martedì 22 maggio 2012

Richard Brooks e il suo cinema realista e democratico



Richard Brooks


Il 18 maggio di cento anni addietro nasceva Richard Brooks, abile regista e fantastico sceneggiatore, artefice di molti film immortali che abbiamo amato e che sempre ameremo perché ha realizzato il connubio perfetto, "il magico accordo" tra cinema e letteratura. Oscar nel 1961 per la migliore sceneggiatura non originale per “Il figlio di Giuda”, può, senz'altro considerarsi uno dei padri del «Dramma realista» e del «Neorealismo democratico».

All'anagrafe Ruben Sax, nacque a Filadelfia (Pennsylvania) nel 1912 e morì a Beverly Hills, Los Angeles (California), l'11 marzo del 1992 all'età di 79 anni per un grave scompenso cardiaco.

Dopo aver studiato giornalismo alla Temple University e dopo una breve collaborazione con la NBC, si diede alla drammaturgia radiofonica e alla sceneggiatura cinematografica usando lo pseudonimo di Richard Brooks (cambiò definitivamente e legalmente il suo nome nel 1943). Alla fine del 1940 si trasferì a Los Angeles per lavorare nel cinema e, prima della guerra, partecipò ad alcuni discreti B–movie mostrando già il taglio sicuro di un autore forte e drammatico. Fu, però, soltanto dopo la guerra che il suo genio creativo e il suo spirito d'intellettuale “liberal” s'imposero nel più importante cinema di Hollywood. Questo avvenne anche sulla scia del successo di alcuni romanzi ben scritti e ben congegnati dalle storie vibranti e ricche di pathos: The Brick Foxhole – recensito favorevolmente e scritto durante la seconda Guerra Mondiale, quando Richard lavorava nella “Marine Corps Film Unit” a Quantico (Virginia) e talora a Camp Pendleton (California) dedicandosi a scrivere e a produrre documentari – dal quale Edward Dmytryk trasse il film nominato all'Oscar Odio implacabile (Crossfire) (1947), uno dei primi importanti film di Hollywood a parlare di anti–semitismo, con Robert Mitchum, Robert Ryan e Gloria Grahame (ambientato in una tetra atmosfera notturna, racconta di un ebreo che viene ucciso da un reduce psicopatico); The Boiling Point (1948); e The Producer (1951), dedicato al mondo della produzione cinematografica delle Majors e ispirato al potente produttore indipendente Mark Hellinger che contribuì a lanciare Brooks nel mondo del cinema facendolo assumere dalla Warner Brothers. Mark Hellinger amava vestirsi come un gangster ma era un intellettuale acuto e intelligente; scrisse i soggetti di due film notevoli: “I ruggenti Anni Venti” (1939) e “La città nuda” (1948).

Tra le sceneggiature di questo periodo, ricordiamo quelle per i film Una celebre canaglia (Swell Guy) (1946) di Frank Tuttle con Ann Blyth e Sonny Tufts; La forza bruta (Brute Force) (1947), film crudo e realistico di Jules Dassin, e «uno dei capolavori del genere cosiddetto “carcerario”, protagonista B. Lancaster (uno degli attori preferiti di Brooks) alle prese con un sadico aguzzino e un'evasione che sfocia in una carneficina» (Cinema, le garzantine, a cura di Gianni Canova, Garzanti, 2009); L'isola di corallo (Key Largo) (1948), co–diretto con John Huston (un altro mentore di Richard Brooks), adattato da un dramma del drammaturgo statunitense Maxwell Anderson (1888–1959), con Humphrey Bogart e Lauren Bacall – iniziò così una lunga e affettuosa amicizia con Bogart; e Fate il vostro gioco (Any Number Can Play) (1949) di Mervyn LeRoy con Clark Gable, che interpreta il proprietario di un casinò, e Alexis Smith.

Dopo esser passato alla MGM, nel 1950 Brooks fece la sua prima regia per il film melodrammatico – definito “a medical thriller” – La rivolta (Crisis) (1950), opera di forte impegno politico e di tensione morale che narra di un neurochirurgo (Cary Grant) dibattuto da una crisi di coscienza perché costretto a salvare col suo intervento la vita a un sanguinario dittatore del Sud America (interpretato da Jose Ferrer). Il suo secondo film fu la commedia romantica girata in Italia L'immagine meravigliosa (The Light Touch) (1951) con Stewart Granger, storia di Sam, un ladro professionista che deve organizzare un furto in un museo italiano e di Anna, un'attraente pittrice italiana, inconsapevole copista di quadri famosi rubati.

Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, il suo periodo di maggiore splendore, Richard Brooks si meritò la nomination all'Oscar per la sceneggiatura e la regia dei seguenti cinque film, tutti straordinari e tesi da un punto di vista morale.

1. Il seme della violenza (Blackboard Jungle) (1955), tratto dal vigoroso best–seller di Evan Hunter, noto come Ed McBain (1926–2005), con Glenn Ford, narra di Richard Dadies, un reduce idealista assunto come professore in una scuola della periferia povera di New York City; tranquillo ma risoluto, è costretto a misurarsi con l'ostilità dei colleghi e del preside per aiutare, con una dura lotta civile e a caro prezzo, gli studenti disadattati e violenti della sua scolaresca che lo boicottano. Il film divenne un “cult” per le giovani generazioni degli Anni Cinquanta e sorprese tutti per la vivace rappresentazione della violenza e della delinquenza del mondo giovanile americano del tempo, facendo conoscere alla massa e alla critica il talento del giovane attore di colore Sidney Poitier e procurando a Brooks la prima nomination all'Oscar per la sceneggiatura nel 1956: «Il film, che per la prima volta utilizza il rock 'n roll per la colonna sonora (Bill Haley e i Comets), fa scalpore e diventa il prototipo di una lunga serie di drammi dedicati al contrasto generazionale nelle metropoli degradate» (Cinema, le garzantine, a cura di Gianni Canova, Garzanti, 2009). Ha commentato Morandini: «Conta per le qualità morali (sincerità, coraggio, buone intenzioni) più che per quelle estetiche. Difficile dire dove finisca la tenerezza del regista e dove cominci l'irrealismo ingannatore delle sue proposte.» (il Morandini, Zanichelli editore).

2. La gatta sul tetto che scotta (Cat on a Hot Tin Roof) (1958), tratto da un dramma di Tennessee Williams (1914–1983) che era stato un grande successo a Broadway, è un film grondante sensualità e sesso, un successo di critica e di botteghino tale da dare l'indipendenza a Brooks e alla sua visione del cinema (fu il regista che guidò la transizione tra il sistema classico degli Studios e la produzione indipendente), storia del fallimento di un matrimonio eterosessuale per l'omosessualità latente dell'uomo e sullo sfondo un contrasto feroce tra lui e il padre affetto da machismo. Contribuì a rilanciare Elizabeth Taylor (Maggie) facendo una star di Paul Newman (Brick), il fragile, tormentato e alcolizzato protagonista. Brooks ricevette la seconda nomination all'Oscar per la migliore sceneggiatura e migliore regia nel 1959. Ha commentato Morandini: «Un autoritario barone terriero del Mississippi malato di cancro festeggia il 65° compleanno insoddisfatto dei due figli, uno dei quali è un avido bruto e l'altro un ex atleta nevrotico che rifiuta di dormire con la bella moglie. […] Sotto la guida di Brooks si recita benissimo. Ebbe 6 nomination ai premi Oscar e non ne vinse nessuno.» (il Morandini, Zanichelli editore).

3. Il figlio di Giuda (Elmer Gantry) (1960), tratto dal romanzo dello scrittore americano Sinclair Lewis (1885–1951) scritto nel 1927, è un film controverso e amaro nel suo alternarsi tra sacro e profano, che racconta la storia di Elmer Gantry (Burt Lancaster), un rappresentante di elettrodomestici vagabondo, simpatico e chiacchierone che conosce sorella Sharon Falconer (Jean Simmons), una suora laica e la carismatica leader di un movimento revivalista che va predicando il Vangelo per le piccole città di provincia del Midwest. Elmer vorrebbe sposarla ma lei, a causa della sua missione, lo rifiuta; l'uomo riesce abilmente a entrare a far parte del suo gruppo religioso divenendone l'istrionico predicatore, richiamando un grande pubblico e ricavando grosse somme di denaro attraverso le offerte degli ingenui fedeli. Verrà incastrato come ciarlatano e impostore da Lulu Bain (Shirley Jones), una prostituta, sua intima amica, ancora innamorata di lui, che l'uomo farà allontanare con l'inganno; e Sharon alla fine perderà la vita in un incendio. Il film rappresentò un'accusa dura e impietosa contro il bigottismo, l'ipocrisia religiosa, il fanatismo e l'isteria di massa, tipici di un certo ceto americano. Ricevette cinque nomination nel 1961 e vinsero l'Oscar Lancaster come migliore attore protagonista, Shirley Jones come migliore attrice non protagonista, e Brooks per lo script originale. Ha commentato Morandini: «È in assoluto il miglior film USA del 1960, e uno dei migliori di Brooks, romanziere, sceneggiatore e regista: un saggio inquietante e geniale sulla religiosità dell'homo americanus.» (il Morandini, Zanichelli editore).

4. I professionisti (The Professionals) (1966) era tratto da un romanzo di serie B di Frank O'Rourke (1916–1989) ma Brooks riuscì a trasformarlo in uno dei western più interessanti mai girati, grande e spettacolare, un western di transizione. Racconta di un influente possidente americano che assolda dei professionisti mercenari (Lee Marvin, Robert Ryan e Woody Strode) per ritrovare in Messico la giovane moglie (Claudia Cardinale) rapita da alcuni ribelli messicani capitanati da un feroce Jack Palance; a loro si unirà un dinamitardo (interpretato magistralmente da Burt Lancaster) che s'innamorerà dell'ostaggio. Brooks ricevette la quarta nomination all'Oscar per la regia. Ha commentato Morandini: «Compiuta la missione tra mille insidie, i quattro si rendono conto che l'americano è un uomo senza scrupoli, che tratta la moglie come una proprietà. Liberano la donna e l'uomo che l'aveva rapita, in realtà il suo amante, secondo un loro codice morale e senza contravvenire al patto con l'americano. Un gesto romantico che costa loro il premio pattuito. […] Certamente un film sull'amicizia virile, ma senza il compiacimento che spesso questo tema comporta. […] Un grande film in attesa di un giudizio finale più onesto da parte di chi lo ha inserito nell'anonimo mucchio dei film da gettare.» (il Morandini, Zanichelli editore).

5. A sangue freddo (In Cold Blood) (1967) è tratto da un testo di Truman Capote (1924–1984) che racconta l'assassinio e la follia; l'autore scelse proprio Brooks per l'adattamento del suo best–seller, e insieme Brooks e Capote adattarono una “storia vera (nonfiction novel)”, realizzando «un resoconto scritto da T.C. sull'immotivato eccidio di una famiglia del Kansas da parte di due vagabondi, con l'aggiunta di materiale originale, di numerosi flash–back freudiani» (Il Cinema – Grande storia illustrata, Ist. Geografico De Agostini, Novara, 1981). I due vollero per interpretare i due giovani sbandati in libertà vigilata – responsabili della strage della famiglia Clutter (padre, madre e due figli) avvenuta a scopo di furto nel novembre del 1959 – due attori sconosciuti (Scott Wilson e Robert Blake) e cercarono di approfondire soprattutto le motivazioni dell'inconscio dei due assassini. Girarono il film in bianco e nero, e usarono la medesima località e la stessa fattoria del delitto per dare un maggiore senso di verità: ne uscì una pellicola di taglio maturo e moderno e di stringente coinvolgimento, che lanciava un forte messaggio contro la pena di morte, veicolo di nuova e inaudita violenza. Ha commentato Morandini: «Rei confessi al processo, i colpevoli sono giustiziati il 14/4/1965. L'anno dopo Truman Capote pubblicò il romanzo–documento, costato sei anni di lavoro, che gli diede la fama. Autore anche della sceneggiatura, R. Brooks ne cava un film di stile semidocumentaristico: asciutto, intenso, implacabile, girato nei luoghi reali, compresa la casa del delitto. Scene raccapriccianti, ma senza compiacimenti.» (il Morandini, Zanichelli editore). Questo film rappresentò il culmine della carriera di Brooks e gli meritò la quinta nomination all'Oscar per la migliore sceneggiatura e la migliore regia.

Autore geniale, Richard Brooks continuò a dare voce e forma cinematografica ai grandi scrittori e drammaturghi americani contemporanei. Nel 1954 Brooks girò lo «strappalacrime» L'ultima volta che vidi Parigi (The Last Time I Saw Paris) (1954) con una superba e bellissima Liz Taylor, storia d'amore di Charles Willis (Van Johnson), un cronista di guerra che nel 1945, nell'euforia della Liberazione, ha sposato la compatriota Helen. Hanno avuto una figlia Vicki ma l'uomo (scrittore deluso) è divenuto alcolizzato e indifferente mentre Helen (donna ricca e viziata) vive una frivola vita mondana, trascurando la figlia e abbandonandosi a un'avventura extraconiugale. Poi Helen si ammala e muore, e Charles va a riprendersi Vicki, lasciata alla cognata Marion. Ha commentato Morandini: «Tratto da un romanzo di Elliot Paul (1891–1958) e dal racconto “Babylon Revisited” di Francis Scott Fitzgerald (1896–1940) su sceneggiatura di R. Brooks con Julius e Philip Epstein, il film è tutto giocato sulla corda della memoria e del rimpianto. Ha una bella e intensa parte centrale, ma verso la fine scade nel melodramma lacrimoso. […] Raramente, comunque, Johnson è stato così bravo e la Taylor così radiosa. Bella canzone di Jerome Kern.» (il Morandini, Zanichelli editore).

Un film particolare, sofferto e intimista, col quale il regista seppe volgersi ai piccoli grandi problemi della povera gente, è Pranzo di nozze (The Catered Affair) (1956), tratto da un teledramma naturalista di Paddy Chayefsky (1923–1981), il commediografo newyorchese noto per “Marty, vita di un timido”, scritto nel 1953 e divenuto un superbo film con Ernest Borgnine, vincitore di Oscar. Lo stesso Borgnine interpreta un povero taxi–driver del Bronx, un padre – che ha messo da parte un gruzzoletto per migliorare il suo tenore di vita – la cui figlia Jane (Debbie Reynolds) gli annuncia di voler sposare Ralph, giovane senza mezzi: i due aspirano a una semplice cerimonia ma si ritrovano contro la madre (una sciatta ma grandissima Bette Davies) e i genitori di Ralph che vorrebbero una cerimonia importante. I due fidanzati, alle prese con i piccoli grandi problemi della preparazione di questo matrimonio, provocheranno l'inevitabile esplosione delle tensioni emotive familiari. Ha commentato Morandini: «è un film nei paraggi di Marty con gli irlandesi al posto degli italoamericani. Non ne possiede i momenti poetici, ma ha un'articolazione socialmente più complessa dove la dimensione economica non è disgiunta da un'approfondita analisi psicologica. Di suo l'onesto R. Brooks mette delicatezza, tenerezza, lucidità, aggiramento delle secche del sentimentalismo e dei luoghi comuni crepuscolari.» (il Morandini, Zanichelli editore). Questo film e le altre pellicole tratte dai drammi di Paddy Chayefsky sono «storie semplici di gente semplice… sono l'archetipo del “clotheslines drama (dramma della corda della biancheria)”: sono modesti episodi della vita di gente modesta, si avvalgono di un dialogo immediato e di una recitazione spontanea e pongono l'accento, […], più sul carattere e sulla psicologia che sull'azione, presentano episodi di crisi della vita quotidiana, ambientandoli in spazi chiusi e ridotti»; e questi “piccoli protagonisti normali” debbono imparare ad accettare la loro normalità e a goderne (Il Cinema – Grande storia illustrata, Ist. Geografico De Agostini, Novara, 1981).
Di Tennessee Williams, girò La dolce ala della giovinezza (Sweet Bird of Youth) (1962) (oltre al già citato La gatta sul tetto che scotta) – molto popolare e ben accolto dalla critica ma non fu un successo travolgente (Ed Begley, il cattivo, vinse l'oscar come migliore attore non protagonista). Racconta di un giovane e bellissimo barman (Paul Newman dà volto e recitazione a un arrampicatore sociale che in modo insensato e a ogni costo cerca di realizzare il sogno americano della ricchezza) e di una attempata e nevrotica diva del cinema in declino, Alexandra Del Lago (Geraldine Page), che per tenerlo legato mantiene il giovane amante nel lusso. Ha commentato Morandini: «Quando con lei torna nella cittadina del Sud dove vive la ragazza da lui sedotta, il dramma esplode. L'onesto Brooks, anche sceneggiatore, dà limpidezza al fangoso e ridondante dramma (1959) di Tennessee Williams, pur alleggerendone la dimensione sessualmente spinta. Affiatata compagnia di attori: i principali parteciparono nel 1959 alla messinscena di Elia Kazan a Broadway. […] Da vedere specialmente per la strepitosa G. Page: la sua telefonata è da Oscar.» (il Morandini, Zanichelli editore). Questo film è considerato uno dei «grandi esempi del realismo dell'Actors Studio calato nella rude poesia di T.W. […] l'asciutta cadenza aspirata di Paul Newman, il cinguettio della vibrante dizione di Geraldine Page sono tutti elementi che evitano il chiaro e tonante eloquio dell'attore di stampo classico, e le eccentricità della dizione accentuano l'individualità dei vari personaggi.» (Il Cinema – Grande storia illustrata, Ist. Geografico De Agostini, Novara, 1981).

Brooks amò trarre ispirazione anche dai grandi scrittori dell'Ottocento. Dal russo Fedör Dostoevskij (1821–1881) trasse Karamazov (The Brothers Karamazov) (1958) con Lee J. Cobb (Karamazov padre), Claire Bloom (Katya), Yul Brynner (Dmitrij Karamazov), Richard Basehart (Ivan Karamazov) e Maria Schell (Grushenka); ha commentato Morandini: «Technicolor fantasmagorico di John Alton alla Disney: in rosso le scene di passione, in giallo quelle di violenza, in verde quelle di malinconia, in grigio tutto il resto.» (il Morandini, Zanichelli editore). Dall'inglese Joseph Conrad (1857–1924) ricavò Lord Jim (1965), che fu un insuccesso nonostante tutti gli sforzi anche economici del regista per dar vita a un film epico, coinvolgendo un cast d'eccezione (Peter O’Toole, Eli Wallach, Jack Hawkins e James Mason); narra di un ufficiale idealista che, commessa una vigliaccheria, ne soffrirà per tutto il resto della vita riuscendo poi a riscattarsi; ha commentato Morandini: «Dal romanzo (1900) di Joseph Conrad un film di forte fascino figurativo che ne restituisce solo in parte la complessità, ma che ne rispetta con fedeltà la tematica. Una delle migliori interpretazioni di O'Toole.» (il Morandini, Zanichelli editore).

Dopo il già citato I professionisti, Brooks ritornò al western più popolare con L' ultima caccia (The Last Hunt) (1956), tratto da un romanzo di Milton Lott (1916–1996), con Stewart Granger e Robert Taylor, manifesto contro il capitalismo e opera ricca di forti spunti psicologici, di malinconia e compassione, epopea nostalgica di un cinico avventuriero e di due veterani (il film si concluderà amaramente con il cinico che, dopo aver sparato ai fantasmi, morirà congelato, avvolto da una pelle di bisonte); ha commentato Morandini: «Western onesto (come il suo regista), insolito (perché mostra i cacciatori di bisonti), coraggioso (perché ricorda che all'origine degli Stati Uniti di oggi c'è il genocidio di un popolo e una catastrofe ecologica), efficace (perché ai temi antirazzisti di fondo corrispondono i personaggi e le loro azioni).» (il Morandini, Zanichelli editore). Seguì un altro western che demitizza il Far West, Stringi i denti e vai (Bite the Bullet) (1975), del quale Brooks fu anche produttore, con James Coburn, Gene Hackman, Ben Johnson e Candice Bergen, crepuscolare e critico del mito americano del denaro, disperata allegoria del senso della vita in quella massacrante gara a cavallo e a tappe forzate di ottocento miglia, in un deserto di sabbia nel West d'inizio secolo (1908), indetta da un giornale, cui partecipano sei uomini e una donna, sia poveri allo sbando sia ricchi desiderosi di un'affermazione personale: arriveranno due amici rivali, distrutti e disfatti, i quali si sono aspettati per tagliare insieme il traguardo. Ha scritto Morandini: «Gli ultimi tre rimasti, con la donna in testa, avranno bisogno di molta iniziativa. Anche se la struttura della storia lo induce a una sorta di ripetizione e a un po' di monotonia, R. Brooks riesce a imporre le sue qualità di robusto e generoso narratore, in una intelligente metafora della vita.» (il Morandini, Zanichelli editore).

Animato da sentiti e alti ideali di democrazia e uguaglianza, contemporaneamente, Richard Brooks si dedicò alla denunzia del potere dei media e dei rapporti tra mafia e giornalismo ne L'ultima minaccia (Deadline - U.S.A.) (1952), con l'amico di sempre Humphrey Bogart (insieme a Kim Hunter ed Ethel Barrymor) nel ruolo disincantato del direttore di un giornale prossimo alla chiusura dopo la morte dell'editore, alla quale si oppone per completare una campagna contro un'organizzazione malavitosa (metà film di gangster e metà dramma di un giornalista indipendente, girata negli uffici del New York Daily News, la pellicola vede Bogart combattere da solo contro la pressione della criminalità mafiosa e trasformare il suo giornale in “un simbolo di libertà”); ha commentato Morandini: «Uno dei migliori film di ambiente giornalistico, scritto e diretto da un ex giornalista che s'ispirò a fatti veri (la chiusura del New York World dopo la morte di Joseph Pulitzer) e uno dei più eloquenti sulla libertà di stampa, minacciata dai gruppi di pressione e dagli interessi mercantili. I duetti Bogart/Barrymore sono d'antologia. Almeno in Italia, è passata in proverbio la battuta di Bogart: “Questa è la stampa, amico. E non ci puoi fare niente”.» (il Morandini, Zanichelli editore). L'anno seguente Brooks volle di nuovo Bogart in Essi vivranno (Battle Circus) (1953), ove il grande attore prestò il suo volto tormentato a un medico militare, burbero e cinico, forte bevitore e donnaiolo impenitente, ma dal cuore d'oro.

Ma il regista fu vigile anche nella condanna della discriminazione razziale – tema al quale era particolarmente sensibile essendo i suoi genitori ebrei russi emigrati giovanissimi in America nel 1908 – con Qualcosa che vale (Something of Value) (1957), oltre al già citato Il seme della violenza (interpretati entrambi dal grande Sidney Poitier), melodramma incentrato su due grandi amici in Kenia, un colono bianco e un giovane nero, l'un contro l'altro nella rivolta dei Mau Mau e, nella speranza di un mondo migliore, costretti all'odio etnico. Ha commentato Morandini: «La denuncia del razzismo e della violenza è un tema costante di Brooks, sviluppato qui con sincerità e con coraggio sulla scorta di un romanzo di Robert C. Ruark (1915–1965). […] In un periodo in cui i mass media demonizzavano il movimento indipendentista dei Mau Mau, fu, a modo suo, un film di controinformazione.» (il Morandini, Zanichelli editore).

Brooks operò, poi, una condanna del potere politico cieco, lontano dal popolo, e dei suoi intrighi con il film fanta–politico Obiettivo mortale (Wrong Is Right) (1982) – del quale fu anche produttore – con Sean Connery, che interpreta un presentatore televisivo molto popolare che entra in possesso di uno scoop clamoroso: una trattativa per la vendita di due bombe atomiche al re di un emirato arabo; il film, stroncato dalla critica, narra qualcosa di simile al World Trade Center colpito da una serie di attentati (autore pessimista e disincantato Brooks era riuscito a prevedere un gravissimo evento molto di là da venire) ma diviene anche una grottesca satira sui nuovi media e sui discutibili metodi dell'intrigo politico che mette insieme agenti segreti e terroristi, mercanti d'armi e sovrani arabi, fanatici suicidi e ricattatori, spie e politicanti di bassa lega (il presentatore, paradossalmente, scoprirà che è stato il presidente a ordinare l'assassinio di un sovrano arabo per far scoppiare la Terza Guerra Mondiale ma non può far altro che continuare a mandare in onda il suo programma). Ha scritto Morandini: «A 70 anni Brooks ha fatto il film più pazzo, pletorico e polemico della sua lunga e onorata carriera di sceneggiatore e regista. Sbeffeggiante, grottesco e satirico, con un ritmo forsennato e un ottimo Connery. Dal romanzo “The Deadly Angels” di Charles McCarry (1930).» (il Morandini, Zanichelli editore).

Tra gli ultimi suoi film è degno di nota il non amato e controverso In cerca di Mr. Goodbar (Looking for Mr. Goodbar) (1977), tratto da un romanzo di Judith Rossner (1935–2005), con Diane Keaton che interpreta Theresa Dunn, una donna acuta e sensibile, affetta da scoliosi, che fa l'insegnante di bambini sordomuti di giorno, la figlia di un Cattolicesimo integerrimo che, insoddisfatta sessualmente, vagabonda di notte da un bar all'altro alla ricerca sordida e accanita d'incontri fugaci e degradanti, annientandosi con luridi amanti emarginati e i depravati: «film volutamente sgradevole, manifesto di una scelta di pessimismo che accompagna l'odissea di una insegnante dalla doppia vita nel suo amaro e, fino alla fine, tragico girovagare per bar malfamati» (Cinema, le garzantine, a cura di Gianni Canova, Garzanti, 2009). Ha scritto Morandini: «Imbarazzante e sconcertante per la miscela di sgradevolezza e generosità, tenerezza e squallore, umorismo e virulenza. Invecchiando, Brooks, il sergente York della regia, è diventato un pessimista apocalittico: la sua visione della società americana crudele e senz'anima è disperata.» (il Morandini, Zanichelli editore). Il film ebbe due nomination minori all'Oscar (tra cui la fotografia di W. Fraker).

L'ultimo suo film (sceneggiatura e regia), purtroppo non molto riuscito, fu La febbre del gioco (Fever Pitch) (1985), con Giancarlo Giannini, Catherine Hicks e Ryan O'Neal, che ruota intorno alla dipendenza dal gioco d'azzardo di un affermato cronista che, a Las Vegas per un'inchiesta, ripiomba nel vizio sino alla disfatta totale. Ha commentato Morandini: «Deludente prova di R. Brooks: non riesce a dire niente di nuovo. Bella la fotografia di W. Fraker. Malinconico congedo di un molto onorevole regista.» (il Morandini, Zanichelli editore).

Richard Brooks si sposò diverse volte: una prima volta, forse molto giovane, quando si trovava a New York, poi fu coniugato dal 1941 al 1944 con Jean Kelly, un'attrice degli Universal Studios, meglio conosciuta come Jean Brooks (fu lei a introdurlo come sceneggiatore nell'industria del cinema), e nel 1946 sposò Harriette Levin che non apparteneva al mondo del cinema (divorziarono nel 1957). Dal 1960 al 1980 fu sposato con la nota attrice cinematografica Jean Simmons, che aveva divorziato da Stewart Granger e che recitò con lui in diversi film. Con The Happy Ending (1969), scritto, diretto e prodotto da Brooks, la Simmons si aggiudicò una nomination all'Oscar nel 1970; ricco di tanti bravi interpreti (John Forsythe, Shirley Jones, Lloyd Bridges, Teresa Wright, Bobby Darin e Tina Louise), il film tratta del disagio esistenziale e del disincanto matrimoniale di Mary Spencer, la moglie di un addetto al cinema che si sente repressa dal marito Fred (che ha sposato in modo idilliaco nel 1953 come nell'Happy Ending dei film d'amore che predilige) e dalla figlia Marge; nel 1969 la vita della coppia è naufragata, distrutta dall'indifferenza, dalla vodka, dalla guida in stato d'ubriachezza, dalla droga e dai tentativi di suicidio, e Mary «si riempie la testa d'infiniti sogni romantici che hanno nel cinema la loro origine» (Il Cinema – Grande storia illustrata, Ist. Geografico De Agostini, Novara, 1981). Il film fu nominato all'Oscar anche per la migliore canzone “What Are You Doing the Rest of Your Life?” (musica di Michel Legrand, parole di Alan Bergman e Marilyn Bergman).

Douglass K. Daniel scrisse una biografia autorizzata del grande regista e sceneggiatore dal titolo “Tough As Nails: The Life and Films of Richard Brooks” (April 8, 2011; Series: Wisconsin Film Studies), facendoci conoscere molti interessanti dettagli della vita di questo complicato e versatile intellettuale.


Brooks aveva la reputazione di essere un regista severo e riservato, talentuoso ma difficile, e perennemente arrabbiato (era chiamato: “God’s angry man”). Disse di lui, tuttavia, Claudia Cardinale (interprete femminile de I professionisti nel 1966): «Richard Brooks, di solito così cattivo, ringhioso, misogino, alla fine, con me, era adorabile… si era tolto la maschera e ho scoperto che era un uomo dolcissimo.». La stessa moglie Jean Simmons parlò sempre di lui come di un uomo ricco di humour e di un padre tenerissimo (avevano avuto una figlia, Kate, nel 1961).

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