sabato 30 giugno 2012

Virginia Woolf, la letteratura e il cinema



Virginia Woolf


Virginia Woolf era molto interessata al cinema. Ha scritto un saggio dal titolo The cinema così ricco di humour “british” e denso di sottotesti culturali che ritengo interessante portare alla vostra attenzione. 

Il testo di questo “essay” è stato scritto nell’aprile del 1926, subito dopo che la Woolf aveva finito la prima parte To the Lighthouse di Time Passes – scritto tra il 30 aprile e il 25 maggio del 1926 – e del saggio Impassioned Prose su Thomas De Quincey, scritto tra il 10 e il 13 maggio del 1926. Di The Cinema la scrittrice parlò nel settembre del 1925 in una lettera a Thomas Sterns Eliot e in una lettera a Vita Sackville-West del 13 aprile del 1926 lo definì «un articolo piuttosto brillante». Il testo – inizialmente destinato alla direttrice di Vogue Dorothy Todd – uscì su «Arts» (New York) nel giugno 1926 e su «Nation & Athenaeum» nel 3 luglio del 1926. (Per un esame integrale del testo, vedere: http://www.woolfonline.com/?q=essays/ cinema/overview)

L’inizio dell'articolo è veramente scoppiettante. Scrive la Woolf: «Certe persone sostengono che il nostro lato selvaggio non esista più e che abbiamo raggiunto l’ultimo stadio della civiltà, dove tutto è già stato detto e dove è ormai troppo tardi per mostrarsi ambiziosi. Ma questi cosiddetti filosofi hanno presumibilmente dimenticato il cinema, o, perlomeno, non hanno mai avuto modo di vedere i “selvaggi” del XX secolo guardare i film.». Continua la scrittrice, commentando che questa gente non si è mai seduta davanti a uno schermo per riflettere che – a parte i vestiti indossati e i tappeti sotto i piedi – non esiste poi una grande differenza tra loro, spettatori, e gli uomini nudi che battendo due informi pezzi di ferro l’un contro l’altro anticipavano la musica di Mozart. Sostiene la Woolf: «Tutto è un insieme di rumori misti e confusi che genera caos. È come se stessimo scrutando dal bordo di un calderone dentro il quale, lentamente, sembrano ribollire frammenti di tutte le forme e di tutti i sapori, e dove, ogni tanto, qualche forma più grande tenta di sollevarsi per sfuggire al caos. Eppure, a prima vista, l’arte del cinema sembra semplice, persino stupida. […] L’occhio assorbe tutto istantaneamente e il cervello, piacevolmente stimolato, si appresta a guardare le immagini che si succedono, senza rifletterci troppo. […] L’occhio si trova in difficoltà. L’occhio vuole aiuto. L’occhio dice al cervello: “Sta accadendo qualcosa che assolutamente non comprendo. C’è bisogno di te”. Entrambi guardano il re, la nave, il cavallo e immediatamente il cervello capisce che hanno assunto una qualità che non appartiene a una semplice fotografia della vita reale. In verità essi non sono diventati più belli, per quanto possano essere belle le immagini, ma dovremmo definirli maggiormente reali – il nostro vocabolario è miseramente insufficiente – o reali ma con una diversa percezione della realtà rispetto a quella della vita quotidiana? Li vediamo come essi sono quando noi non siamo presenti. Vediamo la vita come essa appare quando non vi prendiamo parte direttamente. Mentre fissiamo l’immagine, sembriamo distaccati dalla meschinità della vera esistenza. Il cavallo non ci calpesterà. Il re non stringerà la nostra mano. L’onda non bagnerà i nostri piedi. Da questa posizione di vantaggio, mentre guardiamo i nostri antenati, abbiamo tutto il tempo per provare pietà e divertimento, per generalizzare e attribuire a un uomo le caratteristiche di tutta la sua razza.».

Sostiene Virginia che, mentre guardiamo la barca che naviga e s’infrange, guardiamo un mondo che è già sommerso; le spose sono diventate madri e quello che è stato vinto o perso è ormai morto e sepolto: «La guerra aveva generato un baratro ai piedi di tutta questa innocenza e ignoranza, ma, nonostante ciò, si continuava a ballare, a fare piroette, ad affannarsi e a desiderare, così che il sole potesse splendere e le nuvole diradarsi fino a scomparire.». Continua la Woolf che i registi sembrano, però, insoddisfatti di quelle che sono ovvie fonti d’interesse, come il passare del tempo e la suggestività della realtà, e desiderano migliorare e cambiare, creare una propria arte come se fosse possibile: «Molte altre arti sembravano pronte a offrire il loro aiuto. La letteratura, per esempio. Tutti i più famosi romanzi del mondo, con i personaggi più celebri e le scene più famose, sembravano semplicemente domandare di essere trasformati in film. Cosa poteva essere più facile e più semplice? Il cinema si avventava sulla sua preda con enorme rapacità e fino ad oggi ha sempre continuato a nutrirsi largamente del corpo della sua sfortunata vittima. Ma, per entrambi, i risultati si sono rivelati disastrosi.». Secondo Virginia, quest’alleanza è innaturale perché l’occhio e il cervello vengono separati in modo spietato mentre cercano di lavorare insieme: «L’occhio dice: “Ecco Anna Karenina”. Una donna sensuale vestita di velluto nero e perle si presenta davanti a noi. Ma il cervello dice: “Questa donna può essere tanto Anna Karenina quanto la regina Vittoria”. E questo perché il cervello conosce Anna quasi esclusivamente dalla sua personalità, dal suo charme, dalla sua passione e dalla sua disperazione. Invece il cinema pone tutta l’enfasi sui suoi denti, le sue perle, il suo velluto nero. Poi l’occhio vede che “Anna s’innamora di Vronskij”: la signora in velluto nero cade tra le braccia di un gentiluomo in uniforme e la coppia si bacia con grande passione, grande risoluzione e infiniti gesti sul sofà di un’impeccabile biblioteca, mentre il giardiniere sta casualmente falciando il prato.». Secondo la Woolf, in questo modo, si riesce a farsi strada attraverso i romanzi più famosi del mondo soltanto a fatica e si riesce ad articolare in parole di una sillaba diversa: un bacio significa amore, un sorriso è la felicità, un carro funebre raffigura la morte: «Nessuna di queste immagini ha il minimo legame con il romanzo di Tolstoj e, soltanto quando smetteremo di cercare di collegare le immagini con il libro, riusciremo a immaginare, da alcune scene del tutto casuali – come il giardiniere che falcia l’erba – ciò che il cinema sarebbe in grado di fare se fosse lasciato libero di esprimersi attraverso i propri stratagemmi.». La studiosa inglese si chiede allora quali siano questi stratagemmi e in che modo il cinema potrebbe camminare eretto se la finisse di essere un parassita.

E tenta di azzardare alcune ipotesi, partendo da qualche indizio. In proposito, la Woolf ricorda una proiezione del “Dr. Caligari” [fa riferimento a “Il gabinetto del dottor Caligari (Das Cabinet des Dr. Caligari)”, un film muto del 1920 diretto da Robert Wiene, considerato il simbolo del cinema espressionista, in quanto – ruotando sul tema del doppio e sulla quasi impossibile distinzione tra allucinazione e realtà – si abbandona a una scenografia allucinata e allucinante fatta di forme che si muovono a zigzag]. Improvvisamente, era comparsa in un angolo dello schermo un’ombra che sembrava un girino e che aveva cominciato a gonfiarsi enormemente e a tremare, suggerendo per qualche istante «qualche mostruosa fantasia della mente malata di un pazzo». Scrive Virginia: «Per un istante sembrava che il pensiero venisse trasmesso meglio attraverso le immagini, piuttosto che attraverso le parole. Il girino mostruoso e tremante sembrava incarnare la paura stessa e non l’affermazione: “sono spaventato”. In effetti, l’ombra era casuale e l’effetto non voluto. Ma se, a un certo punto, un’ombra può suggerire molto più dei gesti e delle parole di persone realmente impaurite, sembra chiaro che il cinema possieda innumerevoli simboli per tutte quelle emozioni che finora non hanno mai trovato il modo d’esprimersi. […] Esiste dunque un qualche linguaggio segreto che possiamo sentire e vedere ma non pronunciare? E se è così, come si potrebbe renderlo visibile? Esiste cioè una qualche caratteristica del pensiero che può essere resa visibile senza l’aiuto delle parole? Se esiste, possiede velocità e lentezza, immediatezza, precisione e circonlocuzione vaporosa.». Continua la Woolf che nei momenti d’intensa emozione possiede anche il potere di creare delle immagini insieme al bisogno di scaricare il fardello a qualcun’altro: «Per qualche strana ragione, l’apparenza del pensiero risulta più bella, più comprensibile e più disponibile del pensiero stesso. Come tutti sanno, in Shakespeare le idee più complesse formano catene d’immagini che il lettore deve saper scalare, cambiare e girare, perché possa raggiungere la luce del giorno. Naturalmente le immagini del poeta non sono né incastonate nel bronzo né tracciate a matita. Sono un insieme di mille suggerimenti in cui la facoltà visiva è solo la più ovvia, oltre che la più importante. […] Il cinema deve evitare tutto ciò, perché accessibile solo e unicamente all’universo delle parole. Eppure, se i nostri pensieri e i nostri sentimenti sono collegati alla vista, allora qualche residuo di emozione visiva, che non è di alcuna utilità né al pittore né al poeta, può ancora essere sfruttata dal cinema. Sembra molto probabile che tali simboli saranno del tutto dissimili dagli oggetti reali che vediamo davanti a noi. In futuro, i film saranno composti da qualcosa di astratto, qualcosa che si muove con arte conscia e controllata, qualcosa che richiede il delicato aiuto delle parole e della musica, pur adoperandole in modo servile, per rendersi intelligibile. Allora, quando verrà trovato qualche nuovo simbolo per esprimere il pensiero, il regista avrà enormi ricchezze a sua disposizione. L’esattezza della realtà e il suo nuovo sorprendente potere suggestivo saranno a portata di mano. Eccoli in carne e ossa tutte “le Anna” e tutti “i Vronskij”. Se, in questa realtà, il regista potesse infondere emozione, se potesse animare con il pensiero la forma perfetta, allora custodirebbe un grande tesoro da tramandare. […] Dovremmo vedere queste emozioni mescolarsi e influenzarsi a vicenda. Dovremmo vedere violenti cambiamenti d’emozione prodotti dal loro scontro. I contrasti più fantastici potrebbero scintillare davanti a noi a una velocità che lo scrittore solo invano può cercare di cogliere Il passato potrebbe scorrere liberamente, le distanze sarebbero eliminate e gli abissi che sconvolgono i romanzi (per esempio quando Tolstoj deve passare da Levin ad Anna, provocando enormi scossoni che bloccano la nostra partecipazione) potrebbero scomparire attraverso l’uso dello stesso sfondo o la ripetizione di determinate scene. Nessuna fantasia sarebbe allora troppo improbabile o senza sostanza.».

E conclude la Woolf che, al momento, ancora nessuno può dire come tutto ciò debba essere tentato o realizzato: «E, qualche volta, al cinema, nel bel mezzo di una grande destrezza e immensa competenza tecnica, il sipario si apre su una bellezza sconosciuta e inaspettata. Ma soltanto per un momento. Perché qualcosa di strano è accaduto: mentre tutte le altre arti sono nate nude, questa, la più giovane, è nata completamente vestita. Riesce a dire tutto prima di avere qualcosa da dire. È come se la tribù selvaggia, invece di trovare due pezzi di ferro con cui giocare, avesse trovato, lungo la riva, violini, flauti, sassofoni, trombe e pianoforti di Erard e Bechstein, e avesse cominciato con grande energia, ma senza conoscere nemmeno una sola nota, a suonarli tutti contemporaneamente.» (traduzione a cura di Francesca Andreoli, Mara Casali e Luca Pasquale; vedere:
http://www.almapress.unibo.it/fl/numeri/numero3/prospero/woolf.htm)

Il 15 aprile del 2012 su «Repubblica» (pp. 52-53) – “In un articolo del 1926, inedito in Italia la scrittrice attacca il grande schermo: è un'arte parassita: divora la letteratura - Virginia Woolf” – è stato pubblicato il testo di Virginia Woolf  sopra riportato, ritenuto come inedito in Italia. Questo testo è stato anticipato, perché era in uscita il saggio a cura di Sara Matetich Virginia Woolf – Sul cinema (Mimesis, 2012), contenente due testi inediti della Woolf. In effetti, come riportato (su http://georgiamada.wordpress.com/2012/04/16/virginia-woolf-e-il-cinema/), il testo proposto da Repubblica è stato già pubblicato da Liliana Rapello nel suo bel Voltando pagina (Il saggiatore, 2011) nel settore Arti (cfr pp. 489-493) con il titolo “Il cinema”.


P.S. Nel 2002 Stephen Daldry (l’autore di Billy Elliot) ha girato il film The Hours, presentato al Festival di Berlino – soggetto di Michael Cunningham, premio Pulitzer per l’omonimo romanzo, e sceneggiatura del commediografo David Hare – con Nicole Kidman (interpreta Virginia Woolf ed è stata premiata con l’Oscar per la miglior attrice), Julianne Moore (Laura Brown), Meryl Streep (Clarissa Vaughan), Ed Harris (Richard Brown, il poeta), Jeff Daniels (Louis Walters), Stephen Dillane (Leonard Woolf), John C. Reilly (Dan Brown) e Miranda Richardson (Vanessa Nessa Bell, la sorella di Virginia Woolf). In un’ideale identificazione, il film intreccia le vite di tre donne, in tre diversi periodi di tempo, unite da un capolavoro di letteratura, che è appunto La signora Dalloway (Mrs Dalloway) di Virginia Woolf. Il film racconta «tre donne differenti e ognuna vive una bugia.». Nel 1941, a Londra, Virginia Woolf lotta contro il suo disperato mal di vivere: lascia un biglietto al marito Leonard, lo ringrazia per la felicità che le ha dato e si annega nel fiume Ouse. Nel 1951, a Los Angeles, Laura Brown – casalinga depressa e incinta, moglie e madre silenziosamente infelice di un reduce di guerra – inizia a leggere il libro della Woolf e ripensa alla sua vita, rinunciando al suicidio. Infine, nel 2001, a New York, Clarissa Vaughan, un’editrice newyorchese lesbica, vede se stessa come una moderna signora Dalloway (ha lo stesso nome della protagonista del libro della Woolf ed è soprannominata signora Dalloway), mentre organizza un’ultima festa per l’amico ed ex amante Richard, un poeta che sta morendo di AIDS (è il figlio abbandonato da Laura Brown) e che si butta dalla finestra dopo avere ringraziato Clarissa per la felicità che gli ha dato. Pur riconoscendo la qualità del film, piuttosto criticamente, ha scritto Pino Farinotti nel suo dizionario del cinema: «La qualità letteraria del romanzo si traduce nel più verboso esercizio della storia del cinema, dove l’intelligenza, tanto sottile e snob quanto letteraria (appunto), non riesce mai a essere afferrata e consumata dallo spettatore. Si assiste a esibizioni di problematiche e dolori riferiti a una nicchia umana di cultura esclusiva e aristocratica che appartiene a così pochi e “particolari” da smarrire un significato che valga per i poveri mortali.». Il critico Stefano Lo Verme nel Morandini 2007 si esprime invece in modo più positivo: «La magnifica sceneggiatura riesce a catturare lo spettatore rendendolo partecipe delle emozioni e dei tormenti delle tre donne del film, ciascuna delle quali si trova ad affrontare i propri demoni e a dover fare i conti con l’angoscia che le opprime; la narrazione è costantemente accompagnata dall’avvolgente colonna sonora di Philip Glass, che fa da perfetto contrappunto musicale agli stati d’animo delle protagoniste. In definitiva, The hours si propone come una toccante riflessione sulla felicità, sul significato della vita e sulle ore che scandiscono inesorabili il tempo della nostra esistenza.». Concludono, invece, la loro recensione i Morandini (il Morandini, Zanichelli editore): « E se, invece, il merito principale del film, calibratissimo giuoco degli specchi che assomiglia alla vita, fosse delle sue attrici? […] Rimane il senso del racconto di Cunningham, e della Woolf: storie di donne che si accontentano di “restare vive per gli altri” perché al fondo di ogni vita rimangono le ore, una dopo l’altra.».



sabato 23 giugno 2012

Antonio Battistella, un ottimo attore del teatro e della TV



Antonio Battistella


Nel 1912, il 26 giugno di cento anni fa, nasceva a Ferrara Antonio Battistella, attore colto e sensibile, dall’umanità ricca e sfaccettata, oggi purtroppo alquanto dimenticato, tranne che da coloro che lo hanno visto recitare (e io sono tra questi).

Di origini veneziane, crebbe a Genova ove si laureò in Economia e Commercio nel 1934 ma, poiché era nato per una carriera artistica, frequentò l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica di Roma diplomandosi nel 1939.

Nel 1945 lavorò con Luchino Visconti, recitando al Teatro Eliseo di Roma ne La macchina da scrivere di Jean Cocteau (con Laura Adani, Ernesto Calindri/Tino Carraro, Vittorio Gassman, Nora Ricci, Renata Seripa e Lida Ferro) e all’Olimpia di Milano ne La Via del Tabacco di Erskine Caldwell (con Ernesto Calindri, Renata Seripa, Vittorio Gassman, Lida Ferro, Laura Adani e Tino Carraro).

Alla fine degli anni Quaranta iniziò a recitare al Piccolo Teatro di Milano allora ai suoi inizi e con la regia di Giorgio Strehler, in spettacoli rimasti indimenticabili, ha attraversato tutto l’immenso teatro classico e moderno insieme con i grandi maestri della recitazione del dopo guerra.

Nel 1947 fu ne L’albergo dei poveri di Maxim Gorkij (con Tino Bianchi, Lilla Brignone, Marcello Moretti, Salvo Randone, Gianni Santuccio, lo stesso Strehler, Elena Zareschi e Lia Zoppelli), Le notti dell’ira di Armand Salacrou (con Tino Bianchi, Lilla Brignone, Elio Jotta, Gianni Santuccio e Lia Zoppelli), Il mago dei prodigi di Pedro Calderón De La Barca (con Carlo D’Angelo, Franco Parenti, Gianni Santuccio ed Elena Zareschi) e Arlecchino servitore di due padroni di Carlo Goldoni (con Anna Maestri, Franco Parenti, Gianni Santuccio, Roberto Villa ed Elena Zareschi). 

Nel 1947-48 recitò ne I giganti della montagna di Luigi Pirandello (con Lilla Brignone, Franco Parenti, Camillo Pilotto, Gianni Santuccio ed Esperia Sperani), L’uragano di Alexandr Ostrovskij (con Lilla Brignone, Camillo Pilotto, Gianni Santuccio ed Esperia Sperani), Delitto e castigo da Fedör Dostoevskij (con Lilla Brignone, Ettore Conti, Franco Parenti, Camillo Pilotto, Gianni Santuccio e Giancarlo Sbragia), La selvaggia di Jean Anouilh (con Lilla Brignone, Camillo Pilotto, Gianni Santuccio, Esperia Sperani e Sergio Tofano), Riccardo ii di Shakespeare (con Lilla Brignone, Carlo D’Angelo, Mario Feliciani, Nino Manfredi, Franco Parenti, Camillo Pilotto, Gianni Santuccio e Giancarlo Sbragia), La tempesta di Shakespeare presentata al Giardino di Boboli per l’xi Maggio Musicale Fiorentino (con Lilla Brignone, Carlo D’Angelo, Giorgio De Lullo, Mario Feliciani, Nino Manfredi, Camillo Pilotto e Gianni Santucci), e Romeo e Giulietta di Shakespeare per la regia di Renato Simoni al Teatro Romano per l’Estate Teatrale Veronese (con Edda Albertini, Lilla Brignone, Giorgio De Lullo, Renzo Ricci e Gianni Santuccio).

Nel 1948-49 fu ne Il corvo di Carlo Gozzi al Teatro La Fenice per il ix Festival Internazionale del Teatro Venezia (con Marina Bonfigli, Alberto Bonucci, Giorgio De Lullo, Mario Feliciani, Paolo Stoppa e Olga Villi), Il gabbiano di Anton Cechov (con Lilla Brignone, Giorgio De Lullo, Mario Feliciani, Anna Proclemer e Gianni Santuccio), La bisbetica domata di Shakespeare (con Silverio Blasi, Alberto Bonucci, Lilla Brignone, Marcello Moretti e Gianni Santuccio), e Gente nel tempo di Ivo Chiesa (con Lilla Brignone, Mario Feliciani e Giovanna Galletti).

Nel 1949-50 recitò ne La parigina di Henry Becque (con Lilla Brignone, Mario Feliciani, Antonio Pierfederici, Sergio Tofano e Franca Valeri), I giusti  di Albert Camus (con Lilla Brignone, Piero Carnabuci, Mario Feliciani e Antonio Pierfederici), e Gli innamorati di Carlo Goldoni  al Teatro Sociale Lecco (con Marina Dolfin, Ottavio Fanfani, Diego Michelotti, Rosalba Oletta e Antonio Pierfederici).

Nel 1950-51 fu la volta di Estate e fumo di Tennessee Williams (con Lilla Brignone, Marina Dolfin, Gina Graziosi, Marcello Moretti e Gianni Santuccio), Il misantropo di Molière al Teatro Sociale Lecco (con Lia Angeleri, Lilla Brignone, Marcello Moretti, Rosalba Oletta, Antonio Pierfederici e Gianni Santuccio), La morte di Danton di Georg Büchner (con Warner Bentivegna, Lilla Brignone, Marina Dolfin, Diego Michelotti, Antonio Pierfederici, Enrico Maria Salerno, Gianni Santuccio e Sergio Tofano), Frana allo scalo nord di Ugo Betti al Teatro Romano per l’Estate Teatrale Veronese (con Warner Bentivegna, Marina Dolfin, Gianni Santuccio e Sergio Tofano), ed Enrico iv di Shakespeare (con Mario Bardella, Giulio Bosetti, Ferruccio De Ceresa, Giorgio De Lullo, Diego Michelotti, Camillo Pilotto, Checco Rissone e Gianni Santuccio).

Nel 1951-52 partecipò a una riedizione di Arlecchino servitore di due padroni di Goldoni al Teatro Quirino di Roma (con Giulio Bosetti, Raoul Grassilli, Franco Parenti, Checco Rissone e Lia Zoppelli), spettacolo che fu dato nuovamente nel 1956 al Royal Lyceum Theatre per il Festival di Edimburgo (con Lidia Alfonsi, Marina Bonfigli, Tino Carraro, Valentina Fortunato, Franco Graziosi, Franco Parenti, Antonio Pierfederici e Checco Rissone). Sempre nel 1956 e al Royal Lyceum Theatre per il Festival di Edimburgo fu in Questa sera si recita a soggetto di Pirandello (con Edda Albertini, Marina Bonfigli, Lilla Brignone, Tino Carraro, Valentina Fortunato, Giusi Raspani Dandolo, Checco Rissone, Gianni Santuccio ed Enzo Tarascio).

Nel 1957-58 recitò nel Coriolano di Shakespeare (con Wanda Capodaglio, Tino Carraro, Giancarlo Dettori, Ottavio Fanfani, Gabriella Giacobbe, Franco Graziosi ed Enzo Tarascio), Goldoni e le sue sedici commedie nuove di Paolo Ferrari (con Tino Carraro, Giancarlo Dettori, Ottavio Fanfani, Valentina Fortunato, Gabriella Giacobbe ed Enzo Tarascio). (Per ulteriori informazioni, vedere: 
http://www.strehler.org/page/index.php?sez=2)

Nel 1961 apparve in Teresa Desqueyroux di François Mauriac, nell’adattamento di Diego Fabbri, per la regia di Giorgio Albertazzi al Teatro Quirino di Roma (con Anna Proclemer, Davide Montemurri e Mario Bardella).

Dopo quest’intensa e significativa attività teatrale si dedicò alla televisione, divenendo un volto noto e amato e specializzandosi nella difficile parte del “cattivo”: indimenticabile il suo Thenardier ne I miserabili (1964) di Sandro Bolchi e notevole la sua interpretazione del padre nevrotico in Questi nostri figli (1967) di Mario Landi. Nel telefilm La rosa rossa (1973) di Franco Giraldi, ambientato a Trieste nel 1919, interpretò invece un marito buono e gentile. Partecipò anche agli sceneggiati del commissario Maigret L’ombra cinese (1966) e Maigret e l’ispettore sfortunato (1968). Oltre che nel già citato I miserabili, recitò in molti dei mitici sceneggiati della TV del passato: Jane Eyre (1957) e Ottocento (1959) di Anton Giulio Majano (in quest’ultimo, Battistella era Cavour); I tre principi (1961) di Carlo Lodovici per la TV dei ragazzi; Vita di Michelangelo (1964) di Silverio Blasi; I grandi camaleonti (1964) di Edmo Fenoglio; La donna di fiori (1965) di Anton Giulio Majano con il tenente Sheridan interpretato da Ubaldo Lay; Quinta colonna (1966) di Vittorio Cottafavi, ispirato all’omonimo romanzo di Graham Greene; I promessi sposi (1967) di Sandro Bolchi; Vita di Cavour (1967) di Piero Schivazappa; I fratelli Karamàzov (1969) di Sandro Bolchi; Giuseppe Mazzini (1972) di Pino Passalacqua (Battistella interpretava Giuseppe Mazzini); Joe Petrosino (1972) di Daniele D’Anza; e I demoni (1972) di Sandro Bolchi. Partecipò anche al film televisivo di Mario Landi Dal tuo al mio (1969) e alla riduzione televisiva di Rebecca (1969), tratta dal romanzo di Daphne du Maurier e diretta da Eros Macchi (vedere: Televisione, le garzantine, a cura di Aldo Grasso, Garzanti, 2008).

Battistella amò anche la prosa radiofonica, ottima palestra per i migliori attori del periodo. Ricordiamo: Faust (1954) di Goethe per la regia di Corrado Pavolini, Gli ultimi cinque minuti (1954) di Aldo De Benedetti per la regia di Pietro Masserano Taricco, La cantata dei pastori (1955) di Andrea Perrucci per la regia di Anton Giulio Majano, e Cara delinquente (1959) di Jack Popplewell per la regia di Guglielmo Morandi. Nel 1951 partecipò anche alla rivista radiofonica settimanale di Dino Verde e Renzo Puntoni Sotto il parapioggia per la regia di Riccardo Mantoni (con Isa Bellini, Raffaele Pisu, Renato Turi, Elio Pandolfi, Giusi Raspani Dandolo e Giovanni Cimara).

Antonio Battistella frequentò anche il cinema: partecipò a Una storia d’amore (1942) di Mario Camerini, Signorinette (1942) di Luigi Zampa, Enrico iv (1943) di Giorgio Pastina, Terza liceo (1953) di Luciano Emmer, La rivale (1955) di Anton Giulio Majano, Saffo venere di Lesbo (1960) di Pietro Francisci, Il ladro di Bagdad (1961) di Bruno Vailati e Arthur Lubin, Parigi o cara (1962) di Vittorio Caprioli, e Maigret a Pigalle (1967) di Mario Landi.

Lavorò anche come doppiatore per l’ODI, la SAS e la CVD. Prestò la sua voce a George Burns ne I ragazzi irresistibili, a David King-Wood ne L’astronave atomica del dott. Quatermass e a George Voskovek ne I 27 giorni del pianeta Sigma. Fu, inoltre, un ottimo insegnante di recitazione.

Gli ultimi suoi anni di vita furono piuttosto problematici: soffriva d’insufficienza renale cronica e aveva subito diversi interventi chirurgici; per le sue precarie condizioni fisiche non si sentì in grado di continuare la sua attività teatrale e televisiva, nonostante ricevesse ancora numerose proposte di lavoro. Morì a Roma il 6 aprile del 1980 (aveva 68 anni) in modo tragico: si suicidò nella sua abitazione romana sparandosi un colpo di pistola; lasciò un biglietto in cui era scritto: «Sono malato e non posso guarire. Chiedo perdono a tutti.». Abbandonava così il palcoscenico della vita un attore sensibile, che aveva rivelato indubbie doti artistiche e che si era dimostrato capace di calcare le scene con passione misurata e con incisiva padronanza, prestando al teatro e alla televisione il suo viso segnato dalla vita, dall’espressione tormentata, la sua interessante voce roca e il suo intenso sguardo dolente.



giovedì 21 giugno 2012

Amore e “canzonette”


Franco Battiato                                     Charles Aznavour 


   Mina                  





Carmen Consoli















Vorrei introdurre l'argomento chiedendomi, e chiedendovi, che cos’è l’amore? è ovvio che la parola “amore” ha un significato universale in grado di abbracciare una moltitudine di sentimenti. Il miglior metodo per erudirsi in proposito, mi sembra la ricerca elementare dai più diffusi dizionari. Nel Dizionario di G. Devoto – G.C. Oli (Dizionari Le Monnier, Firenze 1971), una vecchia copia che tengo nella mia libreria, viene data la seguente  definizione di “Amore”: «fra due persone di sesso diverso, dedizione appassionata ed esclusiva, istintiva e intuitiva, volta ad assicurare reciprocamente felicità o benessere o voluttà». Gli autori elencano, inoltre, i vari tipi d’amore: «appassionato, morboso, casto, sensuale, contrastato, romantico, platonico, carnale, materno, filiale, coniugale, familiare, di patria, per Dio, per il prossimo, eccetera». In realtà, il riferimento alle «due persone di sesso diverso» sconcerta alquanto perché sembra escludere completamente l’amore omosessuale, che pure è stato grandemente esaltato nella letteratura e che ha ispirato pagine di estrema bellezza: basti pensare a Saffo con le sue liriche struggenti e ai numerosi grandi poeti o scrittori omosessuali del passato e del presente. Un approfondimento ulteriore nella mia copia più aggiornata del Dizionario Garzanti (I Grandi Dizionari, Garzanti, Milano, 2005) consente di leggere sotto la voce “Amore”: «affetto intenso, sentimento di profonda tenerezza o devozione... inclinazione forte ed esclusiva per una persona, fondata sull’istinto sessuale, che si manifesta come desiderio fisico e piacere dell’unione affettiva». In questo dizionario più moderno, qualsiasi riferimento al sesso diverso è scomparso; questo succede perché, in questi ultimi trenta anni, il nostro modo di sentire è certamente (e per fortuna) molto cambiato. Nel dizionario inglese The New Shorter Oxford English Dictionary (Clarendon Press, Oxford, 1999) ho trovato una deliziosa definizione dell’amore; sotto la voce “Love”, viene riportato testualmente: «That state of feeling with regard to a person which manifests itself in concern for the person’s welfare, pleasure in his or her presence, and often desire for his or her approval; deep affection; strong emotional attachment… sexual passion… amatory relations… (Quel sentimento rivolto a una persona, che si manifesta con l’interesse per il benessere di qualcuno, col piacere per la sua presenza, e spesso col desiderio per la sua approvazione; affetto profondo; forte attaccamento emotivo… passione sessuale… relazioni amorose…)». 

Dovendo dare una definizione sintetica dell’“Amore”, che includa anche l’amore omosessuale, parlerei di un rapporto intersessuale selettivo ed elettivo che comprenda reciprocità, intesa, solidarietà e possesso. Accanto alla capacità di aprirci all’amato, richiamerei anche l’importanza di tentare di cambiare noi stessi nell’amore per l’altro; quello che dico è esemplificato in modo ideale nella bellissima frase di Gabriel García Márquez (il grande scrittore colombiano triste e misterioso, premio Nobel nel 1892): «Ti amo non per chi sei tu, ma per chi sono io quando sto con te».

Sono molti gli scrittori che hanno parlato dell’Amore, affrontando l’argomento con crudo realismo o con intensa ispirazione lirica, e nel passato quasi sempre amore e fidanzamento, o amore e matrimonio, sembravano coincidere o comunque accavallarsi. La psicologia e la psicanalisi, che si occupano dei sentimenti umani fondamentali, hanno prestato e prestano molta attenzione all’Amore e ne hanno facilitato una più intima comprensione.

Ma sono anche molti gli autori di canzoni, i cui testi hanno il respiro lirico della poesia. D’altra parte, la canzone d’autore altro non è che autentica letteratura, di un genere diverso ma fra l’altro molto sensibile ai cambiamenti rapidi della storia, della società e del costume. La letteratura, da parte sua, si è spesso occupata della canzone: Jaques Brel, artista poliedrico, ha scritto bellissime canzoni e Gesualdo Bufalino, fine intellettuale, ha tradotto alcune canzoni di Charles Trenet. E perché non misurare col metro della letteratura i testi di Fabrizio De Andrè oppure quelli di Sergio Endrigo (così ricchi di solitaria e struggente malinconia)?

Desidero prendere in considerazione i testi di alcune grandi canzoni di autori italiani.

Di Franco Battiato e Manlio Sgalambro, desidero ricordare La Cura: «Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie, / dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via. / Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo, / dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai. / Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d’umore, / dalle ossessioni delle tue manie. / Supererò le correnti gravitazionali, / lo spazio e la luce / per non farti invecchiare. / E guarirai da tutte le malattie, / perché sei un essere speciale, / ed io, avrò cura di te. // […] // Ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza. / Percorreremo assieme le vie che portano all’essenza. / I profumi d’amore inebrieranno i nostri corpi, / la bonaccia d’agosto non calmerà i nostri sensi. / Tesserò i tuoi capelli come trame di un canto. / Conosco le leggi del mondo, e te ne farò dono. / Supererò le correnti gravitazionali, / lo spazio e la luce per non farti invecchiare. / Ti salverò da ogni malinconia, / perché sei un essere speciale ed io avrò cura di te... / io sì, che avrò cura di te.» (Da “L’Imboscata” di Franco Battiato e di Manlio Sgalambro, PolyGram 1996). Questo pezzo di Battiato è bellissimo; infatti, tutte le donne – più o meno giovani – amerebbero sentirsi dire queste belle parole dall’amato: ricevere grande cura da parte di qualcuno è tutto ciò che ogni donna sogna per la vita, soprattutto se questo qualcuno la gratifica col silenzio e la pazienza. Al contrario, accade molto spesso che i nostri uomini molto amati siano parlatori a vanvera, intolleranti e trascurati!

Un’altra canzone di Battiato, tratta da “Fisionomica”, è da considerarsi bellissima (è ovvio che il termine “canzonette” presente nel titolo è soltanto una provocazione): si tratta di E ti vengo a cercare, di cui riporto qualche verso: «E ti vengo a cercare / anche solo per vederti o parlare / perché ho bisogno della tua presenza / per capire meglio la mia essenza. / Questo sentimento popolare / nasce da meccaniche divine / un rapimento mistico e sensuale mi imprigiona a te. / […] E ti vengo a cercare / con la scusa di doverti parlare / perché mi piace ciò che pensi e che dici / perché in te vedo le mie radici […]». (Emi Records, 1988).

In Fleurs – esempi affini di scrittura e simili, dedicato alla rilettura di canzoni di altri grandi cantautori, Franco Battiato ha scelto e selezionato brani musicali di così grande bellezza da considerarsi appartenenti più al mondo della letteratura popolare che a quello della canzonetta; come esempi ricordo: Te lo leggo negli occhi di Sergio Endrigo, La canzone dell’amore perduto e Amore che vieni amore che vai di Fabrizio De Andrè (favole di amore e malavita, veri e propri componimenti poetici), La canzone dei vecchi amanti di Jacques Brel, e Che resterà di Charles Trenet. Un comune percorso poetico di strisciante di malinconia e di nostalgica letteratura sembra legare tutti questi cantautori.

Battiato ha citato anche Charles Aznavour, il cantautore franco-armeno – lanciato negli anni Cinquanta da Edith Piaf – che ho tanto amato nei miei giovanili anni perduti per le sue canzoni piene di poesia pura, interpretate con una voce bassa e roca dal fascino inimitabile. Aznavour fu molto apprezzato nell’Italia degli anni 60–70 e rappresentò l’interprete ideale dell’amore spezzato – lui che ha vissuto, al contrario, un lungo e felicissimo matrimonio d’amore. Tra i suoi brani italiani ricordo Ti amo, Lei (la bellissima She ripresa nel film “Notting Hill” e cantata tra gli altri da Elvis Costello), Mio commovente amore, Morire d’amore, e Com’è triste Venezia. Alla bellissima E io tra di voi, inserita da Battiato in “Fleurs”, desidero dedicare qualche parola e recitarvi per intero il testo stupendo della canzone. è la storia di un tradimento e della solitudine di un uomo innamorato, che durante una triste serata segue malinconicamente gli sguardi e i gesti complici della sua amata che in modo sfacciato corteggia un altro: egli capisce tutto ma è assolutamente incapace di reagire e resta impotente dinanzi ai due amanti che neanche si curano di lui. Infine, disperato, ma negando ogni sofferenza, afferma addirittura di aver passato «sì, una bellissima serata»: «Lei di nascosto / osserva te, / tu sei nervoso / vicino a me. / Lei accarezza / lo sguardo tuo / tu ti abbandoni / al gioco suo. / E io tra di voi / se non parlo mai / ho visto già /  tutto quanto. / E io tra di voi / capisco che ormai / la fine di tutto / è qui. / Lei sta spiando / che cosa fai / tu l’incoraggi / perché lo sai. / Lei sa tentarti / con maestria / tu, tu sei seccato / che io ci sia. / E io tra di voi / nascondo così / l’angoscia che / sento in me. / Lei di nascosto / sorride a te, / tu parli forte / chissà perché. / Lei ti corteggia / malgrado me, / tu, tu ridi poco / hai scelto già. / E io tra di voi / se non parlo mai / ho gonfio di pianto il cuore. / E io tra di voi / da solo vedrò / la pena che cresce in me. // Ma no / no, non è niente / forse un po’ di fatica / no, cosa vai a pensare, / al contrario / è stata una bellissima serata / sì, una bellissima serata.».

Tra le canzoni che meritano qualche commento affettuoso, come non ricordarne alcune degli anni ’60 cantate da Mina che hanno lasciato una forte impronta in me, adolescente ingenua e sognatrice, accompagnando tutti i più importanti eventi della mia vita? Ricordo le parole di E se domani (Rossi e Calabrese, 1967), che nella loro semplicità non mancano di un genuino lirismo: «E se domani io non potessi rivedere te? / mettiamo il caso che ti sentissi stanco di me / quello che basta all’altra gente / non mi darà nemmeno l’ombra della perduta felicità / e se domani, e sottolineo se / all’improvviso perdessi te / avrei perduto il mondo intero, non solo te […]». Come non ricordare anche Un anno d’amore (Mogol, Testa e Ferrer, 1965), sempre cantata da Mina, che recita: «Si può finire qui / ma tu davvero vuoi / buttare via così / un anno d’amore? / Se adesso te ne vai / da domani saprai / un giorno com’è lungo e vuoto / senza me. / E di notte / e di notte / per non sentirti solo / ricorderai / i tuoi giorni felici ricorderai / tutti quanti i miei baci […] / E capirai / in un solo momento / cosa vuol dire / un anno d’amore. / […] Se adesso te ne vai / non le ritroverai / le cose conosciute / vissute / con me […]». Come Mina, molte di noi si sono trovate spesso nella condizione di dire al proprio uomo: «[…] quando più stava cercandomi / forse io mi allontanai / certo non lo rifarei / se tornasse caso mai […] / Le importanti cose inutili (che ossimoro straordinario!) / che non gli ho saputo dire mai / forse le ricorderei / se tornasse caso mai.» (Se tornasse caso mai, Calabrese-Hermann, 1967). Si tratta di parole ingenue ma che non mancano di struggente forza sentimentale!

E vorrei ricordare anche Quattordici luglio, una bella canzone di Carmen Consoli, la “cantantessa” originale e ricca di talento, vera icona del mondo giovanile: «Guardavo le sue mani che stuzzicavano insolenti una rosa finta / ed era così dolce il modo in cui / nascondeva l’imbarazzo / mentre parlava e sorrideva ironicamente / delle proprie sventure teneva gli occhi bassi // Guardavo le sue mani che si intrecciavano / tra i ricami di una tovaglia / riuscivo a stento a trattenere la voglia / di afferrarle di aggredire il suo dolore // misto all’incenso il sapore di un pasto frugale / i ricordi storditi dal tempo / pur essendo simile a tante e a tante altre persone / era speciale… speciale // Guardavo le sue mani che enfatizzavano / opinioni con eleganza / tra le improvvise somiglianze / simbiotiche intuizioni l’amichevole trasporto // misto all’incenso il sapore di un pasto frugale / i ricordi storditi dal tempo / pur essendo simile a tante e a tante altre persone / era speciale… speciale // mi lasciavo sedurre dalle sue manie / mi lasciavo sedurre dalle sue manie / mi lasciavo sedurre dalle sue manie».

Moltissime canzoni di altri autori e cantanti hanno parlato d’amore in modo straordinario e, naturalmente, non si tratta di quelle canzoni piagnucolose e dolenti, quasi comiche nel loro grondare deteriore sentimentalismo e melodramma, piene di lacrime e singhiozzi, delle quali hanno scritto – con allegra ironia e cinico sarcasmo ma con competenza e intuito – Paolo Madeddu e Paola Maraone nel loro Da una lacrima sul viso... Come guarire i mali del mondo attraverso l’ascolto omeopatico delle 50 canzoni più deprimenti del pop italiano (Kowalsky editore, Milano, 2006). Nel libro gli autori consigliano una sorta di terapia omeopatica, al fine di guarire dalla schiavitù di testi così tristi da far male.


sabato 16 giugno 2012

Olinto Cristina, un piccolo grande attore



Olinto Cristina


Il 17 giugno di cinquant'anni fa, nel 1962, a 74 anni, moriva a Roma Olinto Cristina, attore e doppiatore italiano nato a Firenze il 5 febbraio del 1888.

La sua era realmente una famiglia d'arte: il padre era l'attore Raffaello Cristina, la madre l'attrice Cesira Sabatini e le sorelle erano le attrici Ines Zacconi (la Perpetua de “I promessi sposi” nel 1941), Jone Frigerio (la zia Elisabetta del “Piccolo alpino” nel 1940) e Ada Cristina Almirante (partecipò a “Il sole sorge ancora” nel 1946).  

è alquanto riduttivo classificare Olinto Cristina come un semplice caratterista, perché nelle sue interpretazioni teatrali, cinematografiche e televisive (pur piccole) seppe mostrarsi sempre attore intenso e di spessore. Come dimenticare, poi, la sua voce suadente di doppiatore: era sua quella di Fredric March ne Il dottor Jekyll (1931, diretto da Rouben Mamoulian), di Thomas Mitchell in Ombre rosse (1939, diretto da John Ford), di Sig Ruman in Vogliamo vivere! (1942, diretto da Ernst Lubitsch), di Lionel Barrymore ne La vita è meravigliosa (1946, diretto da Frank Capra) e in Duello al sole (1946, diretto da King Vidor), di Charles Laughton ne Il caso Paradine (1947, diretto da Alfred Hitchcock), di Ray Collins ne L'orgoglio degli Amberson (1942, diretto da Orson Welles), di Frank Morgan ne Il mago di Oz (1939, diretto da Victor Fleming, nella versione doppiata nel 1949); è altissimo il numero di attori di Hollywood ai quali prestò la sua voce.

Fece parlare anche Dotto in Biancaneve e i sette nani (1938), il Corvo in Dumbo (1948) e l'Amico gufo in Bambi (1948). Nel 1949 diede la sua voce al califfo Oman ne La rosa di Bagdad (1949), un film d'animazione di Anton Gino Domeneghini (le altre bellissime voci erano di Stefano Sibaldi: il narratore; di Germana Calderini: la principessa Zeila; di Giulio Panicali: Sheikh Jafar; e di Carlo Romano; Burk il mago). I bambini della mia generazione hanno molto amato quest'originale film musicale che, ambientato a Baghdad, raccontava la storia si Zeila, principessa dall'ugola d'oro, che deve scegliere il suo promesso sposo ma il mite califfo Omar, suo zio e tutore, è succube del perfido sceicco Jamar e del mago Burk, i cui piani malefici sono sventati da Amin, gentile musico, e dal genio della lampada di Aladino. Hanno scritto Laura, Luisa e Morando Morandini: «Con l'apporto di più di 100 tra disegnatori e tecnici (tra cui il pittore libico Maraja e l'ideatore dei personaggi Angelo Bioletto, creatore delle figurine Perugina dei Quattro moschettieri che negli ultimi anni '30 contagiarono mezza Italia con la caccia al Feroce Saladino), la lavorazione del film del bresciano A.G. Domeneghini, tribolata dalla guerra e dai bombardamenti su Milano, cominciò nel '42. Presentato nel '49 alla 10ª Mostra di Venezia, vinse il 1° premio nella sezione del cinema per ragazzi. Con “I fratelli Dinamite”, è il 1° lungometraggio a disegni animati di produzione italiana. Di forbita eleganza nel disegno e nei colori, di vena delicata nell'invenzione fantastica, è un po' fievole e lasco sul piano narrativo, ma rallegrato in chiave comico–umoristica da alcuni numeri musicali (la danza dei tre serpenti, la gazza ladra Kalina) e dal trio dei buffi consiglieri del califfo dove è visibile l'influenza disneyana di “Biancaneve e i sette nani”. Musiche di Riccardo Pick-Mangiagalli (1882–1949).» (il Morandini – Zanichelli editore).

Al cinema Olinto Cristina fu un "prezzemolino", per cui la sua filmografia è veramente ampia (apparve in circa 80 film). Dal 1932 al 1954 lavorò con tutti i più grandi registi italiani del periodo. Ricordiamo soltanto i film più importanti: Pergolesi (1932), Tenebre (1934), Passaporto rosso (1935), Vivere (1937), Chi è più felice di me! (1938), Core 'ngrato (1951) e Noi peccatori (1952) di Guido Brignone; Il treno delle 21,15 (1933), Creature della notte (1934), Il Corsaro Nero (1937), I figli del marchese Lucera (1938) e L'elisir d'amore (1941) di Amleto Palermi; Darò un milione (1935), Centomila dollari (1940) e Una storia d'amore (1942) di Mario Camerini; Squadrone bianco (1936) di Augusto Genina; Felicita Colombo (1937) di Mario Mattòli; Scipione l'africano (1937), Giuseppe Verdi (1938) e Biraghin (1946) di Carmine Gallone; Dora Nelson (1939) di Mario Soldati; Cose dell'altro mondo (1939) di Nunzio Malasomma; La forza bruta (1940) di Carlo Ludovico Bragaglia; Vento di milioni e Scarpe grosse (1940) di Dino Falconi; Ridi pagliaccio (1941) di Camillo Mastrocinque; Caravaggio il pittore maledetto (1941) di Goffredo Alessandrini; Notte di fortuna (1941), Torna (1953), La schiava del peccato (1954) e L'ultima violenza (1957) di Raffaello Matarazzo; I bambini ci guardano (1943) di Vittorio De Sica – Olinto interpretava il rettore e la sorella Ione Frigerio la nonna –; Nessuno torna indietro (1943) di Alessandro Blasetti; In cerca di felicità (1943) di Giacomo Gentilomo; Anni difficili (1948) di Luigi Zampa; L'eterna catena (1951) di Anton Giulio Majano; Il cappotto (1952) di Alberto Lattuada; e Canto per te (1953) di Marino Girolami.

Nel 1933 per l'EIAR partecipò a Il testimone silenzioso di Jacques de Leon e Jacques Célestin, con la Compagnia drammatica del teatro giallo diretta da Romano Calò, insieme con Sandro Ruffini, Laura Adani, lo stesso Calò, Dante Cappelli e Tino Bianchi.

Fu spesso in televisione. Lo ricordiamo tra gli interpreti dei seguenti sceneggiati televisivi: Il dottor Antonio (1954, il primo sceneggiato televisivo, tratto dal romanzo di Giovanni Ruffini e diretto da Alberto Casella); Piccolo mondo antico (1957, tratto dal romanzo di Antonio Fogazzaro e diretto da Silverio Blasi); Il romanzo di un giovane povero (1958, tratto dal romanzo Octave Feuillet e diretto da Anton Giulio Majano); e Il costruttore Sollness (1960, tratto dal dramma di Henrik Ibsen e diretto da Mario Ferrero). Da ricordare, in modo particolare, Romanticismo (1960), tratto dal dramma patriottico di Gerolamo Rovetta, diretto da Guglielmo Morandi, con Diego Michelotti, Tino Bianchi, Gianni Santuccio, Valeria Moriconi, Renato Lupi, Giuliana Lojodice e Giulio Bosetti.

Vorrei approfittare di questo ricordo di Olinto Cristina per celebrare l'importanza degli attori di contorno, dei cosiddetti “minori” (che minori non sono ma spesso giganti), dei “caratteristi”, che sono colonne portanti o pietre angolari del cinema di tutto il mondo, la cui importanza è tanto chiaramente accettata che sin dal 1936 è stato stabilito un premio Oscar da conferire ad attori e attrici non protagonisti. Volgarmente, con il termine “caratterista”, s'intende un attore (che può essere anche bravissimo) impegnato in un ruolo secondario, talora caratterizzato da un dato caratteriale particolare – quale la cattiveria, la bonomia, la giovialità, la volgarità, la nobiltà, l'arroganza, la perfidia e così via – o da una nota di singolarità quasi caricaturale che spesso gli dà un'ampia riconoscibilità e talora anche la celebrità, facendogli raggiungere la grandezza delle maschere della commedia dell'arte. I caratteri d'altra parte sono sempre stati presenti anche nel teatro (per esempio in quello di Goldoni) ed avevano il compito di vivacizzare l'impianto narrativo sia con un intento umoristico sia con una maggiore coloritura drammatica. Ed esiste un'intercambiabilità, un travaso, tra le categorie degli attori maggiori e minori per cui un caratterista può diventare un grande protagonista e un grande attore può diventare un sensazionale caratterista in un'interpretazione apparentemente marginale.

Nella sua definizione di “Caratterista”, ha scritto Mino Argentieri: «È dalla tradizione teatrale che il cinema ha mutuato la figura del caratterista. Nell'Ottocento si era soliti discernere in un ordinamento ove si diversificava “il primo carattere” dal “secondo” e dal “mezzo carattere”, distinzioni ancora attuali. […] Alla sapienza e alle pratiche del teatro, il linguaggio del film ha aggiunto l'imperativo di esigere, oltre alla fotogenia dei soggetti da fotografare, un'identità fisica e fisionomica di impatto immediato. […] La collocazione periferica nel gioco delle parti non impedisce che gli interpreti “minori” siano un valido sostegno agli attori e alle attrici più affermati e che possano concorrere significativamente, con la loro presenza e la qualità delle loro prestazioni, a determinare il successo di un film. […] In Italia vi sono aree geografico–culturali prodighe di talenti. In particolare: Nando Bruno, Ave Ninchi, Marisa Merlini, Mario e Memmo Carotenuto sono riconducibili al fiume della commedia di gusto romanesco, a mezza via tra intonazione farsesca, neorealismo rosa, sapide notazioni di costume. Interminabile invece la sfilza dei napoletani debitori verso Eduardo De Filippo e Francesco Rosi, da Giacomo Furia a Tina Pica, da Clelia Matania a Franco Sportelli, da Aldo Bufi Landi a Mino Vingelli, da Ugo D'Alessio a Decimo Cristiani, da Pupella Maggio a Gianni Caiafa. Non v'è poetica, né corrente artistica, né epoca che non siano legate ai caratteristi dei film che le hanno immortalate. […] Ovunque sono nati film in cui i caratteristi hanno dominato il campo visivo e la scacchiera della drammaturgia. […] Merita di essere notato che vi sono stati, e continuano a esserci, autori che ai caratteristi concedono un ampio spazio, non di rado formando con le stesse persone un indissolubile sodalizio […] Intramontabile, il caratterista reca con sé nei film l'aria del tempo, le tonalità dominanti di un filone cinematografico. […] Tuttavia, grazie alla bravura delle vecchie e nuove leve e all'accresciuto peso dei caratteristi nella messa in scena cinematografica, è diventato sempre più arduo percepire dove muoia il caratterista e sbocci il grande attore, confondendosi nell'economia del film l'uno e l'altro. Seppur relegati in posizione minoritaria, attori come Laura Betti, Milena Vukotic, Leo Gullotta, Victor Cavallo, Marina Confalone lasciano con ogni loro apparizione un marchio indelebile nella memoria dello spettatore, vanificando qualsiasi tentativo di stabilire graduatorie.» [vedere: Caratterista in “Enciclopedia del Cinema” – Treccani,
www.treccani.it/enciclopedia/caratterista_(Enciclopedia-del-Cinema)/.].

Massimo Giraldi, Enrico Lancia e Fabio Melelli hanno scritto il saggio 100 caratteristi del cinema italiano: gli interpreti “minori” che hanno fatto grande il nostro cinema (Gremese Editore, 2006) nel quale hanno voluto raccontare la storia dei caratteristi: «nella maggioranza dei casi, è una storia fatta di ruoli secondari, di brevi scene che danno “colore” alla narrazione, di battute comiche pronunciate in buffi slang dialettali; forse troppo poco perché gli spettatori ricordino puntualmente i loro nomi, ma sufficiente perché ogni volta essi riconoscano quei visi e tornino ad amarli». Questo volume racconta «la carriera e le interpretazioni dei cento più grandi caratteristi del nostro cinema: quelli di ieri e quelli di oggi, quelli provenienti dal teatro e quelli “regionali”, quelli legati alle produzioni di genere e le “spalle più celebri”, quelli inclini ai ruoli stereotipati e i talenti versatili». Gli stessi autori hanno pubblicato il libro
100 Caratteristi del cinema americano (Gremese Editore – collana Gli album, 2010), dedicato ai grandi attori minori di Hollywood.

“I soliti ignoti del cinema italiano | Facebook” (www.facebook.com/pages/I...del-cinema-italiano/133378330075272) si occupa di far conoscere agli amanti del cinema questi piccoli grandi attori.

Gianni Canova (Cinema, le garzantine, Garzanti, 2009) così definisce il “caratterista”: «attore o attrice specializzati in ruoli di supporto e, spesso, in personaggitipo riproposti da un film all'altro. […] Nel cinema italiano la più grande è stata Tina Pica, unica caratterista arrivata  a una notorietà da prima donna pur essendo stata interprete principale di un solo film, La nonna Sabella (1957) di Dino Risi.».

mercoledì 13 giugno 2012

Dolores Palumbo, simpatia e napoletanità



Dolores Palumbo


Il 14 giugno di cento anni fa nasceva a Napoli la mitica attrice teatrale e cinematografica partenopea Dolores Palumbo (morì nella sua Napoli il 30 gennaio del 1984, a settantadue anni). Chi ha avuto la fortuna di conoscerla, la ricorda per la sua cordiale e contagiosa “vis comica”.

Figlia d'arte, cresciuta in precarie condizioni economiche, nel 1930 (aveva diciotto anni), debuttò al Teatro Kursaal – esordendo nella parte di una cameriera ne La bella Trovata – con l'impareggiabile compagnia dei tre fratelli De Filippo, che le furono maestri di spettacolo dialettale insegnandole un teatro ricco di originalità e coloriti spunti comici. Era soltanto una particina in un atto unico di Mario Scarpetta, ma tanto bastò per lanciarla alla grande nel mondo del teatro napoletano.

Nel 1939 Nino Taranto, affascinato dalla sua verve recitativa, la scritturò come partner comica per alcune riviste teatrali scritte da Nelli & Mangini. Negli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta, Mario Mangini, in coppia con Francesco Cipriani Marinelli (si firmavano appunto Nelli & Mangini), scrissero per Totò, Nino Taranto, Mario Riva ed Eduardo De Filippo (che utilizzava allora lo pseudonimo di “Tricot”).

Dolores Palumbo ritornò con Eduardo De Filippo nel 1945 e si distinse per la sua interpretazione nell'immortale commedia Napoli milionaria
(vedere: http://www.lastoriadinapoli.it/attori_palumbo-dol.asp.).

Nello stesso periodo interpretò Socrate immaginario – tratto dall'opera lirica di Giovanni Paisiello su libretto di Giovanni Battista Lorenzi e Ferdinando Galiani (esponente dell'illuminismo napoletano), messa in scena per la prima volta nell'ottobre del 1775 al Teatro Nuovo di Napoli – nella comica edizione teatrale di Anton Giulio Bragaglia, rappresentata al Teatro Floridiana di Napoli. La trama era estremamente godibile: Don Tammaro, un ricco possidente di Puglia, coinvolto dalle sue intense letture filosofiche, si crede un filosofo e prende a copiare la vita e le abitudini di Socrate, dando nomi greci alle persone che gli stanno accanto, mostrandosi felice di essere maltratto dalla moglie e decidendo di far sposare la figlia con un barbiere che si finge suo seguace. I parenti stanno al gioco ma fingono un'incursione delle Furie per spaventarlo e lo drogano con un sonnifero, facendogli credere di aver ingurgitato della cicuta (così come Socrate); al suo risveglio, Don Tammaro è completamente guarito dalla sua follia.

Successivamente, nel 1955, Eduardo De Filippo la richiamò in compagnia per sostituire l'uscita della sorella Titina e per interpretare Mia famiglia, scritta proprio per le sue corde di attrice completa, ma fu nel testo teatrale Bene mio core mio, nel quale la Palumbo diede forse il meglio di sé dal punto di vista interpretativo. Due anni dopo, e sino agli anni Cinquanta, partecipò ancora a riviste teatrali in compagnia con Nino Taranto e Wanda Osiris (vedere: http://delteatro.it/dizionario_dello_spettacolo_del_900/p/palumbo.php.).

Alla soddisfacente carriera teatrale, Dolores seppe affiancare una fortunata e intensa carriera cinematografica. Tra gli anni Quaranta e i Settanta prestò la sua simpatica vitalità e la sua straordinaria spontaneità alle migliori commedie del tempo, confrontandosi con i grandi protagonisti del tempo: Totò, Eduardo e Peppino De Filippo, Nino Taranto, Paolo Stoppa e Tina Pica. Ricordiamo: Non ti pago! (1942); Abbasso la fortuna! (1947); I pompieri di Viggiù (1949); Café chantant (1953) di Camillo Mastrocinque – una parata del meglio della rivista italiana, ove la Palumbo interpretava se stessa e insieme a Nino Taranto, riproponendo dei brani tratti dalla rivista “Scio Scio” di Nelli & Mangini –; Carosello napoletano (1954) di Ettore Giannini; Miseria e nobiltà (1954) Mario Mattòli; Milanesi a Napoli (1954); Lazzarella (1957); La nonna Sabella (1957) e La nipote Sabella (1958) – film tratti da un romanzo di Pasquale Festa Campanile, nei quali la Palumbo interpreta Carmelina, la sorella succube di una vecchia impicciona e dispotica (Tina Pica), che non muore mai e che ostacola il matrimonio di Carmelina con il suo eterno fidanzato Emilio (Peppino De Filippo), i quali troveranno alla fine il coraggio di convolare a giuste nozze –; Io, mammeta e tu (1958); Domenica è sempre domenica (1958); Ricordati di Napoli (1958); Psicanalista per signora (Le confident de ces dames) (1959); Tre straniere a Roma (1959); Mariti in pericolo (1960); Anni ruggenti (1962); Liolà (1963); Una lacrima sul viso (1964); Non son degno di te, Se non avessi più te e In ginocchio da te (1965) – in cui interpretò il ruolo di Santina De Micheli Todisco –; Zum Zum Zum - La canzone che mi passa per la testa (1968); Il suo nome è Donna Rosa (1969); Io non vedo, tu non parli, lui non sente (1971); Don Camillo e i giovani d'oggi (1972); Sgarro alla camorra (1973); e Figlio mio sono innocente! (1978).

In TV nel 1962 fu in Questi fantasmi di Eduardo De Filippo.


Disse di Totò Dolores Palumbo: «Tuttavia nel 1954 fummo entrambi protagonisti di Miseria e nobiltà (dalla commedia di Scarpetta) e Totò, nel ruolo di “Felice Sciosciamocca” fu veramente grande. Io sostenevo il ruolo della verace e prepotente Luisella, quale sua seconda moglie, e non potrò assolutamente dimenticare quella sequenza in cui Totò depose nelle tasche della sua casacca gli spaghetti che erano stati serviti a tavola. Quella scena fu una delle migliori del film, e ciò bastò a farmi comprendere che Totò, in qualsiasi brutto film da lui interpretato, avrebbe ricavato dalla sua “tavolozza mentale piena di mille colori umoristici”, una qualsiasi pennellata per dare più vitalità al soggetto realizzato per scopi commerciali (tratto da Storia di un sublime, irripetibile burattino di Biagio Di Meglio;

www.antoniodecurtis.com/ricordi/dolores_palumbo.htm).

Eschilo e Prometeo incatenato, il mito e la tragedia


Eschilo                                                 Prometeo incatenato (Massimo Popolizio)


è in corso per il 2012 il xlviii ciclo di rappresentazioni classiche a Siracusa presso quel meraviglioso palcoscenico all'aria aperta che è il Teatro Greco, con inizio l'11 maggio e conclusione il 30 giugno. Si rappresentano oltre alle Baccanti di Euripide e agli Uccelli di Aristofane, il Prometeo Incatenato di Eschilo per la regia di Claudio Longhi, nella traduzione di Guido Paduano, con le affascinanti coreografie della Martha Graham Dance Company.

Il Prometeo incatenato (in greco antico Προμηθεύς δεσμώτης) è una tragedia di Eschilo datata nel 470 a.C. circa e facente parte di una probabile trilogia dedicata a Prometeo, che includeva anche il “Prometeo liberato” e il “Prometeo portatore del fuoco” (tragedie delle quali ci sono rimasti soltanto alcuni frammenti). La Prima assoluta risalirebbe al 460 a.C. presso il Teatro di Dionìso ad Atene.

I personaggi sono: Prometeo (un immenso Massimo Popolizio), Efesto (Gaetano Bruno), Oceano (Mauro Avogadro), Ermes (Jacopo Venturiero), il Potere (Massimo Nicolini), la Violenza (Michele Dell’Utri, che è anche assistente alla regia), Io (Gaia Aprea), la Corifea (Daniela Giovanetti) e il Coro delle ninfe Oceanine

Ambientata in un luogo indeterminato fra gli aspri monti inaccessibili e le lande desolate della Scizia (vietati agli uomini), la tragedia narra una vicenda che seguì la rivolta di Giove (Zeus) contro il padre Crono e la successiva guerra sanguinosa che portò Giove alla conquista del potere dopo l'annientamento dei suoi antagonisti. Quando Promèteo («questo misero Nume vedete, / il nemico di Giove, che in odio / venne a quanti Celesti s'addensano / nella reggia di Zeus, perché gli uomini / troppo amavo»), ribellandosi al volere di Giove, donò il fuoco e altri doni agli umani, scatenò la collera spaventosa di Giove e fu incatenato a una rupe nella regione della Scizia (ai confini della Terra) da Efèsto, Potere e Forza che erano riusciti a catturarlo.

Nel Prologo, si avanzano appunto Potere e Forza, tenendo stretto Promèteo, seguiti da Efèsto, e tutti si fermano dinanzi a una rupe alta e scoscesa. Parla per primo Potere: «Agli estremi confini eccoci giunti / già della terra, in un deserto impervio / tramite de la Scizia. Ed ora, Efèsto, / compier tu devi gli ordini che il padre / a te commise: a queste rupi eccelse / entro catene adamantine stringere / quest'empio, in ceppi che non mai si frangano: / ch'esso il tuo fiore, il folgorio del fuoco / padre d'ogni arte, t'involò, lo diede / ai mortali. Ai Celesti ora la pena / paghi di questa frodolenza, e apprenda / a rispettar la signoria di Giove, / a desister dal troppo amor degli uomini.». Efèsto a lui replica: «Forza, Potere, gli ordini di Giove / già compiuti per voi furono; e nulla / più vi trattiene. Ma legare a forza / su questo abisso procelloso un Nume / ch'è del mio sangue, non mi regge il cuore. / E forza è pure che mi regga. Gli ordini / trasandare del padre, è dura prova.». Nonostante tutto, Efèsto sa che dovrà stringere Promèteo in «bronzei ceppi, che niuno a scioglier valga… dove né voce udrai, né forma d'uomo vedrai», esposto alla calura del sole e alla tenebra della notte, senza il soccorso di nessuno, per quell'indebito favore fatto agli umani; egli aggiunge: «Ora, in compenso, / vegliar dovrai questa dogliosa rupe, / senza mai sonno, in pie', senza mai flettere / le tue ginocchia, e cento ululi e gemiti / invano leverai: ché il cuor di Giove / nessuna prece lo commuove; ed aspro / è ciascun che di fresco ebbe il potere.». Potere invita Efèsto a non indugiare e a inchiodare Promèteo alla rupe per non irritare Giove. Efèsto salda le braccia, i fianchi e le gambe di Promèteo, in modo che nessuno possa sciogliere le catene, piangendo e gemendo per i mali del Titano. Finita l'operazione, Efèsto, Potere e Forza si allontanano mentre Promèteo manifesta tutta la sua afflizione: «O divo ètere, o snelle ali dei venti, / fonti dei fiumi, e dei marini flutti / infinito sorriso, e te, che madre / sei d'ogni cosa, o Terra, invoco, e te, / che tutto miri, orbe del Sol! Vedete / ciò ch'io, Celeste, dai Celesti soffro! / Or vedete da quali travagli / laniato, per mille e mille anni / patirò. / […] / Ahimè, ahi!, dell'affanno presente, / del venturo io mi lagno. Deh!, quando / sarà l'ora che il termine segni / di questi tormenti?». Si lamenta di subire quel destino, avvinto nei lacci, per avere predato e donato la fonte del fuoco che «maestra fu d'ogni arte, ed util sommo».

La tragedia si svolge in modo apparentemente statico nell'incontro tra il titano e i diversi personaggi divini o le varie creature del cosmo, fantastiche e mostruose, che tentano di portargli conforto e consiglio, ma senza alcun confronto diretto tra Giove e Prometeo. S'inizia con il Canto d'ingresso del Coro delle ninfe Ocèanine (progenie di Teti feconda e figliuole del padre Oceàno), dodici bellissime fanciulle che si avvicinano su di un cocchio alato e che tranquillizzano Promèteo con il loro canto, dicendogli: «Non temer: questa schiera è a te benevola.», e aggiungendo con le lacrime agli occhi di temere per la sua sorte: «Ma novello signor l'Olimpo regge; / ma con novella legge / or Giove a suo talento / lo scettro impugna, e tutto / che prima ebbe potere or vuol distrutto.». E Promèteo risponde, rimpiangendo di non essere morto e di non giacere nel Tartaro: «Ora invece, ludibrio dell'aria, / debbo, ahi tristo!, coi miei patimenti / dar gioia ai nemici.». Furente, accenna a un segreto in suo possesso che Giove vorrebbe svelato ma che egli non riferirà mai non lasciandosi sgomentare né dalle lusinghe, né dagli scongiuri né dalle minacce, a meno che Giove non lo liberi dai «lacci selvaggi», non paghi «la pena di questa ignominia» e non gli chieda un giorno «amicizia e concordia».

Nel Primo episodio, Promèteo racconta al Coro com'era scoppiato l'odio tra i Numi e come la contesa li aveva divisi in due: coloro che volevano abbattere Crono «perché regnasse appunto Giove» e coloro che si adoperavano «perché mai Giove non avesse il regno». Egli si era schierato dalla parte di Giove ma il Nume non gli aveva mostrato gratitudine: «è mal della tirannide / questo di non prestar fede agli amici». Vinto il potere, Giove: «E dei mortali / non fe' parola alcuna: anzi distruggere / tutta quanta volea la stirpe loro, / ed una nuova seminarne. E niuno, / se togli me, si oppose al suo disegno. / Io n'ebbi ardire. E gli uomini salvai / dal piombare nell'Ade, allo sterminio.». Promèteo aveva salvato gli uomini, dando ai loro cuori cieche speranze e donando il fuoco e le molte arti ottenute dal fuoco, e Giove lo aveva punito con quella pena senza termine: «Perché pietà degli uomini sentii, / indegno io stesso parvi di pietà». E al Coro che tenta di dargli consigli per sciogliersi dal suo male, Promèteo risponde: «A chi tien fuori dai cordogli il piede, / dare consigli a chi patisce è facile. / […] / Ma non piangete il mio presente male: / scendete al suolo, e le sciagure udite / che incombono su me, sì che sappiate / compiutamente il tutto.». Il cocchio delle Ocèanine sparisce e su un cavallo marino alato giunge Ocèano che si dice sinceramente addolorato per «la stirpe comune» e che gli consiglia di ritornare in sé adottando «nuovi costumi», placando la sua furia e tentando di cercare un «qualche riscatto» alle sue pene. Così parla Ocèano: «A te forse parranno / triti vecchiumi le parole mie; / ma della lingua tua troppo superba / è questa, Prometèo, la triste mancia. / Ma tu non sai farti umile, non sai / cedere ai mali; ed altri procacciartene, / oltre ai presenti, vuoi.». Infastidito, Promèteo gli risponde di non curarsi delle sue pene, perché non c'è modo di convincerlo, e di ritornarsene là da dove è venuto. E alle insistenze di Ocèano, che vuole aiutarlo a farsi perdonare da Giove, Promèteo risponde: «Ma pur, non affannarti: affanno vano / il tuo sarebbe, e senza utile mio.», ricordando la sorte amara del fratello Atlante costretto a reggere sulle spalle nelle contrade dell'Espero la colonna del cielo e della terra, e dicendosi pronto a sopportare la sua sciagura sino allo sbollir dell'ira di Giove. Ocèano si giustifica dicendogli: «O Prometèo, non sai che le parole / son medicina all'animo che soffre. / […] / È gran vantaggio / sembrar privi di senno, ed esser saggi.». Ocèano se ne va.

Ed è la volta del Primo canto intorno all'ara, con le Ocèanine che intorno all'altare di Diòniso danzano e cantano, gemendo e piangendo per Promèteo, «pel tuo destino acerbo». Lo confortano, dicendogli: «Tutta la terra un ululo / alza per te di duolo. / […] / E quante il sacro suolo / abitano de l'Asia umane genti, / delle torture tue senton, Promèteo, / pietà, dei tuoi lamenti.». Compiute le loro danze, le Ocèanine si volgono verso Promèteo.

Inizia il Secondo episodio, nel quale Promèteo dice loro: «Non per disdegno o per superbia io taccio, / non lo crediate; ma l'obbrobrio inflittomi / veggo, e di conscia doglia il cuor mi struggo. / Pure, i lor pregi a questi nuovi Numi, / chi compartiva, se non io? Niun altri!». Egli era stato mosso a pietà dagli uomini che, avendo perso la saggezza e la ragione, vivevano come formiche sottoterra e senza sole: «Ché prima, essi, vedendo / non vedevano, udendo non udivano; / e simili alle vane ombre dei sogni, / quanto era lunga la lor vita, a caso / confondevano tutto.». E aveva regalato ai mortali i suoi presagi e le sue giuste premonizioni: «E prima / nei sogni sceverai quello che debba / nella veglia avverarsi, e chiari feci / i prognostici oscuri ed i presagi / che s'incontran per via.». E aveva dato il fuoco e «quante utili cose in grembo al suolo / giacean nascoste all'uomo, il rame, il ferro, / l'argento, l'oro, […]», oltre a tutte le altri arti. Spera comunque di sfuggire al suo destino: «Fato non è che tutto ciò si compia. / Ben io da mille triboli, da mille / pene prostrato, ai lacci sfuggirò. / […] / E col segreto / io sfuggirò le pene e i lacci turpi.». [Il mito racconta che Prometeo aveva rimediato alla dimenticanza di fornire le buone qualità agli umani, rubando dalla casa di Atena uno scrigno in cui erano riposte l'intelligenza e la memoria, e donandole alla specie umana. Ma Giove, per nulla bendisposto verso il genere umano, non aveva approvato i doni di Prometeo, ritenendoli troppo pericolosi perché avrebbero reso gli uomini più potenti e più capaci.]

E il Coro amareggiato, nel Secondo canto attorno all'ara, si rivolgono a Prometèo: «Dolce cullare l'animo di letizie serene: / dolce nutrir, sin che la vita dura, / ardue speranze. Ma se te, Promèteo, / d'infinita sciagura / io veggo oppresso, un brivido / corre per le mie vene. / Ma tu, fiero, non trepidi / del Signor dei Celesti, / ed ai mortali troppo onore presti.». E poi aggiunge: «Dove or trovi negli uomini / alcun sostegno, alcun soccorso? Vedi / la fiacca inettitudine, / simile ai sogni vani, / che, in ceppi, degli umani / stringe le cieche torme?».

E siamo al Terzo episodio che vede l'arrivo di una fanciulla dal viso bellissimo ma deturpato da due corna di giovenca, che si lancia tra le rupi con folli balzi e che si ferma davanti a Promèteo: è Io, amata da Zeus, trasformata in vacca per la gelosia di Era e costretta a vagare come folle in un viaggio eterno e senza soste. Gemendo e come in delirio, Io chiede a Prometèo: «Dove son? fra che genti? Costui / che legato ai dirupi vegg'io, / esposto ai rigori del cielo, / chi sarà? Questa pena ferale / per quale misfatto patisce?». E rivolgendosi a Giove, al figlio di Crono, così lo implora: «Col fuoco bruciami, fa ch'io di terra / sia ricoperta, del mare ai mostri / dammi in pastura, sordo non essere, / questi miei voti, signore, adempi. / […] / Oh!, morire una volta /  meglio mi val che tutti i dì soffrire.». Chiede poi a Prometèo: «Fra i miseri / chi v'è che soffra quello ch'io soffro? / Deh!, chiaro insegnami, tu, adesso, mostrami / che cosa debbo patire ancora.». Prometèo le racconta tutti i suoi guai e lei gli racconta dell'amore di Giove e delle sue lusinghe attraverso delle visioni notturne, della sua metamorfosi e del suo pazzo vagare di terra in terra. Io gli chiede poi le sue premonizioni e Prometèo prevede per lei, dopo molte vicissitudini («Di guai funesti un tempestoso pelago.»), la conquista della libertà e la fortuna della sua discendenza non appena giunta alla foce del Nilo: «Di quella terra all'ultimo confine, / alla foce del Nilo, ov'esso addensa / le sabbie, sorge la città di Cànobo. / Quivi col tocco e la carezza sola / della sua man, Giove ti rende il senno. / Ed a luce il negro Èpafo darai, / che nome avrà dal gioviale tocco. / E signore sarà di quanta terra / l'ampie fluenti irrigano del Nilo.». Le dice anche che il frutto della relazione fra Giove e Teti, un suo discendente, stirpe della sua stirpe, sarà «un figlio più forte del padre» in grado di annientare Giove, il padre degli dei: «Tale oracolo a me l'antica madre / die', la titania Temi.». Risponde Io: «Che dici? Un figlio mio ti farà libero?» e, colta da un nuovo accesso di delirio, se ne fugge a grandi balzi.

Nel Terzo canto attorno all'ara, il Coro così si esprime, pensando all'infelice destino d'Io: «Solo nozze tra simili / scevre son di terrore, / né le temo io. Ma l'occhio irresistibile / dei più possenti Numi / non si fissi su me pieno d'ardore. / Guerra non sostenibile / questa sarebbe, e origine / di mali senza uscita. / Qual sarebbe mia vita / ignoro: ignoro dove / alla brama sfuggir potrei di Giove.».

Nell'Ultimo episodio, parlando con la Corifea, Prometèo continua a insistere che il segreto che lui conosce porterà Giove a una rovina senza onore e che, soltanto grazie a lui, il Nume dei Numi potrebbe scamparla. Egli è convinto che ciò che brama avrà esito certo ed è disposto a tutto: «E tu leva preghiere, adora, adula. / Men che di nulla a me di Giove importa. / Faccia, comandi in questo scorcio breve / a suo talento. Poco tempo ancora / su gli Dei regnerà.».
Intimorito, Giove manda il dio Ermète, quale suo araldo e ministro dei Numi, per estorcere quel segreto a Prometeo. Così parla Ermète: «A te, gran saggio, a te che acerbo sei / più che ogni acerbo, che in oltraggio ai Numi / i loro onori compartisti agli uomini, / a te favello, involator del fuoco. / Ordina il padre che tu dica quali / nozze son queste ond'ei cadrà dal soglio.». L'indomito Titano resiste alle intimidazioni: «Ben presto quei che terzo ora comanda, / piombar vedrò, ben turpemente. / […] / E tu / riaffretta la strada onde sei giunto: / ché non saprai di quanto chiedi, nulla. / […] / Tramutar non vorrei le mie sciagure / con la tua servitù, sappilo bene. / […] / Oltraggiare così convien chi oltraggia. / […] / A dirla in breve, tutti i Numi aborro. / Da me beneficati, or mi maltrattano. / […] / Non v'ha tormento, / artificio non v'ha, con cui m'induca / Giove a parlar, se non allenti prima / questi ceppi d'obbrobrio. / […] / Tutto ho già visto, ponderato ho tutto.». Ed Ermète passa alle minacce: «E pure, inferma / è la saggezza onde t'esalti: audacia / per chi non ha saggezza, è men che nulla / di per se stessa. Or vedi, se convincerti / rifiuti ai detti miei, quale procella, / qual maroso di mali ineluttabili / piomberà sopra te. / […] / Ché mentire non sa di Giove il labbro, / ma ciò ch'ei dice, ei compie. Or tu considera, / pensa bene; e una volta almen convinciti / che più val dell'audacia il buon consiglio.». Dopo altre ulteriori intimidazioni di Ermète ( gli minaccia l'invio di un'aquila, che gli avrebbe squarciato il petto e dilaniato il fegato) e altri arroganti insulti di Prometèo, il ministro dei Numi chiede alle fanciulle del Coro di fuggire da quei luoghi: «ché il mugghio / spaventoso del tuono, non debba / per l'orrore distruggervi il cuore!», ma le fanciulle non vogliono tradir l'amico, abbandonandolo. E la punizione arriva implacabile. Prometèo viene scagliato insieme alla rupe alla quale è incatenato in un abisso infinito e senza fondo, mentre così urla: «Ecco i fatti, e non più le parole. / La terra sussulta, / mugghia l'eco del tuono profonda, / tutte fiamma le spire lampeggiano / delle folgori, a vortici va / roteando la polvere, danzano, / l'un con l'altro azzuffandosi i soffi, / tutti i venti: confusi con l'ètere / si sconvolgono i flutti del mare. / Tanta furia scoscende da Giove / contro me, perché tremi il mio cuore. / Di mia madre o tu fregio, o tu ètere, / tu che a tutti comparti la luce, / l'ingiustizia ch'io soffro mirate! (In mezzo a fulmini e orribili tuoni la montagna scoscende e seppellisce Promèteo)» (traduzione di Ettore Romagnoli, http://www.filosofico.net/promincateneschilo42.htm).

Eschilo (in greco antico (Αἰσχύλος) nacque da nobile famiglia il 525 a.C a Eleusi, un demo – piccola comunità abitata – di Atene. è il più antico dei drammaturghi greci, dei quali ci sono pervenute delle opere complete, e colui che aprì la strada alla grande tragedia greca di Sofocle ed Euripide. Visse un periodo politico intensissimo, combattendo contri i persiani a Maratona e a Salamina: queste ultime vicende costituirono il background per la composizione de I Persiani (472 a.C.) e dei Sette contro Tebe (467 a.C.) e per la sua visione del ruolo fondamentale di Atene nella storia del tempo. Fu testimone anche della fine della tirannia ateniese dei Pisistratidi e del primo evolversi della democrazia in Atene: Le supplici (463 a.C.) e le Eumenidi (458 a.C.) che insieme con Agamennone e Coefore faceva parte dell'“Orestea” (unica trilogia del teatro greco pervenutaci) e che contiene chiari riferimenti a quel rivoluzionario potere del popolo e ad Atene democratica quale estremo baluardo della Grecia libera contro lo strapotere dei persiani. Si recò a Siracusa, chiamato da Ierone, tiranno illuminato, ove venne in contatto con i circoli pitagorici e ove scrisse le Etnee, celebrando la fondazione della città di Aitna. Dopo aver subito un processo per empietà per avere violato in modo inconsapevole i segreti dei Misteri eleusini di cui era un adepto, fu costretto all'esilio a Gela (ritornando per la seconda volta in Sicilia), ove rappresentò l'Orestea (458 a.C.) e ove nel 456 a.C. morì. Valerio Massimo ha riportato la leggenda che racconta che Eschilo sarebbe morto per colpa di un'aquila, che gli avrebbe lasciato cadere una tartaruga sulla testa mentre sedeva su di un sasso fuori dalle mura della città.

Non soltanto autore poetico, Eschilo fu anche regista e innovatore: a lui si deve l'introduzione delle maschere e fu lui l'ideatore della “trilogia legata” (tre tragedie legate insieme in ordine cronologico dai contenuti). Trasformò il soliloquio del monologo di un solo attore nella drammatizzazione del dialogo di due attori togliendo importanza al coro; arricchì, inoltre, il testo di contrasti drammatici e di effetti teatrali sorprendenti realizzando, malgrado l'impianto arcaico delle sue tragedie, una più sofisticata concezione della scena. A queste innovazioni Eschilo fu spinto anche perché attratto dall'emergente Sofocle, che introdusse il terzo attore, creò dialoghi più complessi, elaborò trame più interessanti e mise in scena personaggi più approfonditi dal punto di vista psicologico.

Artista rigoroso e molto religioso, Eschilo si distinse nell'antichità per lo stile potente, per le immagini ricche di lirica suggestione, per la sublimazione della realtà, e per la forte tensione etica: allontanandosi dall'idea arcaica delle oscure forze del destino che travolgono l'uomo impotente e dell'“invidia degli dei”, affrontò il problema della colpa consapevole che dall'individuo si propaga all'intera stirpe, della punizione divina volta a far giustizia e ripristinare l'ordine, e della conoscenza dell'uomo maturata attraverso il dolore esistenziale. Rese la tragedia più adatta alla rappresentazione grazie a una retorica solenne e alle affascinanti metafore. Molto prolifico, avrebbe scritto circa novanta tragedie – delle quali si conosce l'esistenza per i riferimenti fatti da altri autori o per mezzo di antichi documenti – ma ci sono giunte soltanto le sette opere già citate.

Per i suoi particolari rapporti con il genere umano, Prometeo è stato quasi paragonato al Redentore, qual è rappresentato nella tradizione cristiana (l'eroe si sacrifica e muore per l'umanità che ha beneficato). Come Cristo è un uomo e Dio, Prometeo è un Titano, sia uomo che Nume ma si comporta come un dio, non volendo mai apparire come un uomo (egli appartiene, infatti, alla Mitologia). Nella trilogia di Prometeo è possibile che si conciliassero vecchie forze del passato (Giove appare come un tiranno ingiusto e un dio supremo) e giovani forze umane (Prometeo appare come l'eroe nuovo che arriva sino alla blasfemia). Furono questi gli aspetti che tanto piacquero al Romanticismo europeo.

Ricordo la nota poesia di Goethe (1749–1832) dedicata a Prometeo, di cui riporto la parte iniziale: «Copri pure, Giove, il tuo cielo con vapore di nubi / ed esercitati, come un fanciullo che decapiti cardi, / su querce e cime! Ma tu devi lasciar stare la mia terra, / la mia capanna che tu non hai costruito, / il mio focolare di cui m'invidi il calore. / Non conosco nulla di più misero sotto il sole di voi, dei! / […]».

Ricordo ancora, del 1833, la Traduzione dal greco del Prometeo incatenato di Eschilo (Prometheus Bound. Translated from the Greek of Aeschylus), da parte della grande poetessa vittoriana Elizabeth Barrett Browning (18061861), ricca di un variegato vocabolario e piena di effetti poetici rispettosi dello spirito del poeta greco (nel 1850 Elizabeth ripropose alquanto modificata la traduzione del Prometeo incatenato, correggendone alcuni difetti di traduzione, modificandone alcuni passaggi ed eliminando una certa monotonia di base).