Richard Brooks
Il 18 maggio di cento anni addietro nasceva
Richard Brooks, abile regista e fantastico sceneggiatore, artefice di molti
film immortali che abbiamo amato e che sempre ameremo perché ha realizzato il connubio perfetto, "il magico accordo" tra cinema e letteratura. Oscar nel 1961 per la
migliore sceneggiatura non originale per “Il figlio di Giuda”, può, senz'altro
considerarsi uno dei padri del «Dramma realista» e del «Neorealismo
democratico».
All'anagrafe Ruben Sax, nacque a Filadelfia (Pennsylvania)
nel 1912 e morì a Beverly Hills, Los Angeles (California), l'11 marzo del 1992
all'età di 79 anni per un grave scompenso cardiaco.
Dopo aver studiato giornalismo alla Temple University e dopo
una breve collaborazione con la NBC, si diede alla drammaturgia radiofonica e
alla sceneggiatura cinematografica usando lo pseudonimo di Richard Brooks (cambiò
definitivamente e legalmente il suo nome nel 1943). Alla fine del 1940 si
trasferì a Los Angeles per lavorare nel cinema e, prima della guerra, partecipò
ad alcuni discreti B–movie mostrando già il taglio sicuro di un autore forte e
drammatico. Fu, però, soltanto dopo la guerra che il suo genio creativo e il
suo spirito d'intellettuale “liberal” s'imposero nel più importante cinema di
Hollywood. Questo avvenne anche sulla scia del successo di alcuni romanzi ben
scritti e ben congegnati dalle storie vibranti e ricche di pathos: The Brick Foxhole – recensito favorevolmente e scritto
durante la seconda Guerra Mondiale, quando Richard lavorava nella “Marine Corps
Film Unit” a Quantico (Virginia) e talora a Camp Pendleton (California) dedicandosi
a scrivere e a produrre documentari –
dal quale Edward Dmytryk trasse il film nominato all'Oscar Odio implacabile (Crossfire) (1947), uno dei primi importanti film
di Hollywood a parlare di anti–semitismo,
con Robert Mitchum, Robert Ryan e Gloria Grahame (ambientato in una tetra
atmosfera notturna, racconta di un ebreo che viene ucciso da un reduce
psicopatico); The Boiling Point
(1948); e The Producer (1951),
dedicato al mondo della produzione cinematografica delle Majors e ispirato al
potente produttore indipendente Mark Hellinger che contribuì a lanciare Brooks
nel mondo del cinema facendolo assumere dalla Warner Brothers. Mark Hellinger
amava vestirsi come un gangster ma era un intellettuale acuto e intelligente;
scrisse i soggetti di due film notevoli: “I ruggenti Anni Venti” (1939) e “La
città nuda” (1948).
Tra le sceneggiature di questo periodo, ricordiamo quelle
per i film Una celebre canaglia (Swell
Guy) (1946) di Frank Tuttle con Ann Blyth e Sonny Tufts; La forza bruta (Brute Force) (1947),
film crudo e realistico di Jules Dassin,
e «uno dei capolavori del genere cosiddetto “carcerario”, protagonista B.
Lancaster (uno degli attori preferiti di Brooks) alle prese con un sadico
aguzzino e un'evasione che sfocia in una carneficina» (Cinema, le garzantine, a cura di Gianni Canova, Garzanti, 2009); L'isola di corallo (Key Largo) (1948),
co–diretto con John Huston (un
altro mentore di Richard Brooks), adattato da un dramma del drammaturgo
statunitense Maxwell Anderson (1888–1959), con Humphrey Bogart e Lauren Bacall – iniziò così una lunga e affettuosa
amicizia con Bogart; e Fate il vostro
gioco (Any Number Can Play) (1949) di Mervyn LeRoy con Clark Gable, che
interpreta il proprietario di un casinò, e Alexis Smith.
Dopo esser passato alla MGM, nel 1950 Brooks fece la sua
prima regia per il film melodrammatico –
definito “a medical thriller” –
La rivolta (Crisis) (1950), opera di
forte impegno politico e di tensione morale che narra di un neurochirurgo (Cary
Grant) dibattuto da una crisi di coscienza perché costretto a salvare col suo
intervento la vita a un sanguinario dittatore del Sud America (interpretato da Jose
Ferrer). Il suo secondo film fu la commedia romantica girata in Italia L'immagine meravigliosa (The Light Touch)
(1951) con Stewart Granger, storia di Sam, un ladro professionista che deve
organizzare un furto in un museo italiano e di Anna, un'attraente pittrice
italiana, inconsapevole copista di quadri famosi rubati.
Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, il suo periodo di
maggiore splendore, Richard Brooks si meritò la nomination all'Oscar per la
sceneggiatura e la regia dei seguenti cinque film, tutti straordinari e tesi da
un punto di vista morale.
1. Il seme della
violenza (Blackboard Jungle) (1955), tratto dal vigoroso best–seller di Evan Hunter, noto come Ed
McBain (1926–2005), con Glenn
Ford, narra di Richard Dadies, un reduce idealista assunto come professore in
una scuola della periferia povera di New York City; tranquillo ma risoluto, è
costretto a misurarsi con l'ostilità dei colleghi e del preside per aiutare,
con una dura lotta civile e a caro prezzo, gli studenti disadattati e violenti
della sua scolaresca che lo boicottano. Il film divenne un “cult” per le
giovani generazioni degli Anni Cinquanta e sorprese tutti per la vivace
rappresentazione della violenza e della delinquenza del mondo giovanile
americano del tempo, facendo conoscere alla massa e alla critica il talento del
giovane attore di colore Sidney Poitier e procurando a Brooks la prima
nomination all'Oscar per la sceneggiatura nel 1956: «Il film, che per la prima
volta utilizza il rock 'n roll per la colonna sonora (Bill Haley e i Comets),
fa scalpore e diventa il prototipo di una lunga serie di drammi dedicati al
contrasto generazionale nelle metropoli degradate» (Cinema, le garzantine, a cura di Gianni Canova, Garzanti, 2009). Ha
commentato Morandini: «Conta per le qualità morali (sincerità, coraggio, buone
intenzioni) più che per quelle estetiche. Difficile dire dove finisca la
tenerezza del regista e dove cominci l'irrealismo ingannatore delle sue
proposte.» (il Morandini, Zanichelli
editore).
2. La gatta sul tetto
che scotta (Cat on a Hot Tin Roof) (1958), tratto da un dramma di Tennessee
Williams (1914–1983) che era
stato un grande successo a Broadway, è un film grondante sensualità e sesso, un
successo di critica e di botteghino tale da dare l'indipendenza a Brooks e alla
sua visione del cinema (fu il regista che guidò la transizione tra il sistema
classico degli Studios e la produzione indipendente), storia del fallimento di
un matrimonio eterosessuale per l'omosessualità latente dell'uomo e sullo
sfondo un contrasto feroce tra lui e il padre affetto da machismo. Contribuì a
rilanciare Elizabeth Taylor (Maggie) facendo una star di Paul Newman (Brick),
il fragile, tormentato e alcolizzato protagonista. Brooks ricevette la seconda
nomination all'Oscar per la migliore sceneggiatura e migliore regia nel 1959.
Ha commentato Morandini: «Un autoritario barone terriero del Mississippi malato
di cancro festeggia il 65° compleanno insoddisfatto dei due figli, uno dei
quali è un avido bruto e l'altro un ex atleta nevrotico che rifiuta di dormire
con la bella moglie. […] Sotto la guida di Brooks si recita benissimo. Ebbe 6
nomination ai premi Oscar e non ne vinse nessuno.» (il Morandini, Zanichelli editore).
3. Il figlio di Giuda
(Elmer Gantry) (1960), tratto dal romanzo dello scrittore americano
Sinclair Lewis (1885–1951)
scritto nel 1927, è un film controverso e amaro nel suo alternarsi tra sacro e
profano, che racconta la storia di Elmer Gantry (Burt Lancaster), un
rappresentante di elettrodomestici vagabondo, simpatico e chiacchierone che
conosce sorella Sharon Falconer (Jean Simmons), una suora laica e la
carismatica leader di un movimento revivalista che va predicando il Vangelo per
le piccole città di provincia del Midwest. Elmer vorrebbe sposarla ma lei, a
causa della sua missione, lo rifiuta; l'uomo riesce abilmente a entrare a far
parte del suo gruppo religioso divenendone l'istrionico predicatore,
richiamando un grande pubblico e ricavando grosse somme di denaro attraverso le
offerte degli ingenui fedeli. Verrà incastrato come ciarlatano e impostore da
Lulu Bain (Shirley Jones), una prostituta, sua intima amica, ancora innamorata
di lui, che l'uomo farà allontanare con l'inganno; e Sharon alla fine perderà
la vita in un incendio. Il film rappresentò
un'accusa dura e impietosa contro il bigottismo, l'ipocrisia religiosa,
il fanatismo e l'isteria di massa, tipici di un certo ceto americano. Ricevette
cinque nomination nel 1961 e vinsero l'Oscar Lancaster come migliore attore
protagonista, Shirley Jones come migliore attrice non protagonista, e Brooks
per lo script originale. Ha commentato Morandini: «È in assoluto il miglior
film USA del 1960, e uno dei migliori di Brooks, romanziere, sceneggiatore e
regista: un saggio inquietante e geniale sulla religiosità dell'homo
americanus.» (il Morandini,
Zanichelli editore).
4. I professionisti
(The Professionals) (1966) era tratto da un romanzo di serie B di Frank
O'Rourke (1916–1989) ma Brooks
riuscì a trasformarlo in uno dei western più interessanti mai girati, grande e
spettacolare, un western di transizione. Racconta di un influente possidente
americano che assolda dei professionisti mercenari (Lee Marvin, Robert Ryan e
Woody Strode) per ritrovare in Messico la giovane moglie (Claudia Cardinale)
rapita da alcuni ribelli messicani capitanati da un feroce Jack Palance; a loro
si unirà un dinamitardo (interpretato magistralmente da Burt Lancaster) che
s'innamorerà dell'ostaggio. Brooks ricevette la quarta nomination all'Oscar per
la regia. Ha commentato Morandini: «Compiuta la missione tra mille insidie, i
quattro si rendono conto che l'americano è un uomo senza scrupoli, che tratta
la moglie come una proprietà. Liberano la donna e l'uomo che l'aveva rapita, in
realtà il suo amante, secondo un loro codice morale e senza contravvenire al
patto con l'americano. Un gesto romantico che costa loro il premio pattuito. […]
Certamente un film sull'amicizia virile, ma senza il compiacimento che spesso
questo tema comporta. […] Un grande film in attesa di un giudizio finale più
onesto da parte di chi lo ha inserito nell'anonimo mucchio dei film da gettare.»
(il Morandini, Zanichelli editore).
5. A sangue freddo
(In Cold Blood) (1967) è tratto da un testo di Truman Capote (1924–1984) che racconta l'assassinio e la
follia; l'autore scelse proprio Brooks per l'adattamento del suo best–seller, e insieme Brooks e Capote adattarono
una “storia vera (nonfiction novel)”, realizzando «un resoconto scritto da T.C.
sull'immotivato eccidio di una famiglia del Kansas da parte di due vagabondi,
con l'aggiunta di materiale originale, di numerosi flash–back freudiani» (Il
Cinema – Grande storia illustrata, Ist. Geografico De Agostini, Novara, 1981).
I due vollero per interpretare i due giovani sbandati in libertà vigilata –
responsabili della strage della famiglia Clutter (padre, madre e due figli)
avvenuta a scopo di furto nel novembre del 1959 – due attori sconosciuti (Scott
Wilson e Robert Blake) e cercarono di approfondire soprattutto le motivazioni
dell'inconscio dei due assassini. Girarono il film in bianco e nero, e usarono
la medesima località e la stessa fattoria del delitto per dare un maggiore
senso di verità: ne uscì una pellicola di taglio maturo e moderno e di
stringente coinvolgimento, che lanciava un forte messaggio contro la pena di
morte, veicolo di nuova e inaudita violenza. Ha commentato Morandini: «Rei confessi al processo, i colpevoli sono giustiziati il
14/4/1965. L'anno dopo Truman Capote pubblicò il romanzo–documento,
costato sei anni di lavoro, che gli diede la fama. Autore anche della
sceneggiatura, R. Brooks ne cava un film di stile semidocumentaristico:
asciutto, intenso, implacabile, girato nei luoghi reali, compresa la casa del delitto.
Scene raccapriccianti, ma senza compiacimenti.» (il Morandini, Zanichelli editore). Questo film rappresentò il
culmine della carriera di Brooks e gli meritò la quinta nomination all'Oscar per
la migliore sceneggiatura e la migliore regia.
Autore geniale, Richard Brooks continuò a dare voce e forma
cinematografica ai grandi scrittori e drammaturghi americani contemporanei. Nel
1954 Brooks girò lo «strappalacrime» L'ultima
volta che vidi Parigi (The Last Time I Saw Paris) (1954) con una superba e
bellissima Liz Taylor, storia d'amore di Charles Willis (Van Johnson), un
cronista di guerra che nel 1945, nell'euforia della Liberazione, ha sposato la
compatriota Helen. Hanno avuto una figlia Vicki ma l'uomo (scrittore deluso) è
divenuto alcolizzato e indifferente mentre Helen (donna ricca e viziata) vive
una frivola vita mondana, trascurando la figlia e abbandonandosi a un'avventura
extraconiugale. Poi Helen si ammala e muore, e Charles va a riprendersi Vicki,
lasciata alla cognata Marion. Ha commentato Morandini: «Tratto da un romanzo di
Elliot Paul (1891–1958) e dal
racconto “Babylon Revisited” di Francis Scott Fitzgerald (1896–1940) su
sceneggiatura di R. Brooks con Julius e Philip Epstein, il film è tutto giocato
sulla corda della memoria e del rimpianto. Ha una bella e intensa parte
centrale, ma verso la fine scade nel melodramma lacrimoso. […] Raramente,
comunque, Johnson è stato così bravo e la Taylor così radiosa. Bella canzone di
Jerome Kern.» (il Morandini,
Zanichelli editore).
Un film particolare, sofferto e intimista, col quale il
regista seppe volgersi ai piccoli grandi problemi della povera gente, è Pranzo di nozze (The Catered Affair)
(1956), tratto da un teledramma naturalista di Paddy Chayefsky (1923–1981), il
commediografo newyorchese noto per “Marty, vita di un timido”, scritto nel 1953
e divenuto un superbo film con Ernest Borgnine, vincitore di Oscar. Lo stesso Borgnine
interpreta un povero taxi–driver del Bronx, un padre – che ha messo da parte un
gruzzoletto per migliorare il suo tenore di vita – la cui figlia Jane (Debbie
Reynolds) gli annuncia di voler sposare Ralph, giovane senza mezzi: i due
aspirano a una semplice cerimonia ma si ritrovano contro la madre (una sciatta
ma grandissima Bette Davies) e i genitori di Ralph che vorrebbero una cerimonia
importante. I due fidanzati, alle prese con i piccoli grandi problemi della
preparazione di questo matrimonio, provocheranno l'inevitabile esplosione delle
tensioni emotive familiari. Ha commentato Morandini: «è un film nei paraggi di
Marty con gli irlandesi al posto degli italoamericani. Non ne possiede i
momenti poetici, ma ha un'articolazione socialmente più complessa dove la
dimensione economica non è disgiunta da un'approfondita analisi psicologica. Di
suo l'onesto R. Brooks mette delicatezza, tenerezza, lucidità, aggiramento
delle secche del sentimentalismo e dei luoghi comuni crepuscolari.» (il Morandini, Zanichelli editore).
Questo film e le altre pellicole tratte dai drammi di Paddy Chayefsky sono «storie
semplici di gente semplice… sono l'archetipo del “clotheslines drama (dramma
della corda della biancheria)”: sono modesti episodi della vita di gente
modesta, si avvalgono di un dialogo immediato e di una recitazione spontanea e
pongono l'accento, […], più sul carattere e sulla psicologia che sull'azione,
presentano episodi di crisi della vita quotidiana, ambientandoli in spazi
chiusi e ridotti»; e questi “piccoli protagonisti normali” debbono imparare ad
accettare la loro normalità e a goderne (Il Cinema – Grande storia illustrata,
Ist. Geografico De Agostini, Novara, 1981).
Di Tennessee Williams, girò La dolce ala della giovinezza (Sweet Bird of Youth) (1962) (oltre
al già citato La gatta sul tetto che scotta) – molto popolare e ben accolto dalla critica ma non fu un successo
travolgente (Ed Begley, il cattivo, vinse l'oscar come migliore attore
non protagonista). Racconta di un giovane e bellissimo barman (Paul Newman dà
volto e recitazione a un arrampicatore sociale che in modo insensato e a ogni
costo cerca di realizzare il sogno americano della ricchezza) e di una
attempata e nevrotica diva del cinema in declino, Alexandra Del Lago (Geraldine
Page), che per tenerlo legato mantiene il giovane amante nel lusso. Ha
commentato Morandini: «Quando con lei torna nella cittadina del Sud dove vive
la ragazza da lui sedotta, il dramma esplode. L'onesto Brooks, anche
sceneggiatore, dà limpidezza al fangoso e ridondante dramma (1959) di Tennessee
Williams, pur alleggerendone la dimensione sessualmente spinta. Affiatata
compagnia di attori: i principali parteciparono nel 1959 alla messinscena di
Elia Kazan a Broadway. […] Da vedere specialmente per la strepitosa G. Page: la
sua telefonata è da Oscar.» (il
Morandini, Zanichelli editore). Questo film è considerato uno dei «grandi
esempi del realismo dell'Actors Studio calato nella rude poesia di T.W. […]
l'asciutta cadenza aspirata di Paul Newman, il cinguettio della vibrante
dizione di Geraldine Page sono tutti elementi che evitano il chiaro e tonante
eloquio dell'attore di stampo classico, e le eccentricità della dizione
accentuano l'individualità dei vari personaggi.» (Il Cinema – Grande storia
illustrata, Ist. Geografico De Agostini, Novara, 1981).
Brooks amò trarre ispirazione anche dai grandi scrittori
dell'Ottocento. Dal russo Fedör Dostoevskij (1821–1881) trasse Karamazov (The Brothers Karamazov)
(1958) con Lee J. Cobb (Karamazov padre), Claire Bloom (Katya), Yul Brynner (Dmitrij
Karamazov), Richard Basehart (Ivan Karamazov) e Maria Schell (Grushenka); ha
commentato Morandini: «Technicolor fantasmagorico di John Alton alla Disney: in
rosso le scene di passione, in giallo quelle di violenza, in verde quelle di
malinconia, in grigio tutto il resto.» (il
Morandini, Zanichelli editore). Dall'inglese Joseph Conrad (1857–1924) ricavò Lord Jim (1965), che fu un insuccesso nonostante
tutti gli sforzi anche economici del regista per dar vita a un film epico,
coinvolgendo un cast d'eccezione (Peter O’Toole, Eli Wallach, Jack Hawkins e James
Mason); narra di un ufficiale idealista che, commessa una vigliaccheria, ne
soffrirà per tutto il resto della vita riuscendo poi a riscattarsi; ha
commentato Morandini: «Dal romanzo (1900) di Joseph Conrad un film di forte
fascino figurativo che ne restituisce solo in parte la complessità, ma che ne
rispetta con fedeltà la tematica. Una delle migliori interpretazioni di
O'Toole.» (il Morandini, Zanichelli
editore).
Dopo il già citato I professionisti, Brooks ritornò al
western più popolare con L' ultima
caccia (The Last Hunt) (1956), tratto da un romanzo di Milton Lott (1916–1996),
con Stewart Granger e Robert Taylor, manifesto
contro il capitalismo e opera ricca di forti spunti psicologici, di malinconia
e compassione, epopea nostalgica di un cinico avventuriero e di due veterani
(il film si concluderà amaramente con il cinico che, dopo aver sparato ai
fantasmi, morirà congelato, avvolto da una pelle di bisonte); ha commentato
Morandini: «Western onesto (come il suo regista), insolito (perché mostra i
cacciatori di bisonti), coraggioso (perché ricorda che all'origine degli Stati
Uniti di oggi c'è il genocidio di un popolo e una catastrofe ecologica),
efficace (perché ai temi antirazzisti di fondo corrispondono i personaggi e le
loro azioni).» (il Morandini,
Zanichelli editore). Seguì un altro western
che demitizza il Far West, Stringi i denti e vai (Bite the Bullet)
(1975), del quale Brooks fu
anche produttore, con James Coburn, Gene Hackman, Ben Johnson e Candice Bergen, crepuscolare e critico del mito
americano del denaro, disperata allegoria del senso della vita in quella
massacrante gara a cavallo e a tappe forzate di ottocento miglia, in un deserto
di sabbia nel West d'inizio secolo (1908), indetta da un giornale, cui
partecipano sei uomini e una donna, sia poveri allo sbando sia ricchi
desiderosi di un'affermazione personale: arriveranno due amici rivali,
distrutti e disfatti, i quali si sono aspettati per tagliare insieme il
traguardo. Ha scritto Morandini: «Gli ultimi tre rimasti, con la donna in
testa, avranno bisogno di molta iniziativa. Anche se la struttura della storia
lo induce a una sorta di ripetizione e a un po' di monotonia, R. Brooks riesce
a imporre le sue qualità di robusto e generoso narratore, in una intelligente
metafora della vita.» (il Morandini,
Zanichelli editore).
Animato da sentiti e alti ideali di democrazia e
uguaglianza, contemporaneamente, Richard Brooks si dedicò alla denunzia del
potere dei media e dei rapporti tra mafia e giornalismo ne L'ultima minaccia (Deadline - U.S.A.) (1952), con l'amico di sempre
Humphrey Bogart (insieme a Kim Hunter ed Ethel Barrymor) nel ruolo disincantato
del direttore di un giornale prossimo alla chiusura dopo la morte dell'editore,
alla quale si oppone per completare una campagna contro un'organizzazione
malavitosa (metà film di gangster e metà dramma di un giornalista indipendente,
girata negli uffici del New York Daily
News, la pellicola vede Bogart combattere da solo contro la pressione della
criminalità mafiosa e trasformare il suo giornale in “un simbolo di libertà”);
ha commentato Morandini: «Uno dei migliori film di ambiente giornalistico,
scritto e diretto da un ex giornalista che s'ispirò a fatti veri (la chiusura
del New York World dopo la morte di Joseph Pulitzer) e uno dei più eloquenti
sulla libertà di stampa, minacciata dai gruppi di pressione e dagli interessi
mercantili. I duetti Bogart/Barrymore sono d'antologia. Almeno in Italia, è
passata in proverbio la battuta di Bogart: “Questa è la stampa, amico. E non ci
puoi fare niente”.» (il Morandini,
Zanichelli editore). L'anno seguente Brooks volle di nuovo Bogart in Essi vivranno (Battle Circus) (1953),
ove il grande attore prestò il suo volto tormentato a un medico militare,
burbero e cinico, forte bevitore e donnaiolo impenitente, ma dal cuore d'oro.
Ma il regista fu vigile anche nella condanna della
discriminazione razziale – tema
al quale era particolarmente sensibile essendo i suoi genitori ebrei russi
emigrati giovanissimi in America nel 1908 – con Qualcosa che vale (Something
of Value) (1957), oltre al già citato Il seme della violenza (interpretati
entrambi dal grande Sidney Poitier), melodramma incentrato su due grandi amici
in Kenia, un colono bianco e un giovane nero, l'un contro l'altro nella rivolta
dei Mau Mau e, nella speranza di un mondo migliore, costretti all'odio etnico. Ha commentato Morandini: «La
denuncia del razzismo e della violenza è un tema costante di Brooks, sviluppato
qui con sincerità e con coraggio sulla scorta di un romanzo di Robert C. Ruark
(1915–1965). […] In un periodo in cui i mass media demonizzavano il movimento
indipendentista dei Mau Mau, fu, a modo suo, un film di controinformazione.» (il Morandini, Zanichelli editore).
Brooks operò, poi, una condanna del potere politico cieco,
lontano dal popolo, e dei suoi intrighi con il film fanta–politico Obiettivo mortale (Wrong Is Right) (1982) – del quale fu anche produttore – con Sean Connery, che
interpreta un presentatore televisivo molto popolare che entra in
possesso di uno scoop clamoroso: una trattativa per la vendita di due bombe
atomiche al re di un emirato arabo; il film, stroncato dalla critica, narra
qualcosa di simile al World Trade Center colpito da una serie di attentati
(autore pessimista e disincantato Brooks era riuscito a prevedere un gravissimo
evento molto di là da venire) ma diviene anche una grottesca satira sui nuovi
media e sui discutibili metodi dell'intrigo politico che mette insieme agenti
segreti e terroristi, mercanti d'armi e sovrani arabi, fanatici suicidi e
ricattatori, spie e politicanti di bassa lega (il presentatore,
paradossalmente, scoprirà che è stato il presidente a ordinare l'assassinio di
un sovrano arabo per far scoppiare la Terza Guerra Mondiale ma non può far
altro che continuare a mandare in onda il suo programma). Ha scritto Morandini:
«A 70 anni Brooks ha fatto il film più pazzo, pletorico e polemico della sua
lunga e onorata carriera di sceneggiatore e regista. Sbeffeggiante, grottesco e
satirico, con un ritmo forsennato e un ottimo Connery. Dal romanzo “The Deadly
Angels” di Charles McCarry (1930).» (il
Morandini, Zanichelli editore).
Tra gli ultimi suoi film è degno di nota il non amato e controverso
In cerca di Mr. Goodbar (Looking for Mr.
Goodbar) (1977), tratto da un romanzo di Judith Rossner (1935–2005), con
Diane Keaton che interpreta Theresa Dunn, una donna acuta e sensibile, affetta
da scoliosi, che fa l'insegnante di bambini sordomuti di giorno, la figlia di
un Cattolicesimo integerrimo che, insoddisfatta sessualmente, vagabonda di
notte da un bar all'altro alla ricerca sordida e accanita d'incontri fugaci e
degradanti, annientandosi con luridi amanti emarginati e i depravati: «film
volutamente sgradevole, manifesto di una scelta di pessimismo che accompagna
l'odissea di una insegnante dalla doppia vita nel suo amaro e, fino alla fine,
tragico girovagare per bar malfamati» (Cinema,
le garzantine, a cura di Gianni Canova, Garzanti, 2009). Ha scritto Morandini: «Imbarazzante
e sconcertante per la miscela di sgradevolezza e generosità, tenerezza e
squallore, umorismo e virulenza. Invecchiando, Brooks, il sergente York della
regia, è diventato un pessimista apocalittico: la sua visione della società
americana crudele e senz'anima è disperata.» (il Morandini, Zanichelli editore). Il film ebbe due nomination
minori all'Oscar (tra cui la fotografia di W. Fraker).
L'ultimo suo film (sceneggiatura e regia), purtroppo non
molto riuscito, fu La febbre del gioco
(Fever Pitch) (1985), con Giancarlo Giannini, Catherine Hicks e Ryan O'Neal,
che ruota intorno alla dipendenza dal gioco d'azzardo di un affermato cronista
che, a Las Vegas per un'inchiesta, ripiomba nel vizio sino alla disfatta
totale. Ha commentato Morandini: «Deludente prova di R. Brooks: non riesce a
dire niente di nuovo. Bella la fotografia di W. Fraker. Malinconico congedo di
un molto onorevole regista.» (il
Morandini, Zanichelli editore).
Richard Brooks si sposò diverse volte: una prima volta,
forse molto giovane, quando si trovava a New York, poi fu coniugato dal 1941 al
1944 con Jean Kelly, un'attrice degli Universal Studios, meglio conosciuta come
Jean Brooks (fu lei a introdurlo come sceneggiatore nell'industria del cinema),
e nel 1946 sposò Harriette Levin che non apparteneva al mondo del cinema
(divorziarono nel 1957). Dal 1960 al 1980 fu sposato con la nota attrice
cinematografica Jean Simmons, che aveva divorziato da Stewart Granger e che
recitò con lui in diversi film. Con The
Happy Ending (1969), scritto, diretto e prodotto da Brooks, la Simmons si
aggiudicò una nomination all'Oscar nel 1970; ricco di tanti bravi interpreti (John
Forsythe, Shirley Jones, Lloyd Bridges, Teresa Wright, Bobby Darin e Tina
Louise), il film tratta del disagio esistenziale e del disincanto matrimoniale
di Mary Spencer, la moglie di un addetto al cinema che si sente repressa dal
marito Fred (che ha sposato in modo idilliaco nel 1953 come nell'Happy Ending
dei film d'amore che predilige) e dalla figlia Marge; nel 1969 la vita della
coppia è naufragata, distrutta dall'indifferenza, dalla vodka, dalla guida in
stato d'ubriachezza, dalla droga e dai tentativi di suicidio, e Mary «si
riempie la testa d'infiniti sogni romantici che hanno nel cinema la loro
origine» (Il Cinema – Grande storia illustrata, Ist. Geografico De Agostini,
Novara, 1981). Il film fu nominato all'Oscar anche per la migliore canzone
“What Are You Doing the Rest of Your Life?” (musica di Michel Legrand, parole
di Alan Bergman e Marilyn Bergman).
Douglass K. Daniel scrisse una biografia autorizzata del
grande regista e sceneggiatore dal titolo “Tough As Nails: The Life and Films
of Richard Brooks” (April 8, 2011; Series: Wisconsin Film Studies), facendoci
conoscere molti interessanti dettagli della vita di questo complicato e
versatile intellettuale.
Brooks
aveva la reputazione di essere un regista severo e riservato, talentuoso ma
difficile, e perennemente arrabbiato (era chiamato: “God’s angry man”). Disse
di lui, tuttavia, Claudia Cardinale (interprete femminile de I professionisti
nel 1966): «Richard Brooks, di solito così cattivo, ringhioso, misogino, alla
fine, con me, era adorabile… si era tolto la maschera e ho scoperto che era un
uomo dolcissimo.». La stessa moglie Jean Simmons parlò sempre di lui come di un
uomo ricco di humour e di un padre tenerissimo (avevano avuto una figlia, Kate,
nel 1961).
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