sabato 14 settembre 2013

Goethe, Werther e il suicidio per amore



Johann Wolfgang Goethe

Qualche anno prima delle Ultime lettere di Jacopo Ortis (1802) di Ugo Foscolo (1778-1827), un altro testo aveva celebrato, in forma epistolare e con la medesima grande ispirazione, l’amore e il suicidio: era il romanzo I dolori del giovane Werther (1774) del poeta e scrittore tedesco Johann Wolfgang Goethe (1749-1832).

Ortis e Werther sono fratelli nel mal d’amore e nell’infelice destino finale. Il romanzo epistolare di Goethe – la forma si presta mirabilmente a legare i momenti lirici con i brani di tipo narrativo – è stato definito il «primo successo mondiale tedesco»; di carattere autobiografico, privilegia la forza della fantasia nella voluttà dell’amore e della morte. Simbolo dell’amore romantico, questo testo è riuscito a esprimere una condizione umana universale, influenzando innumerevoli generazioni di giovani, anche se dai moralisti del tempo fu accusato d’indurre gli amanti infelici al suicidio.

Tra il maggio e il settembre del 1771 Goethe era stato a Wetzlar come praticante presso il tribunale e si era innamorato di Charlotte Buff (fidanzata a un altro, J.Ch. Kestner): di ritorno a Francoforte, il poeta traspose questo amore irrealizzabile nel suo romanzo epistolare. Lo stesso Goethe scrisse ammise di avere «ucciso il suo eroe per salvare se stesso».

Werther è un giovane sensibile ed entusiasta; quando si innamora, si sente cambiato – quasi cresciuto d’importanza – e scrive a Guglielmo (il romanzo consiste per l’appunto nelle lettere inviate da Werther all’amico tra il 4 maggio e il 6 dicembre del 1771): «Ma io l’ho avuta: ed io ho sentito il suo cuore e la sua anima, la cui presenza mi faceva essere più di quello che io sono, perché ero tutto ciò che io posso essere […] Sento che ella mi ama! Mi ama… Come sono diventato caro a me stesso! […] come appaio elevato ai miei stessi occhi, da quando ella mi ama! è presunzione questa? Od è invece la coscienza dei veraci sentimenti che ci legano? […] O Guglielmo, la nostra anima che cosa diverrebbe senza l’amore? Simile ad una lanterna magica senza luce.». Quando però deve rinunziare a Carlotta (che diviene sposa del buon Alberto, cui era stata promessa dalla madre morente che le aveva affidato i numerosi fratellini), Werther scrive: «[…] da allora il sole, la luna e le stelle possono continuare tranquillamente il loro corso, io non so se sia giorno o notte, e tutto il mondo scompare d’intorno.». Guglielmo è preoccupato per le parole di Werther, che paragona il suicidio alle grandi imprese, che è preso da una furente e sconfinata passione, e che parla di «esiziale passione che consumerà tutte le tue energie» e di desiderio di «distruggere le sue pene nella morte che tutto annienta».

Quando ormai sanno che debbono lasciarsi, Carlotta dice all’amato Werther: «Noi sopravviveremo! […] Ma, Werther, ci ritroveremo? Potremo riconoscerci? Che cosa crede, che cosa dice lei?»; e Werther, con gli occhi pieni di lacrime, le risponde: «Ci rivedremo! Quaggiù o lassù, noi ci rivedremo! […] Ci rivedremo, esclamai, ci ritroveremo, e ci riconosceremo fra tutti.». E poi scrive all’amico: «Non riuscii a proseguire. Guglielmo, doveva ella farmi una domanda simile, mentre avevo il cuore colmo dell’angoscia e dell’addio?».

Straziato, per il bene di entrambi, Werther decide di allontanarsi e Carlotta sposa il suo Alberto. Werther è talmente triste per la lontananza che così scrive all’amico: «Non so precisamente perché mi alzi, perché vada a dormire. Mi manca il lievito che mette in fermento la mia vita; è svanito il fascino che mi teneva desto sino a tarda notte; è finito l’incanto che al mattino mi destava dal sonno. […] Se ella mi dimenticasse diventerei pazzo. […] Io… suo marito […] Ella, mia moglie! […] Devo dirtelo? Perché no, Guglielmo? Ella sarebbe stata più felice con me che con lui. Oh, non è questo l’uomo che possa appagare tutti i desideri del suo cuore. Una certa mancanza di sensibilità, una noncuranza… chiamala come vuoi…; ma io non sento il suo cuore battere all’unisono con quello di lui, su qualche libro prediletto, dove invece il mio cuore e quello di Carlotta hanno un medesimo battito […] Vedi, quello che mi turba di più è che Alberto non mi sembra così felice come… sperava, come potrei esserlo io se… […] Ah, qual vuoto! Quale orribile vuoto sento nel mio petto! […] ho tante cose e senza di lei ogni cosa si dissolve […] Nell’animo mi si nasconde la fonte di ogni dolore […] Soffro molto perché non ho più quella che era per me l’unica gioia della mia vita, la santa forza animatrice con cui creavo mondi intorno a me.».

Dinanzi agli splendori di quella Natura che prima lo esaltavano, Werther si sente come «una fonte inaridita… un secchio svuotato… un uomo finito»; ritornato a casa accanto a Carlotta, scrive angosciato all’amico (nell’ultima lettera inviatagli il 6 dicembre del 1771): «Ella non ha coscienza di preparare un veleno che ci trascinerà entrambi in un precipizio […] Ella sente quanto io soffra; oggi il suo sguardo mi è sceso fin nel fondo dell’anima […] Come la sua immagine mi perseguita! Che io vegli o sogni, mi riempie tutta l’anima. Qui, se chiudo gli occhi, qui sulla mia fronte, dove si racchiude tutta la potenza visiva, stanno i suoi occhi neri. Qui! Non te lo so spiegare. Io chiudo gli occhi, ed eccoti come un oceano davanti a me, dentro di me, occupano tutti i miei pensieri.». Da medico esperto delle tante sofferenze umane, intravvedo in Werther tutti i segni funesti di una bruttissima depressione! La tristezza e lo scoraggiamento hanno infatti distrutto l’armonia dello spirito di Werther: si sente «escluso da ogni possibilità per l’avvenire», sente la sua passione sconfitta e inappagata, e muove sempre più inesorabilmente verso la sua triste fine; tra l’altro, anche la Natura sembra porsi contro di lui, distruggendo con una tremenda inondazione la valle che viene trasformata in un mare tempestoso: il giovane sente quasi l’impulso a inabissarsi ma non è ancora arrivata la sua ora. Con voluttà Werther sogna di stringere Carlotta e di sommergere di baci la sua bocca ma avverte anche il desiderio di sparire: «Sollevare il sipario ed introdurvisi: questo è tutto! Perché indugiare, perché temere? Forse perché c’è ignoto cosa avviene al di là di esso? O perché di là non si ritorna? Perché la nostra mente è fatta in modo da pensare che vi siano tenebre e caos là dove non sappiamo nulla di certo.».

Di giorno in giorno, di ora in ora, la sua decisione distruttiva si rafforza; in un’ultima lettera scrive all’amata: «Ho deciso, Carlotta, voglio morire; io ti scrivo senza romantiche esaltazioni, calmo, la mattina dell’ultimo giorno in cui ti vedrò. […] Non è disperazione: è la consapevolezza di aver esaurito il mio compito e di sacrificarmi per te. Sì, Carlotta, perché dovrei tacerlo? Uno di noi tre deve sparire, e voglio essere io quello! […] Ero tranquillo, cominciando a scrivere, ed ora… ora piango come un bambino, pensando al rigoglio di vita che si svolge intorno a me […] Io voglio, devo! Come sono felice di aver deciso!». Werther e Carlotta s’incontrano, e lei si fa leggere da lui le tristi vicende amorose narrate da Ossian; spinti dall’emozione del racconto, si perdono in un abbraccio e in un bacio appassionato, e Carlotta fugge «tremando d’amore e ira» e dicendo che non s’incontreranno mai più. Ritornato a casa distrutto, Werther aggiunge alla lettera per Carlotta la sua ultima testimonianza: «Per l’ultima volta apro gli occhi […] o Natura, metti il lutto! Tuo figlio, il tuo amico, il tuo amante, sta vivendo la sua fine […] Che cosa significa morire? La morte è un sogno […] Come posso io morire? Morire? Che cosa significa? Questa parola non ha senso per me. […] Perdonami, perdonami! Ieri… Ieri avrebbe dovuto essere l’ultimo istante della mia vita. Mio angelo! Per la prima volta, per la prima volta, questo sentimento pieno di desiderio mi ha sconvolto: ella mi ama! Mi ama! Il sacro fuoco che fluiva dalle tue labbra brucia ancora in me; un nuovo ardore è nel mio cuore. Perdonami, perdonami! […] Questo braccio l’ha stretta, queste labbra hanno tremato sulle sue labbra, questa bocca ha sussurrato sulla sua. Ella è mia! Sei mia, Carlotta, per sempre! […] Io ti precedo […] io ti verrò incontro e ti abbraccerò, e resterò con te in un eterno abbraccio al cospetto dell’infinito. Non sogno, non vaneggio! Vicino alla tomba tutto è più chiaro. Noi vivremo, ci rivedremo […] il mio destino si compie! Carlotta, addio! Addio!». E Werther si spara alla testa con una delle due pistole avute in prestito da Alberto e spolverate proprio da Carlotta, che alla notizia del suicidio resta così sconvolta da far temere per la sua vita. [I brani riportati sono tratti da: Goethe J.W., I dolori del giovane Werther, a cura di Angelo G. Sabatini, Newton Compton Editori, Roma, 1993]

Come scrive Angelo G. Sabatini, il curatore dell’edizione integrale del testo di Goethe del quale mi sono servita per le citazioni, questo romanzo è «la storia di un amore moderno vissuto nello spirito della tragedia antica […] il simbolo della passione sfrenata e travolgente, a cui si attribuisce la paternità dello “Sturm und Drang” […] Werther ama; Carlotta ama l’amore di Werther.». Ricordo che lo “Sturm und Drang” (letteralmente “Tempesta e Impeto”) fu il movimento cultural–letterario fiorito tra il 1770 e il 1785 e divenuto sinonimo di ribellismo giovanile, che incarnò la rivolta dei giovani intellettuali contro le superate condizioni socio–politiche della Germania del tempo.

Johann Wolfgang Goethe nacque a Francoforte Sul Meno il 28 agosto del 1749 in un’agiata famiglia (era il primogenito di un consigliere imperiale), e si dimostrò un genio precoce imparando facilmente diverse lingue straniere (oltre alla lingua tedesca, parlava il latino, il greco, il francese, l’italiano, l’inglese e l’ebraico). Compì i suoi studi prima a Francoforte, quindi a Lipsia per gli studi di Legge, e infine a Strasburgo. Quelli furono anni d’intenso coinvolgimento culturale e di svariati interessi (tra i quali la medicina, le arti figurative, il disegno e la musica) ma anche di dispiaceri e preoccupazioni (una breve e infelice relazione sentimentale con Kathchen Schonkopf e una seria malattia, caratterizzata da coliche e vomito ematico, al suo ritorno a Francoforte nel 1768). In quel periodo, venendo in contatto con l’ambiente religioso dei pietisti, Goethe conobbe Susanne von Klettenberg, una signora quarantacinquenne amica della madre, che lo ispirerà per il personaggio dell’«anima bella» nel Meister.

Nel 1770 s’innamorò di Friederike Brion, la figlia del pastore protestante di Sesenheim, e quest’amore gli diede così tanta gioia e soddisfazione da ispirargli delle bellissime poesie, mentre il senso di colpa seguito alla fine dell’idillio gli suggerì le parti più coinvolgenti del rapporto di Faust con Margherita. Nel 1771 Goethe scrisse una prima versione (la seconda fu pubblicata nel 1773) del dramma Gotz von Berlichingen, imperniato su un cavaliere dell’epoca della Riforma che con il suo “ribellismo libertario” aveva sollevato i giovani scrittori dello Sturm und Drang. In quel periodo, le sue poesie grondavano una “consapevolezza orgogliosa” della lotta e del dolore degli uomini, mentre vivido era il “senso della vita dell’umanità come acqua che scorre dalla sorgente al mare”: si è parlato di «momento titanico» di Goethe, che ispirò i versi del cosiddetto “Ciclo del viandante” (1772-1774) e che si concluse (quando il poeta era già a Weimar) con il Viaggio d’inverno nello Harz (Harzreise im Winter).

Nel 1771 Goethe pubblicò I dolori del giovane Werther (Die Leiden des jungen Werther) e il successo fu così travolgente e ko scandalo suscitato tale che fecero di Goethe un idolo e una stella splendente nel firmamento della scena letteraria internazionale.

Goethe s’innamorò di nuovo di Lili Schònemann, figlia sedicenne di un banchiere, e questo diverso sentimento gl’ispirò numerose poesie, il dramma Clavigo (che ha per protagonista un fidanzato infedele), e quello che è stato considerato un “dramma per innamorati”, Stella, dedicato al tema del “doppio matrimonio”. Anche questo fidanzamento finì male e la rottura arrivò nel 1775, anno in cui Goethe divenne il precettore del duca di Weimar Karl August (di appena diciotto anni) e si trasferì a Weimar, piccola capitale che contava allora appena seimila abitanti di un ducato minuscolo e arretrato.

Nel decennio 1775-1778 lo scrittore fu interessato allo studio delle scienze (mineralogia, botanica, geologia, ottica, anatomia e osteologia) e fu coinvolto in una lunga relazione sia sentimentale sia intellettuale con Charlotte von Stein, con la quale scambiò un intenso carteggio, della quale educò il figlio, e alla quale dedicò molte bellissime poesie. Lavorava intanto alla stesura del Meister e del Faust.

Stanco di Weimar, Goethe decise un viaggio in Italia sotto falso nome, alla ricerca della classicità, della grecità e della “naturalezza” italiana (nell’armonia magica tra natura e cultura). Fu a Roma nel 1786 (scrisse: «Sì, io posso dire che solamente a Roma ho sentito cosa voglia dire essere un uomo.»), visitò poi la Sicilia e Palermo (scrisse: «L’Italia senza la Sicilia, non lascia nello spirito immagine alcuna. È in Sicilia che si trova la chiave di tutto.»), andò a Napoli salendo anche sul Vesuvio (scrisse: «Napoli è un paradiso! Si vive in una specie di ebbrezza e di oblio di se stesso!») e in Trentino, rimanendo in Italia sino al 1788 (ritornerà in Italia per un breve viaggio a Venezia nel 1790). Le note su queste travolgenti esperienze di viaggio apparvero nel 1828, ben quarant’anni dopo, con il titolo Viaggio in Italia (Italienische Reise).

Ritornato a Weimar (ove trovò una fredda accoglienza), lasciò Charlotte von Stein e si legò a Cristiane Vulpius (una giovane fioraia che sposerà nel 1806 e dalla quale avrà il figlio August), trovandosi in crisi con la società mondana che frequentava e con l’ambiente della stessa corte. Nel 1792 seguì il duca di Weimar nella campagna contro la Francia e visse la sconfitta e la penosa ritirata. Di questo periodo è il forte sodalizio con Schiller (nell’interesse comune per il Classicismo), che in qualche modo lo salvò della grave crisi di quegli anni. In quegli anni, però, questo classicismo in un autore inizialmente romantico non fu capito e – venerato in Europa per come aveva saputo descrivere lo sviluppo della personalità dell’uomo (centro e misura di tutte le cose) – Goethe si sentì invece piuttosto isolato in patria (in effetti, fu proprio lui a scegliere quella sorta d’isolamento sociale e spirituale).

Nel 1809 pubblicò Le affinità elettive (Die Wahlverwandtschaften) e si diede alla composizione della sua autobiografia Della mia vita. Poesia e verità (Aus meinem Leben. Dichtung ung Wahrheit), uscita un anno prima della sua morte nel 1831. Tra gli anni 1814-1819, incontrò Marianne von Willemer e fu affascinato dalla poesia orientale; il risultato di queste esperienze fu il volume di poesie Divano occidentale–orientale (Westöstlicher Divan). Negli anni 1821-1823, dopo la morte della moglie nel 1816, s’innamorò di nuovo di una giovanissima donna, Ulrike von Levetzow.

Negli ultimi anni Goethe scrisse moltissimo e riuscì a portare finalmente a termine il Meister (storia del giovane Wilhelm Meister, che rinuncia alla realtà della vita per il teatro e che giunge infine a capire la necessità del singolo di rinunciare alla sua felicità per il bene comune), che era costituito da una prima parte, intitolata Meister, Gli anni dell’apprendistato (Wilhelm Meisters Lehrjahre), che fu pubblicata fra il 1795 e il 1796, e da una seconda parte dal titolo Meister, Gli anni di peregrinazione di Wilhelm Meister (Wilhelm Meisters Wanderjahre) che uscì postuma. Completò anche il Faust, “magnum opus”, la cui trama verte sul «vendere l’anima al diavolo» in cambio di potere nel mondo terreno, al quale lavorò per circa sessant’anni, la cui prima parte era uscita nel 1808, mentre la seconda parte in cinque atti fu pubblicata postuma l’anno stesso della morte del poeta. Esso ha ispirato compositori per opere liriche, poemi sinfonici e cantate, autori di teatro, movimenti poetici, correnti filosofiche e molto altro ancora.

Goethe morì a Weimar il 22 marzo 1832 per un probabile attacco cardiaco; riposa nella Cripta dei Principi nel Cimitero storico della piccola cittadina.

giovedì 12 settembre 2013

Ugo Foscolo, il poeta affetto dal mal d’amore



Ugo Foscolo

Riporto due sonetti di argomento amoroso tra i dodici approvati dal Foscolo (il poeta ha scritto molto più di quanto non abbia poi pubblicato), ricchi di alta tensione lirica e di grande maturità nonostante siano stati scritti in un’età giovanile.

Sonetto IV
Perché taccia il rumor di mia catena
di lagrime, di speme e d’amor vivo
e di silenzio, ché pietà mi affrena
se con lei parlo, o di lei penso e scrivo.

Tu sol mi ascolti, o solitario rivo,
ove ogni notte Amor seco mi mena:
qui affido il pianto, e i miei danni descrivo,
qui tutta verso del dolor la piena.

E narro come i grandi occhi ridenti
arsero d’immortal raggio il mio core;
come la rosea bocca e i rilucenti

odorati capelli, ed il candore
delle divine membra, e i cari accenti
m’insegnaron alfin pianger d’amore.

Sonetto V
Così gl’interi giorni in lungo incerto
sonno gemo! Ma poi quando la bruna
notte gli astri nel ciel chiama e la luna,
e il fresco aer di mute ombre è coverto;
           
            dove selvoso è il piano e più deserto
allor lento io vagando ad una ad una
palpo le piaghe onde la rea fortuna
e amore e il mondo hanno il mio core aperto.

            Stanco mi appoggio or al troncon d’un pino,
ed or prostrato ove strepitan l’onde,
con le speranze mie parlo e deliro.

            Ma per te le mortali ire e il destino
spesso obliando, a te, donna, io sospiro:
luce degli occhi miei chi mi t’asconde?
[Da “Sonetti” (1802-1803 )]

Questi versi guardano certamente al Petrarca, forse anche all’Alfieri, ma soprattutto ai poeti elegiaci latini. I sonetti furono ispirati quasi sicuramente da Isabella Roncioni, bellissima diciottenne «dalle chiome bionde e dagli occhi azzurri nuotanti» (incontrata dal poeta a Firenze), che egli chiamava la «divina fanciulla». I versi lasciano intravvedere un amore violento ma struggente per la donna del sogno, che Ugo in realtà dimenticò ben presto per una nuova e più ardente passione amorosa. Allo stesso modo che in altri sonetti e nell’Ortis, ritorna il tema della solitudine quale compagna fedele di tutti gli ammalati di mal d’amore, quasi un “esilio” dalla realtà. A proposito di questi sonetti, Foscolo scriveva: «Non è professione di letteratura ma bisogno imperioso dell’anima: non atteggiamento… ma febbre o delirio o beatitudine, o tormento fugace: un brivido d’amore: un rimpianto, un ricordo, un presentimento: un istante di vita interiore, singolarmente intenso».

La vita del poeta non fu felice ma egli seppe esprimere appieno tutte le novità e le contraddizioni del suo tempo. Primo di quattro figli, nacque – da un chirurgo veneziano e da una donna greca di nascita e religione – a Zante, una delle isole Ionie appartenenti alla Repubblica Veneziana, il 6 febbraio del 1778. Da ragazzo visse a Spalato e aveva appena dieci anni quando perse il padre; nel 1792 si trasferì a Venezia (ove la madre era andata a vivere), centro culturale allora molto libero e vivido, ove Ugo (il suo vero nome era però Niccolò) si dedicò a studi intensi ma irregolari, ricco di entusiasmo, di spirito d’avventura e di fervidi sentimenti repubblicani. Giovanissimo, s’innamorò di Isabella Teotochi Albrizzi (di origini greche), donna bella e intellettuale, della quale frequentò con assiduità il salotto letterario (il poeta la vagheggerà nei suoi versi ora con il nome di Temira, ora con quello di Laura). Nel 1797, a diciannove anni, fece rappresentare a Venezia la sua prima tragedia, il Tieste, che scagliandosi contro la tirannide arieggiava l’Alfieri e che gli diede immediatamente una discreta fama sia come artista sia come liberale.

Aperto agli ideali di libertà e alle aspirazioni repubblicane, amò la carriera militare e si arruolò come volontario nell’esercito napoleonico, anche se – con il trattato di Campoformio e l’intenzione di Bonaparte di sacrificare la Repubblica Veneta (e Venezia) all’Austria – vide cadere miseramente tutti i suoi romantici sogni di democrazia. Si trasferì allora a Milano (capitale della Repubblica Cisalpina e sede della cultura più nobile), ove ebbe occasione di conoscere Ippolito Pindemonte e Parini; frequentò anche Vincenzo Monti, della cui moglie Teresa Pikler – donna di bellezza straordinaria – s’innamorò appassionatamente ma infelicemente. Nel 1801 visse il grande dolore del suicidio del fratello Gian Dionigi, causato dallo scandalo creato da un’appropriazione indebita di denaro pubblico; entrambi i fratelli, accesi idealisti e non esperti di problemi pratici, avevano manie di grandezza e amavano la vita dispendiosa. Anche in Ugo ritroviamo l’ossessione del suicidio, inteso come massima espressione di virilità e ben esemplificato nelle sue opere; non per nulla Jacopo Ortis muore suicida: «[…] e sotto il verso “Libertà va cercando ch’è si cara” scrisse l’altro verso che gli vien dietro “Come sa chi per lei vita rifiuta” […]».

Aveva intanto cominciato a lavorare alle Ultime lettere di Jacopo Ortis (che completò nel 1802), nelle quali in modo acceso e autobiografico rappresentava un uomo in crisi esistenziale col suo complesso e tormentato mondo spirituale (vera proiezione fantastica del poeta). Jacopo è un giovane esule a Venezia dopo il trattato di Campoformio, che si tormenta con le sue passioni e inquietudini, in bilico tra l’amore per Teresa (la donna amata) e quello per l’Italia (la patria amatissima). In un’introduzione all’ultima edizione dell’Ortis (1817), parlando di un diario di vita vissuta, Foscolo narrava delle «sue angosciose passioni com’ei le provava d’ora in ora, e le andava di giorno in giorno scrivendo». Per l’esaltata e cupa disperazione e per l’irresponsabile giustificazione ideale del suicidio, il libro fu considerato dalla critica come un testo moralmente malsano, in grado d’influenzare negativamente la gioventù del tempo. Nella lettera del 14 maggio, scritta di sera, con moderna acutezza psicologica ci presenta la romantica rappresentazione di un incontro amoroso: «[…] Sì; ho baciato Teresa; i fiori e le piante esalavano in quel momento un odore soave; le aure erano tutte armonia; i rivi risuonavano da lontano; e tutte le cose s’abbellivano allo splendore della Luna che era tutta piena della luce infinita della Divinità. Gli elementi e gli esseri esultavano nella gioia di due cuori ebbri di amore – ho baciata e ribaciata quella mano – e Teresa mi abbracciava tutta tremante, e trasfondea i suoi sospiri nella mia bocca, e il suo cuore palpitava su questo petto: mirandomi co’ suoi grandi occhi languenti, mi baciava, e le sue labbra umide, socchiuse, mormoravano su le mie – ahi! che ad un tratto mi si è staccata dal seno quasi atterrita: chiamò sua sorella, e s’alzò correndole incontro. Io me le sono prostrato, e tendeva le braccia come per afferrar le sue vesti – ma non ho ardito di rattenerla, né richiamarla. La sua virtù – e non tanto la sua virtù quanto la sua passione, mi sgomentava: sentiva e sento rimorso di averla io prima eccitata nel suo cuore innocente. Ed è rimorso – rimorso di tradimento! Ahi mio cuore codardo! – Me le sono accostato tremando: – Non posso essere vostra mai! – e pronunciò queste parole dal cuore profondo, e con un’occhiata con cui parea rimproverarsi e compiangermi. […]». In questo brano dominano i grandi sentimenti e il mito dell’amore romantico, con i palpiti veri e sensuali di un uomo e di una donna fatti di carne e sangue, senza smancerie o artificiosità arcadico-pastorali. Quando Jacopo ha già deciso la sua morte ed è combattuto tra la passione amorosa e il triste disinganno, scrive: «I nostri occhi morenti chiedono altrui qualche stilla di pianto, e il nostro cuore ama che il recente cadavere sia sostenuto da bracci amorose, e cerca un petto dove trasfondere l’ultimo nostro respiro. Geme la Natura perfin nella tomba, e il suo gemito vince il silenzio e l’oscurità della morte […] Forse Teresa verrà solitaria sull’alba a rattristarsi dolcemente su le mie antiche memorie, e a dirmi un altro addio. No! la morte non è dolorosa. Che se taluno metterà le mani nella sepoltura e scompiglierà il mio scheletro per trarre dalla notte, in cui giaceranno, le mie ardenti passioni, le mie opinioni, i miei delitti – forse; non mi difendere, Lorenzo; rispondi soltanto: “Era uomo, e infelice”.».

Ugo Foscolo aveva intanto conosciuto e amato Isabella Roncioni, che gli diede nuova ispirazione per la seconda redazione dell’Ortis. Nel 1802 compose l’ode All’amica risanata, dedicata stavolta alla contessa Antonietta Fagnani Arese con cui visse una turbolenta e torbida relazione sentimentale. Nel 1803 uscirono le edizioni definitive delle Odi e dei Sonetti. Dopo aver ripreso il servizio nell’esercito, Ugo fece continui viaggi per l’Italia e la Francia; a Valenciennes conobbe una giovane prigioniera inglese, dalla quale ebbe la figlia Floriana, che lasciò alla madre e che ritrovò adulta nel periodo inglese della sua vita. Nel 1807 pubblicò i Sepolcri, che costituiscono l’ultima sua grande opera di poesia, con la quale – in un angoscioso presentimento della morte – si rivolgeva al lettore da uomo ad uomo. Ispirato dalla letteratura sepolcrale inglese, vi presentava le sue meditazioni liriche sul tema della tragicità della morte, sulle memorie che durano nel tempo e sulle tombe quale unica possibile «illusione» di un muto colloquio tra i vivi e i morti e quale luogo esclusivo in grado di «render l’uomo vittorioso del nulla e della morte», al di là delle devastazioni del tempo. Nel 1809, per un periodo brevissimo, fu professore universitario d’eloquenza a Pavia (in una «solitudine, solitudine, senza pace»), ricoprendo quella cattedra che era stata tenuta dal Monti e che purtroppo gli fu revocata dopo pochi mesi. Ebbe appena l’opportunità di tenere cinque lezioni di valore e la superba prima lezione inaugurale richiamò un grande pubblico di studenti e di ascoltatori, compreso il Monti. Nel 1811 compose la tragedia Aiace, che fu rappresentata alla Scala senza troppo successo e che fu censurata perché ritenuta di sentimenti e intenti anti–napoleonici. Si struggeva, intanto, alla composizione dell’opera in versi Grazie, rimasta incompiuta e costituita da tre inni dedicati all’opera delle Grazie confortatrici dell’uomo (fu pubblicata postuma nel 1848 e secondo alcuni critici rappresenta la punta più alta della poesia di Foscolo).

Caduto Napoleone e scoppiati i gravi disordini di Milano, gli Austriaci giunsero a ristabilire l’ordine e, almeno in un primo momento, sembrarono mostrare un volto da illuminati liberatori; nel 1815, però, poiché l’Austria chiedeva il giuramento di fedeltà agli ex ufficiali napoleonici, Ugo scelse “l’Esilio”, riparando prima in Svizzera e quindi in Inghilterra, ove inizialmente fu accolto con stima e considerazione. Si dedicò alla traduzione dell’Iliade e alla saggistica critica, collaborando con le maggiori riviste inglesi e riuscendo a cogliere nella sua acuta analisi letteraria la grande «poesia della storia». In seguito, questi buoni rapporti si guastarono a causa del carattere contraddittorio di Foscolo e delle sue tristi vicende personali.  Uomo dal temperamento malinconico ma volubilissimo, romantico e passionale, irritabile e collerico, intellettuale avido di esperienze sempre nuove e trasgressive ma esposto a grandi “illusioni” e ad altrettanto grandi “disillusioni”, Foscolo subì il contrasto tra la smisurata grandezza dei suoi sogni e la misera mediocrità della vita d’ogni giorno.

Grande individualista, da cittadino, visse importanti avventure civili e campagne militari mentre, da uomo, fu dominato da una persistente inquietudine sentimentale, abbandonandosi a innumerevoli amori infelici e non riuscendo a riconoscere la sincerità dell’amore; trascurò per esempio il fedele sentimento di Quirina Mocenni Magiotti, che egli chiamava la «donna gentile» e che da lontano gli fu sempre vicina con affetto e generosità tentando costantemente di richiamarlo in Toscana. A proposito dei suoi numerosi amori, Ugo scriveva: «Parmi che la coscienza di amare, e di sentirsi l’anima piena di qualche cosa che la riscaldi, sia un istinto ed una necessità, alla quale i mortali debbono in un modo o in un altro soddisfare».

In Inghilterra Foscolo fu un uomo perennemente in crisi: amareggiato, sfiduciato, non stimato, sradicato da tutto ciò che amava ma soprattutto perseguitato dai creditori (non sapeva limitare le spese e viveva sempre al di sopra dei suoi redditi). Sperperò in modo futile persino il piccolo patrimonio della figlia Floriana (rimasta orfana della madre), che lo seguì nel suo girovagare per abitazioni diverse e sempre più modeste nel tentativo di sfuggire tutti coloro ai quali doveva del denaro. Fu addirittura arrestato per debiti nel 1824! L’anno dopo si ammalò gravemente di fegato e morì a Turnham Green (Londra) il 10 settembre del 1827, distrutto dalla malattia e dagli affanni economici. Fu seppellito nel cimitero di Chiswick ma dal 1871 le sue ossa riposano nella chiesa di S. Croce a Firenze, città che aveva celebrato nei Sepolcri.

Di Foscolo è rimasto un vasto epistolario che, raccogliendo le vicende di tutta una vita, ci ha fatto conoscere i suoi difetti e i suoi limiti caratteriali ma anche la sua grande caratura di artista. Con la sua attenzione alla dimensione psicologica e ai valori assoluti dell’esistenza, Ugo divenne per i suoi contemporanei e per gli uomini delle generazioni successive il romantico modello di vita, l’amato e ammirato leader civile di gran fascino, il forte ispiratore delle grandi passioni del Risorgimento.

P.S. La tragedia in cinque atti Aiace (che fu un fiasco clamoroso alla Scala di Milano nel 1811) è, in effetti, una favola che racconta la gara fra Aiace (il Telamonio) e Ulisse per entrare in possesso delle armi del morto Achille (l’esercito sta per Aiace mentre Agamennone e i re parteggiano per Ulisse che le ha guadagnate grazie alle sue astuzie). L’orgoglioso Aiace, accusato da Ulisse di essere un traditore (ha sposato, senza amarla, Tecmessa, un’orfana principessa troiana), si uccide raccomandando ai suoi l’obbedienza al re Agamennone. Questa tragedia sembra non essere mai rappresentata in epoca recente. Nell’'articolo La tragedia classica italiana: questa sconosciuta, si fa rilevare come la tragedia italiana (nata ai primi del ‘500) costituisca un «genere della letteratura classica italiana che più degli altri ha patito gli improperi della critica romantica e post–romantica»; si osserva, inoltre, come basti leggere una qualsiasi storia del teatro come, per esempio, quella assai celebre di Silvio D’Amico (“Storia del teatro drammatico”, Bulzoni, Roma 1982) per «rendersi conto di quanto sia profonda l’incomprensione della modernità nei riguardi di quei poemi». Aveva scritto Silvio D’Amico che il classicismo era il suo difetto maggiore: «Il letterato italiano credette che ad attinger lo spirito tragico gli bastasse guardare ai modelli dell’antichità», e – alludendo alle dispute di letterati e critici cinquecenteschi sulle famose unità aristoteliche – aggiungeva: «Le torture di quelle strettoie si estesero da quel secolo [il XVI] ai successivi; né per abbatterle ci volle da meno del Romanticismo.». Continua l’estensore dell’articolo: «Questo giudizio di D’Amico non era altro che uno dei tanti di una lunga serie, che da De Sanctis, attraverso Carducci e Croce, è giunto fin nel cuore del XX secolo. Questo vero e proprio odio metafisico per la tragedia italiana ha fatto sì che essa sia praticamente scomparsa dagli scaffali delle moderne librerie, dove possiamo trovare nelle sezioni dedicate al teatro, certamente cattive traduzioni in italiano di Shakespeare, Schiller o Goethe, o al massimo qualche volume di tragedie alfieriane, ma dell’antico teatro italiano si è come perduto il ricordo. Le antologie di letteratura poi a mala pena menzionano qualche nome, ma nessuna o quasi ne riporta il benché minimo brano. I teatri stabili a loro volta hanno cancellato dai cartelloni la messa in scena di qualcuna di quelle antiche opere drammaturgiche.». Questa “damnatio memoriae” (condanna della memoria) non sembrerebbe giustificata né da un punto di vista culturale, né da un punto di vista artistico: «Senza infatti la feroce determinazione dei tragedi italiani del ‘500, che sulla scorta degli antichi modelli classici, resuscitarono di bel nuovo un genere letterario e una forma compositiva, […], non avremmo sicuramente, né le tragedie shakespeariane, né quelle spagnole del “siglo de oro”, e neppure, infine, la tragedia classica francese di Corneille e Racine.». Ne deriva che sarebbe importante conoscere i migliori tragediografi classici italiani: «Molti di loro infatti furono dei veri poeti e i loro drammi degni di essere letti, rappresentati ed imitati.». E proprio contro questa condanna della memoria una sezione del sito sulla Poesia Classica (http://www.poesiaclassica.it/tragediografi.html) è dedicata alla tragedia classica, e in essa il testo dell’Aiace di Foscolo può essere reperito facilmente e letto nella sua superba interezza
(http://www.liberliber.it/mediateca/libri/f/foscolo/ajace/pdf/ajace_p.pdf).