Le mille e una notte Pier Paolo Pasolini
Le mille e una notte costituiscono
una raccolta di storie piene di amore e di fascino orientale, divenuta famosa
in Occidente nella versione dall’arabo eseguita nel Settecento dal francese
Antoine Galland, (1645–1715). In essa è
descritto un mondo arcaico ma fantasioso con numerosi riferimenti alla
religione islamica, pieno di califfi, belle favorite, harem di fanciulle
bellissime (che adoperano il velo per nascondersi e poi svelarsi, trasformando
l'amore dell'uomo in “passione violenta”), mogli gelose, mercanti cortesi senza
macchia e senza paura, schiave comprate, fortezze nel deserto, eunuchi e gran
visir, tutti rappresentati in un ambiente straripante di lusso, ricchezze e
stucchevole cerimoniosità.
Il primo nucleo della raccolta di queste storie
straordinarie è di origine indiano–persiana,
ma già nel ix secolo ne fu fatta
una versione araba, che raggiunse la sua forma definitiva nel 1400 (in periodi
successivi furono aggiunti racconti estranei, quali Le avventure di Sinbad il marinaio o La storia dei sette visir). Il nucleo più antico risalirebbe al x secolo, all'opera dal titolo persiano Hazār afsane (Mille favole). Nel
Settecento, l'orientalista francese Antoine Galland, studioso di letteratura e
lingua araba ma esperto anche di testi persiani e turchi, uomo di fama e
prestigio, compì numerosi viaggi in Oriente e per cinque anni (dal 1670 al
1675) fu a Costantinopoli al seguito dell'ambasciatore francese. Galland fece
una traduzione in francese di queste fiabe che furono raccolte in dodici volumi
(1704–1717); la traduzione fu
piuttosto rimaneggiata nel tempo. La sua opera ebbe il merito di aver fatto
conoscere in Europa queste storie fantastiche, che ebbero un successo tale da
avere la stessa diffusione della Bibbia. Tradusse anche in francese il Corano e moltissime altre fiabe
indiane, pubblicate postume (1724) con il titolo Fiabe indiane di Bidpay (Fables
indiennes de Bidpay). In Inghilterra l'orientalista Edward Lane si
cimentò in una versione più estesa rispetto a quella di Galland ma censurò
abbondantemente l'erotismo del testo per adattarla alla rigorosa morale
vittoriana. Richard Francis Burton si mise all'opera per una nuova e più fedele
traduzione; la sua versione più arcaica nella lingua resta la più estesa con i
suoi sedici volumi pubblicati (dieci di Mille e una notte e sei di Notti
supplementari, incluse le storie “orfane” di Aladino e Alì Babà). In
Italia è stata pubblicata per Einaudi, una traduzione accurata da parte dell'arabista
Francesco Gabrieli (con l'aiuto di Umberto Rizzitano, Costantino Pansera e
Virginia Vacca).
C'è stato tramandato che Shahriyàr, il sultano delle Indie,
non avendo fiducia nella fedeltà delle donne aveva stabilito per legge di
sposare ogni giorno una vergine e di giacere con lei durante la notte, quindi di
farla giustiziare il mattino dopo. In seguito a questa carneficina, non era più
possibile trovare delle fanciulle vergini da sacrificare al sultano, e il visir
si vede costretto a offrire al suo re la giovane figlia Shahrazàd (che si
sacrifica volontariamente per salvare la sorella), la quale prende a raccontare
al sultano ogni notte una storia diversa legata alla precedente, lasciando il
racconto a metà per creare un'attesa continua. Si realizza così una “narrazione
nella narrazione” amplificata dalle storie raccontate dai personaggi delle
storie di Shahrazàd (tecnica ripresa da Boccaccio, Shakespeare e Pirandello con
il suo “teatro nel teatro”). Ammaliato dalle storie e desiderando conoscerne la
conclusione, il sultano fa procrastinare la sua morte, decisa per lei come per
tutte le altre spose che avevano dormito una notte con lui. Queste affascinanti
narrazioni, ricche di sfrenata fantasia, avranno il risultato di attrarre
fatalmente il sultano e di farlo innamorare perdutamente di Shahrazàd, che
riesce così ad aver salva la vita. La raccolta finisce con questa conclusione: «Il
sultano delle Indie non poteva non ammirare la memoria prodigiosa della
sultana, sua sposa, che ogni notte gli procurava nuovo divertimento con tanti
racconti diversi. Mille e una notte erano passate in questi innocenti
passatempi e in questo tempo il sultano aveva avuto occasione di cambiare idea
a proposito della fedeltà delle donne. Il suo spirito si era addolcito e si era
convinto dei molti meriti di Shahrazàd; ricordava il coraggio con cui si era
esposta volontariamente a diventare sua sposa, senza temere la morte, cui
sapeva di essere condannata l'indomani, come le altre che l'avevano preceduta.
Questi pensieri, le belle qualità che aveva via via scoperto in lei lo
persuasero alla fine a farle la grazia…» (nella traduzione di Armando
Dominicis, Newton Compton Editori, Roma, 1991).
Il cinema è stato sempre attratto dal magico mondo orientale
delle Mille e una notte. Nel 1905 il grande Georges Méliès (1861–1838), illusionista e regista, che riuscì
a trasferire sulla pellicola le sue magie teatrali utilizzando delle tecniche
innovative, diresse e interpretò Il
palazzo delle Mille e una notte (Le palace de Les mille et une nuits): «Fantasia
coreografica sul mondo orientale reinventato dalla fantasia sfrenata di Georges
Méliès. Tipica "féerie" colorata a mano direttamente sulla pellicola.».
Film affascinante, ricco di bellezza figurativa e di scenografie sfolgoranti,
concretizzava sogni, fantasia e genio creativo del regista francese.
Nella storia del cinema resta, però, Il fiore delle Mille e una notte (1973-74), tratto da Le Mille e
una notte, scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini, con la collaborazione alla
sceneggiatura di Dacia Maraini. Il film –
girato per gli esterni nello Yemen del Nord, in Persia, nel Nepal,
nell'Etiopia e in India (presentato e premiato al Festival di Cannes del 1974) – si avvaleva della scenografia di
Dante Ferretti e dei costumi di Danilo Donati; la musica fortemente evocativa
era di Ennio Morricone; gli interpreti: Ninetto Davoli (Aziz); Tessa Bouché
(Aziza) e Franco Citti (il genio). Questo film faceva parte della “Trilogia
della vita”; scrisse Pasolini: «Poi ho fatto questa che io chiamo "trilogia
della vita", cioè i film sulla fisicità umana e sul sesso. Questi film
sono abbastanza facili, e io li ho fatti per opporre al presente consumistico
un passato recentissimo dove il corpo umano e i rapporti umani erano ancora
reali, benché arcaici, benché preistorici, benché rozzi, però tuttavia erano
reali, e opponevano questa realtà all'irrealtà della civiltà consumistica. Ma
anche questi film sono stati in un certo senso superati, resi vecchi dalla
tolleranza della civiltà dei consumi» (citazione tratta da Nico Naldini, Pasolini, una vita, Einaudi, Torino
1989, in http://www.pasolini.net/cinema_fiore_mille.htm). Il film appartiene
alla parte più fortunata della sua carriera cinematografica, quella nella quale
il grande scrittore sente di aver raggiunto la sua maturità e si lascia andare
alla leggerezza e all'umorismo. Scriveva Pasolini: «Finalmente vivendo come gli
uccelli del cielo e i gigli dei campi, cioè non occupandomi più del domani mi
godo un po' di libertà e di vita (quest'ultima l'ho tutta molto goduta specie
nel campo erotico ma dissociandomi) […]». In questo indimenticabile film,
Pasolini realizzò un affresco del mondo orientale dal quale si sentiva fortemente
affascinato, immergendolo in un'atmosfera di serena sensualità, idealizzandolo
nella sua libertà sessuale che si esalta nella purezza dei sentimenti e nel
candore innocente dei protagonisti semplici e disinibiti, e lasciando la parola
alla «poesia delle immagini… alla grandiosa maestosità dei paesaggi». Molto
originale era il doppiaggio nei dialetti del Sud Italia che ben si adattava alla
primitiva bellezza dei suoi attori presi dalla strada. A proposito del testo
che lo aveva ispirato, scrisse: «Ogni racconto delle Mille e una notte comincia
con un'“apparizione” del destino, che si manifesta attraverso un'anomalia. Ora,
non c'è un'anomalia che non ne produca un'altra. E così nasce una catena di
anomalie. Più tale catena è logica, serrata, essenziale, più il racconto delle
Mille e una notte è bello (cioè vitale, esaltante). La catena delle anomalie
tende sempre a ritornare alla normalità. La fine di ogni racconto delle Mille e
una notte consiste in una “disparizione” del destino, che si insacca nella
felice sonnolenza della vita quotidiana. Ciò che mi ha ispirato dunque nel film
è vedere il Destino alacremente all'opera, intento a sfasare la realtà: non
verso il surrealismo e la magia (di ciò si hanno rare ed essenziali tracce nel
mio film), ma verso l'irragionevolezza rivelatrice della vita, che solo se
esaminata come “sogno” o “visione” appare come significativa. Ho fatto perciò
un film realistico, pieno di polvere e di facce povere. Ma ho fatto anche un
film visionario, in cui i personaggi sono “rapiti” e costretti a un'ansia
conoscitiva involontaria, il cui oggetto sono gli avvenimenti che gli accadono.»
(citazione tratta da Nico Naldini, Pasolini,
una vita, Einaudi, Torino 1989, in http://www.pasolini.net/ cinema_fiore_mille.htm).
Hanno scritto Laura, Luisa e Morando Morandini: «Dall'omonima raccolta di
novelle arabe, sistemata in forma canonica intorno al 1400: nella storia di Nur–er–Din che cerca Zumurrud, l'amata rapita, e la ritrova sotto le
spoglie maschili del re Sair sono contenute, come in una scatola cinese, le
altre quattro. “La verità non sta in un solo sogno, ma in molti sogni” è la
citazione che fa da filo conduttore all'ultima parte della cosiddetta “trilogia
della vita”, tutta sotto il segno dell'esaltazione del sesso e della morte incombente.
Dei 3 film appare come il più sereno e risolto, probabilmente perché la natura
stessa della raccolta araba aveva esentato l'autore da ogni obbligo di fare i
conti con la storia e il potere, qui sostituiti dalla forza trascinatrice della
fatalità e dei sentimenti assoluti. Incassò la metà di I racconti di Canterbury (1972) e meno di un quarto di Il Decamerone (1971). […] Una denuncia
per oscenità è archiviata dalla Procura di Milano.» (http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=9329).
In “Pier paolo Pasolini” (ne Il Cinema –
Grande storia illustrata, Ist. Geografico De Agostini, Novara, 1981) è
scritto: «La successiva “trilogia della vita” nasce appunto da questa polemica
col proprio tempo. Rinunciando a sperare in un futuro che ai suoi occhi appare
sempre più oscuro, l'autore si rivolge al passato per riscoprirvi il 'rigoglio
dell'esistenza'. E lo riscopre in alcune novelle del Decamerone e in alcuni Racconti
di Canterbury […]. Ma il sottofondo, in entrambi i casi, resta malinconico,
a volte addirittura funebre. Dove, invece, Pasolini appare totalmente
rappacificato con la vita, è nella terza parte della trilogia, il singolare Il fiore delle Mille e una notte, dove
egli si dimostra sereno, distante, dissociato e statico, come se fosse un vero
e proprio artista orientale.».
Nel 1990 Philippe de Broca girò Les mille et une nuits, un filmone d'avventura che nulla a che
vedere col capolavoro poetico di Pasolini, con Catherine Zeta-Jones, Thierry
Lhermitte, Gérard Jugnot e Vittorio Gassman. Hanno scritto i Morandini: «Il
genio della lampada, punito da Allah, si è rifugiato a Londra in casa di un
ignaro borghese giocatore di bridge. Quando qualcuno strofina la lampada, si
mette in azione e tutti credono a meravigliose magie. Anche quando lavora per
bisogni alimentari come qui, de Broca non perde il suo gusto dello spettacolo
fantasioso e non dimentica il sottile umorista che fu in gioventù.» (http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=14859).
Vorrei ricordare anche la produzione teatrale all'Auditorium
Parco della Musica di Roma (ripresa da Vivo film per RAI 2 Palcoscenico) di Le Mille e una Notte (2007) di Vincenzo
Cerami con musiche originali di Aidan Zammit eseguite dall'autore. Cerami legge
il testo nella versione proposta nel 2006 dall'editore Donzelli, sul testo
redatto e ricostruito rigorosamente dal grande arabista Muhsin Mahdi (docente
di Harvard), che ha eliminato gli “orientalismi” settecenteschi rivelando le
caratteristiche comiche del racconto, la colorazione esotica e la morbosità
libertina delle scene di sesso. In «un gioco di metafore, di specchi, di
rimbalzi, di inganni, di allusioni», la lettura si trasforma in uno spettacolo vero
e proprio. Ha scritto Cerami: «Il destino, che di quest'opera è protagonista
assoluto, crea gli incroci più improbabili, incongrui, quasi sempre inattesi:
il popolo che si muove nel ricco e variegato paesaggio dei racconti va a caccia
d'avventure dall'esito incerto e sorprendente. La presenza assente della sorte
muove le genti, dà loro voce e silenzi, turbamenti e furie, passioni e
meschinità. La vita di ognuno obbedisce a un disegno criptico e iniziatico di
Dio, ‘signore generoso, artefice degli uomini e del creato’, che qui è l'oscuro
burattinaio di esseri indaffarati e affannati, brulicanti, ritratti mentre
creano e combattono prodigi, seducono e si lasciano sedurre, tramano nel caos
per intascare pezzi di vita, tra amori casti e sospirosi, e violente scene d'alcova.
[…] Le paure aleggiano in forma di spiritelli e oggetti incantati, colorando le
storie d'infantile favolistico trasognamento e lasciando nel lettore l'impressione
di attraversare, sì, il paese delle meraviglie, ma muovendosi lungo una linea
di confine tra sincronismo del bambino e diacronia dell'adulto, tra preistoria
e storia.» (http://www.vivofilm.it/?p=172).
Come ha scritto Bruno Bettelheim (1903–1990) nel suo noto saggio Il mondo
incantato - Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe
(Feltrinelli, Milano 1977), alla fine della narrazione delle mille
fiabe, Shahrazàd ha trasformato «l'odio omicida» in un «amore duraturo». Prima
di concludere, devo osservare che in tutto ciò c'è un omaggio all'intelligenza
delle donne e un'esaltazione del potere della cultura e della seduzione del
racconto, che da sempre esercitano grande fascino e che qui sono simbolicamente
esemplificati da Shahrazàd e dalle sue indimenticabili fantasiose fiabe.
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