domenica 27 maggio 2012

Euripide, Le Baccanti e il fascino del Mito greco


Euripide                                       Le Baccanti


è in corso per il 2012 il xlviii ciclo di rappresentazioni classiche a Siracusa – in quel meraviglioso palcoscenico all'aria aperta che è il Teatro Greco della città aretusea – con inizio l'11 maggio e conclusione il 30 giugno. Si rappresentano Prometeo di Eschilo, Baccanti di Euripide e Uccelli di Aristofane. Focalizzerò la mia attenzione sulle Baccanti e su Euripide, ricordando che la regia della tragedia è di Antonio Calenda, con le stupende coreografie della Martha Graham Dance Company.

Le Baccanti (titolo originale in greco antico Βάκχαι), è considerata a tutt'oggi una delle più grandi opere teatrali di tutti i tempi e costituisce una delle tragedie più antiche, scritta da Euripide (uno dei maggiori poeti tragici greci), e una di quelle rimaste più integre (e questo potrebbe forse far intuire quanto fosse amata e prediletta dal pubblico). Fu composta nel 407–406 a.C. e fu data in prima assoluta nel 403 a.C. presso il Teatro di Diòniso in Atene (sotto la direzione del figlio o nipote dell'autore ormai deceduto, chiamato anch'egli Euripide). Fu premiata alle Grandi Dionisie del 403 a.C.

I personaggi della tragedia sono: Diòniso, figlio di Zeus e di Semèle (Maurizio Donadoni); Pènteo, re di Tebe e figlio di Echiòne e Agave (Massimo Nicolini); Cadmo, padre di Semèle e Agave, nonno di Pènteo (Daniele Griggio); Agave, madre di Pènteo (Daniela Giovanetti), Tìresia, indovino cieco (Francesco Benedetto), la Corifea (Gaia Aprea) e naturalmente il coro delle Baccanti.

Ambientata a Tebe (davanti alla reggia di Pènteo, con vicino ancora fumanti le rovine della casa di Semèle), la trama ruota attorno a Diòniso – dio che celebra il vino, il teatro e il piacere, nato appunto dall'amore di Zeus per la donna mortale Semèle. Nel prologo, Diòniso racconta di essere venuto sulla terra, a Tebe, in forma umana per riaffermare la sua natura divina; così inizia la tragedia: «Suol di Tebe, a te giungo. Io son Diòniso, / generato da Giove, e da Semèle / figlia di Cadmo, a cui disciolse il grembo / del folgore la fiamma. Ora, mutate / le sembianze celesti in forma umana, / di Dirce all'acqua, ai flutti ismeni vengo. / Dell'arsa madre a questa reggia presso / veggo la tomba: le rovine veggo / della sua casa, ove il celeste fuoco / fumiga, vivo ancor, della vendetta / d'Era contro mia madre eterno segno.» – testo nella traduzione di Ettore Romagnoli (Roma, 1871–1938). Infatti, le sorelle di Semèle e il nipote Pènteo, che è il re di Tebe, invidiosi di lei, avevano sparso la diceria che Diòniso non fosse un dio, essendo nato dalla relazione di Semèle con un mortale: «[…] perché le suore di mia madre, quelle / che meno lo dovean, disser che mai / figlio non fu Diòniso di Giove, / e che Semèle, da un mortale incinta, / a Giove attribuita avea la colpa, / per consiglio di Cadmo: onde l'Iddio / per le nozze mentite a lei die' morte.».

Per vendicarsi, Diòniso ha travolto le menti e ha rese folli tutte le donne tebane (comprese le figlie di Cadmo e sorelle di Semèle), riparate sul monte Citerone – lo stesso dove Atteone, trasformato in cervo fu sbranato dalle sue cagne – per celebrare i riti in onore di Diòniso e divenute delle Baccanti (Bacco è un altro nome di Diòniso): «Però fuor dalle case io le cacciai / in preda alla follia. Prive di senno / han per dimora il monte; e le costrinsi / ad indossar dell'orge mie le spoglie. / E quante donne ha la città di Cadmo, / fuor dalle case, a delirare, io spinsi; / e donne insieme e giovinette corrono / a ciel sereno sotto i verdi abeti. / Voglia o non voglia, deve Tebe intendere / che priva è ancor dei riti miei, che deve / me per mia madre celebrar, ch'io sono / figlio di Giove, e Nume apparvi agli uomini. / […] / Dunque, a lui mostrerò che Nume io sono, / ed a tutti i Tebani. […] Venni perciò, mortal parvenza assunsi, / e mutai la mia forma in forma umana.».

Tirannico, irascibile e irragionevole, Pènteo (che ha ricevuto il potere da Cadmio) si rifiuta di riconoscere Diòniso come dio e lotta contro il suo potere, nonostante il nonno Cadmo e l'indovino cieco Tìresia cerchino di convincerlo del contrario; dice Cadmo parlando con Tìresia vestito da baccante: «Io sono pronto, e meco / ho gli arredi del Dio. Tu sai ch'è figlio / della mia figlia: è giusto ch'io lo esalti / per quanto è in me. Dove convien danzare, / muovere il pie', scuotere il crine bianco? / Guida me vecchio, tu, vecchio Tìresia: / ché tu sei savio: ed io mai sarò stanco / di picchiar notte e giorno a terra il tirso: / ché d'esser vecchio io volentier dimentico. / […] / Io vecchio un vecchio guiderò qual pargolo?».

Infuriato, Pènteo si lamenta che le donne, «simulando un estro bacchico», avevano abbandonato le loro case, correndo tra i boschi, onorando con i balli Diòniso e giocando a rimpiattino con gli uomini; egli le aveva incarcerate e quelle disperse per i monti le avrebbe «strette in ferree reti», ponendo fine al loro «pernicioso impeto d'orge». Ha saputo che è giunto un forestiere: «un fattucchiere ciurmator di Lidia, / di bionde chiome ricciole fragranti, / vermiglio in viso, e voluttà spirante / da le pupille, che dí e notte celebra / fra donne giovanette i riti bacchici.». Inutilmente Tìresia gli dice: «Questo novello iddio che tu schernisci, / non ti so dire quanta sia per l'Ellade / la sua grandezza. […] / che all'uom donò l'umor dolce dei grappoli, / l'umido succo che solleva i miseri / d'ogni cordoglio, allor che si riempiono / dell'umor della vite, e dà nel sonno / l'oblio dei mali cotidiani; e farmaco / altro non v'è delle fatiche. / […] / Ed è profeta questo Dio: ché molto / profetico estro è nel furore bacchico. / E quando in abbondanza alcun l'ingurgiti, / fa' sí che gli ebbri dicano il futuro. […] / Pènteo, m'odi. / Non illuderti ch'essere sovrano / per i mortali sia vera potenza; / né reputarti, sol perché lo credi, / saggio, quando non saggia è la tua mente. / Il Nume accogli in questa terra, e liba, / celebra l'orge, al crin ghirlanda cingi.». E anche Cadmo così cerca di convincere Pènteo: «Se pur, come tu dici, / Nume non è, lascia che qui lo chiamino / Nume: e parrà, per questa pia menzogna, / ch'abbia Semèle generato un Dio, / e onore avrem la nostra casa e noi.».

Pènteo non vuol sentire ragioni e manda le sue guardie a cercare il forestiero per arrestarlo e imprigionarlo all'interno della sua reggia: «E voi correte a Tebe, e rintracciate / il forestiere di donnesco aspetto, / che alle femmine adduce il nuovo morbo, / e contamina i letti. E se potrete / coglierlo, in ceppi avvinto qui portatelo, / sì che sotto le pietre espii le colpe, / e l'orge in Tebe gli sappian d'amaro!». Le guardie gli portano Diòniso con le mani legate: «Pènteo, siam qui. La preda ti rechiamo / sulla cui traccia ne inviasti: vana / non fu l'opera nostra. E questa fiera / fu con noi mite, e a fuga il pie' non volse; / ma le man' porse di buon grado, senza / sbiancare in viso; ma così, vermiglio / e ridente, stie' fermo, e c'invitò / a legarlo e condurlo; […]».

Pènteo minaccia di tenerlo custodito in ceppi ma Diòniso gli risponde che il Nume, che gli sta vicino e che vede come soffre, lo avrebbe sciolto quando egli glielo avrebbe chiesto. Furioso per le sue parole, Pènteo lo fa rinchiudere presso le stalle, nelle segrete dalle tenebre più profonde, mentre Diòniso gli profetizza: «Ma il Dio che tu neghi, Diòniso, / trarrà vendetta dell'ingiurie tue: / ché, me legando, in ceppi il Nume stringi.». Infatti, Diòniso scatena un terremoto, liberandosi facilmente; si sente una scossa tremenda e un rombo, e tutto il Coro si lamenta: «Come la terra scuotono i Numi! / Ahimè, ahimè! / Cadrà di Pènteo / la reggia al suolo presto in frantumi. / Sopra la casa piombò Diòniso!», mentre la reggia comincia a crollare e dalla tomba di Semèle si levano altissime fiamme. E le Baccanti si prostrano dinanzi a Diòniso, che esce trionfante dalla reggia e che volge lo sguardo su loro.

Dal monte Citerone, intanto, un bifolco porta notizie spaventose; le baccanti in pieno furore dionisiaco allattavano i selvaggi cuccioli di lupo, dalla roccia avevano fatto sgorgare polle di acqua fredda e vino, dal suolo avevano grattato latte puro e dagli arbusti avevano fatto scorrere rivoli di miele. I bifolchi e i pastori si erano adunati e si erano salvati dall'esser sbranati, soltanto fuggendo e nascondendosi. Le Baccanti avevano poi squartato viva una mandria di mucche: «Esse piombarono / sopra le greggi che pasceano l'erba, / senz'arme in pugno: e lì, questa vedevi / in due squarciare una mammosa vacca / muggente; l'altra lacerare a brani / a brani le giovenche: e fianchi e bifidi / zoccoli su e giù lanciar vedevansi, / e sanguinanti penzolar dai rami. / E i tori violenti, avvezzi al rabido / cozzo dei corni, al suol giacean fiaccati, / tratti giù dalle mani innumerevoli / delle fanciulle; e in men che tu le palpebre, / o re, non serri, fatti erano in pezzi.». E le donne impazzite avevano messo tutto a sacco, rapendo bambini e mettendo in fuga la popolazione atterrita: «Dalle case rapiano i pargoletti; / e quanto si ponean sopra le spalle, / o bronzo o ferro, senza alcun legame / vi adería, né cadea sul negro suolo./ E portavano fuoco sopra i riccioli, / né le bruciava. […]». E il bifolco spaventato invita Pènteo a ritornare sui suoi passi: «Questo Dèmone dunque accogli, o re, / qual ch'egli sia, nella città: ché sommo / è in tutto; ed ai mortali, a quel che dicono, / donò la vite che sopisce il duolo. / E dove non è vino non è amore;/ né alcun altro diletto hanno i mortali.».

Convinto da Diòniso, dopo molte perplessità, invece di concentrare le sue forze militari contro le Baccanti, Pènteo decide di travestirsi da donna (ricoprendo di pepli di bisso le sue membra, sciogliendo la chioma sugli omeri e mettendo delle bende sul capo), per poter spiare le Baccanti senza essere scoperto. Dalla reggia escono Diòniso che parla e Pènteo che lo segue: «Tu che brami veder quanto vedere / non conviene, e t'affretti a ciò che meglio / saria fuggire, esci, o Pènteo, nei panni / di Mènade baccante a noi ti mostra. / […] / D'una figlia di Cadmo hai la figura!». Pènteo gli assicura che sarebbe stato nascosto fra gli abeti. Aizzate dal dio, però, le Baccanti lo ritrovano e – scambiandolo per un leone – lo fanno a pezzi, guidate da Agave, la madre di Pènteo, divenuta anch'essa una Baccante: «E lui scoprir le Mènadi, più ch'egli / non le scoprì. Ché mentre ancor nascosto / era fra i rami, lo straniero sparve, / e una voce per l'ètere – la voce / di Diòniso, penso – risuonò: / “L'uomo io vi reco, o femmine, che voi, / che me, che l'orge mie mise in ludibrio: / traetene vendetta!” / […] / Con mille e mille mani / quelle abbrancar l'abete, e lo divelsero; / e dall'eccelso suo rifugio, a terra, / con mille e mille strida, Pènteo giù / cadde, che si sentia giunto al suo fine. / Prima su lui piombò, ministra prima / fu del rito di sangue Agave a lui. / Ed ei, perché la madre lo ravvisi, / via dalle chiome le bende scagliò, / e le sfiorò la gota, e disse: “O madre, / io son Pènteo, sono tuo figlio! Nacqui / di te, nei tetti d'Echióne! Ora, abbi / pietà di me; e per gli errori suoi, / non voler, madre, uccidere tuo figlio!”. / Quella, sputando bava, e roteando, / torcendo le pupille, e dissennata, / era invasa dal Nume, e non l'udiva; / ma con la manca un braccio gli afferrò, / e, il pie' puntando sopra il fianco al misero, / l'omero gli strappò: non di sua forza, / ma nelle mani un Dio vigor le infuse. / […] / Ed una un braccio, un pie' l'altra portava: / nude l'ossa apparian dai fianchi rotti; / e con le mani sanguinose tutte / si palleggiavan di Pènteo le carni.».

è un messaggero ritornato a Tebe a narrare questi fatti a Cadmo, che poco dopo vede arrivare la figlia Agave, delirante, che grida in modo dissennato (seguita da uno stuolo di donne
in costume di Baccanti, anch'esse dissennate e deliranti) e che porta un bastone su cui è infilzata la testa di Pènteo (che crede quella del leone). Ella cerca il vecchio padre Cadmo e il figlio Pènteo per mostrar loro la testa della fiera smembrata con le sue stesse mani bianche. Cadmo, che aveva intanto cercato, ricomposto e riportato i poveri resti di Pènteo, riesce a far ritornare in sé la figlia Agave, che misura con orrore quel che ha fatto (ha ucciso il figlio e ne ha infilzato come un trofeo la testa): «O padre, vedi la sciagura mia! / Pènteo miseramente fra le rupi / sbranato giacque. Ed ora, con che lagrime / lo piangerò? Come potrò, me misera, / stringerlo al sen, toccarlo con le mani / che commiser lo scempio? A brani a brani / le membra che ho nutrite io bacerò!»; infine, gettando a terra i paramenti del dio, proclama di non voler vedere mai più il monte Citerone.

Diòniso riappare dinanzi a Cadmo, che sta piangendo la morte di Pènteo, spiegando di avere compiuto la sua vendetta per punire tutti coloro che non credevano alla sua natura divina. Decreta anche che Cadmo e Agave debbono separarsi per essere esiliati in terre lontane. Ad Agave dice: «Tu con le sorelle / Tebe lasciar dovrete, e il fio pagare / del duro scempio a lui che avete ucciso; / né vedrete più mai la patria vostra.». A Cadmo – che pure era stato l’unico della famiglia a riconoscere la sua natura divina – Diòniso dice: «se saggi / stati voi foste allor che non voleste, / vi sarei stato amico, e voi felici» e profetizza che dovrà soffrire finché, trasformato in drago, non troverà la pace con Armonia, datagli in sposa da Marte e trasformata in serpe. Ci si avvicina alla conclusione con il padre e la figlia che si dicono addio e che si abbracciano, piangendo l'uno per l'altra, e con Agave che saluta la terra amata: «Addio, mia casa! Addio / terra ove nacqui. Lungi dalla reggia / ove fui sposa, me spinge sventura.»; si lasciano, quindi, per affrontare il loro destino di esilio e separazione. La tragedia termina con le parole della prima Corifea: «Spesso tramuta quando oprano i Dèmoni, / e inaspettati eventi i Numi compiono. / E a ciò che s'attendea negarono esito, / e all'inatteso aprir tramite agevole. / Della favola triste è questo il termine.».

Le Baccanti fu la tragedia della maturità, scritta da Euripide mentre si trovava presso la corte di Archelao (re di Macedonia) pochi mesi prima della sua morte. Essa è considerata da taluni come la riscoperta finale della religione da parte di un drammaturgo che per tutta la sua vita aveva voluto essere assolutamente laico, ma alcuni studiosi, invece, vi hanno visto una forte e drammatica invettiva anti–religiosa. Infatti, di fronte la vendetta del dio Diòniso è troppo spietata ed egli è tanto privo di scrupoli e di pietà verso gli uomini che, criticamente, Agave si rivolge a Diòniso alla fine dell'opera dicendogli: «Vero è; ma troppo contro noi t'avventi! / […] / Rancor mortale ai Numi non si addice!».

Si è anche detto che questa tragedia sancisca la fine dell'eroe tragico, dignitoso nonostante tutto; infatti, il protagonista Pènteo sembra perdere invece ogni sua dignità: vestito da donna, è messo in una posizione quasi grottesca, non degna di un eroe classico, e anche il nucleo tragico della vicenda sembra spesso venire quasi ridicolizzato.

è anche interessante il fatto che Euripide si fosse ispirato a qualcosa di reale che – se anche non si praticava più nell'Atene nel V secolo a.C. – era ancora in vita in alcune località più primitive del mondo greco: alcune donne (dette Baccanti o anche Menàdi) si riunivano in gruppi detti tìasi, ad anni alterni, ritirandosi sui monti per celebrare i riti di Diòniso, abbandonandosi senza freni a danze e suoni col sacro flauto e con i frigi timpani, sbranando gli animali a mani nude e mangiandone le carni crude.

Un'altra cosa degna di nota è che, nel Fedro, Platone afferma essere la follia superiore alla sapienza (nel senso di saggezza: sophía), poiché la seconda è di origine umana mentre la prima è di origine divina; e la follia di cui parla Platone è proprio quella iniziatica che è riconducibile ai riti del dio Diòniso (gli altri tipi di follia sono quella profetica riconducibile ad Apollo, quella poetica riconducibile alle Muse e quella erotica riconducibile ad Afrodite). D'altra parte, oltre alla follia, le Baccanti sembrano portare avanti anche il desiderio e la soddisfazione di una società alternativa, vissuta a contatto con la natura e lontana dagli stili cittadini: «O padre, molto gloriarti puoi, / che generasti valorose figlie / come niun dei mortali: io dico tutte, / e più di tutte me, che, abbandonate / presso i telai le spole, a maggior gesta / venni, e cacciai con le mani le belve!». In esse, c'è anche la voglia di un recupero di autonomia esistenziale che meglio consentiva loro una matura consapevolezza di sé; così canta appunto il coro delle Baccanti: «Oh felice, chi, ai Superi / diletto, assiste ai lor sacri misterii, / e il suo viver santifica / inebriando l'anima nel tíaso, / pei monti, in estro bacchico, / e della Madre Rea celebra l'orge / solenni, ed alto in aria / il tirso squassa, e servo di Diòniso / si fa, cinto il crin d'ellera! […] Savio non è chi troppo è savio, e l'occhio / oltre agli umani limiti / volge. Breve è la vita. Or chi, seguendo l'ardue / cose, vorrà le facili / non sopportare? Offeso, a quanto sembrami, / chi così opra, ha il cèrebro / dalla follia, né bene si consiglia.».

Euripide – che insieme a Eschilo (525–456 a.C.) e Sofocle (496–406 a.C.) fu tra i grandi poeti tragici greci – seppe esprimere nelle sue tragedie atteggiamenti filosofici di profonda introspezione psicologica. Era nato a Salamina (stupenda isola nel golfo di Sarònico, sita di fronte ad Atene) il 20 settembre del 480 a.C., proprio il giorno della famosa battaglia che vide i greci vincitori sui persiani (e il suo nome trasse appunto ispirazione dal canale Euripe, nei pressi del luogo ove si svolse il combattimento). Il padre Mnesarco (forse un semplice bottegaio ma ricco di beni e terre) gli fece dare un'ottima istruzione mentre la madre era soltanto un'umile erbivendola. Su questa umiltà delle origini del grande autore tragico, insistette il quasi contemporaneo commediografo ateniese Aristofane (445–388 a.C), un ricco aristocratico dalla cultura raffinata, che odiava Euripide considerandolo un rozzo innovatore di costumi e che, a proposito di alcuni umili protagonisti rappresentati da Euripide, parlò con feroce sarcasmo di «straccioni euripidei».

Da giovane, l'autore greco fu nutrito del culto di Apollo e divenne amico del grande filosofo ateniese Socrate (469–399 a.C.); in seguito crebbe nell'area della filosofia sofistica di Protagora di Abdera (V sec. a.C.), che riteneva l’uomo la misura di tutte le cose e che ne influenzò gli interessi, i  gusti e la cultura. Euripide si dedicò con successo anche alla pittura. Fu un uomo solitario e individualista (la leggenda narra che scrivesse i suoi drammi in una grotta sul mare), probabilmente ateo, e non si occupò mai di politica pur essendo molto aperto alla cultura anti-tradizionale e alle inquietudini del suo tempo. Ebbe il merito di ridurre nella drammaturgia greca la prevalenza del Coro (usato essenzialmente per rallentare l’azione drammatica) e la presenza irrinunciabile degli Dei, ricorrendo spesso al deus ex machina (una soluzione drammatica usata soltanto più tardi) e cercando di mettere al centro delle sue rappresentazioni teatrali l'uomo con la sua essenza umana e psicologica. In un nuovo “realismo umanistico”, l'individuo diviene il vero protagonista con la sua calda umanità, le sue violente passioni e i suoi vivi sentimenti: non è un personaggio fermo e risoluto, ma più modernamente un soggetto problematico e conflittuale, che può godere del lieto fine soltanto eccezionalmente e che nel dolore conquista la sua maggiore dignità tragica.

Euripide usò un linguaggio d'uso quotidiano ma contemporaneamente lirico e sublime, ricco d'immagini fantasiose e di musicalità; le trame e i temi erano squisitamente riferibili alla psiche umana e si rivolgevano al destino e al fato (padroni della sorte dell'uomo), oltre che alle ragioni e ai modi del vivere umano. I suoi personaggi diventano spesso personificazioni universali di sentimenti umani.

Euripide scrisse 92 composizioni drammatiche, delle quali ci restano 17 tragedie e il dramma satirico Il Ciclope. Nelle prime composizioni ha privilegiato le tematiche amorose, rappresentando delle tragedie condizionate dalle passioni umane e dalle forze elementari dell'amore; in seguito, si è ispirato a tematiche politico–patriottiche e al problema del caso che in modo cieco e oscuro confonde i destini degli uomini.

L’ordine cronologico delle sue tragedie è incerto. Le prime furono probabilmente Alcesti (438 a.C.) e Medea (431); seguirono Ippolito (428), Ecuba (420), Troiane (415) ed Elettra (413); tra le ultime vi furono Elena (412) e Oreste (408). Grazie a Euripide il giovane (il figlio o meglio il nipote di Euripide), furono rappresentate postume Ifigenia in Aulide e Baccanti (forse il suo capolavoro, ricco di un fascino ambiguo e misterioso). Al suo tempo, in Grecia, si tenevano delle gare di teatro definite «agoni tragici»: egli fu vincitore di quattro o cinque di questi agoni (il primo lo vinse nel 441 a.C.) ma in realtà in vita ebbe scarsa popolarità. Morì nel 406 a.C. (forse sbranato da una muta di cani famelici) in Macedonia ove viveva alla corte di Archelao, dopo avere abbandonato Atene. Dopo la sua morte, Euripide raggiunse una fama immensa, ispirando con i suoi testi sperimentali la “Commedia Nova” greca e la drammaturgia latina: gli ateniesi gli dedicarono una statua di bronzo nel teatro di Dioniso (330 a.C.). Fu amato dal raffinato poeta francese Jean Racine (1639–1699) e dal grande scrittore tedesco Johann Wolfgang Goethe (1749–1832), che con moderna spiritualità rivisitarono alcune grandi protagoniste di Euripide, come Andromaca o Ifigenia.

Lo scrittore calabrese Corrado Alvaro (18951956), che tra il 1950 e il 1951 scrisse un’Alcesti dando una moderna rilettura del mito di Euripide, era interessato alla rielaborazione della mitologia classica e scriveva: «Abbiamo sempre bisogno di ricorrere ai miti del passato per stabilire i termini del presente… L’antichità aggiunge nobiltà al dramma borghese, la lontananza creata dal mito gli dà risonanza poetica. Il secondo dopoguerra, come il primo, ha cercato di leggere chiaro nel destino contemporaneo rispecchiandolo negli eroi del passato».

martedì 22 maggio 2012

Richard Brooks e il suo cinema realista e democratico



Richard Brooks


Il 18 maggio di cento anni addietro nasceva Richard Brooks, abile regista e fantastico sceneggiatore, artefice di molti film immortali che abbiamo amato e che sempre ameremo perché ha realizzato il connubio perfetto, "il magico accordo" tra cinema e letteratura. Oscar nel 1961 per la migliore sceneggiatura non originale per “Il figlio di Giuda”, può, senz'altro considerarsi uno dei padri del «Dramma realista» e del «Neorealismo democratico».

All'anagrafe Ruben Sax, nacque a Filadelfia (Pennsylvania) nel 1912 e morì a Beverly Hills, Los Angeles (California), l'11 marzo del 1992 all'età di 79 anni per un grave scompenso cardiaco.

Dopo aver studiato giornalismo alla Temple University e dopo una breve collaborazione con la NBC, si diede alla drammaturgia radiofonica e alla sceneggiatura cinematografica usando lo pseudonimo di Richard Brooks (cambiò definitivamente e legalmente il suo nome nel 1943). Alla fine del 1940 si trasferì a Los Angeles per lavorare nel cinema e, prima della guerra, partecipò ad alcuni discreti B–movie mostrando già il taglio sicuro di un autore forte e drammatico. Fu, però, soltanto dopo la guerra che il suo genio creativo e il suo spirito d'intellettuale “liberal” s'imposero nel più importante cinema di Hollywood. Questo avvenne anche sulla scia del successo di alcuni romanzi ben scritti e ben congegnati dalle storie vibranti e ricche di pathos: The Brick Foxhole – recensito favorevolmente e scritto durante la seconda Guerra Mondiale, quando Richard lavorava nella “Marine Corps Film Unit” a Quantico (Virginia) e talora a Camp Pendleton (California) dedicandosi a scrivere e a produrre documentari – dal quale Edward Dmytryk trasse il film nominato all'Oscar Odio implacabile (Crossfire) (1947), uno dei primi importanti film di Hollywood a parlare di anti–semitismo, con Robert Mitchum, Robert Ryan e Gloria Grahame (ambientato in una tetra atmosfera notturna, racconta di un ebreo che viene ucciso da un reduce psicopatico); The Boiling Point (1948); e The Producer (1951), dedicato al mondo della produzione cinematografica delle Majors e ispirato al potente produttore indipendente Mark Hellinger che contribuì a lanciare Brooks nel mondo del cinema facendolo assumere dalla Warner Brothers. Mark Hellinger amava vestirsi come un gangster ma era un intellettuale acuto e intelligente; scrisse i soggetti di due film notevoli: “I ruggenti Anni Venti” (1939) e “La città nuda” (1948).

Tra le sceneggiature di questo periodo, ricordiamo quelle per i film Una celebre canaglia (Swell Guy) (1946) di Frank Tuttle con Ann Blyth e Sonny Tufts; La forza bruta (Brute Force) (1947), film crudo e realistico di Jules Dassin, e «uno dei capolavori del genere cosiddetto “carcerario”, protagonista B. Lancaster (uno degli attori preferiti di Brooks) alle prese con un sadico aguzzino e un'evasione che sfocia in una carneficina» (Cinema, le garzantine, a cura di Gianni Canova, Garzanti, 2009); L'isola di corallo (Key Largo) (1948), co–diretto con John Huston (un altro mentore di Richard Brooks), adattato da un dramma del drammaturgo statunitense Maxwell Anderson (1888–1959), con Humphrey Bogart e Lauren Bacall – iniziò così una lunga e affettuosa amicizia con Bogart; e Fate il vostro gioco (Any Number Can Play) (1949) di Mervyn LeRoy con Clark Gable, che interpreta il proprietario di un casinò, e Alexis Smith.

Dopo esser passato alla MGM, nel 1950 Brooks fece la sua prima regia per il film melodrammatico – definito “a medical thriller” – La rivolta (Crisis) (1950), opera di forte impegno politico e di tensione morale che narra di un neurochirurgo (Cary Grant) dibattuto da una crisi di coscienza perché costretto a salvare col suo intervento la vita a un sanguinario dittatore del Sud America (interpretato da Jose Ferrer). Il suo secondo film fu la commedia romantica girata in Italia L'immagine meravigliosa (The Light Touch) (1951) con Stewart Granger, storia di Sam, un ladro professionista che deve organizzare un furto in un museo italiano e di Anna, un'attraente pittrice italiana, inconsapevole copista di quadri famosi rubati.

Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, il suo periodo di maggiore splendore, Richard Brooks si meritò la nomination all'Oscar per la sceneggiatura e la regia dei seguenti cinque film, tutti straordinari e tesi da un punto di vista morale.

1. Il seme della violenza (Blackboard Jungle) (1955), tratto dal vigoroso best–seller di Evan Hunter, noto come Ed McBain (1926–2005), con Glenn Ford, narra di Richard Dadies, un reduce idealista assunto come professore in una scuola della periferia povera di New York City; tranquillo ma risoluto, è costretto a misurarsi con l'ostilità dei colleghi e del preside per aiutare, con una dura lotta civile e a caro prezzo, gli studenti disadattati e violenti della sua scolaresca che lo boicottano. Il film divenne un “cult” per le giovani generazioni degli Anni Cinquanta e sorprese tutti per la vivace rappresentazione della violenza e della delinquenza del mondo giovanile americano del tempo, facendo conoscere alla massa e alla critica il talento del giovane attore di colore Sidney Poitier e procurando a Brooks la prima nomination all'Oscar per la sceneggiatura nel 1956: «Il film, che per la prima volta utilizza il rock 'n roll per la colonna sonora (Bill Haley e i Comets), fa scalpore e diventa il prototipo di una lunga serie di drammi dedicati al contrasto generazionale nelle metropoli degradate» (Cinema, le garzantine, a cura di Gianni Canova, Garzanti, 2009). Ha commentato Morandini: «Conta per le qualità morali (sincerità, coraggio, buone intenzioni) più che per quelle estetiche. Difficile dire dove finisca la tenerezza del regista e dove cominci l'irrealismo ingannatore delle sue proposte.» (il Morandini, Zanichelli editore).

2. La gatta sul tetto che scotta (Cat on a Hot Tin Roof) (1958), tratto da un dramma di Tennessee Williams (1914–1983) che era stato un grande successo a Broadway, è un film grondante sensualità e sesso, un successo di critica e di botteghino tale da dare l'indipendenza a Brooks e alla sua visione del cinema (fu il regista che guidò la transizione tra il sistema classico degli Studios e la produzione indipendente), storia del fallimento di un matrimonio eterosessuale per l'omosessualità latente dell'uomo e sullo sfondo un contrasto feroce tra lui e il padre affetto da machismo. Contribuì a rilanciare Elizabeth Taylor (Maggie) facendo una star di Paul Newman (Brick), il fragile, tormentato e alcolizzato protagonista. Brooks ricevette la seconda nomination all'Oscar per la migliore sceneggiatura e migliore regia nel 1959. Ha commentato Morandini: «Un autoritario barone terriero del Mississippi malato di cancro festeggia il 65° compleanno insoddisfatto dei due figli, uno dei quali è un avido bruto e l'altro un ex atleta nevrotico che rifiuta di dormire con la bella moglie. […] Sotto la guida di Brooks si recita benissimo. Ebbe 6 nomination ai premi Oscar e non ne vinse nessuno.» (il Morandini, Zanichelli editore).

3. Il figlio di Giuda (Elmer Gantry) (1960), tratto dal romanzo dello scrittore americano Sinclair Lewis (1885–1951) scritto nel 1927, è un film controverso e amaro nel suo alternarsi tra sacro e profano, che racconta la storia di Elmer Gantry (Burt Lancaster), un rappresentante di elettrodomestici vagabondo, simpatico e chiacchierone che conosce sorella Sharon Falconer (Jean Simmons), una suora laica e la carismatica leader di un movimento revivalista che va predicando il Vangelo per le piccole città di provincia del Midwest. Elmer vorrebbe sposarla ma lei, a causa della sua missione, lo rifiuta; l'uomo riesce abilmente a entrare a far parte del suo gruppo religioso divenendone l'istrionico predicatore, richiamando un grande pubblico e ricavando grosse somme di denaro attraverso le offerte degli ingenui fedeli. Verrà incastrato come ciarlatano e impostore da Lulu Bain (Shirley Jones), una prostituta, sua intima amica, ancora innamorata di lui, che l'uomo farà allontanare con l'inganno; e Sharon alla fine perderà la vita in un incendio. Il film rappresentò un'accusa dura e impietosa contro il bigottismo, l'ipocrisia religiosa, il fanatismo e l'isteria di massa, tipici di un certo ceto americano. Ricevette cinque nomination nel 1961 e vinsero l'Oscar Lancaster come migliore attore protagonista, Shirley Jones come migliore attrice non protagonista, e Brooks per lo script originale. Ha commentato Morandini: «È in assoluto il miglior film USA del 1960, e uno dei migliori di Brooks, romanziere, sceneggiatore e regista: un saggio inquietante e geniale sulla religiosità dell'homo americanus.» (il Morandini, Zanichelli editore).

4. I professionisti (The Professionals) (1966) era tratto da un romanzo di serie B di Frank O'Rourke (1916–1989) ma Brooks riuscì a trasformarlo in uno dei western più interessanti mai girati, grande e spettacolare, un western di transizione. Racconta di un influente possidente americano che assolda dei professionisti mercenari (Lee Marvin, Robert Ryan e Woody Strode) per ritrovare in Messico la giovane moglie (Claudia Cardinale) rapita da alcuni ribelli messicani capitanati da un feroce Jack Palance; a loro si unirà un dinamitardo (interpretato magistralmente da Burt Lancaster) che s'innamorerà dell'ostaggio. Brooks ricevette la quarta nomination all'Oscar per la regia. Ha commentato Morandini: «Compiuta la missione tra mille insidie, i quattro si rendono conto che l'americano è un uomo senza scrupoli, che tratta la moglie come una proprietà. Liberano la donna e l'uomo che l'aveva rapita, in realtà il suo amante, secondo un loro codice morale e senza contravvenire al patto con l'americano. Un gesto romantico che costa loro il premio pattuito. […] Certamente un film sull'amicizia virile, ma senza il compiacimento che spesso questo tema comporta. […] Un grande film in attesa di un giudizio finale più onesto da parte di chi lo ha inserito nell'anonimo mucchio dei film da gettare.» (il Morandini, Zanichelli editore).

5. A sangue freddo (In Cold Blood) (1967) è tratto da un testo di Truman Capote (1924–1984) che racconta l'assassinio e la follia; l'autore scelse proprio Brooks per l'adattamento del suo best–seller, e insieme Brooks e Capote adattarono una “storia vera (nonfiction novel)”, realizzando «un resoconto scritto da T.C. sull'immotivato eccidio di una famiglia del Kansas da parte di due vagabondi, con l'aggiunta di materiale originale, di numerosi flash–back freudiani» (Il Cinema – Grande storia illustrata, Ist. Geografico De Agostini, Novara, 1981). I due vollero per interpretare i due giovani sbandati in libertà vigilata – responsabili della strage della famiglia Clutter (padre, madre e due figli) avvenuta a scopo di furto nel novembre del 1959 – due attori sconosciuti (Scott Wilson e Robert Blake) e cercarono di approfondire soprattutto le motivazioni dell'inconscio dei due assassini. Girarono il film in bianco e nero, e usarono la medesima località e la stessa fattoria del delitto per dare un maggiore senso di verità: ne uscì una pellicola di taglio maturo e moderno e di stringente coinvolgimento, che lanciava un forte messaggio contro la pena di morte, veicolo di nuova e inaudita violenza. Ha commentato Morandini: «Rei confessi al processo, i colpevoli sono giustiziati il 14/4/1965. L'anno dopo Truman Capote pubblicò il romanzo–documento, costato sei anni di lavoro, che gli diede la fama. Autore anche della sceneggiatura, R. Brooks ne cava un film di stile semidocumentaristico: asciutto, intenso, implacabile, girato nei luoghi reali, compresa la casa del delitto. Scene raccapriccianti, ma senza compiacimenti.» (il Morandini, Zanichelli editore). Questo film rappresentò il culmine della carriera di Brooks e gli meritò la quinta nomination all'Oscar per la migliore sceneggiatura e la migliore regia.

Autore geniale, Richard Brooks continuò a dare voce e forma cinematografica ai grandi scrittori e drammaturghi americani contemporanei. Nel 1954 Brooks girò lo «strappalacrime» L'ultima volta che vidi Parigi (The Last Time I Saw Paris) (1954) con una superba e bellissima Liz Taylor, storia d'amore di Charles Willis (Van Johnson), un cronista di guerra che nel 1945, nell'euforia della Liberazione, ha sposato la compatriota Helen. Hanno avuto una figlia Vicki ma l'uomo (scrittore deluso) è divenuto alcolizzato e indifferente mentre Helen (donna ricca e viziata) vive una frivola vita mondana, trascurando la figlia e abbandonandosi a un'avventura extraconiugale. Poi Helen si ammala e muore, e Charles va a riprendersi Vicki, lasciata alla cognata Marion. Ha commentato Morandini: «Tratto da un romanzo di Elliot Paul (1891–1958) e dal racconto “Babylon Revisited” di Francis Scott Fitzgerald (1896–1940) su sceneggiatura di R. Brooks con Julius e Philip Epstein, il film è tutto giocato sulla corda della memoria e del rimpianto. Ha una bella e intensa parte centrale, ma verso la fine scade nel melodramma lacrimoso. […] Raramente, comunque, Johnson è stato così bravo e la Taylor così radiosa. Bella canzone di Jerome Kern.» (il Morandini, Zanichelli editore).

Un film particolare, sofferto e intimista, col quale il regista seppe volgersi ai piccoli grandi problemi della povera gente, è Pranzo di nozze (The Catered Affair) (1956), tratto da un teledramma naturalista di Paddy Chayefsky (1923–1981), il commediografo newyorchese noto per “Marty, vita di un timido”, scritto nel 1953 e divenuto un superbo film con Ernest Borgnine, vincitore di Oscar. Lo stesso Borgnine interpreta un povero taxi–driver del Bronx, un padre – che ha messo da parte un gruzzoletto per migliorare il suo tenore di vita – la cui figlia Jane (Debbie Reynolds) gli annuncia di voler sposare Ralph, giovane senza mezzi: i due aspirano a una semplice cerimonia ma si ritrovano contro la madre (una sciatta ma grandissima Bette Davies) e i genitori di Ralph che vorrebbero una cerimonia importante. I due fidanzati, alle prese con i piccoli grandi problemi della preparazione di questo matrimonio, provocheranno l'inevitabile esplosione delle tensioni emotive familiari. Ha commentato Morandini: «è un film nei paraggi di Marty con gli irlandesi al posto degli italoamericani. Non ne possiede i momenti poetici, ma ha un'articolazione socialmente più complessa dove la dimensione economica non è disgiunta da un'approfondita analisi psicologica. Di suo l'onesto R. Brooks mette delicatezza, tenerezza, lucidità, aggiramento delle secche del sentimentalismo e dei luoghi comuni crepuscolari.» (il Morandini, Zanichelli editore). Questo film e le altre pellicole tratte dai drammi di Paddy Chayefsky sono «storie semplici di gente semplice… sono l'archetipo del “clotheslines drama (dramma della corda della biancheria)”: sono modesti episodi della vita di gente modesta, si avvalgono di un dialogo immediato e di una recitazione spontanea e pongono l'accento, […], più sul carattere e sulla psicologia che sull'azione, presentano episodi di crisi della vita quotidiana, ambientandoli in spazi chiusi e ridotti»; e questi “piccoli protagonisti normali” debbono imparare ad accettare la loro normalità e a goderne (Il Cinema – Grande storia illustrata, Ist. Geografico De Agostini, Novara, 1981).
Di Tennessee Williams, girò La dolce ala della giovinezza (Sweet Bird of Youth) (1962) (oltre al già citato La gatta sul tetto che scotta) – molto popolare e ben accolto dalla critica ma non fu un successo travolgente (Ed Begley, il cattivo, vinse l'oscar come migliore attore non protagonista). Racconta di un giovane e bellissimo barman (Paul Newman dà volto e recitazione a un arrampicatore sociale che in modo insensato e a ogni costo cerca di realizzare il sogno americano della ricchezza) e di una attempata e nevrotica diva del cinema in declino, Alexandra Del Lago (Geraldine Page), che per tenerlo legato mantiene il giovane amante nel lusso. Ha commentato Morandini: «Quando con lei torna nella cittadina del Sud dove vive la ragazza da lui sedotta, il dramma esplode. L'onesto Brooks, anche sceneggiatore, dà limpidezza al fangoso e ridondante dramma (1959) di Tennessee Williams, pur alleggerendone la dimensione sessualmente spinta. Affiatata compagnia di attori: i principali parteciparono nel 1959 alla messinscena di Elia Kazan a Broadway. […] Da vedere specialmente per la strepitosa G. Page: la sua telefonata è da Oscar.» (il Morandini, Zanichelli editore). Questo film è considerato uno dei «grandi esempi del realismo dell'Actors Studio calato nella rude poesia di T.W. […] l'asciutta cadenza aspirata di Paul Newman, il cinguettio della vibrante dizione di Geraldine Page sono tutti elementi che evitano il chiaro e tonante eloquio dell'attore di stampo classico, e le eccentricità della dizione accentuano l'individualità dei vari personaggi.» (Il Cinema – Grande storia illustrata, Ist. Geografico De Agostini, Novara, 1981).

Brooks amò trarre ispirazione anche dai grandi scrittori dell'Ottocento. Dal russo Fedör Dostoevskij (1821–1881) trasse Karamazov (The Brothers Karamazov) (1958) con Lee J. Cobb (Karamazov padre), Claire Bloom (Katya), Yul Brynner (Dmitrij Karamazov), Richard Basehart (Ivan Karamazov) e Maria Schell (Grushenka); ha commentato Morandini: «Technicolor fantasmagorico di John Alton alla Disney: in rosso le scene di passione, in giallo quelle di violenza, in verde quelle di malinconia, in grigio tutto il resto.» (il Morandini, Zanichelli editore). Dall'inglese Joseph Conrad (1857–1924) ricavò Lord Jim (1965), che fu un insuccesso nonostante tutti gli sforzi anche economici del regista per dar vita a un film epico, coinvolgendo un cast d'eccezione (Peter O’Toole, Eli Wallach, Jack Hawkins e James Mason); narra di un ufficiale idealista che, commessa una vigliaccheria, ne soffrirà per tutto il resto della vita riuscendo poi a riscattarsi; ha commentato Morandini: «Dal romanzo (1900) di Joseph Conrad un film di forte fascino figurativo che ne restituisce solo in parte la complessità, ma che ne rispetta con fedeltà la tematica. Una delle migliori interpretazioni di O'Toole.» (il Morandini, Zanichelli editore).

Dopo il già citato I professionisti, Brooks ritornò al western più popolare con L' ultima caccia (The Last Hunt) (1956), tratto da un romanzo di Milton Lott (1916–1996), con Stewart Granger e Robert Taylor, manifesto contro il capitalismo e opera ricca di forti spunti psicologici, di malinconia e compassione, epopea nostalgica di un cinico avventuriero e di due veterani (il film si concluderà amaramente con il cinico che, dopo aver sparato ai fantasmi, morirà congelato, avvolto da una pelle di bisonte); ha commentato Morandini: «Western onesto (come il suo regista), insolito (perché mostra i cacciatori di bisonti), coraggioso (perché ricorda che all'origine degli Stati Uniti di oggi c'è il genocidio di un popolo e una catastrofe ecologica), efficace (perché ai temi antirazzisti di fondo corrispondono i personaggi e le loro azioni).» (il Morandini, Zanichelli editore). Seguì un altro western che demitizza il Far West, Stringi i denti e vai (Bite the Bullet) (1975), del quale Brooks fu anche produttore, con James Coburn, Gene Hackman, Ben Johnson e Candice Bergen, crepuscolare e critico del mito americano del denaro, disperata allegoria del senso della vita in quella massacrante gara a cavallo e a tappe forzate di ottocento miglia, in un deserto di sabbia nel West d'inizio secolo (1908), indetta da un giornale, cui partecipano sei uomini e una donna, sia poveri allo sbando sia ricchi desiderosi di un'affermazione personale: arriveranno due amici rivali, distrutti e disfatti, i quali si sono aspettati per tagliare insieme il traguardo. Ha scritto Morandini: «Gli ultimi tre rimasti, con la donna in testa, avranno bisogno di molta iniziativa. Anche se la struttura della storia lo induce a una sorta di ripetizione e a un po' di monotonia, R. Brooks riesce a imporre le sue qualità di robusto e generoso narratore, in una intelligente metafora della vita.» (il Morandini, Zanichelli editore).

Animato da sentiti e alti ideali di democrazia e uguaglianza, contemporaneamente, Richard Brooks si dedicò alla denunzia del potere dei media e dei rapporti tra mafia e giornalismo ne L'ultima minaccia (Deadline - U.S.A.) (1952), con l'amico di sempre Humphrey Bogart (insieme a Kim Hunter ed Ethel Barrymor) nel ruolo disincantato del direttore di un giornale prossimo alla chiusura dopo la morte dell'editore, alla quale si oppone per completare una campagna contro un'organizzazione malavitosa (metà film di gangster e metà dramma di un giornalista indipendente, girata negli uffici del New York Daily News, la pellicola vede Bogart combattere da solo contro la pressione della criminalità mafiosa e trasformare il suo giornale in “un simbolo di libertà”); ha commentato Morandini: «Uno dei migliori film di ambiente giornalistico, scritto e diretto da un ex giornalista che s'ispirò a fatti veri (la chiusura del New York World dopo la morte di Joseph Pulitzer) e uno dei più eloquenti sulla libertà di stampa, minacciata dai gruppi di pressione e dagli interessi mercantili. I duetti Bogart/Barrymore sono d'antologia. Almeno in Italia, è passata in proverbio la battuta di Bogart: “Questa è la stampa, amico. E non ci puoi fare niente”.» (il Morandini, Zanichelli editore). L'anno seguente Brooks volle di nuovo Bogart in Essi vivranno (Battle Circus) (1953), ove il grande attore prestò il suo volto tormentato a un medico militare, burbero e cinico, forte bevitore e donnaiolo impenitente, ma dal cuore d'oro.

Ma il regista fu vigile anche nella condanna della discriminazione razziale – tema al quale era particolarmente sensibile essendo i suoi genitori ebrei russi emigrati giovanissimi in America nel 1908 – con Qualcosa che vale (Something of Value) (1957), oltre al già citato Il seme della violenza (interpretati entrambi dal grande Sidney Poitier), melodramma incentrato su due grandi amici in Kenia, un colono bianco e un giovane nero, l'un contro l'altro nella rivolta dei Mau Mau e, nella speranza di un mondo migliore, costretti all'odio etnico. Ha commentato Morandini: «La denuncia del razzismo e della violenza è un tema costante di Brooks, sviluppato qui con sincerità e con coraggio sulla scorta di un romanzo di Robert C. Ruark (1915–1965). […] In un periodo in cui i mass media demonizzavano il movimento indipendentista dei Mau Mau, fu, a modo suo, un film di controinformazione.» (il Morandini, Zanichelli editore).

Brooks operò, poi, una condanna del potere politico cieco, lontano dal popolo, e dei suoi intrighi con il film fanta–politico Obiettivo mortale (Wrong Is Right) (1982) – del quale fu anche produttore – con Sean Connery, che interpreta un presentatore televisivo molto popolare che entra in possesso di uno scoop clamoroso: una trattativa per la vendita di due bombe atomiche al re di un emirato arabo; il film, stroncato dalla critica, narra qualcosa di simile al World Trade Center colpito da una serie di attentati (autore pessimista e disincantato Brooks era riuscito a prevedere un gravissimo evento molto di là da venire) ma diviene anche una grottesca satira sui nuovi media e sui discutibili metodi dell'intrigo politico che mette insieme agenti segreti e terroristi, mercanti d'armi e sovrani arabi, fanatici suicidi e ricattatori, spie e politicanti di bassa lega (il presentatore, paradossalmente, scoprirà che è stato il presidente a ordinare l'assassinio di un sovrano arabo per far scoppiare la Terza Guerra Mondiale ma non può far altro che continuare a mandare in onda il suo programma). Ha scritto Morandini: «A 70 anni Brooks ha fatto il film più pazzo, pletorico e polemico della sua lunga e onorata carriera di sceneggiatore e regista. Sbeffeggiante, grottesco e satirico, con un ritmo forsennato e un ottimo Connery. Dal romanzo “The Deadly Angels” di Charles McCarry (1930).» (il Morandini, Zanichelli editore).

Tra gli ultimi suoi film è degno di nota il non amato e controverso In cerca di Mr. Goodbar (Looking for Mr. Goodbar) (1977), tratto da un romanzo di Judith Rossner (1935–2005), con Diane Keaton che interpreta Theresa Dunn, una donna acuta e sensibile, affetta da scoliosi, che fa l'insegnante di bambini sordomuti di giorno, la figlia di un Cattolicesimo integerrimo che, insoddisfatta sessualmente, vagabonda di notte da un bar all'altro alla ricerca sordida e accanita d'incontri fugaci e degradanti, annientandosi con luridi amanti emarginati e i depravati: «film volutamente sgradevole, manifesto di una scelta di pessimismo che accompagna l'odissea di una insegnante dalla doppia vita nel suo amaro e, fino alla fine, tragico girovagare per bar malfamati» (Cinema, le garzantine, a cura di Gianni Canova, Garzanti, 2009). Ha scritto Morandini: «Imbarazzante e sconcertante per la miscela di sgradevolezza e generosità, tenerezza e squallore, umorismo e virulenza. Invecchiando, Brooks, il sergente York della regia, è diventato un pessimista apocalittico: la sua visione della società americana crudele e senz'anima è disperata.» (il Morandini, Zanichelli editore). Il film ebbe due nomination minori all'Oscar (tra cui la fotografia di W. Fraker).

L'ultimo suo film (sceneggiatura e regia), purtroppo non molto riuscito, fu La febbre del gioco (Fever Pitch) (1985), con Giancarlo Giannini, Catherine Hicks e Ryan O'Neal, che ruota intorno alla dipendenza dal gioco d'azzardo di un affermato cronista che, a Las Vegas per un'inchiesta, ripiomba nel vizio sino alla disfatta totale. Ha commentato Morandini: «Deludente prova di R. Brooks: non riesce a dire niente di nuovo. Bella la fotografia di W. Fraker. Malinconico congedo di un molto onorevole regista.» (il Morandini, Zanichelli editore).

Richard Brooks si sposò diverse volte: una prima volta, forse molto giovane, quando si trovava a New York, poi fu coniugato dal 1941 al 1944 con Jean Kelly, un'attrice degli Universal Studios, meglio conosciuta come Jean Brooks (fu lei a introdurlo come sceneggiatore nell'industria del cinema), e nel 1946 sposò Harriette Levin che non apparteneva al mondo del cinema (divorziarono nel 1957). Dal 1960 al 1980 fu sposato con la nota attrice cinematografica Jean Simmons, che aveva divorziato da Stewart Granger e che recitò con lui in diversi film. Con The Happy Ending (1969), scritto, diretto e prodotto da Brooks, la Simmons si aggiudicò una nomination all'Oscar nel 1970; ricco di tanti bravi interpreti (John Forsythe, Shirley Jones, Lloyd Bridges, Teresa Wright, Bobby Darin e Tina Louise), il film tratta del disagio esistenziale e del disincanto matrimoniale di Mary Spencer, la moglie di un addetto al cinema che si sente repressa dal marito Fred (che ha sposato in modo idilliaco nel 1953 come nell'Happy Ending dei film d'amore che predilige) e dalla figlia Marge; nel 1969 la vita della coppia è naufragata, distrutta dall'indifferenza, dalla vodka, dalla guida in stato d'ubriachezza, dalla droga e dai tentativi di suicidio, e Mary «si riempie la testa d'infiniti sogni romantici che hanno nel cinema la loro origine» (Il Cinema – Grande storia illustrata, Ist. Geografico De Agostini, Novara, 1981). Il film fu nominato all'Oscar anche per la migliore canzone “What Are You Doing the Rest of Your Life?” (musica di Michel Legrand, parole di Alan Bergman e Marilyn Bergman).

Douglass K. Daniel scrisse una biografia autorizzata del grande regista e sceneggiatore dal titolo “Tough As Nails: The Life and Films of Richard Brooks” (April 8, 2011; Series: Wisconsin Film Studies), facendoci conoscere molti interessanti dettagli della vita di questo complicato e versatile intellettuale.


Brooks aveva la reputazione di essere un regista severo e riservato, talentuoso ma difficile, e perennemente arrabbiato (era chiamato: “God’s angry man”). Disse di lui, tuttavia, Claudia Cardinale (interprete femminile de I professionisti nel 1966): «Richard Brooks, di solito così cattivo, ringhioso, misogino, alla fine, con me, era adorabile… si era tolto la maschera e ho scoperto che era un uomo dolcissimo.». La stessa moglie Jean Simmons parlò sempre di lui come di un uomo ricco di humour e di un padre tenerissimo (avevano avuto una figlia, Kate, nel 1961).

mercoledì 16 maggio 2012

Leo Rosten, cultura Yiddish e Hyman Kaplan


Leo C. Rosten


Quindici anni addietro, il 19 febbraio del 1997, moriva a New York Leo C. Rosten (inizialmente usò lo pseudonimo Leonard Q. Ross), un autore che ha trovato ispirazione e fonte di narrazione nel  mondo Yiddish. Fu giornalista, glottologo, accademico, sceneggiatore e scrittore umoristico. Leo Rosten ha insegnato, in tempi di multiculturalismo, l’importanza di percepire e accettare le svariate differenze linguistiche, al fine di rendere la cultura sempre più ricca e interessante.

Nato a Lodz, in Polonia, l’11 aprile del 1908, in età infantile emigrò con i genitori a Chicago, ove compì tutti i suoi studi sino alla laurea in Sociologia nel 1930 e al dottorato nel 1937, divenendo poi naturalizzato americano.

Lavorò come sceneggiatore (scrisse in totale sei sceneggiature) e nel 1941 scrisse un saggio sociologico (quasi un racconto) sull’industria del cinema: Hollywood: La colonia del cinema, i creatori del cinema (Hollywood: The Movie Colony, The Movie Makers). Nel 1946 Rosten fornì il soggetto per il noto Il grattacielo tragico (The Dark Corner) di Henry Hathaway, sceneggiato da Jay Dratler. Il film poliziesco racconta le tristi vicende di Brad Galt (interpretato da Mark Stevens), un ex detective privato che, finito ingiustamente in prigione, dopo aver scontato la pena, solo e sostenuto soltanto dalla fedele fatta Kathleen (interpretata da Lucille Ball, la segretaria innamorata segretamente di lui) va a New York. Il precedente socio di Galt, Anthony Jardine (interpretato da Kurt Kreuger) si associa alla ricca Mary Cathcart ma il marito di quest'ultima, Hardy Cathcart (interpretato dal grande Clifton Webb, che ben ha saputo disegnare i contorni di un collezionista d'arte assolutamente privo di scrupoli) trama un complotto per ucciderlo e per far ricadere la colpa su Galt. Sarà soltanto grazie a Kathleen e al suo sostegno amoroso che Brad riuscirà a sciogliere la turpe ragnatela, dimostrando la sua innocenza. Hanno così commentato Laura, Luisa e Morando Morandini (ne il Morandini – Zanichelli editore): «Dramma svelto, efficace ed eccitante con una Ball insolita. Hathaway era nel suo periodo realistico.».

Nel 1949, come propagandista di guerra, Leo Rosten entrò nello staff del periodico newyorchese “Look”, lavorandovi sino al 1971. Insegnò in diverse Università, tra le quali la Columbia University (NY), la Yale University e la Berkeley (CA). Nel 1935 aveva sposato Priscilla Ann Mead (sorella della nota antropologa Margaret Mead), dalla quale ebbe i tre figli Madeline, Margaret e Philip. Dopo il divorzio, nel 1960, sposò Gertrude Zimi.

Fine umorista, divenne famoso grazie ai suoi bestseller che celebravano cultura, spirito e lingua yiddish. Incentrò i suoi divertenti racconti sul personaggio dello studente Hyman Kaplan, riuniti in L’educazione di H*Y*M*A*N K*A*P*L*A*N (alcuni racconti erano comparsi nel 1930 sul “The New Yorker”). In modo spiritoso e autobiografico – per pagare i suoi studi, Rosten aveva insegnato in classi notturne di Inglese per immigrati – l’autore narra in una frizzante esplosione di giochi di parole, di strafalcioni sintattici e di distorsioni ortografiche le comiche vicende di un primitivo ragazzo russo emigrato in America e dei suoi vani sforzi per imparare la lingua inglese in una Scuola Preparatoria Notturna di Inglese. Hyman è un vero e proprio alter ego di Leo Rosten, col quale condivideva una vigorosa personalità e una smisurata indipendenza dell'ego. Kaplan è un allievo diligente ed entusiasta: il «prodigio» della classe ma assolutamente negato per la comprensione della lingua inglese, individuo semplice alle prese con un mondo sconosciuto e incomprensibile, convinto che il plurale di «sandwich» sia «delicatessen», quello di «cat» sia «katz» e quello di «dog» sia «dogies». L’insegnante Mr. Parkhill è un uomo solitario e severo ma con tratti tragici, afflitto dal timore di dovere sprecare il resto della sua vita con Hyman e con gli altri suoi tremendi alunni. Mr. Parkhill ha tra i suoi allievi Miss Carmen Caravello, un’italiana sempre pronta a esaltare Giuseppe Garibaldi, che mostra nei suoi confronti un totale e umiliante disaccordo. Hyman suole firmare i suoi compiti in classe con delle lettere maiuscole, scritte con un pastello rosso e sottolineate in blu, separate da una stellina verde. Nell’ultimo racconto, finalmente, il ragazzo si firma semplicemente “Hyman Kaplan” ma non può evitare d'indirizzare il suo lavoro scolastico a “Mr. P*A*R*K*H*I*L*L”, così gratificando l’afflitto docente. Il romanzo fu benedetto dal successo del pubblico e della critica; fu recensito favorevolmente dalla scrittrice irlandese Rebecca West e dall’ironico scrittore inglese Evelyn Arthur Waugh; e divenne nell’ambiente letterario di New York fu un vero e proprio “cult”.

Seguirono ma con minore fortuna altri due romanzi che raccontavano le vicende comiche e sconcertanti del medesimo protagonista: Il ritorno di H*Y*M*A*N K*A*P*L*A*N (The return of HYMAN KAPLAN) (1959), e O K*A*P*L*A*N! Mio K*A*P*L*A*N! (O KAPLAN! My KAPLAN!) (1976); quei suoi libri sul mondo yiddish e quei suoi racconti seriali riuscirono a catturare l’interesse di milioni di lettori e a suscitare il costante entusiasmo dei critici.

Nel 1955 raccolse molti suoi articoli giornalistici nel volume Una guida alle religioni d’America (A Guide to the Religions of America).

Nel 1963, da un suo racconto ispirato da un militare realmente esistito, è stato tratto il film Capitan Newman (Captain Newman, M.D.) di David Miller – il regista del più noto thriller con Doris Day “Merletto di mezzanotte” – con Gregory Peck (è lo psichiatra militare Josiah J. Newman), Tony Curtis (interpreta il caporale–infermiere Jackson “Jake” Leibowitz, dotato di forte senso di solidarietà umana) e Angie Dickson (interpreta il tenente Francie Corum, bella e comprensiva). In una materia difficile (la cura – spesso contro il parere delle autorità militari – presso un reparto di psichiatra militare dei reduci della II guerra mondiale sofferenti di malattie nervose) viene affrontata puntando sui molti aspetti comici della situazione. Hanno commentato i Morandini: «Da un romanzo di Leo Rosten. Il capitano Newman, psichiatra di una base nelle Hawaii, deve curare i reduci di guerra colpiti da nevrosi. Combattuto tra responsabilità di medico e dovere militare, il suo è un continuo scontro con i superiori. Ora drammatico, ora comico, sembra fatto apposta per tenere su il morale dei pazienti. G. Peck è “uno dei più idealizzati psichiatri cinematografici mai visti” (G.O. e K. Gabbard) e T. Curtis, infermiere, si riserva la parte del buffone. Candidature all'Oscar per la sceneggiatura e B. Darin, attore non protagonista.». Bobby Darin, di origini italo–americane, interpreta il caporale Jim Tompkins che ha subito il trauma della perdita di un compagno per lo scoppio di una bomba e che teme di essere un codardo: egli cerca di annullare le sue sofferenze nell'abuso di alcol e droghe. Altra grande prova quella di un giovanissimo Robert Duvall, che è il capitano Paul Cabot Winston, reso un essere inconsapevole e catatonico dalla psicosi. Il film ha il merito di far emergere sullo sfondo dell'impegno militare la vulnerabilità di sentimenti di quegli uomini esposti agli orrori della guerra.

Nel 1968 Rosten scrisse un ponderoso dizionario satirico dal titolo Le gioie dell’Yiddish (The Joys of Yiddish) ripubblicato in edizione rivisitata nel 1989 in cui elencava dalla A alla Z numerose parole yiddish, spaziando dal sacro al profano e analizzandone l’etimologia ebraica: il tutto in un esilarante contesto di storielline ironiche e di caricature umoristiche che avevano come oggetto l’ebreo europeo, ma sapendo usare sempre la giusta misura. Leo Rosten scrisse: «Il sarcasmo è amarezza messa a fuoco».

Nel volume Le persone che ho amato, conosciuto o ammirato (People I Have Loved, Known or Admired) (1970), ha raccolto diversi articoli che spaziavano da suo padre a Montaigne, a Leonardo da Vinci, a Winston Churchill e a Sigmund Freud. Nel 1977 scrisse il grosso volume Il tesoro delle citazioni ebraiche di Leo Rosten (Leo Rosten’s Treasury of Jewish Quotations), denso di notazioni umoristiche che hanno fatto il giro del mondo. Del 1982 è Urrà per l’Yiddish! Un libro sull’Inglese (Hurray for Yiddish! A Book about English), in cui ha valutato nel suo solito modo umoristico l’influenza sul lessico Inglese-americano della lingua yiddish, dal vocabolario limitato ma dalle immense capacità espressive.  

In Carnevale di sapienza di Leo Rosten. Da Aristotele a Woody Allen (Leo Rosten’s Carnival of Wit: From Aristotele to Woody Allen) (1994), fece una divertentissima raccolta di tutta una serie di osservazioni piene di ebraico humour e di aforismi ricchi di senso comune e verità: «Ho imparato che sono i deboli a essere crudeli, e che la bontà possiamo aspettarcela soltanto dai forti… Se stai facendo qualcosa di male, almeno divertiti… Di certo le parole dovrebbero essere considerate tra i più potenti farmaci inventati dall’uomo… Molti di noi non crescono o maturano, diventano semplicemente più alti».

Nel 1999 la Mondadori ha pubblicato: Oy oy oy! – Umorismo e sapienza nel mondo perduto dello Yiddish.


Il noto musicista Moni Ovadia, interprete della cultura ebraica, in una sua intervista ha confessato di considerarsi un allievo di Rosten e di essere desideroso di continuare la sua opera di sagace rappresentazione del mondo Yiddish.

lunedì 7 maggio 2012

Joyce Lussu e Hazim Hikmet, la poesia e il cinema


Joyce Lussu                                    Hazim Hikmet



Un tenacissimo “fil rouge” lega Joyce Lussu che in questi giorni avrebbe compiuto cento anni, intellettuale "contro" e moglie dello scrittore antifascista Emilio Lussu e il grande poeta turco Hazim Hikmet, del quale Joyce fu storica traduttrice e testimone oltre che cara e sincera amica.

Di origini aristocratiche, all'anagrafe Gioconda Beatrice Salvadori Paleotti, nacque a Firenze l'8 maggio del 1912 da una famiglia marchigiana di forte respiro politico (il nonno fu deputato liberale dalla XVIII alla XXII legislatura, la nonna – una nobile inglese – aveva un fratello deputato al Parlamento inglese, e il padre era un liberale antifascista – allievo di Herbert Spencer ed estimatore di Bertrand Russell – che dal 1925 al 1934 si era autoesiliato in Svizzera). La Lussu visse la sua adolescenza tra l'Italia e l'estero, maturando un'educazione anticonformista e la passione per l'impegno politico e sociale. Seguì a Heidelberg il corso d'insegnamento del filosofo–psichiatra Karl Theodor Jaspers (1883–1969), venendo a contatto con gli albori del Nazismo e notando il disinteresse della classe degli intellettuali per quei nazisti che consideravano soltanto degli innocui scalmanati. Acuta e intelligente, femminista ante–litteram, si laureò in Lettere alla Sorbona di Parigi e in Filologia a Lisbona.

Nel 1934 sposò Aldo Belluigi, un giovane e ricco possidente fascista col quale si recò in Kenia per raggiungere il fratello Max; il matrimonio con Aldo durò soltanto qualche anno ma le fece conoscere l'Africa e la sua natura ma anche molti gravi problemi del Colonialismo. In questo periodo sono da collocare le Liriche (1939), che furono ben ricevute dalla critica (Benedetto Croce ne fu entusiasta).

Con il fratello Max entrò a far parte del movimento “Giustizia e Libertà” e nel 1938 incontrò a Ginevra Emilio Lussu (1890–1975) e fu grande amore; con lui visse tutta la vita sino alla morte di Emilio, e lo seguì impavida e “leggendaria” nell'esilio e nella clandestinità, nella resistenza e nella lotta antifascista (era solita ripetere: «Non sono una donnetta»). Per le sue imprese partigiane si meritò la medaglia d'argento. Emilio Lussu, uomo politico e scrittore, pubblicò Marcia su Roma e dintorni e Un anno sull'altipiano. Nel 1946 nel libro autobiografico di successo Fronti e Frontiere, la Lussu raccontò le dure ma esaltanti vicende di quel periodo (era specializzata in evasioni e documenti falsi). Convinta che la storia dell'umanità fosse una “storia come lotta di classe”, dopo la liberazione visse con entusiasmo i primi passi della Repubblica Italiana e in seguito militò nel Partito Socialista Italiano, preferendo poi però dedicarsi soltanto alla scrittura e alle attività culturali.

Negli anni Cinquanta, sostituì al suo sentito Antifascismo con il contrasto all'Imperialismo, sposando le cause di organizzazioni della pace, di movimenti di liberazione in lotta con il Colonialismo e più tardi con le battaglie d'impegno ambientalista ed ecologista. Mise la sua abilità di traduttrice al servizio di poeti viventi provenienti da culture lontane (albanesi, curdi, vietnamiti, africani, afro–americani e addirittura eschimesi o aborigeni australiani), stabilendo dei rapporti diretti con molti di questi poeti, spesso perseguitati politici e oggetto di orribili iniquità e d'ingiuste oppressioni. Strinse rapporti con grandi uomini della politica, quali Mao, Ho Chi Min, Castro, Cabral e Mandela.

Nella vecchiaia si ritirò nella sua tenuta marchigiana di San Tommaso, vicino a Porto San Giorgio, che aveva trasformato in una sorta di “Comune” della pace, limitandosi a scrivere e a divulgare un suo nuovo metodo didattico inerente la Storia nelle scuole. Morì a Roma il 4 novembre del 1998, all’età di 86 anni. Aveva scritto: «Essere donna l'ho sempre considerato un fatto positivo, una sfida gioiosa e aggressiva. Qualcuno dice che le donne sono inferiori agli uomini, che non possono fare questo e quello. […] Che cosa c’è da invidiare agli uomini? Tutto quello che fanno, lo posso fare anch'io. E in più, so fare anche un figlio». (Joyce Lussu, Padre, Padrone, Padreterno. Breve storia di schiave e matrone, villane e castellane, streghe e mercantesse, proletarie e padrone, Mazzotta, Milano 1976). Ha scritto Dino Messina: «Non volle mai incarichi ufficiali nella sinistra e negli ultimi anni si divertiva a stupire per le sue posizioni sempre, rigorosamente, “contro”. E per la sua vitalità, per la capacità di non chiudersi nei ricordi nella sua casa di campagna nelle Marche, ma di pensare sempre al futuro.» (5 novembre 1998, Corriere della Sera, Addio a Joyce Lussu, una donna "contro", http://archiviostorico.corriere.it/1998/novembre/05/Addio_Joyce_Lussu_una_donna_co_8_981105417.shtml).

Ha scritto Chiara Cretella: «Se la storia è stata fatta da entrambi i sessi ma è stata scritta solo dagli uomini, il primo impegno da assolvere per Joyce è riappropriarsi di un passato, per ritrovare l'identità perduta. Solo questa consapevolezza di avere alle spalle delle eroine, delle streghe, delle combattenti, delle suffragette, permetterà alle donne di non aver paura di irrompere nella grande storia, accontentandosi di ritagliarsi in essa solo dei ruoli secondari, assistenziali o di sfondo. […] per la Lussu il modo nuovo di fare storia – e di scrivere un'autobiografia, poiché le due cose arrivano a coincidere – è semplice ma fondamentale: tornare all'oralità. […] Sulle antiche tracce della maieutica, la Lussu si contorna di interlocutrici, cercando nella vivacità del confronto femminile una tensione analitica sempre rigorosa. Se per la Lussu il poeta è il motore della storia – prima ancora di un testimone –, anche la sua visione della donna è intrinsecamente “materialista”: una militanza interiore, il dettato atavico di non lasciar cadere nell'oblio le sorelle senza voce, le cassandre non credute, le streghe mandate al rogo.» («La cultura e la coscienza politica sono la stessa cosa», Joyce Lussu politica e femminista, estratto da: AA.VV., Joyce Lussu. Sibilla del Novecento, a cura di Vittoria Ravagli, Edizioni Le Voci della Luna, Milano 2008; http://www.carmillaonline.com/archives/2008/07/002698print.html).

Straordinario fu soprattutto l'incontro di Joyce Lussu con Nazim Hikmet, le cui poesie fece conoscere nell'Italia e nel mondo, portando alla ribalta il “problema curdo”, la vicenda di «un popolo costretto a vivere da straniero nel suo territorio» (così scrisse in Portrait – Cose viste e vissute nel 1988, Transeuropa). E del problema curdo, negli anni Sessanta, fece la sua bandiera, parlandone dappertutto, anche nelle scuole di ogni ordine e grado (amava e privilegiava il suo rapporto con i giovani, riponendo la sua fiducia di un futuro migliore proprio nelle nuove generazioni; e fu accanto ai giovani durante le contestazioni studentesche). è stata lei che ha raccontato che Hikmet scriveva di getto i versi delle sue poesie, senza rileggere e senza correggere, e che era tanto generoso da consentire che potessero essere riportate e tradotte a volontà (sentiva che non erano sue ma proprietà di tutti). E Hikmet fu amato dai lettori e quasi ignorato dalla critica, e allo stesso modo, egli rifiutò la critica e le caste letterarie (in realtà leggeva poco gli altri autori), scrivendo le sue liriche per gli altri (sia colti che ignoranti) e detestando – più delle stesse celle carcerarie – le «celle dell’arte dove si sta in pochi o da soli». La sua poesia era un suo mezzo privilegiato per combattere l'oppressore e per risvegliare la coscienza morale del suo popolo oppresso.

Così scriveva la Lussu nell'introduzione al volume di poesie da lei tradotto (Hikmet - Poesie, traduzione di Joyce Lussu e Velso Mucci, Newton Compton Editori, Roma 1972): «Non era un letterato: il letterato si forma con lo studio dei predecessori, con l'accumulazione libresca; a Hikmet questo non interessava. La sua fonte d'ispirazione non erano gli altri scrittori, ma la coscienza storica e la lotta politica; e non si rivolgeva a critici e scrittori, ma al popolo del suo paese e di tutti i paesi, anche agli analfabeti […]». Nazim sentiva che la sua poesia doveva essere «utile» sia per l'orecchio, sia per l'umanità e per la sua causa ideale; sentiva che essa avrebbe dovuto essere «traducibile per i popoli più diversi». Convinto che non si potesse «vivere su questa terra / come un inquilino / oppure in villeggiatura / nella natura», desiderava stabilire «il ponte più solido e comodo» tra lui e i suoi lettori. Proprio per questo, decise di abbandonare la lingua turca ottomana, usata soltanto ai suoi inizi e nota solo a pochi colti poeti, per scrivere in «versi liberi a scalini» allo scopo di meglio avvicinarsi al linguaggio dei più semplici. In una lettera inviata a Joyce Lussu nel 1961, egli stesso scriveva: «A 18 anni passai in Anatolia, scoprii il mio popolo e le sue lotte. Lottava con i suoi cavalli magri, con le sue armi preistoriche, in mezzo alla sua fame e alle sue cimici, contro l’esercito greco sostenuto dagli inglesi e dai francesi […] Ho scoperto tutta un'altra umanità. E cominciai a scrivere in un altro modo.». Hikmet pubblicò sempre e soltanto in turco nonostante conoscesse benissimo numerose lingue, compresi il russo, il francese e l’arabo. Le sue poesie sono state tradotte in moltissime lingue, mentre stranamente nessuna traduzione è stata fatta nella lingua inglese, sicché l’autore turco è quasi sconosciuto al mondo anglosassone. Che grande spreco!

In una nota di un altro volume, Lussu così aggiungeva: «Era un grande poeta e un combattente assai valoroso, e piaceva alle donne. Ma questo eccesso di doti aveva come correttivo un ingualcibile candore, una capacità di fiducia, di meraviglia, di rispetto verso l'umanità e verso le cose. Non vi era ombra di cinismo o di acidità […] Non si piegava ai compromessi […] non ha mai trovato un editore nel suo paese […] ha vissuto come un uomo libero, padrone sempre di se stesso e della sua condizione consapevolmente affrontata. Che sia morto, non ha una grande importanza. Il suo modo di essere si è realizzato ed espresso nella sua poesia, e tutto continua, salvo il rinnovarsi della sua personale felicità o infelicità e il battere faticoso del cuore tra un infarto e l’altro.» (Nazim Hikmet – Poesie d’amore, traduzione di Joyce Lussu, Oscar Mondadori, Milano 2002).

Nazim Hikmet Ran era nato il 20 novembre del 1901 a Salonicco (che prima faceva parte dell'Impero Ottomano e che oggi è la greca Tessalonica) ed è certamente uno degli autori più importanti della letteratura moderna turca e di quella mondiale. Apparteneva a un'influente e colta famiglia turca dell'alta società, e Nazim sosteneva che «la poesia, a casa nostra, era sugli altari». Per Hikmet la cultura fu la finestra che illuminò un individuo ricco e influente in modo tale da renderlo capace di capire profondamente i più umili e più derelitti; e – come ha scritto la Lussu – Hikmet «legò la sua sorte alla loro». Da ragazzo, lasciò gli studi per accorrere in Anatolia – spinto dal suo cuore di patriota – in aiuto del suo popolo e dell'esercito di liberazione del nazionalista Kemal Ataturk. Ataturk aveva coinvolto nella sua lotta le masse contadine oppresse e i curdi esclusi, ma una volta andato al potere dimenticò tutte le sue promesse e represse con durezza ogni opposizione interna e ogni tentativo d'autonomia dei curdi, umiliati come una razza inferiore. Nazim scoprì poi la rivoluzione sovietica e nel 1921 andò a Mosca; completamente affascinato dal marxismo, divenne un comunista convinto, animato da un forte desiderio di lotta sociale. A Mosca venne in contatto con una nuova cultura e con una nuova poesia, conobbe i poeti futuristi russi e soprattutto Vladimir Majakovskij, che influenzò molto la sua poesia. Si appassionò anche al nuovo teatro russo, partecipando a un gruppo teatrale rivoluzionario.

Nel 1924 ritornò in patria, mettendo al servizio del popolo turco la sua poesia e la sua attività segreta di comunista. Condannato in contumacia, aprì una tipografia clandestina nei pressi di Smirne e scrisse in lingua turca il primo volume di versi Il canto degli uomini che bevono il sole. Ritornato nuovamente a Mosca, tra il 1925 e il 1928 pubblicò in russo il già citato libro di versi e scrisse diverse opere teatrali (per lo più in forma di atti unici). Fu di nuovo in patria nel 1929 – sempre in modo clandestino – e, dopo un breve periodo di prigionia, divenne un giornalista molto attivo nella propaganda politica e nell'attività letteraria, pubblicando quattro piccoli volumi di versi che furono molto amati e che venivano citati a memoria dai molti giovani contrari al regime.

Negli anni Trenta, in Turchia, Hikmet fu anche coinvolto nell'attività cinematografica: per gli Studi Cinematografici Ipek scrisse sceneggiature e diresse film; del 1933 si ricordano: Fena Yol, una sceneggiatura tratta dal noto romanzo dello scrittore greco Grigorios Ksenopoulos sul fato e sulla provvidenza; Milyon Avcilari, un adattamento di una commedia musicale tedesca di Max Neufled; e Gunese Dagru, diretto dallo stesso Hikmet, che rappresentò una tappa verso la liberazione del cinema dai legami del teatro. Tra il 1939 e il 1947 scrisse almeno cinque sceneggiature con lo pseudonimo di Mümtaz Osman. Durante l'esilio, elaborò sceneggiature per il cinema polacco, cecoslovacco e bulgaro. Alcune sue sceneggiature furono trasformate in film dal cinema russo dopo la sua morte. (http://www.nazimhikmet. org.tr/sinemasi2-en.asp).

Accusato di attività sovversive, fu condannato a cinque anni di carcere: nella prigione di Bursa, in Anatolia, iniziò a scrivere un’accorata raccolta poetica (le prime Lettere dal carcere), dedicata alla prima moglie Piranye. Grazie a un'amnistia uscì dal carcere nel 1933 e continuò nella sua propaganda antigovernativa con diverse opere antifasciste in versi che, seppur non pubblicate, furono conosciute e apprezzate. Arrestato nuovamente, fu condannato a 32 anni di carcere e rimase imprigionato dal 1938 al 1950 senza né carta né penna, costretto a far imparare a memoria i suoi versi ai suoi visitatori, perché potessero essere poi trascritti e diffusi. Si servì per questo scopo anche della vecchia madre, che era solita andare in giro con un cartello appeso al collo nel quale chiedeva la libertà per il figlio imprigionato. Durante questa nuova prigionia, Hikmet riprese a scrivere le sue Lettere dal carcere, dedicate stavolta alla seconda moglie, la diletta Munevvér, che gli fu vicina nei durissimi anni di segregazione e che fu per lui sia madre che amica e amante: «In questa notte d’autunno / sono pieno delle tue parole / parole eterne come il tempo / […] / mi sono giunte le tue parole / le tue parole cariche di te / le tue parole, madre / le tue parole, amore / le tue parole, amica […]» (1948); Munevvér fu anche una solidale compagna di lotta: «Sono tra gli uomini amo gli uomini / amo l'azione / amo il pensiero / amo la mia lotta / sei un essere umano nella mia lotta / ti amo.» (1943) (Hikmet – Poesie, traduzione di Joyce Lussu e Velso Mucci, Newton Compton Editori, Roma 1972).

In questo periodo, diffuse clandestinamente, le sue liriche furono tradotte in varie lingue e divennero molto conosciute. Grazie all'intervento del poeta–saggista rumeno Tristan Tzara (1896–1963), fondatore del “Dadaismo”, si creò un comitato di sostegno democratico che fece conoscere in tutto il mondo sia l'opera sia la vicenda politica di Nazim e che protestò vivacemente presso il governo turco. Nel 1950, infastiditi da questa vasta e insistente campagna di liberazione, i burocrati turchi rilasciarono il poeta in libertà vigilata. I suoi scritti furono però distrutti e vietati, ed egli – privato della cittadinanza turca – fu costretto a vivere con la preoccupazione di essere di nuovo imprigionato.

Nel 1951 Hikmet scelse l'esilio, andando a vivere in Unione Sovietica e nell'Europa dell’Est; fu costretto, però, a lasciare in Turchia l’amata Munevvér, incinta di suo figlio: soltanto dopo dieci anni Nazim riuscì a riunirsi alla moglie e al figlio, fuggiti clandestinamente dalla Turchia (grazie anche all'aiuto della stessa Joyce Lussu). Ritornato a Mosca dopo trent'anni, prese la cittadinanza russa e continuò a coltivare con forza il sogno comunista. Nonostante quest'attiva militanza, Hikmet seppe però mantenere uno spirito libero lottando strenuamente contro le censure che molti scrittori sovietici furono costretti a subire in quel periodo di duro realismo socialista e contribuì nel 1956 nel dare inizio in Unione Sovietica al disgelo culturale.

Negli ultimi anni di vita, ormai anziano e stanco, Nazim, s’innamorò di Vara, una giovane e bionda ragazza russa, che sposò e che gli rimase vicina sino alla morte. In questi anni pubblicò Il duro mestiere dell’esilio (1958) e La conga di Fidel (1961), un diario in versi su una sua visita a Cuba. Hikmet viaggiò moltissimo, anche quando la sua salute, logorata dal lungo periodo di prigionia e da una grave cardiopatia (aveva avuto diversi infarti), non avrebbe potuto permetterglielo. Venne varie volte in Italia (che adorava) mentre non andò mai né in Inghilterra né in America o in altro paese di lingua inglese (probabilmente, profondi motivi ideologici glielo impedirono). In giro per il mondo, si creò molti amici che erano tutti soggiogati dal suo carisma di uomo prestante e intelligente. Morì a Mosca il 3 giugno del 1963 a causa di un ultimo infarto fatale, dopo un periodo in cui il presagio della morte lo afflisse di continuo: la sua ultima poesia era appunto intitolata Il mio funerale. Già nel 1955, nella poesia Forse la mia ultima lettera a Mehmet, destinata all’amato figlio lontano, timoroso di non rivedere più i suoi cari, Hikmet così scriveva: «[…] / Non ho paura di morire, figlio mio; però malgrado tutto / a volte quando lavoro / trasalisco di colpo / oppure nella solitudine del dormiveglia / contare i giorni è difficile / non ci si può saziare del mondo / Mehmet / non ci si può saziare. / […] / La nostra terra, la Turchia, / è un bel paese / tra gli altri paesi / […] / Mehmet, forse morirò / lontano dalla mia lingua / lontano dalle mie canzoni / lontano dal mio sale e dal mio pane / con la nostalgia di tua madre e di te / del mio popolo dei miei compagni / ma non in esilio / non in terra straniera / morirò nel paese dei miei sogni / nella bianca città dei miei giorni più belli. / Mehmet, piccolo mio / ti affido / ai compagni turchi / me ne vado ma sono calmo / la vita che si disperde in me / si ritroverà in te / per lungo tempo / e nel mio popolo / per sempre.» (Nazim Hikmet – Poesie d’amore, traduzione di Joyce Lussu, Oscar Mondadori, Milano 2002). Dopo la sua morte, Hikmet è diventato il grande eroe della sinistra turca, conosciuto e celebrato in quasi tutto il mondo, grazie alle numerose traduzioni delle sue poesie.

P.S. Nel film Le fate ignoranti (2001) del regista turco Ferzan Özpetek con Margherita Buy e Stefano Accorsi, la sensibile attrice recita, al femminile, alcuni versi di Hikmet tratti dalla poesia Notte d’autunno: In questa notte d’autunno / sono pieno delle tue parole / parole eterne come il tempo / come la materia / parole pesanti come la mano / scintillanti come le stelle. / Dalla tua testa alla tua carne / dal tuo cuore / mi sono giunte le tue parole / le tue parole cariche di te / le tue parole, padre / le tue parole, amore / le tue parole, amico. / Erano tristi, amare / erano allegre, piene di speranza / erano coraggiose, eroiche / le tue parole / erano uomini.


Nel 2007, il regista turco Biket Ilhan ha girato il film biografico Mavi gözlü dev (Un gigante dagli occhi blu), dedicato alla complessa e sofferta biografia di Nazim Hikmet, poeta della lotta e dell'amore, con Yetkin Dikinciler, Dolunay Soysert e Özge Özberk. Il film è riuscito a restituirci per intero il suo coraggio civile, la sua passione politica, il suo candido comunismo, la sua poesia immortale, e il suo spirito libero nonostante la prigionia.