Euripide Le
Baccanti
è in corso per il 2012 il xlviii ciclo di rappresentazioni
classiche a Siracusa – in quel
meraviglioso palcoscenico all'aria aperta che è il Teatro Greco della città
aretusea – con inizio l'11
maggio e conclusione il 30 giugno. Si rappresentano Prometeo di Eschilo, Baccanti
di Euripide e Uccelli di Aristofane.
Focalizzerò la mia attenzione sulle Baccanti e su Euripide, ricordando che la regia
della tragedia è di Antonio Calenda, con le stupende coreografie della Martha
Graham Dance Company.
Le Baccanti (titolo originale in greco antico Βάκχαι), è considerata a
tutt'oggi una delle più grandi opere teatrali di tutti i tempi e costituisce
una delle tragedie più antiche, scritta da Euripide (uno dei maggiori poeti
tragici greci), e una di quelle rimaste più integre (e questo potrebbe forse far
intuire quanto fosse amata e prediletta dal pubblico). Fu composta nel 407–406 a.C. e fu data in prima assoluta
nel 403 a.C. presso il Teatro di Diòniso in Atene (sotto la direzione del
figlio o nipote dell'autore ormai deceduto, chiamato anch'egli Euripide). Fu premiata
alle Grandi Dionisie del 403 a.C.
I
personaggi della tragedia sono: Diòniso, figlio di Zeus e di Semèle (Maurizio
Donadoni); Pènteo, re di Tebe e figlio di Echiòne
e Agave (Massimo Nicolini); Cadmo, padre di Semèle e Agave, nonno di Pènteo (Daniele
Griggio); Agave, madre di Pènteo (Daniela
Giovanetti), Tìresia, indovino cieco (Francesco
Benedetto), la Corifea
(Gaia Aprea) e naturalmente il coro delle
Baccanti.
Ambientata a Tebe (davanti alla
reggia di Pènteo, con vicino ancora fumanti le rovine della casa di Semèle), la trama ruota attorno a Diòniso – dio che celebra il vino, il teatro e il piacere, nato appunto dall'amore
di Zeus per la donna mortale Semèle. Nel prologo, Diòniso racconta di essere
venuto sulla terra, a Tebe, in forma umana per riaffermare la sua natura divina;
così inizia la tragedia: «Suol di
Tebe, a te giungo. Io son Diòniso, / generato da Giove, e da Semèle / figlia di
Cadmo, a cui disciolse il grembo / del folgore la fiamma. Ora, mutate / le
sembianze celesti in forma umana, / di Dirce all'acqua, ai flutti ismeni vengo.
/ Dell'arsa madre a questa reggia presso / veggo la tomba: le rovine veggo /
della sua casa, ove il celeste fuoco / fumiga, vivo ancor, della vendetta /
d'Era contro mia madre eterno segno.» – testo nella traduzione di Ettore Romagnoli (Roma, 1871–1938). Infatti,
le sorelle di Semèle e il nipote Pènteo, che è il re
di Tebe, invidiosi di lei, avevano sparso la diceria che Diòniso non fosse un
dio, essendo nato dalla relazione di Semèle con un mortale: «[…] perché le suore di mia madre, quelle / che
meno lo dovean, disser che mai / figlio non fu Diòniso di Giove, / e che
Semèle, da un mortale incinta, / a Giove attribuita avea la colpa, / per
consiglio di Cadmo: onde l'Iddio / per le nozze mentite a lei die' morte.».
Per vendicarsi, Diòniso ha travolto le menti e ha rese folli tutte le donne tebane
(comprese le figlie di Cadmo e sorelle di Semèle), riparate sul monte Citerone – lo stesso
dove Atteone, trasformato in cervo fu sbranato dalle sue cagne – per
celebrare i riti in onore di Diòniso e divenute delle Baccanti (Bacco è un
altro nome di Diòniso): «Però fuor
dalle case io le cacciai / in preda alla follia. Prive di senno / han per
dimora il monte; e le costrinsi / ad indossar dell'orge mie le spoglie. / E
quante donne ha la città di Cadmo, / fuor dalle case, a delirare, io spinsi; / e
donne insieme e giovinette corrono / a ciel sereno sotto i verdi abeti. /
Voglia o non voglia, deve Tebe intendere / che priva è ancor dei riti miei, che
deve / me per mia madre celebrar, ch'io sono / figlio di Giove, e Nume apparvi
agli uomini. / […] / Dunque, a lui mostrerò che Nume io sono, / ed a tutti i
Tebani. […] Venni perciò, mortal parvenza assunsi, / e mutai la mia forma in
forma umana.».
Tirannico, irascibile e
irragionevole, Pènteo (che ha ricevuto il potere da
Cadmio) si rifiuta di riconoscere Diòniso come dio e lotta contro il suo potere,
nonostante il nonno Cadmo e l'indovino cieco Tìresia cerchino di convincerlo
del contrario; dice Cadmo parlando con Tìresia vestito da baccante: «Io sono
pronto, e meco / ho gli arredi del Dio. Tu sai ch'è figlio / della mia figlia:
è giusto ch'io lo esalti / per quanto è in me. Dove convien danzare, / muovere
il pie', scuotere il crine bianco? / Guida me vecchio, tu, vecchio Tìresia: /
ché tu sei savio: ed io mai sarò stanco / di picchiar notte e giorno a terra il
tirso: / ché d'esser vecchio io volentier dimentico. / […] / Io vecchio un
vecchio guiderò qual pargolo?».
Infuriato,
Pènteo si lamenta che le donne, «simulando
un estro bacchico», avevano abbandonato le loro case, correndo tra i boschi,
onorando con i balli Diòniso e giocando a rimpiattino con gli uomini; egli le
aveva incarcerate e quelle disperse per i monti le avrebbe «strette in ferree reti», ponendo fine al
loro «pernicioso impeto d'orge». Ha
saputo che è giunto un forestiere: «un
fattucchiere ciurmator di Lidia, / di bionde chiome ricciole fragranti, / vermiglio
in viso, e voluttà spirante / da le pupille, che dí e notte celebra / fra donne
giovanette i riti bacchici.». Inutilmente Tìresia gli dice: «Questo novello iddio che tu schernisci, /
non ti so dire quanta sia per l'Ellade / la sua grandezza. […] / che all'uom
donò l'umor dolce dei grappoli, / l'umido succo che solleva i miseri / d'ogni
cordoglio, allor che si riempiono / dell'umor della vite, e dà nel sonno / l'oblio
dei mali cotidiani; e farmaco / altro non v'è delle fatiche. / […] / Ed è
profeta questo Dio: ché molto / profetico estro è nel furore bacchico. / E quando
in abbondanza alcun l'ingurgiti, / fa' sí che gli ebbri dicano il futuro. […] /
Pènteo, m'odi. / Non illuderti ch'essere sovrano / per i mortali sia vera
potenza; / né reputarti, sol perché lo credi, / saggio, quando non saggia è la
tua mente. / Il Nume accogli in questa terra, e liba, / celebra l'orge, al crin
ghirlanda cingi.». E anche Cadmo così cerca di convincere Pènteo: «Se
pur, come tu dici, / Nume non è, lascia che qui lo chiamino / Nume: e parrà,
per questa pia menzogna, / ch'abbia Semèle generato un Dio, / e onore avrem la
nostra casa e noi.».
Pènteo non
vuol sentire ragioni e manda le sue guardie a cercare il forestiero per arrestarlo
e imprigionarlo all'interno della sua reggia: «E voi correte a Tebe, e rintracciate / il forestiere di donnesco
aspetto, / che alle femmine adduce il nuovo morbo, / e contamina i letti. E se
potrete / coglierlo, in ceppi avvinto qui portatelo, / sì che sotto le pietre
espii le colpe, / e l'orge in Tebe gli sappian d'amaro!». Le guardie gli
portano Diòniso con le mani legate: «Pènteo,
siam qui. La preda ti rechiamo / sulla cui traccia ne inviasti: vana / non fu
l'opera nostra. E questa fiera / fu con noi mite, e a fuga il pie' non volse; /
ma le man' porse di buon grado, senza / sbiancare in viso; ma così, vermiglio /
e ridente, stie' fermo, e c'invitò / a legarlo e condurlo; […]».
Pènteo minaccia di tenerlo
custodito in ceppi ma Diòniso gli risponde che il Nume, che gli sta vicino e
che vede come soffre, lo avrebbe sciolto quando egli glielo avrebbe chiesto. Furioso
per le sue parole, Pènteo lo fa rinchiudere presso le stalle, nelle segrete
dalle tenebre più profonde, mentre Diòniso gli profetizza: «Ma il Dio che tu neghi, Diòniso, / trarrà
vendetta dell'ingiurie tue: / ché, me legando, in ceppi il Nume stringi.». Infatti,
Diòniso scatena un terremoto, liberandosi facilmente;
si sente una scossa tremenda e un rombo, e tutto il Coro si lamenta: «Come la terra scuotono i Numi! / Ahimè,
ahimè! / Cadrà di Pènteo / la reggia al suolo presto in frantumi. / Sopra la
casa piombò Diòniso!», mentre la reggia comincia a crollare e dalla tomba
di Semèle si levano altissime fiamme. E le Baccanti si prostrano dinanzi a
Diòniso, che esce trionfante dalla reggia e che volge lo sguardo su loro.
Dal
monte Citerone, intanto, un bifolco porta notizie spaventose; le baccanti in
pieno furore dionisiaco allattavano i selvaggi cuccioli di lupo, dalla roccia
avevano fatto sgorgare polle di acqua fredda e vino, dal suolo avevano
grattato latte puro e dagli arbusti avevano fatto scorrere rivoli di miele. I
bifolchi e i pastori si erano adunati e si erano salvati dall'esser sbranati,
soltanto fuggendo e nascondendosi. Le Baccanti avevano poi
squartato viva una mandria di mucche: «Esse piombarono / sopra le greggi che pasceano l'erba, / senz'arme in
pugno: e lì, questa vedevi / in due squarciare una mammosa vacca / muggente;
l'altra lacerare a brani / a brani le giovenche: e fianchi e bifidi / zoccoli
su e giù lanciar vedevansi, / e sanguinanti penzolar dai rami. / E i tori violenti,
avvezzi al rabido / cozzo dei corni, al suol giacean fiaccati, / tratti giù
dalle mani innumerevoli / delle fanciulle; e in men che tu le palpebre, / o re,
non serri, fatti erano in pezzi.». E le donne impazzite avevano messo tutto
a sacco, rapendo bambini e mettendo in fuga la
popolazione atterrita: «Dalle case
rapiano i pargoletti; / e quanto si ponean sopra le spalle, / o bronzo o ferro,
senza alcun legame / vi adería, né cadea sul negro suolo./ E portavano fuoco
sopra i riccioli, / né le bruciava. […]». E il bifolco spaventato invita Pènteo a ritornare sui suoi passi: «Questo Dèmone dunque accogli, o re, / qual
ch'egli sia, nella città: ché sommo / è in tutto; ed ai mortali, a quel che
dicono, / donò la vite che sopisce il duolo. / E dove non è vino non è amore;/
né alcun altro diletto hanno i mortali.».
Convinto
da Diòniso, dopo molte perplessità, invece di concentrare le sue forze militari
contro le Baccanti, Pènteo decide di travestirsi da donna (ricoprendo di pepli
di bisso le sue membra, sciogliendo la chioma sugli omeri e mettendo delle
bende sul capo), per poter spiare le Baccanti senza
essere scoperto. Dalla reggia escono Diòniso che parla e Pènteo che lo
segue: «Tu che brami veder quanto vedere
/ non conviene, e t'affretti a ciò che meglio / saria fuggire, esci, o Pènteo,
nei panni / di Mènade baccante a noi ti mostra. / […] / D'una figlia di Cadmo
hai la figura!». Pènteo gli assicura che sarebbe stato nascosto fra gli
abeti. Aizzate dal dio, però, le Baccanti lo ritrovano
e – scambiandolo per un leone – lo fanno a pezzi, guidate da Agave,
la madre di Pènteo, divenuta anch'essa una Baccante: «E lui scoprir le Mènadi, più ch'egli / non
le scoprì. Ché mentre ancor nascosto / era fra i rami, lo straniero sparve, / e
una voce per l'ètere – la voce
/ di Diòniso, penso – risuonò:
/ “L'uomo io vi reco, o femmine, che voi, / che me, che l'orge mie mise in
ludibrio: / traetene vendetta!” / […] / Con mille e mille mani / quelle
abbrancar l'abete, e lo divelsero; / e dall'eccelso suo rifugio, a terra, / con
mille e mille strida, Pènteo giù / cadde, che si sentia giunto al suo fine. /
Prima su lui piombò, ministra prima / fu del rito di sangue Agave a lui. / Ed
ei, perché la madre lo ravvisi, / via dalle chiome le bende scagliò, / e le
sfiorò la gota, e disse: “O madre, / io son Pènteo, sono tuo figlio! Nacqui /
di te, nei tetti d'Echióne! Ora, abbi / pietà di me; e per gli errori suoi, /
non voler, madre, uccidere tuo figlio!”. / Quella, sputando bava, e roteando, /
torcendo le pupille, e dissennata, / era invasa dal Nume, e non l'udiva; / ma
con la manca un braccio gli afferrò, / e, il pie' puntando sopra il fianco al
misero, / l'omero gli strappò: non di sua forza, / ma nelle mani un Dio vigor
le infuse. / […] / Ed una un braccio,
un pie' l'altra portava: / nude l'ossa apparian dai fianchi rotti; / e con le
mani sanguinose tutte / si palleggiavan di Pènteo le carni.».
è un messaggero
ritornato a Tebe a narrare questi fatti a Cadmo, che poco dopo vede arrivare la
figlia Agave, delirante, che grida in modo dissennato (seguita da uno
stuolo di donne
in costume di Baccanti, anch'esse
dissennate e deliranti) e che porta un bastone su cui
è infilzata la testa di Pènteo (che crede quella del leone). Ella cerca il
vecchio padre Cadmo e il figlio Pènteo per mostrar loro la testa della fiera
smembrata con le sue stesse mani bianche. Cadmo, che aveva intanto cercato,
ricomposto e riportato i poveri resti di Pènteo, riesce a far ritornare in sé la
figlia Agave, che misura con orrore quel che ha fatto (ha ucciso il figlio e ne
ha infilzato come un trofeo la testa): «O padre, vedi la sciagura mia! / Pènteo miseramente fra le rupi / sbranato
giacque. Ed ora, con che lagrime / lo piangerò? Come potrò, me misera, / stringerlo
al sen, toccarlo con le mani / che commiser lo scempio? A brani a brani / le
membra che ho nutrite io bacerò!»; infine, gettando a terra i paramenti del
dio, proclama di non voler vedere mai più il monte Citerone.
Diòniso
riappare dinanzi a Cadmo, che sta piangendo la morte di Pènteo, spiegando di
avere compiuto la sua vendetta per punire tutti coloro che non credevano alla
sua natura divina. Decreta anche che Cadmo e Agave debbono separarsi per essere
esiliati in terre lontane. Ad Agave dice: «Tu con le sorelle / Tebe lasciar dovrete, e il fio pagare / del duro
scempio a lui che avete ucciso; / né vedrete più mai la patria vostra.». A
Cadmo – che pure era stato
l’unico della famiglia a riconoscere la sua natura divina – Diòniso dice: «se saggi / stati voi
foste allor che non voleste, / vi sarei stato amico, e voi felici» e profetizza che dovrà soffrire finché, trasformato in drago, non troverà la pace con Armonia,
datagli in sposa da Marte e trasformata in serpe. Ci si avvicina alla
conclusione con il padre e la figlia che si dicono addio e che si abbracciano,
piangendo l'uno per l'altra, e con Agave che saluta la terra amata: «Addio, mia casa! Addio / terra ove nacqui.
Lungi dalla reggia / ove fui sposa, me spinge sventura.»; si lasciano,
quindi, per affrontare il loro destino di esilio e separazione.
La tragedia termina con le parole della prima Corifea: «Spesso tramuta quando oprano i Dèmoni, / e inaspettati eventi i Numi
compiono. / E a ciò che s'attendea negarono esito, / e all'inatteso aprir
tramite agevole. / Della favola triste è questo il termine.».
Le Baccanti fu la tragedia della
maturità, scritta da Euripide mentre si trovava presso la corte di Archelao (re
di Macedonia) pochi mesi prima della sua morte. Essa è considerata da taluni
come la riscoperta finale della religione da parte di un drammaturgo che per
tutta la sua vita aveva voluto essere assolutamente laico, ma alcuni studiosi,
invece, vi hanno visto una forte e drammatica invettiva anti–religiosa. Infatti, di fronte la
vendetta del dio Diòniso è troppo spietata ed egli è tanto privo di scrupoli e
di pietà verso gli uomini che, criticamente, Agave si rivolge a Diòniso alla
fine dell'opera dicendogli: «Vero è; ma
troppo contro noi t'avventi! / […] / Rancor mortale ai Numi non si addice!».
Si è anche detto che questa
tragedia sancisca la fine dell'eroe tragico, dignitoso nonostante tutto;
infatti, il protagonista Pènteo sembra perdere invece ogni sua dignità: vestito
da donna, è messo in una posizione quasi grottesca, non degna di un eroe
classico, e anche il nucleo tragico della vicenda sembra spesso venire quasi
ridicolizzato.
è
anche interessante il fatto che Euripide si fosse ispirato a qualcosa di reale
che – se anche non si praticava
più nell'Atene nel V secolo a.C. –
era ancora in vita in alcune località più primitive del mondo greco: alcune
donne (dette Baccanti o anche Menàdi) si riunivano in gruppi detti tìasi, ad
anni alterni, ritirandosi sui monti per celebrare i riti di Diòniso,
abbandonandosi senza freni a danze e suoni col sacro flauto e con i frigi
timpani, sbranando gli animali a mani nude e mangiandone le carni crude.
Un'altra cosa degna di nota è che,
nel Fedro, Platone afferma essere la
follia superiore alla sapienza (nel senso di saggezza: sophía), poiché la
seconda è di origine umana mentre la prima è di origine divina; e la follia di
cui parla Platone è proprio quella iniziatica che è riconducibile ai riti del dio
Diòniso (gli altri tipi di follia sono quella profetica riconducibile ad
Apollo, quella poetica riconducibile alle Muse e quella erotica riconducibile
ad Afrodite). D'altra parte, oltre alla follia, le Baccanti sembrano portare
avanti anche il desiderio e la soddisfazione di una società alternativa,
vissuta a contatto con la natura e lontana dagli stili cittadini: «O padre, molto gloriarti puoi, / che
generasti valorose figlie / come niun dei mortali: io dico tutte, / e più di
tutte me, che, abbandonate / presso i telai le spole, a maggior gesta / venni,
e cacciai con le mani le belve!». In esse, c'è anche la voglia di un recupero
di autonomia esistenziale che meglio consentiva loro una matura consapevolezza
di sé; così canta appunto il coro delle Baccanti: «Oh felice, chi, ai Superi / diletto, assiste ai lor sacri misterii, / e
il suo viver santifica / inebriando l'anima nel tíaso, / pei monti, in estro
bacchico, / e della Madre Rea celebra l'orge / solenni, ed alto in aria / il
tirso squassa, e servo di Diòniso / si fa, cinto il crin d'ellera! […] Savio
non è chi troppo è savio, e l'occhio / oltre agli umani limiti / volge. Breve è
la vita. Or chi, seguendo l'ardue / cose, vorrà le facili / non sopportare?
Offeso, a quanto sembrami, / chi così opra, ha il cèrebro / dalla follia, né
bene si consiglia.».
Euripide – che insieme a Eschilo (525–456 a.C.) e Sofocle (496–406
a.C.) fu tra i grandi poeti tragici greci – seppe esprimere nelle sue tragedie atteggiamenti filosofici di
profonda introspezione psicologica. Era nato a Salamina (stupenda isola nel
golfo di Sarònico, sita di fronte ad Atene) il 20 settembre del 480 a.C.,
proprio il giorno della famosa battaglia che vide i greci vincitori sui persiani
(e il suo nome trasse appunto ispirazione dal canale Euripe, nei pressi del
luogo ove si svolse il combattimento). Il padre Mnesarco (forse un semplice
bottegaio ma ricco di beni e terre) gli fece dare un'ottima istruzione mentre
la madre era soltanto un'umile erbivendola. Su questa umiltà delle origini del
grande autore tragico, insistette il quasi contemporaneo commediografo ateniese
Aristofane (445–388 a.C), un
ricco aristocratico dalla cultura raffinata, che odiava Euripide considerandolo
un rozzo innovatore di costumi e che, a proposito di alcuni umili protagonisti
rappresentati da Euripide, parlò con feroce sarcasmo di «straccioni euripidei».
Da giovane, l'autore greco fu
nutrito del culto di Apollo e divenne amico del grande filosofo ateniese
Socrate (469–399 a.C.); in
seguito crebbe nell'area della filosofia sofistica di Protagora di Abdera (V
sec. a.C.), che riteneva l’uomo la misura di tutte le cose e che ne influenzò gli
interessi, i gusti e la cultura. Euripide
si dedicò con successo anche alla pittura. Fu un uomo solitario e
individualista (la leggenda narra che scrivesse i suoi drammi in una grotta sul
mare), probabilmente ateo, e non si occupò mai di politica pur essendo molto
aperto alla cultura anti-tradizionale e alle inquietudini del suo tempo. Ebbe
il merito di ridurre nella drammaturgia greca la prevalenza del Coro (usato
essenzialmente per rallentare l’azione drammatica) e la presenza irrinunciabile
degli Dei, ricorrendo spesso al deus ex machina (una soluzione drammatica
usata soltanto più tardi) e cercando di mettere al centro delle sue
rappresentazioni teatrali l'uomo con la sua essenza umana e psicologica. In un
nuovo “realismo umanistico”, l'individuo diviene il vero protagonista con la
sua calda umanità, le sue violente passioni e i suoi vivi sentimenti: non è un
personaggio fermo e risoluto, ma più modernamente un soggetto problematico e
conflittuale, che può godere del lieto fine soltanto eccezionalmente e che nel
dolore conquista la sua maggiore dignità tragica.
Euripide usò un linguaggio d'uso
quotidiano ma contemporaneamente lirico e sublime, ricco d'immagini fantasiose
e di musicalità; le trame e i temi erano squisitamente riferibili alla psiche
umana e si rivolgevano al destino e al fato (padroni della sorte dell'uomo), oltre
che alle ragioni e ai modi del vivere umano. I suoi personaggi diventano spesso
personificazioni universali di sentimenti umani.
Euripide scrisse 92 composizioni
drammatiche, delle quali ci restano 17 tragedie e il dramma satirico Il
Ciclope. Nelle prime composizioni ha privilegiato le tematiche amorose,
rappresentando delle tragedie condizionate dalle passioni umane e dalle forze
elementari dell'amore; in seguito, si è ispirato a tematiche politico–patriottiche e al problema del caso
che in modo cieco e oscuro confonde i destini degli uomini.
L’ordine cronologico delle sue tragedie
è incerto. Le prime furono probabilmente Alcesti (438 a.C.) e Medea (431);
seguirono Ippolito (428), Ecuba (420), Troiane (415) ed Elettra
(413); tra le ultime vi furono Elena (412) e Oreste (408). Grazie
a Euripide il giovane (il figlio o meglio il nipote di Euripide), furono
rappresentate postume Ifigenia in Aulide e Baccanti (forse il suo
capolavoro, ricco di un fascino ambiguo e misterioso). Al suo tempo, in Grecia,
si tenevano delle gare di teatro definite «agoni tragici»: egli fu vincitore di
quattro o cinque di questi agoni (il primo lo vinse nel 441 a.C.) ma in realtà
in vita ebbe scarsa popolarità. Morì nel 406 a.C. (forse sbranato da una muta
di cani famelici) in Macedonia ove viveva alla corte di Archelao, dopo avere
abbandonato Atene. Dopo la sua morte, Euripide raggiunse una fama immensa,
ispirando con i suoi testi sperimentali la “Commedia Nova” greca e la
drammaturgia latina: gli ateniesi gli dedicarono una statua di bronzo nel
teatro di Dioniso (330 a.C.). Fu amato dal raffinato poeta francese Jean Racine
(1639–1699) e dal grande
scrittore tedesco Johann Wolfgang Goethe (1749–1832), che con moderna spiritualità rivisitarono alcune grandi
protagoniste di Euripide, come Andromaca o Ifigenia.
Lo
scrittore calabrese Corrado Alvaro (1895–1956),
che tra il 1950 e il 1951 scrisse un’Alcesti
dando una moderna rilettura del mito di Euripide, era interessato alla
rielaborazione della mitologia classica e scriveva: «Abbiamo sempre bisogno di
ricorrere ai miti del passato per stabilire i termini del presente… L’antichità
aggiunge nobiltà al dramma borghese, la lontananza creata dal mito gli dà
risonanza poetica. Il secondo dopoguerra, come il primo, ha cercato di leggere
chiaro nel destino contemporaneo rispecchiandolo negli eroi del passato».
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