lunedì 29 aprile 2013

Antigone, Sofocle e Valeria Parrella



    Sofocle                           Antigone di Valeria Parrella
                                                      (regia di Luca De Fusco)



L'Antigone è certamente il capolavoro di Sofocle e il dramma greco che ha visto il maggior numero di trasposizioni e di riletture e riscritture; questo perché, come ha fatto notare il filosofo e pedagogista austriaco Rudolf Steiner (1861 –1925), Antigone è l'eroina che «esplicita un discorso sulla vita, sul coraggio, sull'autodeterminazione, su cosa significhi essere partecipi del Diritto oggi».

Dal 23 aprile al 5 maggio 2013, presso lo Stabile di Catania, si recita un'originale e inedita Antigone di Valeria Parrella (Torre del Greco, 1974), che non è «un esame dell'opera o una modernizzazione o una nuova traduzione» ma intende «mettere le mani nelle nervature della classicità», per la regia di Luca De Fusco con Gaia Aprea (Antigone), il legislatore Creonte (Paolo Serra) e Fabrizio Nevola (Emone). La produzione è del Teatro Stabile di Napoli, Fondazione Campania dei Festival, in collaborazione con l'Accademia di Belle Arti. In questo testo tratto da un libro della scrittrice Valeria Parrella (Antigone, L'Arcipelago Einaudi, 2012) – che è una «riscrittura libera e alta, carica d'intensità e di poesia») con al centro del racconto «il diritto all'eutanasia» – c'è un'ardita interpretazione: Polinice non è insepolto, bensì in morte cerebrale, e lo zio legislatore si rifiuta di considerarlo morto e di seppellirlo, per cui Antigone “stacca la spina” perché il fratello possa essere sepolto. Scrive l'autrice: «Antigone muove dunque continuamente da un mondo dei vivi, il nostro, a quello dei morti: quello del suo fratello e quello dell'orrenda “sepoltura” in vita delle carceri. Antigone e Creonte si fronteggiano determinati, tragici e costanti, senza mai perder terreno l'uno verso l'altro: anche se uno comanda e l'altro dovrà obbedire, poi la storia invertirà le parti lasciando colui che comanda senza scampo. […] Creonte resterà così solo, artefice del su stesso infausto destino, a maledire la propria stoltezza.». 

Ha scritto del libro la grecista Eva Cantarella (Corriere della sera, 23 ottobre 2012): «Ѐ un bel libro, questa Antigone, che riesce a conciliare la modernità del tema con una scrittura che, pur essendo sciolta e duttile, evoca felicemente il tono alto della tradizione letteraria della quale la nostra lingua colta è erede. E dimostra ancora una volta che la tragedia antica non ha bisogno di essere “attualizzata”. Ѐ e sarà sempre attuale.». A proposito dell'originale regia teatrale di De Fusco, ha commentato Enrico Fiore (Il Mattino, 28 settembre 2012): «Mi pare che la regia di Luca De Fusco sottolinei con adeguata precisione tali pregi del testo. I personaggi, materializzandosi dal buio come soprassalti della coscienza, vengono sovrastati, in quanto corpi, dall'immagine dei loro volti proiettata in primo piano e, così, ricondotti alla propria natura d'idee. […]». Ha osservato, invece, Rodolfo Di Giammarco (La Repubblica, 30 settembre 2012): «Inizia e finisce con un eccesso, con Antigone sospesa nell'aria come per un “cielo sopra Tebe”, la messinscena di Luca De Fusco per l'Antigone sofoclea ben riscritta con linguaggio alto e temi odierni da Valeria Parrella. Ma la regia di De Fusco tutela poi con efficaci sottrazioni di enfasi, a rischio di minor spettacolarità, la disputa etica della tragedia […]». Angela Di Maso (Roma, 28 settembre 2012), infine, scrive: «L’Antigone, metafora dei diritti del singolo contro dittatura e totalitarismo, – o per dirla alla maniera dell’esistenzialista Emmanuel Lévinas, contro “totalità e infinito” – di Luca De Fusco è una pittura compatta: la sua costruzione meta teatrale, cinematografica e sinfonica, convince.». 

Tra le diverse rielaborazioni, ricordiamo la tragedia di Vittorio Alfieri, l'opera lirica di Arthur Honegger su libretto di Jean Cocteau e la fiera e “ribelle” Antigone di Jean Anouilh (cui ho dedicato un articolo di questo mio blog, silvia-iannello.blogspot.com/2011/12/jean-anouilh-e-la-fiera-ribelle.html).

Ma veniamo all'Antigone di Sofocle, il cui antico mito è stato rielaborato dalla Parrella spostando il problema critico della sepoltura di Polinice su quello – attualissimo – dell’eutanasia. L’opera, che appartiene al ciclo dei drammi tebani, fu rappresentata per la prima volta ad Atene, alle Grandi Dionisie del 442 a.C.

La trama è nota: Antigone decide di dare sepoltura al cadavere del fratello Polinice, contro la volontà dello zio Creonte, nuovo re di Tebe e zio (è il fratello di Giocasta, madre di Antigone). Catturata, Antigone è condannata dal Creonte a passare il resto della vita imprigionata in una grotta. Per le profezie dell’indovino Tiresia e per le suppliche del Coro, infine il re si decide di liberarla, ma è ormai troppo tardi perché Antigone si è impiccata. Il fatto innesca tutta una sequela di tragedie: il figlio del re e fidanzato innamorato di Antigone, Emone, disperato si suicida, seguito dalla madre e moglie di Creonte, Euridice (che nulla ha che vedere con l'omonima moglie di Orfeo). A Creonte non resta che la disperata solitudine a causa della sua cieca stoltezza.  [La traduzione dei brani utilizzati è di Ettore Romagnoli]

Nel Prologo (la scena si svolge sull'acropoli di Tebe, dinanzi alla reggia, dalla quale escono Antigone e Ismene): è l’alba disperata che segue la morte di Eteocle e Polinice, figli di Edipo, che si sono uccisi l'un l'altro per combattere nella difesa del trono di Tebe. Antigone, la sorella, informa Ismene, l'altra sorella, che lo zio Creonte, nuovo re della città, vuol seppellire e dare onoranze funebri al corpo di Eteocle ma vuol lasciare insepolto quello di Polinice.
Dice Antigone: «O mia compagna, o mia sorella, Ismene, / sai tu quale dei mali che provengono / da Èdipo, Giove sopra noi non compia, / mentre siamo ancor vive? Oh!, nulla v'è / di doloroso, di funesto e turpe, / di vergognoso, che fra i mali tuoi, / fra i mali miei visto non abbia. / […]». E racconta alla sorella ignara il bando che il Signore di Tebe aveva appena fatto gridare per la città (chi avesse seppellito Polinice sarebbe stato lapidato): «Non sai tu che Creonte, onor di tomba / concesse all'uno dei fratelli nostri, / l'altro mandò privo d'onore? Etèocle, / come la legge e la giustizia vogliono, / sotto la terra lo celò, ché onore / fra i morti avesse di laggiù; ma il corpo / di Poliníce, che perì di misera / morte, ha bandito ai cittadini, dicono, / che niun gli dia sepolcro, e niun lo gema, / ma, senza sepoltura e senza lagrime, / dolce tesoro alle pupille resti / degli uccelli, che a gaudio se ne cibino. […]». Antigone sostiene che vuole però seppellire anche il corpo di Polinice, sfidando così l’ordine del re. Chiede alla sorella un aiuto ma Ismene, spaventata, glielo nega lasciando sola Antigone a tentare la pericolosa impresa. Così parla Ismene: «[…] / Ora noi due, sole rimaste, vedi / quanto sarà la nostra fine orribile, / se i decreti del principe e il potere / trasgrediremo, della legge a scorno. / Ed anche a ciò convien pensare: femmine / siamo, e non tali da lottar con gli uomini; / e assai più forti son quelli che imperano; / e obbedire dobbiam dunque ai loro ordini, / e se fosser più duri. Io dunque, ai morti / chiedo perdono, poi che son costretta,/ ed ai potenti obbedirò: ché ardire / oltre le proprie forze, è cosa stolta.». Risponde Antigone alla sorella: «[…] / Sepolcro io gli darò; bella, se l'opera / avrò compiuta, mi parrà la morte. / E cara giacerò presso a lui caro, / d'un pio misfatto rea: poiché piacere / più lungo tempo a quelli di laggiù / debbo, che a quelli che qui sono. / […] / Or me, la mia follia, lascia che soffrano / l'orrenda pena: niun saprà convincermi / ch'io non affronti questa morte bella. / […]».

Entra allora il Coro degli anziani di Tebe, in trionfo perché l’esercito invasore guidato da Polinice è stato sconfitto da quello tebano capitanato da Eteocle, annunciando l'arrivo imminente di Creonte, il nuovo re di Tebe. Così conclude il Coro: «[…] / Soltanto i due miseri figli / d'un grembo, d'un padre, le lancie / entrambe vittrici, appuntando / al seno un dell'altro, retaggio / di morte comune riscossero.». E Creonte, dopo un lungo discorso, conclude dicendo: «[…] / Ed ordini conformi intorno ai due / figli d'Èdipo, bandir feci: Etèocle, / che per questa città, poi che ogni prova / di valore compie', pugnando cadde, / si seppellisca, e quanti onori spettano / ai più illustri defunti, a lui si rendano; / ma suo fratello, Poliníce, dico, / l'esule che tornò, che il patrio suolo / strugger volea col fuoco, e i Numi aviti, / che del sangue fraterno abbeverarsi / voleva, e trarre gli altri in servitù, / costui col bando imposi alla città / che niun gli dia sepolcro, e niun lo pianga, / ma si lasci insepolto, e, divorato / dagli uccelli e dai cani, e, deturpato, / sia visibile il corpo. È questo il mio / divisamento: ché non mai da me / avranno uguale onore i buoni e i tristi: / sol chi devoto alla città si mostra, / in vita e in morte, onore avrà da me.». Subito dopo arriva però un soldato, uno dei custodi posti a guardia del cadavere di Polinice, che appare timido e impaurito e che vuol parlare al sovrano per dirgli che qualcuno ha contravvenuto al suo ordine, gettando della sabbia sul corpo di Polinice e compiendo il rito funebre: «Te lo dirò. Qualcuno ha seppellito / poco fa quel defunto, ed è scomparso: / sopra le membra sparse arida polvere, / tutte compie' le cerimonie debite.». Creonte è furioso, convinto che tale atto sia opera di tebani contrari al suo governo, e ordina alla guardia di trovare i colpevoli.

Il Coro si mette allora a fare un elogio dell’ingegno umano, delle molte cose mirabili al mondo ma nessuna pari all’uomo che ha saputo sottomettere la terra e gli animali, organizzando la vita civile attraverso delle buone leggi; il Coro avanza però anche la possibilità che l’ingegno umano voglia volgersi al male e distruggere quelle stesse cose che ha costruito.

Riappare la stessa guardia che trascina Antigone e che racconta che – dopo aver rimosso la sabbia dal corpo di Polinice – era rimasto in osservazione e aveva visto la fanciulla che ritornava a ricoprire il corpo: «Questa è colei che l'opera compieva: / costei sorpresa abbiamo, che al cadavere / dava sepolcro. Ma dov'è Creonte? / […] / E reco a te questa fanciulla, còlta / che la tomba adornava; e non fu d'uopo / di trarre a sorte: mia fu la fortuna, / non d'altri. E adesso, o re, prendi costei, / come ti piace, esàminala, giudicala; / ma giusto è ch'io dai guai rimanga libero.». Interrogata da Creonte, Antigone non nega («L'ho compiuta: confesso, e non lo nego.») ma sostiene con vigore che la sepoltura di un cadavere è un rito voluto dagli dei, di molto superiori a Creonte: «Non Giove a me lanciò simile bando, / né la Giustizia, che dimora insieme / coi Dèmoni d'Averno, onde altre leggi / furono imposte agli uomini; e i tuoi bandi / io non credei che tanta forza avessero / da far sì che le leggi dei Celesti, / non scritte, ed incrollabili, potesse / soverchiare un mortal: ché non adesso / furon sancite, o ieri: eterne vivono / esse; e niuno conosce il dì che nacquero. / E violarle e renderne ragione / ai Numi, non potevo io, per timore / d'alcun superbo. […] / Tu dirai che da folle io mi comporto; / ma forse di follia m'accusa un folle.».

Furioso, il re le rinfaccia il non aver rispettato i suoi ordini e, rimproverandole l'esser soprattutto donna, le imputa la sua condanna a morte, nonostante Antigone sia sua nipote (la ragion di Stato deve prevalere sugli affetti). Creonte coinvolge anche Ismene: «[…] / Ma figlia sia d'una sorella, o stretta / a me di sangue più di quanti Giove / protegge sotto i miei tetti, all'orribile / sorte sfuggire non potrà, né seco / la sua sorella: ché non men di questa / dell'averlo sepolto io quella incrìmino. / […]». Antigone si difende e accusa Creonte di tirannia: «Che dunque indugi? Delle tue parole / niuna m'è grata, e mai non mi sarà / grata: anche a te, così, piacer non possono / le mie. Ma donde mai gloria più fulgida / acquistare potrei, che al mio fratello / dando sepolcro? E lode a me darebbero / tutti costoro, se terror le lingue / non rinserrasse: privilegi ha molti / la tirannide; e questo anche fra gli altri: / che dire e far ciò ch'essa vuole può.».

Ismene, chiamata, si mostra desiderosa di morire con Antigone: «Se consente costei, confesso: complice / sono, e con lei partecipo la colpa.». Antigone rifiuta però il suo sostegno: «Morir meco non devi, e far tuo quello / che non compievi; la mia morte basta. / […] / Salva te stessa: invidia io non ne avrò. / […] / Tu la vita scegliesti, ed io la morte. / […] / Fa' cuor! Tu vivi; e da gran tempo è morta / l'anima mia: potrà giovare ai morti. / […]». Ismene ricorda allora a Creonte che ucciderà Antigone, la sposa promessa di Emone: «Ma non com'era questa a quello adatta!». Implacabile, Creonte le risponde: «Pei figli miei detesto tristi femmine!».
Creonte fa trascinare entrambe incatenate ma la sua condanna riguarda la sola Antigone.

Sconsolatamente il Coro si lamenta su come sia effimera la vita umana e colpita continuamente da sventure che non mostrano un disegno comprensibile agli uomini: «[…] / Ed or, su l'estrema radice, / nella casa d'Edìpo, una luce / brillava; ma polvere / sanguigna degl'Inferi, / follia di parole / adesso, e delirio di mente la spengono. / […] / Spesso il male sembra un bene / ad un uomo a cui la mente / volse un Nume alla rovina. / E da rovina ben poco tempo lontano resta.».

Appare intanto Emone, figlio di Creonte, crucciato per Antigone, che è la sua promessa sposa, e «doglioso per la speme di nozze delusa», ma Creonte è risoluto e gli dice: «[…] / Mai la lusinga del piacer di femmina / di senno uscire non ti faccia, o figlio. / Freddo, sappi, è di femmina l'amplesso / che sia trista compagna del tuo talamo: / piaga peggior non c'è d'un tristo amore. / […] / Male maggiore invece non esiste / della mancanza d'ordine: per questa / vanno in rovina le città, disperse / vanno le case, le schiere alleate / fuggono infrante dalla pugna. Invece, / la disciplina dà vittoria, e salva / ai più la vita. È necessario dunque / difendere le leggi, e a nessun patto / consentir che una femmina ci vinca. / Se cadere si dee, meglio cadere / per man d'un uomo: dir non si potrà / che noi fummo più fiacchi d'una femmina.». Il figlio dovrà sottostare necessariamente al suo volere di suo padre. Inutilmente, Emone ribatte che il popolo è con Antigone e desidera che sia salvata: «[…] / La tua presenza, sbigottiti rende / i cittadini, sì che non ti dicono / mai ciò che udire non ti piace: invece / io tutto posso udir, quanto nell'ombra / dicendo van: che la città commisera / questa fanciulla, immacolata più / d'ogni altra donna, e che compiuta ha l'opera / la più nobile, e in cambio ne riceve / la più misera morte. […]». Creonte furioso, chiamandolo ribaldo e servo d'una femmina, minaccia il figlio di uccidere Antigone davanti ai suoi occhi: «[…] Ah! per l'Olimpo, a te l'ingiurie / pro' non faranno, sappilo. – Recate / qui l'odiosa femmina: morire / deve innanzi al suo sposo, al fianco suo.».

L'infelice e disperato Emone si allontana furibondo: «Innanzi a me? Non lo sperare, no! / Ella a me presso non morrà, né tu / il viso mio vedrai più: con gli amici / che a te son ligi, resta al tuo delirio.». Creonte manifesta al Coro il suo desiderio di condanna per Antigone: «In un sentiero dove uomo non trànsiti / la condurrò, la seppellirò viva / in un antro roccioso; e accanto a lei / tanto cibo porrò, quanto sol basti / ad evitare il sacrilegio, a rendere / immune Tebe dal contagio. […]». Il Coro intona allora un canto in onore di Eros che trascina con forza e rende folli coloro che da lui sono colpiti.

Esce dalla reggia, fra le guardie, Antigone condotta al supplizio. Mentre il Coro è solidale con lei, Antigone si lamenta del proprio destino che la condanna a morire prima di conoscer qualcosa del matrimonio: «[…]: alle mie soglie / inno di nozze non suonò, ché sorte / non m'ebbi d'Imenèi: / io sarò sposa al Nume della Morte. / […] Oh misera! / Ospite non di vivi / né di morti, non d'ombre / né d'uomini sarò. / […] / E tu fratello, quali tristi nozze / avesti in tuo retaggio! / Morendo, me struggesti / ch'ero tuttora in vita. / […] / Non pianto, non amici, /  non inni nuziali: a me s'appresta / sol questa via funesta. / […]». Appare Creonte che sostiene di non voler contaminarsi con il crimine odioso agli dei di uccidere una consanguinea e di aver deciso di gettare Antigone in una grotta perché possa vivere o morire lontano da tutti: «[…] Volete in fretta / condurla via? Nella profonda tomba, / come v'ho imposto, sia rinchiusa, e sola / vi sia lasciata, e ch'ivi morir debba, / o in quell'antro restar viva sepolta. / Pure del sangue suo le mani avremo; / ma sarà priva del consorzio umano.». Questa decisione non rallegra Antigone che immagina il suo futuro solitario e disperato, pur essendo innocente («E qual giustizia di Numi violai?»). Mentre così conclude: «[…] / Vedete, o signori di Tebe, / che debbo soffrir, da quali uomini, / perché pietosa volli essere, / io, sola superstite / del sangue dei re.». Le guardie la portano via e il Coro ricorda alcuni personaggi mitologici imprigionati: Danae, Licurgo e i figli di Cleopatra.

Giunge intanto Tiresia, il vecchio profeta cieco guidato per la mano da un fanciullo, che si rivolge a Creonte sostenendo l'impurità della città per la mancata sepoltura di Polinice, nipote di Creonte e quindi consanguineo, e consigliandogli di lasciare da parte la sua inflessibilità: «[…] / E tal morbo funesta la città / pel tuo disegno: ché gli altari e l'are / pieni son della carne, che vi spargono / cani ed uccelli, dell'esposto misero / figlio d'Èdipo […] /; […] Or tu / cedi al defunto, non colpire un morto. / Sarà prodezza uccidere un cadavere? / Pel tuo bene pensai, pel tuo ben parlo; / e dolcissima cosa è dare ascolto / a chi ben parla, quando utile arreca. / […] / E questo sappi tu: non molti giri / dell'agili vedrai ruote del sole, / e un uom dal sangue tuo nato, cadavere / tu dovrai dare, in cambio d'un cadavere, / perché spingesti, all'Orco, di quassù, / e senza onor desti sepolcro a un'anima, / e un altro invece, che appartiene agli Inferi, / qui senza tomba e senza onor lo tieni, / cadavere nefando; e tal diritto / non appartiene a te, non ai Celesti / d'Olimpo; e pure, è tuo questo sopruso. / […]». Creonte rimprovera a Tiresia di pensare soltanto al suo tornaconto personale e riafferma con forza il suo primato di sovrano; andando via, Tiresia gli lascia l'ultimo avvertimento di pensare alle Erinni che stanno per agire contro di lui: «E l'Erinni dei Numi e dell'Averno / t'agguatano perciò, vendicatrici, / sterminatrici, perché tu procomba / nei medesimi mali. Or guarda bene / se corrotto dall'oro io parlo a te. / […]».

Sconvolto nel cuore e convinto dal Coro degli anziani che, a proposito di Tiresia, sostiene che «a Tebe ei mai non disse il falso», Creonte decide infine di liberare Antigone dalla «stanza sotterranea» e di innalzare «al defunto un tumulo»: «Faccio forza al cuor mio, m'induco all'opera: / sconvien contro il destino un'ardua pugna. / […] Ed io, poiché / il mio disegno fu così travolto, / io stesso, a scioglier ciò che avvinsi, andrò. / Temo che il meglio sia vivere illeso, / serbando ognor le costumanze avite.». Ed esce in fretta con i suoi seguaci.

Il Coro si rallegra per il ravvedimento di Creonte e prega Bacco perché protegga benevolo la sua città prediletta. Giunge correndo, esterrefatto, un messo che informa il Coro e la moglie di Creonte, Euridice, dell'infelicità del re: «[…] Era Creonte / degno un tempo d'invidia, a quanto sembrami, / ché dai nemici libera fe' questa / terra cadmèa, solo sovrano fu / di tutto il regno, e lo guidava, e florido / era per copia di bennati figli. / Ed or, tutto ha perduto. E quando un uomo / non ha più gioie, vivo io non lo reputo, / ma spoglia inane che respiri. / […]». Il messaggero continua a narrare gli ultimi orrendi accadimenti: Creonte aveva seppellito Polinice ma l’ordine di liberazione era arrivato troppo tardi; infatti, a un tratto aveva udito il pianto del figlio Emone che proveniva dalla grotta in cui era reclusa Antigone, la quale con l'impiccagione aveva posto fine alla sua vita infelice: «[…] Ed ecco, / uno dei nostri, ode da lungi, intorno / a quel sepolcro senza esequie, il suono / d'acuti ululi, e corre, ed a Creonte / ne reca annunzio; e quando questi, più / si fa vicino, un indistinto suono / l'avvolge d'urli miseri; e singhiozza / egli, lagrima, e rompe in questi accenti; / “Misero me, sono io dunque indovino? / Questa è dunque la più funesta via / di quante io prima ne battei? La voce / mi molce il cuor del figlio mio. / […]”». Erano accorsi e avevano visto: «al fondo pel collo stretta la fanciulla» e Emone che la stringeva «e le nozze / piangea distrutte nell'Averno, e l'opere / empie del padre, e l'infelice talamo piangeva.». Emone, disperato, aveva sputato su Creonte e rivolto la sua spada contro di lui ma, avendolo mancato, aveva rivolto la sua arma contro di sé uccidendosi («si gittò su la spada, e a mezzo il petto se la confisse» e «giace cadavere a un cadavere avvinto»). Sentendo quegli avvenimenti, sconvolta Euridice fugge di corsa, rientrando nella reggia. Il Coro descrive adesso l'arrivo di Creonte che trasporta la bara contenente il cadavere di Emone («un insigne segnacolo dell'error che fu suo, non d'altrui»), e che piangendo per la sua stoltezza così parla: «[…] / Uscir da una stessa progenie / vedete uccisori ed uccisi. / Ahimè, dei miei consigli esito tristo! / […]». Si presenta allora un altro messaggero che gli dice che anche la moglie Euridice si suicidata: «Morta è la sposa tua, la madre, o misero, / di questo morto: s'è trafitta or ora!». La rovina del re si è completata: uccisore del figlio e della moglie, a Creonte non resta altro che invocare la morte per sé: «[…] /Ahimè, che tu finisci un uom defunto! / […] / Ahimè! / Quale, o misero, veggo altra sciagura! / Che sorte ancor, che sorte ancor m'attende? / Tra le mie mani il figlio or ora m'ebbi, / e questa nuova salma a me dinanzi / or veggo: ahi ahi, madre infelice! Ahi, figlio! / […] / Via questo insano conducete, l'uomo / che te contro sua voglia uccise, o figlio, / e te, sposa, oh me misero! Lo sguardo / a chi dei due volger non so, né dove / trovi un sostegno: ché rovina è tutto / a me dintorno, e sopra il capo mio / un destino implacabile piombò.».

Termina così questa tragedia fosca che celebra il conflitto tra l'autorità e il potere, il contrasto tra la legge divina (difesa da Antigone) e quella umana (difesa da Creonte), la disputa tra legge della famiglia e legge dello Stato (sotto questo riguardo, Antigone ha rappresentato una metafora dei diritti del singolo contro i diritti di uno Stato totalitario). Soltanto la catastrofe finale fa comprendere a Creonte, despota e legislatore, i suoi errori. E la ribellione di Antigone è qualcosa di più complesso e moderno, perché riguarda anche il suo esser donna, il suo non volere essere umile e sottomessa al volere maschile oltre che regale, giustificata dal fine nobile di tutelare un suo affetto familiare (il modello tradizionale è rappresentato invece dalla sorella Ismene).

Pochissime parole su Sofocle. Nacque a Colono, un sobborgo di Atene, nel 496 a.C. ed è considerato uno dei maggiori autori tragici dell'antica Grecia. Figlio di un ricco ateniese proprietario di schiavi, Sophilos, fu ben educato e per la sua attività drammaturgica vide importanti riconoscimenti già in età giovanile (conquistò ben ventiquattro vittorie).  Morì nel 406 a.C. ad Atene, novantenne.

Secondo la tradizione Sofocle scrisse 123 tragedie ma ne sono rimaste soltanto sette: Antigone, Aiace, Edipo re, Elettra, Filottete, Le Trachinie ed Edipo a Colono, la sua ultima tragedia,rappresentata postuma nello stesso anno della morte (406 a.C.). Ebbe il merito di dar vita a eroi contraddittori in conflitto con forze oscure e temibili, molto umani ma minati da problemi fisici e psichici, generosi e forti ma votati al male e alla tragedia, coronati dalla gloria ma portatori di un destino di dannazione.

lunedì 22 aprile 2013

Torquato Tasso: l’amore malinconico di un poeta cupo


Torquato Tasso


Torquato Tasso ha composto liriche di struggente malinconia, nelle quali tutto appare muto e immobile, e tutto evidenzia il silenzio di un’anima e la tristezza cupa di un uomo infelice. Pur tuttavia le sue poesie, piene di eleganza, guardano a Petrarca e ai poeti greci e latini, esprimendo un gusto nuovo e soluzioni verbali diverse. Ne ricordo soltanto due, tratte dalle “Rime”.

Tacciono i boschi e i fiumi.
Tacciono i boschi e i fiumi
e ’l mar senza onda giace;
ne le spelonche i venti han tregua e pace,
e ne la notte bruna
alto silenzio fa la bianca luna;
e noi tegnamo ascose
le dolcezze amorose:
Amor non parli o spiri,
sien muti i baci e muti i miei sospiri.

Qual rugiada o qual pianto.
Qual rugiada o qual pianto,
quai lagrime eran quelle
che sparger vidi dal notturno manto
e dal candido volto de le stelle?
E perché seminò la bianca luna
di cristalline stelle un puro nembo
a l’erba fresca in grembo?

Perché nell’aria bruna
s’udìan, quasi dolendo, intorno intorno
gir l’aure insino al giorno?
Fur segni forse de la tua partita,
vita de la mia vita?

Tasso fu però anche l’autore di componimenti cavallereschi e di drammi pastorali, soprattutto della Gerusalemme Liberata, il grande poema eroico–cavalleresco in ottave, ispirato alla prima Crociata. La storia del poema è quanto mai complessa e riguarda la lotta dei Cristiani contro i Musulmani per liberare il Santo Sepolcro.

L’inizio del poema è noto: «Canto l’armi pietose e ’l capitano / che il gran sepolcro liberò di Cristo / […]». Combattono, da un lato, il valoroso Goffredo di Buglione insieme a Rinaldo (il progenitore della stirpe estense), Tancredi, la vergine Sofronia e Ottone (destinato a morire); dall’altro, rispondono invece alla feroce lotta il re Aladino con Argante (prode circasso), Clorinda (della quale s’innamora perdutamente Tancredi, avendola veduta fortuitamente mentre si lavava il viso a una fonte), Erminia (figlia del re di Antiochia, che – prigioniera di Tancredi – s’innamorata di lui e ne ha in dono la libertà) e la maga Armida, la quale cerca di distogliere i cavalieri cristiani dalla lotta usando tutte le sue arti magiche, e ci riesce attirando Tancredi nel suo palazzo incantato.

Nel poema ci sono brani bellissimi e molto conosciuti, come quello del primo scontro in duello tra Clorinda e Tancredi, che riconosce nell’aggressiva nemica la ragazza bionda di cui si è innamorato: «[…] / Clorinda intanto ad incontrar l’assalto / va di Tancredi, e pon la lancia in resta. / Ferirsi alle visiere, e i tronchi (le lance) in alto / volaro e parte nuda ella ne resta; / ché, rotti i lacci all’elmo suo, d’un salto / (mirabil colpo!) ei le balzò in testa; / e, le chiome dorate al vento sparse, / giovane donna in mezzo al campo apparse. / Lampeggiàr gli occhi, e folgoràr gli sguardi, / dolci ne l’ira; or che sarian nel riso? / Tancredi, a che pur pensi? a che pur guardi? / non riconosci tu l’amato viso? / Questo è pur quel bel volto onde tutt’ardi; / tuo cor il dica, ov’è ’l suo essempio inciso. / Questa è colei, che rinfrescar la fronte / vedesti già nel solitario fonte. / […]» (c. iii).

Un altro noto e stupendo brano è quello di Erminia tra i pastori; la giovane donna è in fuga (perché inseguita dai cavalieri cristiani) e si dispera piangendo per l’amore impossibile che prova per Tancredi, causa della perdita dei suoi cari e della sua città. Erminia ama perdutamente chi dovrebbe odiare, e sulle sue labbra si mescolano parole d’amore e odio, così come i diversi sentimenti si mescolano nel suo infelice cuore dilaniato: «In tanto Erminia infra l’ombrose piante / d’antica selva dal cavallo è scòrta (trasportata), / né più governa il fren la man tremante, / e mezza quasi par tra viva e morta. / […] / Ella pur fugge, e timida e smarrita / non si volge a mirar s’anco è seguita. / Fuggì tutta la notte, e tutto il giorno / errò senza consiglio e senza guida, / non udendo e vedendo altro d’intorno, / che le lagrime sue, che le sue strida. / […] / Cibo non prende già; ché dei suoi mali / solo si pasce, e sol di pianto ha sete: / ma ’l sonno, che de’ miseri mortali / è co ’l suo dolce oblìo posa e quiete, / sopì co’ sensi i suoi dolori, e l’ali / dispiegò sovra lei placide e chete; / né però cessa Amore con varie forme / la sua pace turbar mentre ella dorme. / […]» (c. vii).

E nel buio di una selva, in un duro e cruento duello, Tancredi uccide Clorinda che non ha riconosciuto (perché porta l’armatura) e che crede un guerriero pagano: «[…] / Tre volte il cavalier la donna stringe / con le robuste braccia, ed altrettante / da que’ nodi tenaci ella si scinge, / nodi di fier nemico, e non d’amante. / […] / Vede Tancredi in maggior copia il sangue / del suo nemico, e sé non tanto offeso. / Ne gode e superbisce. Oh nostra folle / mente, ch’ogn’aura di fortuna estolle (esalta)! / Misero, di che godi? o quanto mesti / fiano i trionfi ed infelice il vanto! / Gli occhi tuoi pagheran (se in vita resti) / di quel sangue ogni stilla un mar di pianto. / […] / Ma ecco omai l’ora fatale è giunta / che ’l viver di Clorinda al suo fin deve. / Spinge egli il ferro nel bel sen di punta, / che vi s’immerge, e ’l sangue avido beve; / […]». Ferita a morte, Clorinda perdona Tancredi chiedendo il suo perdono e pregandolo di somministrarle il battesimo. Tancredi le si avvicina e le scopre il viso: «[…] / La vide, la conobbe; e restò senza / e voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza! / […] / e premendo il suo affanno a dar si volse / vita con l’acqua a chi col ferro uccise. / […]» (c. xii).

In un turbinio di boschi incantati, magie e apparizioni (di angeli, ninfe tentatrici, demoni e parvenze soprannaturali), Rinaldo, Tancredi e Goffredo riescono infine a sconfiggere i nemici e a conquistare la torre di David.    

Torquato Tasso ebbe una vita triste e tormentatissima. Era nato a Sorrento l’11 marzo del 1544, ove visse la sua infanzia, ma la famiglia fu costretta a smembrarsi poiché il padre Bernardo – un poeta in esilio – aveva perso la sua fortuna per motivi politici (compresa la casa di Sorrento) e la madre – una gentildonna napoletana di origine pistoiese – non aveva potuto avere la dote per contrasti familiari. Torquato visse col padre a Roma mentre la madre (che Torquato perse a dodici anni) restò a vivere a Napoli con la sorella Cornelia. Già a quindici anni il poeta aveva iniziato la composizione del poema Gerusalemme liberata, completato nel 1575. La stesura definitiva dell’opera rappresentò per il poeta (uomo fragile e solitario) un lavoro estenuante a causa di dubbi religiosi, di discussioni interminabili con letterati e teologi ai quali aveva affidato la revisione del testo, e di continue riscritture. Si tratta certamente di un capolavoro, i cui personaggi più riusciti hanno ricevuto dalla critica moderna un diverso approfondimento psicologico. Questo poema è stato, però, troppo spesso confrontato (soprattutto dalla critica del passato) col capolavoro di Ariosto, a tutto danno dell’opera del Tasso: due acuti critici, molto avversi a Tasso, furono per esempio Galileo Galilei e Alessandro Manzoni. Nella critica letteraria, tuttavia, il paragone tra due artisti, oltre che un tentativo impossibile e fuorviante, è anche assolutamente improponibile perché non sono confrontabili due autori di diversa personalità e dai diversi mondi poetici, vissuti in due tempi diversi del Rinascimento (l’umanesimo per Ariosto e l’evoluzione verso l’età barocca per Tasso), e soprattutto in due momenti diversi della corte estense (il periodo del grande splendore per Ariosto e il periodo del declino politico–economico e dell’involuzione morale per Tasso). Ariosto e Tasso, in effetti, furono due uomini profondamente differenti: Ariosto era un uomo pacato e quieto con un sano amore per la vita, Tasso era invece un uomo di corte inquieto e pessimista, espressione emblematica dell’inizio della decadenza del Rinascimento, un intellettuale che cercava di reagire e di affermare i principi della libertà e della dignità umana. Tentò, inizialmente, di rappresentare un mondo ricco di passioni eroiche e di nobili virtù ma, in seguito, scoraggiato e disilluso, si arrese sia dal punto di vista umano sia da quello poetico. Subì con angoscia il soffocamento della vita culturale del tempo a causa delle continue costrizioni e interferenze del tribunale dell’Inquisizione: una fissazione religiosa – fatta di paura ansiosa e di scrupoli ossessionanti – lo spinse addirittura ad autoaccusarsi di eresia davanti all’Inquisizione.

In età giovanile, Tasso cercò di raggiungere una stabilità esistenziale nella vita a corte di Ferrara col cardinale Luigi d’Este e col duca Alfonso ii, per il quale curò la rappresentazione dell’Aminta, una favola pastorale che ebbe grande successo. Nel 1577, purtroppo, il poeta iniziò a manifestare i primi segni di una grave malattia psichica con manie di persecuzione e grave depressione psichica: tentò addirittura di accoltellare un servo che credeva infedele. In pieno delirio mentale, fu ricoverato nel 1579 presso l’ospedale S. Anna dove rimase per sette anni come un ricoverato in stato di reclusione. Dimesso per l’intervento di Vincenzo Gonzaga (principe di Mantova e cognato d’Alfonso ii), restò un disadattato in preda a stati di confusione e allucinazioni. Nonostante fosse circondato da fama e considerazione, andò ramingo per tutta l’Italia (anche ritornando nella natia Sorrento) nella speranza continua di ricevere l’“incoronazione”, quella fastosa festa che avrebbe dovuto riconoscerlo come un grande scrittore e come un sommo poeta.

Nell’ultimo periodo, proprio quando il suo equilibrio psichico era più precario e la sua memoria molto compromessa, si dedicò al rifacimento della Gerusalemme liberata che portò alla pubblicazione nel 1593 della Gerusalemme conquistata, che non ebbe però né un gran successo né delle critiche favorevoli. D’altra parte, anche i critici moderni sono del parere che le modifiche e le correzioni, apportate dal Tasso alla sua appassionata e riuscita opera della giovinezza (originate più da preoccupazioni religiose che da intenti letterari), hanno avuto un esito negativo e infelice, trasformando dei personaggi ricchi di vita poetica in figure manierate e caricaturali.

Dal 1585 alla sua morte, avvenuta il 25 aprile del 1595 in un monastero a Roma ove si era ritirato, si dedicò alla composizione delle Rime sacre, che rivelavano pienamente quel senso di stanchezza morale e di frustrazione, vissuto dal poeta negli ultimi tempi della sua vita. Di questo stesso periodo, è il poema Le sette giornate del mondo creato, completato un anno prima della morte e pubblicato postumo, nel quale dominava la lugubre e desolata consapevolezza della precaria caducità di tutte le cose. Nel suo essere sempre in bilico tra il nulla e l’immensità, nel suo vivere una persistente crisi esistenziale, Tasso è apparso ai poeti dei secoli successivi come un poeta “romantico” ante–litteram. Goethe ha dedicato ai conflitti spirituali del grande poeta italiano l’appassionato dramma in versi Torquato Tasso (1790).

Il regista Carlo Ludovico Bragaglia nel 1957 trasse liberamente dal poema epico di Torquato Tasso il film La Gerusalemme liberata, per la sceneggiatura di Sandro Continenza, con Francisco Rabal (Tancredi), Sylva Koscina (Clorinda), Rick Battaglia (Rinaldo), Gianna Maria Canale (Armida), Livia Contardi (Erminia), Andrea Aureli (Argante) e Philippe Hersent (Goffredo di Buglione). Non è certamente un capolavoro ma risponde bene ai canoni del film di avventura di quel periodo cinematografico.

Non possiamo dimenticare la rappresentazione che in Sicilia viene fatta della Gerusalemme Liberata da parte dei tanti pupari che con dedizione cercano di mantenere viva questa grande tradizione culturale orale. Ricordo sopratutto I pupi di Emanuele Macrì, che è stato ospitato presso Il Teatro dei Servi di Roma (Macrì è il puparo più noto al di fuori della Sicilia).

Nel 2010, per la regia di Anna Bonaiuto (Compagnia/Produzione: Fondazione De Sanctis), Anna Bonaiuto, presso il teatro Petruzzelli di Bari, ha letto i più bei passi de La Gerusalemme Liberata, e la lettura (assolutamente gratuita sino a esaurimento posti) è stata introdotta da una relazione critica della professoressa Nadia Fusini.

mercoledì 17 aprile 2013

Angelica di Ludovico Ariosto: il carattere dietro il sorriso


Ludovico Ariosto                                Angelica
in un ritratto di Tiziano                       in un disegno di Gustavo Dorè


Ludovico Ariosto, nato a Reggio Emilia l’8 settembre del 1474 da nobile famiglia (il padre Nicolò era ferrarese e la madre Doria era di origine reggiana), fu il primo di dieci figli ed ebbe un’infanzia serena, dedicandosi agli studi con l’aiuto di vari precettori. Rimase grato soprattutto al monaco agostiniano Gregorio di Spoleto per i suoi dotti insegnamenti umanistici; fu quindi orientato dal padre verso gli studi di legge. Poeta cortigiano, visse a Ferrara (in quel periodo la vera capitale del Rinascimento) sotto la protezione degli Estensi, godendo presso la loro corte di feste, di allegre riunioni e di vivaci rappresentazioni teatrali. Nel 1500, con la morte del padre finì purtroppo il periodo della spensieratezza e dovette pensare all’amministrazione familiare, al suo futuro e alla sistemazione dei numerosi fratelli e sorelle.
Fu un uomo sempre in bilico tra distrazione e ragionevolezza, fantasticheria e senso pratico, voglia di matrimonio e desiderio d’incarichi religiosi (prese gli ordini minori, entrando nel 1504 al servizio del cardinale Ippolito d’Este). Ebbe due figli da due donne umili: da Maria, una domestica, ebbe il figlio Giambattista; da Orsolina, divenuta poi moglie di un suo fattore, ebbe l’amatissimo figlio Virginio. S’innamorò poi di Alessandra Benucci, una nobildonna fiorentina moglie dell’amico Tito Strozzi, che sposò segretamente nel 1528 dopo la morte del marito. Il matrimonio rimase sempre segreto e i due sposi non vissero mai insieme, perché la moglie non voleva perdere la tutela dei figli e l’usufrutto del grande patrimonio del marito mentre Ludovico non voleva rinunciare ai benefici ecclesiastici degli ordini minori: fu però una unione quieta e felice.

Nel 1522, Ludovico ebbe dalla famiglia estense il governo della Garfagnana (travagliata da lotte e atti di brigantaggio) e seppe mostrare doti di saggio amministratore. Tornato a Ferrara nel 1525, acquistò la «parva domus» ove poté, grazie a una ricca pensione annua, abbandonarsi a quella piena vita letteraria cui aspirava. Nel 1531 incontrò a Venezia Tiziano che eseguì il suo famoso ritratto, conservato presso la National Gallery di Londra. Morì a Ferrara il 6 luglio del 1533), nell’intimità familiare, quando era già divenuto molto famoso in Italia e in Europa.

Uomo molto sensibile al grottesco e all’allegoria, fu autore dei Carmina (scritti in latino) e delle Satire e delle Rime (scritte in volgare). Ariosto è conosciuto soprattutto per il bellissimo poema in ottave Orlando Furioso (l’aggettivo “Furioso” deve intendersi nel senso latino di “Pazzo”), che – considerato il monumento più importante della poesia del Rinascimento – conobbe una fortuna immensa sia nel Cinquecento sia nei secoli successivi, venendo tradotto in molte lingue. Il poema inizia con i notissimi versi: «Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, / le cortesie, l’audaci imprese io canto, / […] / Nata pochi dì inanzi era una gara / tra il conte Orlando e il suo cugin Rinaldo; / che ambi avean per la bellezza rara / d’amoroso disio l’animo caldo. / […]» (c. I). Con questa opera, alla quale lavorò per moltissimi anni fino a partire dal 1504,  rielaborando diverse edizioni via via sempre più complete, tentò di dare un nobile seguito all’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo (Scandiano, 1441– 1494), riprendendo gli argomenti dei poemi cavallereschi e rifacendosi ai temi della tradizione carolingia e bretone. Affrontò, tuttavia, i classici temi dell’avventura, della cortesia e dell’eroismo con grande senso del fiabesco, descrivendo imprese assolutamente al di fuori della realtà, vissute tra sogno e finzione.

L’argomento del poema è noto: si narra la guerra tra Saraceni e Cristiani ai tempi di Carlo Magno ma gli argomenti amorosi vi sono privilegiati. Ricordiamo, infatti, l’amore di Orlando e Rinaldo per la principessa Angelica bella ma volitiva: «questa, se non sapete, Angelica era, / del gran Can del Catai la figlia altiera. / […]» (c. XIX). Anche il guerriero saraceno Ferraù s’innamora di Angelica: «E perché era cortese, e non avea forse / non meno de’ due cugini il petto caldo / […]». E ancora altri hanno «il petto acceso» da Angelica, come Sacripante, il re pagano di Circassìa. Angelica «Fugge tra selve spaventose e scure, / per lochi inabitati, ermi e selvaggi» mentre «Segue Rinaldo, e d’ira si distrugge» (c. I). A causa dello stesso amore ossessivo, il paladino per antonomasia Orlando dimentica i suoi doveri di guerra e si lancia all’inseguimento dell’amata: «L’ha cercata per Francia: or s’apparecchia / per Italia cercarla e per Lamagna (Germania), / per la nuova Castiglia e per la vecchia, / e poi passare in Libia il mar di Spagna. / […]» (c. XII). Ma Angelica s’innamora invece dell’umile e giovanissimo soldato saraceno, Medoro, che soccorre ferito e che alla fine sposa: «Quando Angelica vide il giovinetto / languir ferito, assai vicino a morte, / […] / insolita pietade in mezzo al petto / si sentì entrar per disusate porte, / che le fe’ il dur cor tenero e molle, / e più quando il suo caso egli narròlle. / […] / Poi vistone i costumi e la beltade, / roder si sentì il cor d’ascosa (invisibile) lima; / roder si sentì il core, e a poco a poco / tutto infiammato d’amoroso fuoco./ […]» (c. XIX). Il matrimonio di Angelica e Medoro suscita però la furiosa gelosia di Orlando che distrugge impazzito tutto ciò che incontra sulla sua strada: «Angelica e Medor con cento nodi / legati insieme, e in cento lochi vede. / Quante lettere son, tanti son chiodi / coi quali Amore il cor gli punge e fiede (ferisce). / Ma sempre più raccende e più rinnova, / quanto spegner più cerca, il rio sospetto: / […] / Quanto più cerca ritrovar quiete, / tanto ritrova più travaglio e pena; / […] / Di pianger mai, mai di gridar non resta; / né la notte né ’il dì si dà mai pace. / Fugge cittadi e borghi, e alla foresta / sul terren duro al discoperto giace. / […] / Di crescer non cessò la pena acerba, / che fuor di senno al fin l’ebbe condotto. / […] / In tanta rabbia, in tanto furor venne, / che rimase offuscato in ogni senso. / […]» (c. XXIII).

Ma altri amori si agitano nel poema: il crudo saraceno Ruggero s’innamora di Bradamante, guerriera cristiana e sorella di Rinaldo, convertendosi e divenendo un coraggioso eroe cristiano. Isabella s’invaghisce di Zerbino, e Fiordiligi di Brandimarte. è evidente che, in questa opera, l’amore spadroneggia: ora è un amore torbido e sensuale oppure un amore casto e tenero, ora è invece una passione nobile e alta oppure qualcosa di tumultuoso e travolgente che porta alla perdita del controllo di sé. Alla fine del poema, in modo assolutamente surreale, il cugino Astolfo è costretto a recuperare il senno d’Orlando sulla luna, affinché egli rinsavisca riprendendo il suo giusto ruolo di paladino nella guerra santa.

Ariosto visse una vita senza eccessi, senza passioni politiche, senza grandi entusiasmi civili, senza conflitti interiori o dubbi, e forse anche senza senso religioso ma seppe coltivare nel suo percorso esistenziale l’amore per la poesia e quello per la donna amata, alla quale tributò sempre una costante e tenace passione e alla quale dedicò molte delle sue rime. A differenza di Dante e Petrarca, non mostrò nessuna tendenza al vagheggiamento o alla trasfigurazione dell’essere femminile ma amò la sua donna con l’occhio lucido di chi guarda la realtà e la subisce, accettandola con serena superiorità e ripiegandosi egoisticamente nel suo individualismo. La critica lo definì il «poeta dell’armonia», per evidenziare la sua caratteristica di voler comporre i contrari e il suo saper contemplare in modo calmo e distaccato sia la vita che le sue occasioni, affidate sia alla «virtù» dell’uomo sia alla «fortuna» della sorte. In ciò, l’Ariosto uomo dagli interessi terreni e amante della vita privata (e nel profondo, indifferente al soprannaturale) fu certamente il maturo protagonista umanistico di una nuova civiltà, il Rinascimento.

lunedì 8 aprile 2013

Catullo e un umiliante amore senza speranza


Gaio Valerio Catullo


Catullo è il primo dei grandi poeti latini e per definizione il poeta dell’Amore, ispirato come fu dalla passione per Lesbia (Clodia, sorella del tribuno Clodio) che era divenuta sì il centro e la sostanza della sua poesia ma che aveva fatto di lui un amante infelice e perennemente umiliato.

Quasi tutti conosciamo molto bene le tre deliziose poesie riportate, perché le abbiamo lette e tradotte a scuola (tratte da: Le Poesie” nella traduzione di Mario Ramous, Garzanti, Milano 1996).

Poesia 3
Pianga Venere, piangano Amore
e tutti gli uomini gentili:
è morto il passero del mio amore,
morto il passero che il mio amore
amava più degli occhi suoi.
Dolcissimo, la riconosceva
come una bambina la madre,
non si staccava dal suo grembo,
le saltellava intorno
e soltanto per lei cinguettava.
Ora se ne va per quella strada oscura
da cui, giurano, non torna nessuno.
Siate maledette, maledette tenebre
dell’Orco che ogni cosa bella divorate:
una delizia di passero m’avete strappato.
Maledette, passerotto infelice:
ora per te gli occhi, perle del mio amore,
si arrossano un poco, gonfi di pianto.

In questa poesia il poeta è triste per la tristezza di Lesbia, che ha perso il suo passerotto tanto amato; la perdita dell’uccellino diviene un motivo di riflessione sulla morte: la strada oscura dalla quale nessuno ritorna, le tenebre maledette che divorano ogni cosa bella. è probabile che Catullo presentisse la sua fine prematura (morì intorno ai trent’anni).

Poesia 6
Godiamoci la vita, mia Lesbia, l’amore,
e il mormorio dei vecchi inaciditi
consideriamolo un soldo bucato.
I giorni che muoiono possono tornare,
ma se questa nostra breve luce muore
noi dormiremo un’unica notte senza fine.
Dammi mille baci e ancora cento,
dammene altri mille e ancora cento,
sempre, sempre mille e ancora cento.
E quando alla fine saranno migliaia
per scordare tutto ne imbroglieremo il conto,
perché nessuno possa stringere in malie
un numero di baci così grande.

I versi di questa poesia sono bellissimi e molto copiati, e questi versi di Catullo hanno ispirato il titolo del libro Dammi mille baci. Veri uomini e vere donne nell’antica Roma (Feltrinelli, Milano 2009) di Eva Cantarella, professore ordinario di Istituzioni di Diritto romano presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Milano (ove insegna anche Diritto greco antico) ed esperta di morale e comportamenti sessuali dei romani. Eva Cantarella è però anche esperta di amore e costumi sessuali nei greci (L’amore è un Dio. Il sesso e la polis, Feltrinelli, Milano 2009). Di baci, ha scritto in modo mirabile un poeta “maledetto” che ha saputo comporre grandi e tenere poesie d’amore, il francese Paul Verlaine (1844-1896), legato da una tempestosa relazione ad Arthur Rimbaud (1854-1891), altro poeta maledetto dalla vita dissoluta ma dai caldi sentimenti (avventuriero, commerciante d’armi e forse di schiavi in Africa), morto giovane dopo un’atroce malattia e l’amputazione di una gamba. Il loro rapporto tormentato si concluse con due colpi di pistola sparati contro Arthur da un Verlaine completamente impazzito, che per questo atto di violenza subì l’onta della galera (dovette scontare due anni di carcere). Verlaine ha composto la poesia Il bacio, della quale riporto alcuni versi: «Bacio! rosa malva nel giardino delle carezze! / […] / Sonoro e grazioso, Bacio, divino Bacio! / Voluttà incomparabile, ebbrezza inenarrabile! / […] / Io, povero trovatore di Parigi, posso soltanto / offrirti questo mazzetto di strofe infantili: / sii benevolo e, come premio, sulle scherzose labbra / di Una che conosco, Bacio, scendi e ridi!» (da Poesie, traduzione di Lanfranco Binni, Garzanti, Milano 1993).

Poesia 8
Povero Catullo, basta con le illusioni:
se muore, credimi, ogni cosa è perduta.
Una fiammata di gioia i tuoi giorni
quando correvi dove lei, l’anima tua voleva,
amata come amata non sarà nessuna:
nascevano allora tutti i giochi d’amore
che tu volevi e lei non si negava.
Una fiammata di gioia quei giorni.
Ora non vuole più: e tu, coraggio, non volere,
non inseguirla, come un miserabile, se fugge,
ma con tutta la tua volontà resisti, non cedere.
Addio, anima mia. Catullo non cede più,
non verrà a cercarti, non ti vorrà per forza:
ma tu soffrirai di non essere desiderata.
Guardati, dunque: cosa può darti la vita?
Chi ti vorrà? a chi sembrerai bella?
chi amerai? da chi sarai amata?
E chi bacerai? a chi morderai le labbra?
Ma tu, Catullo, resisti, non cedere.

Questa terza poesia di Catullo esprime tutto il tumulto dei sentimenti provocato nel poeta dall’abbandono da parte di Lesbia e dall’atroce delusione per l’amore perduto: la passione è stata come una «fiammata di gioia», ha inondato i giorni del poeta e Lesbia «amata come amata non sarà nessuna», da chi sarà baciata o chi amerà o chi bacerà giacché il suo vero amore ormai è lontano? Le continue offese di Lesbia costringono Catullo ad amarla sempre di più ma ne spengono l’affetto e il rispetto, ed egli chiede ai suoi Dei di rendere fermo il suo animo per far cessare la lunga e nefasta passione (che chiama «orribile morbo») e per fargli smettere di vivere in quella pena vergognosa.

Attraverso gli sprazzi autobiografici dei suoi carmi, è possibile la ricostruzione ideale della breve vita del poeta. Catullo nacque da una benestante e autorevole famiglia nell’87 a.C. (ma forse piuttosto nell’84 a.C.) in provincia di Verona, ove espletò gli studi e compose le prime liriche. Si spostò quindi a Roma, che divenne la sua seconda patria e che lo attrasse per la ricca vita intellettuale e per la sfrenata mondanità. Ricco, bello, colto ed elegante, fu un vero play-boy dell’antichità, aperto ai tanti amanti di entrambi i sessi (per esempio il bel giovinetto Giovenzio). La sua vita mutò radicalmente quando conobbe Clodia e non rimase nient'altro che lei. Era una delle tre sorelle di Publio Clodio e moglie di Quinto Metello Celere (che forse avrebbe avvelenato). Soprannominata Lesbia da Lesbo, l’isola dell’amore, coinvolse Catullo in una passione esclusiva e dolorosa, scandita da insulti, separazioni e riconciliazioni. Clodia tradì e umiliò Catullo che tentò di resisterle e di rassegnarsi. Nella poesia 11 Catullo scriveva: «Furio e Aurelio, fedeli compagni di viaggio / di Catullo […] / alla donna che amo riferite per me queste poche / e amare parole. Viva pure felice e si goda i suoi trecento amanti / che insieme è capace di stringere a sé tra le braccia / senza amarne nessuno davvero, e a vicenda fiaccando / le reni di tutti; / né si curi, come un tempo faceva, di questo mio amore, / che è caduto per colpa di lei come un fiore / sul ciglio di un prato non appena il suo stelo è reciso / dall’aratro che passa.».

Il suo allontanamento dall’amata, provocò il tramonto di Catullo, precipitato ulteriormente dal dolore per la morte del fratello, cui era legatissimo. Sulla sua tomba volle scrivere: «Venuto fra tante distese di genti e di acque, ti reco, o fratello, l’offerta di un rito dolente per rendere l’omaggio supremo dovuto alla morte per dire vane parole al tuo cenere muto, poiché la fortuna mi tolse la tua umana presenza, sventurato fratello a me ingiustamente rapito. […]». E alla morte del fratello e alla visita della sua tomba presso il promontorio Reteo, in Bitinia, dedicò due carmi commoventi (il 68 e il 108), nei quali piangendo salutava il fratello e seppelliva con la sua morte ogni sua speranza di possibile felicità per il futuro (per la composizione del sonetto In morte del fratello Giovanni, Ugo Foscolo trasse ispirazione proprio dal carme 108). Nelle Nugae, il poeta romano raccontò ancora la storia del suo amore infelice e in una elegia epistolare (l’unica rimasta) rivisse la primavera del suo sentimento per Clodia.

Catullo morì giovanissimo a Roma nel 54 a.C., distrutto dalla tubercolosi e dalla malinconia. Di lui restano 116 Carmi, raccolti dopo la sua morte e comprendenti 60 poesie di metrica varia, due epitalami (componimenti in lode degli sposi), due poemetti mitologici e 52 tra elegie e brevi poesie in distici elegiaci.

Uomo sensibilissimo, ellenizzante nel suo ispirarsi ai lirici greco–alessandrini, fu però originale nell’usare con sapiente abilità nuove metriche e più audaci forme poetiche. I critici lo pongono a cavallo tra la poesia arcaica e quella classica moderna. Interprete di forte individualismo, nelle sue liriche tenere e appassionate trasfuse tutta la sua vicenda umana e la sua travagliata intimità, influenzando non poco altri importanti poeti, quali Orazio e Virgilio. Non si occupò mai di politica (dalla quale era addirittura disgustato), sebbene bruciasse di sdegno per le vergogne pubbliche del tempo. Da poeta distaccato e intimista, scrisse sempre e soltanto di sé e per sé, con verità di sentimenti e con integrità umana, trattando temi di grande libertà, quasi eversivi nel loro essere in rottura con i costumi del tempo.

Il letterato e critico fiorentino Guido Mazzoni (18591943), ottimo traduttore di Catullo, definì il poeta come «uomo tra uomini, romano tra romani, ma con vivezza gallica […] artista sovrano […] forse il più “moderno”, il più “nostro”, per la materia e per gli spiriti, umanamente, fra tutti gli antichi poeti». Il critico catanese Concetto Marchesi (18781957) sosteneva invece che Catullo aveva fatto entrare nella poesia l’uomo («homo»), facendone uscire il cittadino («civis»).