora dilagò), la pellicola era ispirata a un fatto vero di cronaca che aveva terrorizzato San Francisco negli anni Sessanta e Settanta. «Eastwood, che viene dal western, è un glaciale esecutore della giustizia primitiva, brutale e sbrigativa. Il criminale è una sua ossessione, e in ciò il poliziotto non è meno psicopatico del delinquente. Il quale è a sua volta un fenomeno di degenerazione, viltà, spregevolezza, cinismo etc., un concentrato di mostruosità, di una malvagità senza limiti. Il film rimane comunque un capolavoro di thriller d'azione.»
(http://www.scaruffi.com/director/siegel.html). Da lì è nato quel genere di film d'azione divenuto un classico e ancora tanto imitato. Gli altri film della saga dell'ispettore Callaghan, diretti da altri, furono Una 44 Magnum per l'ispettore Callaghan (Magnum Force) del 1973 di Ted Post, Cielo di piombo ispettore Callaghan (The Enforcer) del 1976 di James Fargo, Coraggio... fatti ammazzare (Sudden Impact) del 1983 diretto dallo stesso Eastwood, e Scommessa con la morte (The Dead Pool) del 1988 di Buddy Van Horn.

Siegel è stato anche molto importante per la carriera di regista del grande Sam Peckinpah (1925-1984), convinto della «natura animale dell'uomo», schiavo di alcol e droga, soprannominato per la violenza dei suoi film “Bloody Sam”, spesso perseguitato ed emarginato dai produttori; lo coinvolse come “dialog coach” in diversi suoi film.

Nel 1976 Don girò un western non privo d'interesse, Il pistolero (The shootits), ultima dolente apparizione cinematografica di John Wayne, «un western crepuscolare, il cui eroe uccide più dei suoi nemici: uccide sé stesso e la sua epoca intera. Marcia funebre straziante del western»
(http://www.scaruffi.com/director/siegel.html). Racconta di un celebre pistolero, anziano e deluso, ma con la mira e la velocità di un tempo, con soltanto poche settimane di vita per un cancro, del quale tutti hanno paura, tranne un ragazzo che lo ritiene un eroe. Prima di morire il pistolero morente vuol saldare il conto con un vecchio nemico in un ultimo duello: riesce a ucciderlo ma il barista gli spara alle spalle proditoriamente ma arriva il ragazzo che lo vendica, uccidendo il barista. Rappresentò un vero e proprio “testamento spirituale” di John Wayne, malato anche nella realtà, e una “revisione” del mito dell'invincibile pistolero immortalato da un “eroe” del western americano. All'inizio scorrono scene tratte dai film del Duca in uno straordinario montaggio; si sovrappongono in modo magico l'attore John Wayne e il suo mitico personaggio: «Il film diventa così un'elegia verso lo stesso Wayne, che riveste la sua parte con grandissima dignità.» (“Il western degli Anni Settanta”, ne Il Cinema – Grande storia illustrata, Ist. Geografico De Agostini, Novara, 1981, vol. 7, pag. 210).

Nel 1979 si ricostituì la mirabile coppia Siegel–Eastwood per Fuga da Alcatraz (Escape from Alcatraz), il capolavoro della maturità del regista – Siegel ne fu anche il produttore, selezionato alla Mostra internazionale del cinema di Venezia, tratto da una storia vera (un'evasione avvenuta nel giugno del 1962) e dal libro di Campbell Bruce, girato nella vera prigione sull'isola di Alcatraz di fronte a San Francisco. Film teso e realistico sin quasi a sembrare un documentario, Clint Eastwood v'interpretava in modo sobrio il galeotto laconico ma ansioso di libertà Frank Morris, l'unico detenuto che sia mai riuscito a evadere insieme con altri due uomini – i fratelli John (Fred Ward) e Clarence (Jack Thibeau) Anglin – da quel carcere di massima sicurezza ove i detenuti erano sottoposti a un regime durissimo. Clint consacrò finalmente il suo immenso talento con i suoi lunghi silenzi e i suoi sguardi memorabili, senza più discussioni di tipo ideologico. «Drammaturgicamente più vario del solito (i diversi personaggi hanno una psicologia umana che genera drammi teatrali), il film fa blocco attorno a Eastwood, che invece non ha personalità al di là di quella dell'evaso, un nobile e intelligente agente della sovversione contro la tirannide cieca e bieca.»
(http://www.scaruffi.com/director/siegel.html). Clint primeggiava finalmente da grande attore, confermando l'armonico feeling con Siegel che era riuscito a guidarlo in un ruolo veramente diverso e psicologicamente sfaccettato.

Seguirono gli ultimi due film di Don Siegel. La commedia giallo-rosa Taglio di diamanti (Rough cut) (1980): «Un film d'azione con lo spirito della “sophisticated comedy”, un “caper movie” con accenti alla Hitchcock. Reynolds è un ladro gentiluomo, ladro per vocazione, perché è già ricco; sulle sue tracce c'è Niven, ispettore flemmatico che adopera una bella cleptomane come esca. Il montaggio complesso e millimetrico trascina il film lungo le tappe di questa caccia al ladro; tutto alla fine si rivela falso.»
(http://www.scaruffi.com/director/siegel.html). E l'ironico film Un giocatore troppo fortunato (Jindex!) (1982), che racconta la vendetta di un croupier che seduce l'amante di un giocatore troppo fortunato, nel quale Siegel coinvolse come regista della seconda unità Sam Peckinpah, rilanciandone la carriera, e si ritagliò un cameo da attore per sé.

Don Siegel curò sempre molto le musiche dei suoi film: ebbe una lunga collaborazione con il compositore argentino Lalo Schifrin (plurinominato agli Oscar), capace di mixare elementi di jazz con risonanze rock ma usando anche elementi classici come i violini.

Negli anni Cinquanta Don Siegel lavorò anche in TV come regista e sceneggiatore, intensificando quest'attività televisiva negli anni Sessanta, in coincidenza del declino di Hollywood. Da ricordare: tre episodi di The Doctor (1952-1953); un episodio di Frontier (1955) dal titolo Paper Gunman; un episodio di Adventure Showcase (1959) dal titolo Brock Callahan; un episodio di Alcoa Theatre (1960) dal titolo The Silent Kill; un episodio di Bus Stop (1961) dal titolo Cherie; un episodio di Breaking Point (1963) dal titolo There Are the Hip, and There Are the Square; due episodi di Ai confini della realtà (The Twilight Zone) (1963-1964) dal titolo Uncle Simon e The Self-Improvement of Salvadore Ross; un episodio di Convoy (1965) dal titolo Passage to Liverpool; e un episodio de La leggenda di Jesse James (The Legend of Jesse James) (1965) dal titolo Manhunt.

Siegel fu sposato con l'attrice Viveca Lindfors (1948-1953) dalla quale ebbe il figlio Kristoffer; sposò in seguito, nel 1957, Doe Avedon (ex attrice e moglie del noto fotografo Richard Avedon) adottandone i quattro figli. Dopo un nuovo divorzio, si unì a Carol Rydall (ex assistente di Clint Eastwood) che gli rimase accanto sino alla morte. Morì di cancro a Nipomo (San Diego, California) il 20 aprile del 1991: aveva 78 anni.

Il regista ebbe modo di dire: «Di solito giro i miei film non tanto per trasmettere un messaggio quanto per divertire, ma non per questo mi sento un superficiale, poiché cerco di far sì che ogni mio film sia il più interessante e realistico possibile» (“Don Siegel”, ne Il Cinema – Grande storia illustrata, Ist. Geografico De Agostini, Novara, 1981, vol. 7, pag. 190-192).

Nel 1993 è stata pubblicato postumo A Siegel film: an autobiography (Faber & Faber, October 1996). Roberto Vaccino ha dedicato a Siegel una monografia (Donald Siegel, Il Castoro Cinema, Milano 1984).

Su “L'Osservatore Romano” del 25-10-2012 Emilio Ranzato ha ricordato il regista nell'articolo «Don Siegel, impressionista e metafisico come un gangster movie».

Si è scritto che Siegel ha mostrato «soprattutto nel genere poliziesco, grande capacità di rileggere schemi, intrecci e figure codificate per rappresentare la società americana senza pregiudizi e conformismi»
(http://www.treccani.it/enciclopedia/don-siegel/).

Nella sua presentazione del volume Il cinema di Don Siegel (a cura di Fabio Zanello, Associazione Culturale Il Foglio, Piombino 2011), Viviana Tarantino, parla di «personalità eclettica e stravagante, regista dalle mille sfaccettature, abile direttore di attori affermati e scopritore di talenti» e di «impiego della macchina da presa come endoscopio introdotto nelle pieghe del magma sociale, la sua capacità di modificare il corpo testuale dei polizieschi, della fantascienza e del western giustificano l'elevato interesse attorno alla sua produzione»; scrive ancora la Tarantino che il curatore del volume parla di un regista che «ha cambiato le regole del gioco, ha stravolto l'eloquenza del prodotto filmico, azionando la cinepresa come strumento di indagine e di anamnesi collettiva», osservando il tessuto sociale contemporaneo e comprendendone «le inquietudini e i fermenti, le tendenze, le agitazioni e le dinamiche tra le classi», per dar luogo a «un linguaggio polifonico» attraverso «un approccio cronachistico». Scrive la Tarantino: «Questa mirabile interpretazione del reale ancor oggi ha il pregio di risultare del tutto innovativa nel suo genere. […] Pur trattando materie scottanti, quali ad esempio la corruzione della polizia, le incongruenze giudiziarie, le rifrazioni e i tanti riverberi della vita nelle carceri, Siegel decide di non etichettare i suoi film come lavori di impegno politico, come al contrario fanno registi appartenenti alla stessa generazione (basti pensare a Elia Kazan e Sidney Lumet). Eppure la sua presa di posizione sulle tante questioni elaborate sono cogenti, rigorose, spietate. È anche per questo che Friedkin e Mann gli sono debitori.» 
(http://www.uzak.it/component/content/article/26/207-il-cinema-di-don-siegel.html).

Ha osservato Fabio Zanello nel capitolo introduttivo del volume da lui curato (che raccoglie numerosi contributi su Don Siegel): «L'identità dei film di Siegel è quella di aver dato vita a un'infinità di paratesti nel cinema americano del dopoguerra, capace di contestualizzare al meglio la realtà americana del tempo con tutti i suoi splendori e le sue contraddizioni, come avviene spesso nei film realizzati in periodi difficili centrati su anti–eroi come i detenuti Dunn e Morris, il mezzosangue Pacer, il medico Miles Bennel, il poliziotto Madigan, lo sceriffo metropolitano Coogan, il soldato nordista Jonathan, l'ispettore Harry Callagan e il rapinatore crepuscolare Charley Varrick» (Il cinema di Don Siegel, a cura di Fabio Zanello, Associazione Culturale Il Foglio, Piombino 2011).

Massimo Zanichelli ne “Il cinema poliedrico di Don Siegel”, parla di «cineasta poliedrico e tagliente che non si finisce mai di riscoprire e che si è cimentato con tutti i principali generi del cinema americano, diventandone uno dei narratori più vigorosi e disincantati»
(http://www.cinemarondinella.it/siegel.html).

Il Cinema – Grande storia illustrata (Ist. Geografico De Agostini, Novara 1981) ha dedicato un capitolo a Don Siegel (vol. 7, 190-192) in cui si scrive: «Pur essendo considerato da molti alla stregua di un esperto mestierante, Siegel ha trasceso il puro e semplice professionalismo, dirigendo asciutti thriller di forte tensione e film d'azione di grande spettacolarità»; si è osservato, inoltre, che Siegel fece parte di un gruppo di registi che negli anni Quaranta ebbero il «il gusto per l'aggressività e la violenza maschili, gli intrecci nervosi, il ritmo sostenuto e un certo pessimismo solo a tratti attenuato da un ottimismo progressista», suggestionati anche dalla “scuola dei duri” creata, per esempio, da Ernest Hemingway

A proposito di Siegel, Gianni Canova ha parlato di «precisione senza sbavature, quasi meccanica del suo stile» e di «vasta produzione caratterizzata nel complesso da uno splendido mestiere e da una saltuaria ispirazione»; ha scritto anche: «Dopo il 1950 la sua produzione sorretta da sceneggiature più valide, lo impone come uno dei narratori più vigorosi del cinema americano. […] A lungo sottovalutato dalla critica e dal pubblico perbenista, è stato rivalutato negli ultimi decenni come autore caratterizzato da crudezza stilistica e scetticismo morale, ma anche da un humour raffinato e sarcasticamente anticonformista» (Cinema, le garzantine, Garzanti, 2009).

Mauro Gervasini – nel suo recente Losthighway 3 (piccole storie di cinema) dal titolo Il caso Siegel è tuo” – scrive: «Ognuno ha i suoi modelli. Il nostro è Don Siegel.[…] Siegel incarna al 100% il nostro ideale di cinema. Pensiero e azione. Clint, diretto dall'amico e socio in cinque film, lo definisce un raro intellettuale hollywoodiano capace come nessun altro di “sentire” l'action. […] Le scene d'azione di Siegel, la costruzione della suspense, sono sempre esemplari e cristalline. […] Siegel è però eccelso soprattutto nel poliziesco. Come se tra guardie e ladri, macchine in corsa e asfalto che scotta trovasse una sua ideale dimensione»; Gervasini parla anche di «un proverbiale sguardo pronto a cogliere l'essenziale» (TV Film 2012, 20 - n. 43, pag. 13-15). 

Ha scritto Renato Venturelli: «In un periodo in cui il cinema americano stava attraversando una fase di forte trasformazione, spesso sulla base di superficiali rovesciamenti ideologici o stilistici, Siegel reinventò dall'interno la tradizione del cinema di genere, ignorando le tentazioni citazioniste e sviluppando uno stile personale, visivamente elaborato, dove i personaggi, i paesaggi e anche gli elementi apertamente simbolici si definiscono innervandosi in una logica serrata dell'azione. […] In tutti questi film, Siegel evita sia il giudizio morale sia l'esplicita polemica sociale: racconta i conflitti in modo asciutto e funzionale, trasmettendo la sua visione del mondo attraverso l'azione anziché il commento.» – http://www.treccani.it/enciclopedia/don-siegel_(Enciclopedia-del-Cinema)/.

domenica 21 ottobre 2012

Irma ed Emma Gramatica: due monumenti del teatro a cavallo tra 800 e 900


Irma Gramatica                                Emma Gramatica


Il 14 di questo mese sono passati cinquant'anni dalla morte di Irma Gramatica, grande attrice italiana di notevole temperamento, d'irresistibile naturalezza e di carattere difficile e intransigente. Nata Maria Francesca, vide la luce a Fiume – allora austroungarica – il 25 novembre del 1867 e morì a Firenze il 14 ottobre del 1962. Ebbe due sorelle, anch'esse attrici, Emma (altrettanto grande e famosa) e Anna (nota col nome del marito Ruggero Capodaglio, fratello della grande Wanda). Fu considerata la più grande attrice drammatica del periodo dopo Eleonora Duse, della quale fu prima discepola e poi rivale.

Respirò sin da bambina la polvere del palcoscenico: infatti, il padre Domenico era un suggeritore e la madre Cristina Gandil (di origine ungherese), una sarta di scena, entrambi nella compagnia di Giacinta Pezzana (1841-1919) grande attrice della compagnia Sadovski con Luigi Monti (1836-1904). Esordì a sette anni nella commedia Cause ed effetti del commediografo modenese Paolo Ferrari (1822-1889).

Vissuta a Stigliano nel Senese, studiò nel Collegio delle Dorotee di Firenze. Divenuta la madre nel 1883 sarta di scena di Eleonora Duse (1858-1924) nella “Compagnia Città di Torino”, nel 1884, alla prima della compagnia presso il teatro Valle di Roma, Irma debuttò fortunosamente (sostituiva un generico) nella Fedora di Victorien Sardou, cavandosela così bene da essere chiamata nel 1885 per il ruolo di amorosa nel dramma In portineria di Giovanni Verga, tratto dalla novella Il canarino del n. 15, frutto di un autore desideroso di “fondare in Italia un teatro che avesse la semplicità della vita” (la Duse aveva interpretato nel 1884 Santuzza nella Cavalleria rusticana di Verga).

Nella primavera del 1885 la famiglia Gramatica seguì la “Compagnia Città di Torino” in Sudamerica in una lunga tournée, durante la quale ebbe fine definitivamente il primo infelice matrimonio della Duse (con il coinvolgimento della stessa Irma): nel 1881 Eleonora aveva sposato Tebaldo Checchi, attore nella sua compagnia e aveva avuto una bambina, Enrichetta). Durante quella stessa tournée, la Gramatica conobbe l'attore Armando Cottin, che sposò nel 1887.  

Rientrata in Italia, fu insieme con la Duse-Andò nella “Compagnia drammatica della Città di Roma” e, dopo il matrimonio, con il marito entrò a far parte della compagnia Aleotti-Lotti-Cerruti, molto meno importante, ma ove finalmente Irma poté maturare la sua grandezza d'interprete in ruoli da protagonista nel repertorio francese di Sardou e Dumas figlio. Questa compagnia intraprese una tournée in Argentina, e i due sposi partirono (lasciarono il loro bimbo due anni alle cure di una zia paterna), affrontando un destino di miseria: quella «morte di fame» (come ebbe a scrivere Irma) decretò la fine del matrimonio, fallimento che fece soffrire molto l'attrice.

Nel 1892 entrò nella compagnia di Italia Vitaliani (un'importante attrice del tempo, cugina di Eleonora Duse e sua rivale “silenziosa”) e nel 1893 nella Emanuel-Reiter; fu in quest'ultima compagnia che Irma iniziò a curare lo studio psicologico del personaggio e la naturalezza della recitazione. Fra le interpretazioni di quel periodo (che suscitarono grandi consensi della critica e trionfi insperati per l'attrice), sono da ricordare: Hedda Gabler del grande drammaturgo norvegese Henrik Ibsen (1828-1906), Il padrone delle ferriere tratto dal romanzo dello scrittore francese Georges Ohnet (1848-1918), e Morte civile, capolavoro del drammaturgo ligure Paolo Giacometti (1816-1882), testo in polemica con l'indissolubilità del matrimonio, ammirato da Émil Zola e divenuto cavallo di battaglia di tutti gli attori più celebri della fine dell'Ottocento.

Nel 1894 l'attrice passò alla compagnia Maggi-Marchi, mettendosi in luce con il repertorio francese; sono rimaste memorabili le interpretazioni di Nanà di Zola, Odette di Sardou, Romanzo di un giovane povero di O. Feuillet e Re Lear di W. Shakespeare. Superba la sua interpretazione di Teresa Raquin di Zola al teatro Alfieri di Torino nel 1895 con la compagnia Mozzidolfi-Marchetti (Giacinta Pezzana v'interpretava la suocera paralitica). Con la sorella Emma entrò poi nella compagnia Aliprandi-Biagi-Orlandini. Nel marzo del 1896 passò nella compagnia del grandissimo Ermete Zacconi (1857-1948), appartenente alla scuola verista: di questo periodo sono Casa di bambola di Ibsen, Luisa Miller di F. Schiller, La bisbetica domata di Shakespeare, La moglie ideale di Marco Praga, La potenza delle tenebre di L. Tolstoj, Tristi amori di Giacosa, e l'ultimo spettacolo con il quale Zacconi sciolse la compagnia, il dramma Spettri di Ibsen.

Nel 1897 Irma Gramatica creò una propria compagnia con la quale raggiunse un grande successo, grazie alla sua maturità interpretativa e al «suo modo di non recitare»; da ricordare soprattutto: Trilby (adattato da P. Potter dal romanzo di G. Du Maurier), Denise di Dumas figlio, Spiritismo di Sardou, una nuova e più moderna rappresentazione di Casa di bambola, un'audace e inquietante La rosa azzurra di A. Vivanti (fischiata dal pubblico ma apprezzata da G. Carducci), e una scabrosa La scuola del marito di Giannino Antona Traversi.

Nel 1900, con Virgilio Talli e Oreste Calabresi, formò quella che è stata definita dalla critica “la maggiore compagnia del secolo nuovo”, rappresentando in modo esemplare le migliori produzioni drammaturgiche del tempo. Da ricordare: Come le foglie di Giacosa, Sperduti nel buio di R. Bracco, Dal tuo al mio di G. Verga, Demi-monde di Dumas figlio e La signora delle camelie sempre di Dumas figlio (la critica parlò di «una bella e pura derivazione di Eleonora Duse»). E la sua sensibilità di grande attrice era divenuta tale che nel 1904 le fu offerto il ruolo di Mila di Codro ne La figlia di Jorio con Ruggero Ruggeri (1871-1953) –  con il quale aveva una relazione d'amore –, pensato in origine per la Duse dallo stesso Gabriele D'Annunzio. Lo spettacolo era stato in realtà finanziato in parte dalla stessa Duse e si arrivò alla definitiva rottura con D'Annunzio. Ne derivò che, dopo soltanto tre repliche, nonostante il successo e la considerazione della critica, a disagio per la situazione con Eleonora Duse, Irma Gramatica preferì lasciare il posto a Teresa Franchini. La compagnia si sciolse nel 1906 ma non cessò però la partecipazione dell'attrice a molti altri spettacoli di successo, tra i quali La locandiera di Carlo Goldoni e L'albergo dei poveri di M. Gor'kij.

Nel 1906 con Teresa Mariani, sotto la direzione di F. Andò, Irma diede corpo a una diversa compagnia che mise in scena nuovi spettacoli e che riprese alcuni successi precedenti. Ammalatasi di artrite vertebrale e di esaurimento nervoso, rimase lontana dalle scene per un lungo periodo, riprendendo a lavorare in modo più saltuario e con stagioni ridotte. Nel 1912, insieme alla sorella Emma, interpretò il ruolo della madre ne La professione della signora Warren di G.B. Shaw.

Nel 1915 entrò a far parte della “Compagnia stabile del teatro Manzoni di Milano”, organizzata da Praga e dal conte G. Visconti di Modrone, che debuttò con il dramma di Dario Niccodemi, Ombra, voluto dall'attrice e divenuto poi un suo testo privilegiato. Fu un successo enorme mentre un fiasco clamoroso fu Se non così, scritto nel 1899 da L. Pirandello, che ne imputò tutta la responsabilità all'attrice (per lo scrittore “la sua recitazione aveva addirittura capovolto il significato del lavoro”). La compagnia fu sciolta a causa della Prima Guerra mondiale. Seguirono recite non sempre all'altezza, da parte di un'attrice delusa e desiderosa di lasciare il teatro (in quel periodo non felice, la Gramatica ebbe modo di manifestare «il desiderio di non tornare mai più a respirare in quella cloaca massima che si chiama palcoscenico»). Nel 1923 riprese a recitare con un repertorio rinnovato e più adatto alla sua non più giovane età e ai suoi capelli bianchi (anche se ebbe difficoltà a calarsi nello spirito e nella parte della donna anziana); da ricordare Israël di Bernstein e Leonarda di B. Bjørnson.

Seguì il ritiro della Gramatica alla “Quarnarina”, una sontuosa villa a Signa nei pressi di Firenze, e quindi in un'altra residenza fiorentina, costretta a qualche ritorno saltuario sulle scene per bisogno di denaro; sono da ricordare di quel periodo: Gian Gabriele Borkmann di Ibsen, La città morta di D'Annunzio, Tra vestiti che ballano di P.M. Rosso di San Secondo, Elettra di Sofocle (accanto alla sorella Emma) e Le coefore di Eschilo. Nel 1930 recitò Stefano di J. Deval  con Luigi Carini e Renzo Ricci (interpretando un ruolo di madre con una sensibilità enorme).

Nel 1937 fece compagnia con la sorella Emma, recitando in due commedie i cui ruoli erano perfetti e costruiti su misura per le due attrici già piuttosto anziane: All'insegna delle sorelle Kadar di R. Lelli e Passeggiata col diavolo di G. Cantini. Nel 1938, Irma entrò nella “Compagnia del Teatro Nuovo di Milano” con Ruggero Ruggeri ma il feeling del passato era ormai morto e sepolto e la stagione non fu per nulla felice: il Macbeth di Shakespeare vide il congedo definitivo dell'attrice dal mondo del teatro.

Irma Gramatica fu anche un'attrice di cinema sin dai suoi albori. Ricordiamo: Il suicidio sublime (1914) da un soggetto di V.E. Bravetta per la regia R. Tolentino con U. Mozzato, e – dopo cinque anni di assenza dalle scene – Porto (1935) di Amleto Palermi con Elsa De Giorgi e Camillo Pilotto (in un altro indimenticabile ruolo di madre rassegnata e dolente). Ne Il fu Mattia Pascal (1936) di P. Chenal con Isa Miranda e Pierre Blanchard interpretò il ruolo della sgradevole vedova Pescatore, suocera di Mattia. Nel 1941 ritornò al cinema con Sissignora di Ferdinando Maria Poggioli insieme a Emma e con Maria Denis, Roldano Lupi, Leonardo Cortese, Evi Maltagliati e Rina Morelli (Irma era un'acida zitella); Orizzonte dipinto di Salvini con Memo Benassi, Ermete Zacconi e un'esordiente Valentina Cortese (Irma interpretava una vecchia attrice); I mariti – Tempesta d'amore di Camillo Mastrocinque, presentato al festival di Venezia, con Mariella Lotti e Amedeo Nazzari (Irma era la duchessa Matilde di Herrera). Ma è rimasto nella memoria di molti il film Sorelle Materassi (1943) di F.M. Poggioli insieme a Emma e con Massimo Serato e Clara Calamai (Irma era Teresa Materassi). Dopo qualche altra partecipazione, nel 1951 l'attrice si congedò in modo definitivo dal cinema (aveva 84 anni) con il film di Mario Sequi Incantesimo tragico con Massimo Serato, Rossano Brazzi e Maria Felix, (interpretava il ruolo di una nonna centenaria).

Nel 1935 fu chiamata come insegnante per un biennio presso la neo–nata “Accademia Nazionale d'Arte Drammatica”, frequentata allora da Ave Ninchi, Aroldo Tieri e Orazio Costa.

Dagli anni Cinquanta, iniziò per Irma Gramatica un triste periodo di declino: costretta a vendere la residenza fiorentina, viveva ospite delle sorelle o di qualche amica; visse poi in una pensione veneziana con la sorella Anna (Messina, 19 settembre 1879 – Bologna, 29 giugno 1961) rimasta vedova dell'attore Ruggero Capodaglio, che dal 1946 si ritirò presso la Casa di riposo per artisti Lyda Borelli di Bologna. Nel 1952 Irma si trasferì a Tavarnuzze di Impruneta, vicino Firenze, ove morì il 14 ottobre del 1962, alla veneranda età di 95 anni. Nel 1956 era stata nominata Commendatore della Repubblica.

Si è detto di Irma Gramatica: «Personalità artistica di schietta originalità, fu nei momenti più felici interprete di grande efficacia e talora di inconsueta potenza…»
(http://www.treccani.it/enciclopedia/irma-gramatica/). Si è parlato di «un'attrice tormentata ed inquieta, con una dizione tagliente ed un'economia gestuale, che può essere scambiata per superficialità e scarso coinvolgimento nell'interpretazione, mentre è invece lavoro di perenne ricerca di profondità», aggiungendo o che «la nota saliente della sua recitazione consiste proprio in una grandissima semplicità d'espressione» (http://www.mymovies.it/biografia/?a=19177). è stato commentato in un articolo dal titolo Irma Gramatica, la grande attrice di Fiume«Inizia giovanissima a recitare, dimostrando subito la sua enorme bravura e il suo innato talento. […] L’anno 1896 la vede già prim'attrice interpretare parti alquanto difficili per la non ancora trentenne Irma.Grazie al precedente rapporto con eccezionali attori e attrici, perfeziona giorno dopo giorno la sua personale esegesi melodrammatica, variando da repertorio a repertorio. I registi ormai possono affidarle qualsiasi ruolo interpretativo, ella si dimostra perfetta e sensibile sia col nuovo teatro che con agli autori romantici del 19° secolo.»(http://www.totalita.it/articolo.asp?articolo=271&categoria=4&sezione= 31&rubrica=32).

Desidero dare qualche informazione su Emma Gramatica, che fu spesso accanto a Irma nelle esperienze sia teatrali che cinematografiche. Emma era molto più giovane di Irma: era nata a Borgo San Donnino (Fidenza, Parma) il 25 ottobre 1874 (morì a Ostia l'8 novembre del 1965 alla veneranda età di 91 anni) ma non ebbe né le opportunità di educazione né il fascino femminile della sorella più grande. Piccolina e poco appariscente, senza la musicalità della voce di Irma, seppe costruirsi una notevole cultura e sviluppare una forza interpretativa e un'incisività impareggiabili, mitigate da toni di intenso patetismo. Giovanissima, anche Emma incrociò il suo destino con quello della grande Eleonora Duse, debuttando nella Gioconda di Gabriele D'Annunzio nel ruolo della sirenetta (con la Duse fu anche all'estero). Divenne ben presto prima attrice nelle compagnie di alcuni grandi attori di fine Ottocento e primi del Novecento (Ermete Zacconi, Flavio Andò, Enrico Reinach ed Ermete Novelli), ed entrò a far parte della famosa compagnia Gramatica-Carini-Piperno, che lanciò e formò il grandissimo attore Renzo Ricci (1899-1978). Notevoli furono le interpretazioni in La Samaritana di Rostand; Ma non è una cosa seria e Così è se vi pare di Pirandello; e Candida, La professione della signora Warren, Pigmalione e Santa Giovanna di G.B. Shaw.

Emma frequentò la prosa radiofonica dell'EIAR (e successivamente della RAI) e il cinema con una maggiore continuità rispetto alla sorella Irma. Fu nel lacrimevole dramma popolare La damigella di Bard (1936) di Mario Mattoli con Luigi Cimara, Carlo Tamberlani e Romolo Costa; nelle Sorelle Materassi (1944) di Ferdinando Maria Poggioli, accanto alla sorella Irma (Emma era Carolina Materassi); nel grottesco e neorealista Miracolo a Milano (1951) di Vittorio De Sica con Paolo Stoppa, Alba Arnova, Guglielmo Barnabò e Brunella Bovo (era la nonna dell'ingenuo Totò); nel brillante Peppino e la vecchia signora (1954) per la sua stessa regia (direzione tecnica di Piero Ballerini) con Peppino De Filippo; e nel satirico Don Camillo monsignore... ma non troppo (1961) di Carmine Gallone con Fernandel, Gino Cervi, Gina Rovere e Valeria Ciangottini.

Emma ebbe modo di partecipare nel 1956 ad alcuni spettacoli di prosa televisiva: La damigella di Bard di Salvator Gotta, regia di Claudio Fino, con Paolo Carlini, Nino Pavese e Mercedes Brignone; I dialoghi delle Carmelitane di Georges Bernanos, regia di Tatiana Pavlova, con Adriana Innocenti, Annabella Cerliani, Camillo Milli, Evi Maltagliati, Lea Padovani, Luigi Pistilli, Paolo Carlini e Tino Carraro; e Ventiquattr'ore felici di Cesare Meano, regia di Claudio Fino, con Luigi Vannucchi, Pina Cei, Ivo Garran e Sandro Tuminelli. Nel 1958 partecipò a Primo amore di Orio Vergani, regia di Guglielmo Morandi, con Tatiana Farnese, Mario Feliciani e Aldo Silvani. Infine, nel 1964, novant'enne, fu nella commedia Ritorno a Bountiful di Marcello Sartarelli, regia di Pino Cuomo, con Vittorio Mezzogiorno, Didi Perego e Andrea Checchi. Io sono tra quei pochi fortunati che hanno potuto vederla recitare in TV (ero appena una ragazzina ma la ricordo perfettamente, non l'ho mai dimenticata, e da lì è nata la mia devozione per il teatro!).

Si è scritto: «Ha la voce chioccia ed è tutt'altro che avvenente, tanto che in molti – Duse compresa – le consigliano di lasciar perdere. Lei invece persevera, oltre ai già citati “limiti”, possiede infatti decisione e volontà di ferro, associata ad un'incredibile versatilità – e naturalezza – che le consente di affrontare un repertorio estremamente vario. Distintasi, all'inizio, in ruoli di carattere romantico, si dedica poi al teatro naturalistico, interpretando anche numerose opere di Ibsen e di Bataille; grazie ai suoi successi, il pubblico italiano può apprezzare i lavori di George Bernard Shaw. Dal 1916 a capo di proprie compagnie, è applaudita anche all'estero (Francia, Germania, Ungheria, Spagna). Attrice eclettica si adatta ai più disparati personaggi […]» (http://www.mymovies.it/biografia/?a=4172). Si è anche commentato: «fu soprattutto ammirata per la perfetta misura di toni e di passaggi con la quale seppe rendere la bontà nascosta di donne miti e sofferenti»
(http://www.treccani.it/enciclopedia/emma-gramatica/).

Le carte veneziane di Emma Grammatica, rinvenute fortunosamente, sono state messe in salvo e hanno fornito preziose informazioni sulla sua attività negli anni Dieci e Venti: «Autodidatta per formazione, di raffinata sensibilità e volontà tenace e ferma, poche attrici come Emma Gramatica hanno sentito l'arte con tanto disperato amore, coraggio indomito, determinazione, lavorando per favorire sui palcoscenici italiani l'avvento di un teatro idealistico. Donna versatile, attrice notevole, si affiancò ad altri grandi nomi del teatro del '900 rivelando – così come emerge dallo studio dei documenti disponibili – la capacità di gestire una compagnia, di discutere d'affari, di proporre al pubblico (e ai direttori di teatro) il meglio della drammaturgia europea, i testi più innovativi o sperimentali.» (a cura di Luisa Pagnacco,
http://www.istitutointernazionaleperlaricercateatrale.it/venezia/archivio-memoria-teatrale/copione-e-carte-di-emma-gramatica/).

Antonio Gramsci, in “Emma Gramatica”, 1° luglio 1919 (Cronache teatrali dall’«Avanti!», 1916-1920), osservava che a quel tempo la tecnica teatrale era stata scombussolata da alcuni deteriori aspetti commerciali come il «mutarsi dei rapporti economici tra l’impresario del teatro, divenuto industriale associato in un trust, il capocomico, divenuto mediatore, e i comici soggiogati alla schiavitù del salario», e così scriveva: «Poche resistenze si verificarono a questo imperversare della concorrenza e della speculazione. Resistere d'altronde è difficile. Qualcuno cercò di salvare almeno una parte della libertà d'espressione artistica di fra le urla e gli stridi avidi del mercato capitalistico. Emma Gramatica è certamente di questi pochi: segno della sua personalità e della sua volontà artistica. Ribellarsi sarebbe stato pazzo e puerile […]. Ribellarsi avrebbe solo significato essere immediatamente privati delle possibilità maggiori di espressione. Ma c'è adattamento e adattamento. La Gramatica ha conservato una sua libertà di movimento e di scelta: c'è una ricerca continua, una lotta continua nella sua attività: c'è vita. […] A Torino, almeno, dove l’industrialismo teatrale opera implacabile come un flagello, la Gramatica è la sola che in questi ultimi anni ha “prodotto” novità, ha suscitato dall'interiore sua vita creature nuove, che vibrano d'amore e di odio o svolgono la quotidiana fatica del vivere in forme non logorate e rese opache dall'abitudine e dallo schema del mestiere, che è regolato dalla legge del minimo sforzo. Ha tentato, ha osato, dicono che abbia anche arrischiato dei capitali senza certezza di rivalsa, per imporre fantasmi artistici che altrimenti non avrebbero mai passeggiato sulle scene italiane. Vive dunque in lei e opera incessantemente, condizionando anche l'attività pratica, il principio della creazione irresistibile e prepotente che foggia una personalità e plasma un carattere secondo le leggi sue proprie: le leggi della bellezza.»
(http://www.quartaparetepress.it/index.php/2012/07/05/gramsci-cronache-teatrali-emma-gramatica/)

Nel 1951 raccontava Indro Montanelli che, quando aveva venti anni, Emma Gramatica si era venuta a trovare a Palermo in macchina con il grande scrittore francese Anatole France (1844-1924) e aveva paura di essere troppo ingombrante sul sedile ma France le aveva detto: «Vous êtes comme les anges, qui n'ont pas de derrière!»; scriveva Montanelli: «Qualcosa come mezzo secolo dev'esser trascorso da allora, ed Emma somiglia un po' meno a un angelo, ma grassa non la si può dire nemmeno adesso. La vita che mena, d'altronde, non le consentirebbe di diventarlo. Alla sua età, ha girato per tre anni consecutivi, tutti i teatri dell'America del Sud, volando da Buenos Aires a Santiago, da Santiago a Lima, da Lima a Caracas, e recitando una sera in italiano e la sera dopo in spagnolo, lingua che, sino al momento di partire, ignorava totalmente. Ora è tornata per girare un film con De Sica, e sono fatiche a cui molti giovani non resistono.».

Guido Gozzano (1883-1916), in una sua poesia cita Emma Gramatica in modo nascosto. Il poeta torinese, morto giovane stroncato dalla tisi, considerato dalla critica l'ultimo dei classici (Eugenio Montale lo definì «classico antico»), è stato il più importante rappresentante del Crepuscolarismo (che in poesia fu un movimento di rottura e d'avanguardia) e cantò in modo distaccato e con voce modesta le piccole cose e i piccoli sentimenti della vita, ponendosi contro la classicità imperante rappresentata da Carducci, e contro la retorica declamatoria e decadente incarnata da D'annunzio. In Un rimorso poesia dedicata a una donna che somiglia alla «piccola attrice famosa», che in modo teneramente insultante chiama ora «la povera cosa che m’ama», ora «bionda povera cosa», e che nel leitmotiv della poesia (che si ripete come un tormentone) affranta gli chiede: «Ma, Guido, che cosa t’ho fatto / di male per farmi così?» Gozzano così scriveva:

«i. O il tetro Palazzo Madama… / la sera… la folla che imbruna… / Rivedo la povera cosa, // la povera cosa che m'ama: / la tanto simile ad / una piccola attrice famosa. // Ricordo. Sul labbro contratto / la voce a pena s'udì: / “O Guido! Che cosa t'ho fatto / di male per farmi così?”// ii. […] / O noto profumo disfatto / di mammole e di petit–gris… / “Ma Guido, che cosa t'ho fatto / di male per farmi così?” // iii. Il tempo che vince non vinca / la voce con che mi rimordi / o bionda povera cosa! // Nell'occhio azzurro pervinca / nel piccolo corpo ricordi / la piccola attrice famosa… // Alzò la veletta. S'udì / (o misera tanto nell'atto!) / ancora “Che male t'ho fatto, / o Guido, per farmi così?” // iv. […] / Passavano giovani gaie… / Avevo un cattivo sorriso: / eppure non sono cattivo, / non sono cattivo, se qui / mi piange nel cuore disfatto / la voce: “Che male t'ho fatto, / o Guido, per farmi così?”». (da Gozzano – Tutte le poesie, Grandi Tascabili Economici Newton, Newton Compton Editori, Roma 1993).

La «piccola attrice famosa» era appunto Emma Gramatica. è stata identificata perché, in una lettera di Gozzano a G. De Renzi spedita da Ceresole Reale del 3 agosto 1907, parlando di Emma Gramatica, Guido scriveva: «Avete parlato di me con la piccola attrice famosa?».

Molte informazioni sulle due sorelle attrici, le dobbiamo alle sue biografie di Luigi Maria Personè, Irma ed Emma. Due grandi del teatro italiano (Prato, Società pratese di storia patria, 1987): abbiamo saputo per esempio da Personé il vero anno di nascita di Irma Gramatica, su cui esisteva qualche incertezza.

domenica 14 ottobre 2012

Amore tra professore e alunna


Charlotte Brontë                                      Emily Dickinson


Di recente, abbiamo letto di un professore di matematica inglese (trentenne e sposato), Jeremy, fuggito con la sua alunna adolescente di 15 anni, Megan, fuga che aveva i giorni contati perché era stato spiccato un mandato d'arresto europeo contro di lui con l'accusa di rapimento di minore (l'incauto professore era destinato a finire in manette). Diverse polizie, quella francese e spagnola, erano sulle tracce della coppia ed esistevano fondati timori sulla sanità mentale di Jeremy, avanzati dallo stesso padre del professore. I due innamorati sono stati poi ritrovati a Bordeaux e il professore è stato preso in custodia dalla polizia

Questa particolare storia d'amore mi ha fatto pensare a quante passioni (più sognate, per fortuna, che realizzate) sono nate – e nascono – sui banchi di scuola o di università, da parte di fanciulle sentimentali, per i loro professori, spesso uomini stagionati e non particolarmente attraenti, mariti fedeli nonché padri responsabili. Credo che si tratti di un amore femminile nutrito di grande romanticismo, perché raramente passioni simili nascono da parte di giovani uomini per le loro attempate insegnanti.

Ricordo due esempi in letteratura di questa forma particolare d'amore. Il primo è costituito dall'infelice passione non corrisposta della grande scrittrice inglese Charlotte Brontë (1816-1855), scoppiata per il professor Héger nel 1842 a Bruxelles, ove la scrittrice si era recata insieme alla sorella Emily per studiare lingue presso la sua scuola. I suoi sentimenti furono espressi con tale veemenza da suscitare la gelosia e l'avversione della moglie e l'imbarazzo del professore (uomo serio e anziano), così da costringerla ad abbandonare la scuola nel 1844. Al professor Héger Charlotte dedicò il suo primo romanzo Il professore (The Professor), che non riuscì a trovare un editore, e Jane Eyre (1847), nel quale esaltava il tema della seduzione e del tormento creato da un amore impossibile e inaccettabile da un punto di vista etico e sociale, che doveva essere necessariamente represso, ma al quale non si poteva che rimanere fedeli.

Il secondo esempio ci viene fornito dalla poetessa americana Emily Dickinson (1830-1886), vera e propria icona dell'amore infelice e disatteso, la quale nel 1846 – aveva appena 16 anni – s'innamorò di Leonard Humphrey, il giovane e colto preside dell'“Amherst Academy” (frequentata per ben sei anni dall'adolescente Emily), morto prematuramente nel 1850. Emily ha sempre citato il grande talento di lui e l'impronta che la sua cultura e il suo spirito avevano lasciato nel suo animo, chiamandolo con l'appellativo di «Maestro». In una sua lettera scriveva: «Sono sempre innamorata dei miei insegnanti».

In effetti, è molto difficile non cedere all'irresistibile seduzione esercitata da quegli insegnanti carismatici, veri maestri di vita, che oltre al sapere riescono a comunicare una diversa e ben più grande o magica conoscenza (al fascino dell'uomo di cultura si unisce l'appeal della trasmissione del sapere). Confesso che anch'io fatalmente nella vita ho dovuto soggiacere a questo incanto, avendo sposato quello che ho sempre considerato il mio Maestro di scienza e il caro Compagno di vita (un docente nella facoltà di Medicina e Chirurgia da me frequentata, cui dedico questo articolo nel giorno del suo compleanno).

Diceva Blaise Pascal (Pascal, Pensieri, a cura di Diego Fusaro) che il cuore ha delle sue motivazioni che la ragione non conosce: «Il cuore ha il suo ordine, la ragione il suo, che consiste nei principi e nelle dimostrazioni. Quello del cuore è diverso. Non c'è prova del fatto che dobbiamo essere amati mediante un elenco delle cause dell'amore. Sarebbe ridicolo.». Questo è soprattutto vero per il cuore femminile.

Ciò che più appassiona la donna è proprio il tema dell'“amore impossibile” che domina in molti autori della letteratura. Giovanni Verga ha spesso rappresentato questo connubio. Nella novella dal titolo X, scriveva mirabilmente: «[…] quella fatale tendenza verso l'ignoto che c'è nel cuore umano […] è uno dei principali caratteri dell'amore, direi la principale attrattiva […] Cotesto amore dunque che ha ispirato tanti capolavori, e che riempie per metà gli ergastoli e gli ospedali». Nel suo Invito alla lettura di Verga (Mursia, Milano 1990), a proposito di Verga e dell'amore impossibile e tragico (quello de La Lupa, per intenderci), Sarah Zappulla Muscarà scrive: «Ancora l'amore è al centro di molte di queste novelle, ma esso non è più una passione languidamente sentimentale e romantica ma una passione divoratrice, irresistibile che fatalmente precipita nella tragedia, e della tragedia greca molte di esse hanno la classica misura.». Oscar Wilde osservava: «Ognuno di noi ha in sé il cielo e l'inferno… in taluni momenti l'uomo e la donna perdono la libertà del volere, muovono come automi verso la loro conclusione fatale».

Il sociologo e scrittore Francesco Alberoni (1929-) nel suo bestseller Innamoramento e amore (Garzanti, Milano 1979) – frutto di un'approfondita ricerca durata 15 anni passa in rassegna quella che chiama «Nascita e sviluppo di una dirompente, lacerante, creativa forza rivoluzionaria» e porta avanti una «teoria completa» sull'innamoramento come «figura riconosciuta di movimento», come qualcosa che ha la natura profonda dei movimenti: l'innamoramento è per Alberoni «un grande processo con cui nella storia emergono nuove entità, nuove identità sociali». In base a questa ardita teoria, l'innamoramento è un movimento profondo, «uno stato nascente» che fa incontrare gli individui realizzando una nuova nascita, che fa separare quel che era unito e che fa unire quel che era separato («Cambia di posto, trascina altrove, fa morire e rinascere»), che rivoluziona l'assetto strutturale quotidiano e «come ogni trasformazione radicale, può comparire solo qualche volta o addirittura mai». Alberoni così scrive: «Le nostre due prospettive guardano la stessa realtà, la stessa verità che ci è in gran parte sconosciuta, ma che però sta davanti a noi, inafferrabile, conoscibile. (...) L'innamoramento è un cercare il senso del proprio destino... combattere fianco fianco per un progetto comune»; e la forza della coppia sorge dal loro amore, dal loro stare insieme contro tutto e tutti, dal fare nuove esperienze insieme, dal realizzare autenticamente nuove alternative di esistenza, dal ricostruire un nuovo assetto quotidiano, dalla continua ricostruzione del mondo e del passato. Ed è anche possibile che si resti innamorati per anni o anche per tutta la vita, che l'amore conservi «la freschezza dell'innamoramento», purché l'amore sia uno struggimento persistente e continui a vivere sul piano dello straordinario o a costruire sulla dimensione dell'immaginario: « è un continuo rivedere, riscoprire, rinnovare, rinnovarsi cercando le sfide e le occasioni. Allora si ha un reinnamorarsi della stessa persona.». A differenza di quel che dice Eric Fromm che tenta di offrire una ricetta per essere felici e per sviluppare l'«arte di amare», Alberoni non crede che dall'analisi dell'innamoramento sia possibile derivare il suggerimento per qualche «regola pratica... un'arte del restare innamorati»; è anzi convinto che le regole possano diventare strumenti di autoinganno e di falsificazione.

Con rustica semplicità, un bel proverbio siciliano ammonisce sulle inevitabili delusioni insite nell'amore romantico: «L'amuri è come u citrolu, comincia duci e finisci amaru (l'amore è come il cetriolo, comincia dolce e finisce amaro)». Questo è stato ciò che avvenuto per l'innamoramento di Jeremy e Megan in fuga.

Vorrei ricordare un bel film del 2008, Lezioni d'amore (Elegy), della regista catalana Isabel Coixet trapiantata a Hollywood – in concorso al 58° Festival di Berlino – con Penelope Cruz, Ben Kingsley, Dennis Hopper, Patricia Clarkson e Peter Sarsgaard (dal racconto breve di Philip Roth L'animale morente, sceneggiato da Nicholas Meyer), storia dell'amore di un anziano e cinico professore universitario, David  Kepesh, più interessato al sesso che all'amore – arriva a dire: «Chi è che trova incantevole una persona al di là del sesso? Nessuno.» – (interpretato da un Ben Kingsley ricco di fascino maturo), per la sua giovane allieva Consuela Castillo (una Penelope Cruz affascinante e convincente). David oltre che insegnante universitario, è anche critico teatrale e conduttore di un programma radiofonico dedicato alla letteratura, già sposato e con un figlio che non gli perdona di aver lasciato lui e la madre. Ha spesso relazioni con le sue studentesse ma riesce sempre a mantenersi lucido e indipendente. Quando conosce Consuela, tutto cambia e David è così coinvolto da diventare geloso ma il rapporto s'interrompe improvvisamente. Soltanto più tardi i due scopriranno di esser fatti l'una per l'altro: la vigilia di Capodanno di due anni dopo, infatti, Consuela telefona a David per incontrarlo: presto deve operarsi per un tumore al seno, e David – finalmente consapevole della profondità del suo sentimento – rimarrà in ospedale accanto alla ragazza, condividendone ansie e difficoltà.

In un primitivo progetto del 2005, la storia doveva essere diretta – per incarico della Lakeshore Entertainement – da Gabriele Muccino, con Al Pacino e Rosario Dawson, ma tutto fallì poco prima delle riprese nel 2006.

Scrive Luciana Morelli (http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=55361): «David non è affatto simpatico, anzi. È un arzillo ultracinquantenne con una cattedra universitaria e il vizietto delle avventure facili. Cresciuto nella libertà sessuale dei campus americani degli anni '60, da più di trent'anni sfrutta appieno le opportunità offertegli dalla sua posizione sociale e non intrattiene nessuna relazione stabile con l'altro sesso. Sono tante le belle ragazze che frequentano il suo corso di critica letteraria, ma un giorno entra in aula Consuela Castillo, una splendida studentessa cubana poco più che ventenne, e tutto nella sua vita cambia radicalmente. Capelli scuri, sguardo conturbante e corpo che sfiora la perfezione, Consuela attira le sue attenzioni come un'opera d'arte e la voglia di possederla diviene per David quasi un'ossessione.». La ragazza ricambia il turbamento e scoppia una passione irrefrenabile e profonda: «Il cinico professore si troverà, per la prima volta nella vita, faccia a faccia con ansie, gelosie e insicurezze, emozioni che, insieme al destino, non gli permetteranno di vivere con serenità la prima vera storia d'amore della sua vita… […] Nel racconto di Philip Roth i protagonisti sono un uomo e una donna con oltre trent'anni di differenza d'età che si amano ma che comprendono di voler stare insieme per sempre solo quando è troppo tardi. Ossessionata dal romanzo, la Coixet prende troppo alla lettera la riflessione suggeritale durante la lavorazione del film da Roth (che non ha mai voluto leggere lo script), sul fatto che “il corpo ha più memoria della mente”, e confeziona sì un intenso dramma sentimentale incentrato sulla fisicità e sull'attrazione tra i due protagonisti, ma allo stesso tempo altera senza cognizione di causa l'essenza dei due personaggi principali creati dallo scrittore, limitandosi, forse per timore reverenziale, ad abbozzare appena la loro personalità senza permettere allo spettatore e a se stessa di farli propri.».

mercoledì 10 ottobre 2012

Joan Cusack, una comprimaria di lusso



Joan Cusack


Compie cinquant'anni l'attrice statunitense Joan Cusack, nata a New York l'11 ottobre del 1962, che pur in ruoli apparentemente marginali al cinema o in TV ha sempre rivelato grande forza interpretativa, simpatica espressività e spiccato innato senso di humor. Nota anche come sceneggiatrice, appartiene a una famiglia famosa nel mondo dello spettacolo: è figlia dell'attore e produttore cinematografico Dick Cusack (1925-2003) e sorella di John Cusack; anche i fratelli Ann, Bill e Susie sono attori. Seconda di cinque figli, è nata da una famiglia cattolica di origini irlandesi, impegnata sul fronte politico: la madre, Ann Paula “Nancy” Carolan, insegnante di matematica, è una fervente attivista politica.

Cresciuta a Evanston nei pressi di Chicago (Illinois), ha frequentato l'Evanston’s Piven Theater Workshop a Chicago con la sorella Ann e il fratello John (che si formò sul quel palcoscenico sin dalle elementari). Joan Cusack è stata un'alunna della University of Wisconsin–Madison.

Iniziò la sua carriera come attrice comica: tra il 1985 e il 1986 numerose furono le sue partecipazioni di “sketch comedy” al Saturday Night Live, ove si fece notare per le sue imitazioni di Brooke Shields, Jane Fonda e la regina Elisabetta II, e per il personaggio di “Salena”, una ragazza  socialmente inetta coinvolta con “Biff” (un altro inetto sociale, interpretato da Jon Lovitz). In quel periodo fondò una troupe teatrale al femminile, An Impulsive Thing, che la vedeva accanto ad altre due attrici brillanti: la deliziosa Bonnie Hunt (nota per i film “Beethoven” e “Beethoven 2”) e Holly Wortell (nota sceneggiatrice della serie televisiva The Bonnie Hunt Show, 2008-2010). Ha scritto Gianni Canova: «Figlia d'arte, […], grazie anche alle buffe espressioni del suo viso, si specializza in piccoli ruoli comici» (Cinema, le garzantine, Garzanti, 2009).

Joan Cusack esordì nel cinema nel 1980 con Cutting Loose di Dave Peltzer, La mia guardia del corpo (My Bodyguard) di Tony Bill, e Class (1983) di Lewis John Carlino (commedia adolescenziale nella quale esordì il fratello John Cusack, un bravo e misurato attore protagonista e non solo, perché si è fatto notare anche come sceneggiatore e produttore cinematografico). Entrambi i fratelli Cusack sono stati degli anticonformisti, privilegiando la vita privata e proteggendola dallo star system, «frequentando l'ambiente hollywoodiano solo per il tempo strettamente necessario alle riprese» (Cinema, le garzantine, a cura di Gianni Canova, Garzanti, 2009).

Joan ha recitato con tutti i più grandi attori di Hollywood. Ricordiamo: Un compleanno da ricordare (Sixteen Candles) (1984) di John Hughes e Bulldozer (Grandview, U.S.A.) (1984) di Randal Kleiser, entrambi col fratello John; Dentro la notizia (Broadcast News) (1987) di James L. Brooks con William Hurt e Holly Hunter; Un gentleman a New Tork (Stars and Bars) (1988) di di Pat O'Connor con Daniel Day-Lewis – vinse il Boston Society of Film Critics Award for Best Supporting Actress –; Una vedova allegra ma non troppo (Married To The Mob) (1988) di Jonathan Demme con Michelle Pfeiffer – vinse nuovamente il Boston Society of Film Critics Award for Best Supporting Actress –; Una donna in carriera (Working Girl) (1988) di Mike Nichols insieme con Harrison Ford e Melanie Griffith (era Cyn, la più cara amica e confidente della protagonista, l'ambiziosa Tess), film per il quale vinse l'American Comedy Award for Funniest Supporting Actress e il Boston Society of Film Critics Award for Best Supporting Actress, e fu candidata al Premio Oscar come miglior attrice non protagonista nel 1989 (il successo di questo film aprì a Joan le porte per molte nuove importanti opportunità cinematografiche) –; Non per soldi... ma per amore (Say Anything...) (1989) di Cameron Crowe col fratello John; Il testimone più pazzo del mondo (Men Don't Leave) (1990) di Herbert Ross con Steve Martin; Gli uomini della mia vita ((Men Don't Leave) (1990) di Paul Brickman con Jessica Lange e Kathy Bates; The Cabinet of Dr. Ramirez (1991) di di Peter Sellars con Mikhail Baryshnikov; Eroe per caso (Hero) (1992) di Stephen Frears con Dustin Hoffman; La famiglia Addams 2 (Addams Family Values) (1993) di Barry Sonnenfeld con Anjelica Huston; Una moglie per papà (Corinna, Corinna) (1994) di Jessie Nelson con Ray Liotta e Whoopi Goldberg; Nine Months – Imprevisti d'amore (Nine Months) (1995) di Chris Columbus con Julianne Moore e Hugh Grant – fu nominata per l'American Comedy Award for Funniest Supporting Actress –; Un marito... quasi perfetto (Mr. Wrong) (1996) di Nick Castle con Ellen DeGeneres e Bill Pullman; Uno di troppo (Two Much) (1996) di Fernando Trueba con Antonio Banderas; L'ultimo contratto (Grosse Pointe Blank) (1997) di George Armitage con Dan Aykroyd e con il fratello John Cusack – si aggiudicò il Chlotrudis Award for Best Supporting Actress –; In & Out di Frank Oz (1997), nel quale interpretava Emily Montgomery la fidanzata di Kevin Kline, confuso e incerto sulla sua identità sessuale – ricevette la nomination al Golden Globe, si aggiudicò numerosi premi e fu candidata nuovamente all'Oscar come miglior attrice non protagonista –; Se scappi ti sposo (Runaway Bride) (1999) di Garry Marshall con Julia Roberts e Richard Gere – premiata e nominata nuovamente per diversi premi –; Il prezzo della libertà (Cradle Will Rock) (1999) di Tim Robbins con Susan Sarandon e con il fratello John; Arlington Road – L'inganno (Arlington Road) (1999) di Mark Pellington con Tim Robbins e Jeff Bridges – nel ruolo intensamente drammatico di Cheryl, fu nominata nuovamente a diversi importanti premi –; Qui dove batte il cuore (Where The Heart Is) (2000) di Matt Williams con Stockard Channing e Ashley Judd; Alta fedeltà (High Fidelity) (2000) di Stephen Frears col fratello John; The School of Rock (2003) di Richard Linklater con Jack Black; Quando meno te lo aspetti (Rising Helen) (2004) di Garry Marshall con Kate Hudson (è la “dura” sorella della “tenera” protagonista); Un sogno sul ghiaccio (Ice Princess) (2005) di Tim Fywell con Michelle Tracthenberg e Kim Cattral; Friends with Money (2006) di Nicole Holofcener con Catherine Keener; Un bambino da amare (Martian Child) (2007) di Menno Meyjes col fratello John; Kit Kittredge: An American Girl (2008) di Patricia Rozema con Julia Ormond e Chris O'Donnell; War, Inc (2008), di Joshua Seftel con il fratello John; I Love Shopping (2009) di P.J. Hogan con Isla Fisher e Hugh Dancy; La custode di mia sorella (My Sister's Keeper) (2009) di Nick Cassavetes con Cameron Diaz e Alec Baldwin; e Listen That Far Song (2011) di Tony Strause con Hilary Duff. Ha prestato anche la sua inconfondibile voce in diversi film d'animazione: Giocattoli (Toys) (1992) di Barry Levinson; Woody e Buzz alla riscossa (Toy Story 2) (1999) di John Lasseter, Lee Unkrich e Ash Brannon; Toy Story 3 (2010) di Lee Unkrich, e Il figlio di Babbo Natale (Arthur Christmas) (2011) di Sarah Smith (vedere:
http://uk.askmen.com/celebs/women/actress_300/388_joan_cusack.html).

Ha lavorato per la TV: da ricordare la sitcom dell'ABC What About Joan? (2001-02). Nel 2011 e 2012 ha ricevuto due nomination agli Emmy Award per la serie drammatica televisiva della Showtime Shameless, in cui interpretava Sheila Jackson.

Dal 1993 è sposata con l'avvocato Richard Burke e ha avuto i due figli Dylan John e Miles; vive spesso a Three Oaks Township (Michigan).

Nel 2003, Joan e il fratello John (insieme con molti altri intellettuali e attori, quali Noam Chomsky e Susan Sarandon) firmarono la risoluzione “Not in My Name” per opporsi all'invasione dell'Iraq.

In Joan Cusack, un'attrice dai piccoli grandi ruoli, scrive Maria Grazia Bosu: «[…] Per Joan, che nonostante un carattere forte è molto introversa, calcare le tavole del Piven Theatre di Evaston è anche un modo per relazionarsi con gli altri superando la sua timidezza. È una fan dei Monty Python e di Mel Brooks, passione che la stimola a proporsi come attrice comica. […] Essendo dotata di un carattere timido ma per nulla sottomesso, è per lei difficile accettare alcune imposizioni proprie dello star system, e diviene un peso difficile da portare accettare l'etichetta di “spalla” che le viene affibbiata. È poi fermamente convinta che i ruoli migliori vengano riservati agli uomini, questione che in passato era stata già causa di dissapori con gli insegnanti della Scuola Teatrale dell'Università del Wisconsin, della quale è associata. […] Particolarmente intensa l’interpretazione in “Arlington Road” […]. Lontana anni luce dalle sue parti più usuali, e proprio per questo significativa, le dà la possibilità di esprimere le sue doti interpretative in un personaggio cupo, inizialmente ambiguo. […] Non è tra le protagoniste di “La donna perfetta” del 2004 di Frank Oz, ma a causa dell’improvvisa malattia del padre che porta lei e John ad abbandonare i set per accudirlo. […] Attualmente è impegnata nel progetto di una sit–com, scritta dal fratello John, che la vede protagonista, nei panni di un’attrice che torna a Chicago per fuggire dalle follie dello star system.»

(http://www.ecodelcinema.com/joan-cusack---biografia.htm)