lunedì 7 maggio 2012

Joyce Lussu e Hazim Hikmet, la poesia e il cinema


Joyce Lussu                                    Hazim Hikmet



Un tenacissimo “fil rouge” lega Joyce Lussu che in questi giorni avrebbe compiuto cento anni, intellettuale "contro" e moglie dello scrittore antifascista Emilio Lussu e il grande poeta turco Hazim Hikmet, del quale Joyce fu storica traduttrice e testimone oltre che cara e sincera amica.

Di origini aristocratiche, all'anagrafe Gioconda Beatrice Salvadori Paleotti, nacque a Firenze l'8 maggio del 1912 da una famiglia marchigiana di forte respiro politico (il nonno fu deputato liberale dalla XVIII alla XXII legislatura, la nonna – una nobile inglese – aveva un fratello deputato al Parlamento inglese, e il padre era un liberale antifascista – allievo di Herbert Spencer ed estimatore di Bertrand Russell – che dal 1925 al 1934 si era autoesiliato in Svizzera). La Lussu visse la sua adolescenza tra l'Italia e l'estero, maturando un'educazione anticonformista e la passione per l'impegno politico e sociale. Seguì a Heidelberg il corso d'insegnamento del filosofo–psichiatra Karl Theodor Jaspers (1883–1969), venendo a contatto con gli albori del Nazismo e notando il disinteresse della classe degli intellettuali per quei nazisti che consideravano soltanto degli innocui scalmanati. Acuta e intelligente, femminista ante–litteram, si laureò in Lettere alla Sorbona di Parigi e in Filologia a Lisbona.

Nel 1934 sposò Aldo Belluigi, un giovane e ricco possidente fascista col quale si recò in Kenia per raggiungere il fratello Max; il matrimonio con Aldo durò soltanto qualche anno ma le fece conoscere l'Africa e la sua natura ma anche molti gravi problemi del Colonialismo. In questo periodo sono da collocare le Liriche (1939), che furono ben ricevute dalla critica (Benedetto Croce ne fu entusiasta).

Con il fratello Max entrò a far parte del movimento “Giustizia e Libertà” e nel 1938 incontrò a Ginevra Emilio Lussu (1890–1975) e fu grande amore; con lui visse tutta la vita sino alla morte di Emilio, e lo seguì impavida e “leggendaria” nell'esilio e nella clandestinità, nella resistenza e nella lotta antifascista (era solita ripetere: «Non sono una donnetta»). Per le sue imprese partigiane si meritò la medaglia d'argento. Emilio Lussu, uomo politico e scrittore, pubblicò Marcia su Roma e dintorni e Un anno sull'altipiano. Nel 1946 nel libro autobiografico di successo Fronti e Frontiere, la Lussu raccontò le dure ma esaltanti vicende di quel periodo (era specializzata in evasioni e documenti falsi). Convinta che la storia dell'umanità fosse una “storia come lotta di classe”, dopo la liberazione visse con entusiasmo i primi passi della Repubblica Italiana e in seguito militò nel Partito Socialista Italiano, preferendo poi però dedicarsi soltanto alla scrittura e alle attività culturali.

Negli anni Cinquanta, sostituì al suo sentito Antifascismo con il contrasto all'Imperialismo, sposando le cause di organizzazioni della pace, di movimenti di liberazione in lotta con il Colonialismo e più tardi con le battaglie d'impegno ambientalista ed ecologista. Mise la sua abilità di traduttrice al servizio di poeti viventi provenienti da culture lontane (albanesi, curdi, vietnamiti, africani, afro–americani e addirittura eschimesi o aborigeni australiani), stabilendo dei rapporti diretti con molti di questi poeti, spesso perseguitati politici e oggetto di orribili iniquità e d'ingiuste oppressioni. Strinse rapporti con grandi uomini della politica, quali Mao, Ho Chi Min, Castro, Cabral e Mandela.

Nella vecchiaia si ritirò nella sua tenuta marchigiana di San Tommaso, vicino a Porto San Giorgio, che aveva trasformato in una sorta di “Comune” della pace, limitandosi a scrivere e a divulgare un suo nuovo metodo didattico inerente la Storia nelle scuole. Morì a Roma il 4 novembre del 1998, all’età di 86 anni. Aveva scritto: «Essere donna l'ho sempre considerato un fatto positivo, una sfida gioiosa e aggressiva. Qualcuno dice che le donne sono inferiori agli uomini, che non possono fare questo e quello. […] Che cosa c’è da invidiare agli uomini? Tutto quello che fanno, lo posso fare anch'io. E in più, so fare anche un figlio». (Joyce Lussu, Padre, Padrone, Padreterno. Breve storia di schiave e matrone, villane e castellane, streghe e mercantesse, proletarie e padrone, Mazzotta, Milano 1976). Ha scritto Dino Messina: «Non volle mai incarichi ufficiali nella sinistra e negli ultimi anni si divertiva a stupire per le sue posizioni sempre, rigorosamente, “contro”. E per la sua vitalità, per la capacità di non chiudersi nei ricordi nella sua casa di campagna nelle Marche, ma di pensare sempre al futuro.» (5 novembre 1998, Corriere della Sera, Addio a Joyce Lussu, una donna "contro", http://archiviostorico.corriere.it/1998/novembre/05/Addio_Joyce_Lussu_una_donna_co_8_981105417.shtml).

Ha scritto Chiara Cretella: «Se la storia è stata fatta da entrambi i sessi ma è stata scritta solo dagli uomini, il primo impegno da assolvere per Joyce è riappropriarsi di un passato, per ritrovare l'identità perduta. Solo questa consapevolezza di avere alle spalle delle eroine, delle streghe, delle combattenti, delle suffragette, permetterà alle donne di non aver paura di irrompere nella grande storia, accontentandosi di ritagliarsi in essa solo dei ruoli secondari, assistenziali o di sfondo. […] per la Lussu il modo nuovo di fare storia – e di scrivere un'autobiografia, poiché le due cose arrivano a coincidere – è semplice ma fondamentale: tornare all'oralità. […] Sulle antiche tracce della maieutica, la Lussu si contorna di interlocutrici, cercando nella vivacità del confronto femminile una tensione analitica sempre rigorosa. Se per la Lussu il poeta è il motore della storia – prima ancora di un testimone –, anche la sua visione della donna è intrinsecamente “materialista”: una militanza interiore, il dettato atavico di non lasciar cadere nell'oblio le sorelle senza voce, le cassandre non credute, le streghe mandate al rogo.» («La cultura e la coscienza politica sono la stessa cosa», Joyce Lussu politica e femminista, estratto da: AA.VV., Joyce Lussu. Sibilla del Novecento, a cura di Vittoria Ravagli, Edizioni Le Voci della Luna, Milano 2008; http://www.carmillaonline.com/archives/2008/07/002698print.html).

Straordinario fu soprattutto l'incontro di Joyce Lussu con Nazim Hikmet, le cui poesie fece conoscere nell'Italia e nel mondo, portando alla ribalta il “problema curdo”, la vicenda di «un popolo costretto a vivere da straniero nel suo territorio» (così scrisse in Portrait – Cose viste e vissute nel 1988, Transeuropa). E del problema curdo, negli anni Sessanta, fece la sua bandiera, parlandone dappertutto, anche nelle scuole di ogni ordine e grado (amava e privilegiava il suo rapporto con i giovani, riponendo la sua fiducia di un futuro migliore proprio nelle nuove generazioni; e fu accanto ai giovani durante le contestazioni studentesche). è stata lei che ha raccontato che Hikmet scriveva di getto i versi delle sue poesie, senza rileggere e senza correggere, e che era tanto generoso da consentire che potessero essere riportate e tradotte a volontà (sentiva che non erano sue ma proprietà di tutti). E Hikmet fu amato dai lettori e quasi ignorato dalla critica, e allo stesso modo, egli rifiutò la critica e le caste letterarie (in realtà leggeva poco gli altri autori), scrivendo le sue liriche per gli altri (sia colti che ignoranti) e detestando – più delle stesse celle carcerarie – le «celle dell’arte dove si sta in pochi o da soli». La sua poesia era un suo mezzo privilegiato per combattere l'oppressore e per risvegliare la coscienza morale del suo popolo oppresso.

Così scriveva la Lussu nell'introduzione al volume di poesie da lei tradotto (Hikmet - Poesie, traduzione di Joyce Lussu e Velso Mucci, Newton Compton Editori, Roma 1972): «Non era un letterato: il letterato si forma con lo studio dei predecessori, con l'accumulazione libresca; a Hikmet questo non interessava. La sua fonte d'ispirazione non erano gli altri scrittori, ma la coscienza storica e la lotta politica; e non si rivolgeva a critici e scrittori, ma al popolo del suo paese e di tutti i paesi, anche agli analfabeti […]». Nazim sentiva che la sua poesia doveva essere «utile» sia per l'orecchio, sia per l'umanità e per la sua causa ideale; sentiva che essa avrebbe dovuto essere «traducibile per i popoli più diversi». Convinto che non si potesse «vivere su questa terra / come un inquilino / oppure in villeggiatura / nella natura», desiderava stabilire «il ponte più solido e comodo» tra lui e i suoi lettori. Proprio per questo, decise di abbandonare la lingua turca ottomana, usata soltanto ai suoi inizi e nota solo a pochi colti poeti, per scrivere in «versi liberi a scalini» allo scopo di meglio avvicinarsi al linguaggio dei più semplici. In una lettera inviata a Joyce Lussu nel 1961, egli stesso scriveva: «A 18 anni passai in Anatolia, scoprii il mio popolo e le sue lotte. Lottava con i suoi cavalli magri, con le sue armi preistoriche, in mezzo alla sua fame e alle sue cimici, contro l’esercito greco sostenuto dagli inglesi e dai francesi […] Ho scoperto tutta un'altra umanità. E cominciai a scrivere in un altro modo.». Hikmet pubblicò sempre e soltanto in turco nonostante conoscesse benissimo numerose lingue, compresi il russo, il francese e l’arabo. Le sue poesie sono state tradotte in moltissime lingue, mentre stranamente nessuna traduzione è stata fatta nella lingua inglese, sicché l’autore turco è quasi sconosciuto al mondo anglosassone. Che grande spreco!

In una nota di un altro volume, Lussu così aggiungeva: «Era un grande poeta e un combattente assai valoroso, e piaceva alle donne. Ma questo eccesso di doti aveva come correttivo un ingualcibile candore, una capacità di fiducia, di meraviglia, di rispetto verso l'umanità e verso le cose. Non vi era ombra di cinismo o di acidità […] Non si piegava ai compromessi […] non ha mai trovato un editore nel suo paese […] ha vissuto come un uomo libero, padrone sempre di se stesso e della sua condizione consapevolmente affrontata. Che sia morto, non ha una grande importanza. Il suo modo di essere si è realizzato ed espresso nella sua poesia, e tutto continua, salvo il rinnovarsi della sua personale felicità o infelicità e il battere faticoso del cuore tra un infarto e l’altro.» (Nazim Hikmet – Poesie d’amore, traduzione di Joyce Lussu, Oscar Mondadori, Milano 2002).

Nazim Hikmet Ran era nato il 20 novembre del 1901 a Salonicco (che prima faceva parte dell'Impero Ottomano e che oggi è la greca Tessalonica) ed è certamente uno degli autori più importanti della letteratura moderna turca e di quella mondiale. Apparteneva a un'influente e colta famiglia turca dell'alta società, e Nazim sosteneva che «la poesia, a casa nostra, era sugli altari». Per Hikmet la cultura fu la finestra che illuminò un individuo ricco e influente in modo tale da renderlo capace di capire profondamente i più umili e più derelitti; e – come ha scritto la Lussu – Hikmet «legò la sua sorte alla loro». Da ragazzo, lasciò gli studi per accorrere in Anatolia – spinto dal suo cuore di patriota – in aiuto del suo popolo e dell'esercito di liberazione del nazionalista Kemal Ataturk. Ataturk aveva coinvolto nella sua lotta le masse contadine oppresse e i curdi esclusi, ma una volta andato al potere dimenticò tutte le sue promesse e represse con durezza ogni opposizione interna e ogni tentativo d'autonomia dei curdi, umiliati come una razza inferiore. Nazim scoprì poi la rivoluzione sovietica e nel 1921 andò a Mosca; completamente affascinato dal marxismo, divenne un comunista convinto, animato da un forte desiderio di lotta sociale. A Mosca venne in contatto con una nuova cultura e con una nuova poesia, conobbe i poeti futuristi russi e soprattutto Vladimir Majakovskij, che influenzò molto la sua poesia. Si appassionò anche al nuovo teatro russo, partecipando a un gruppo teatrale rivoluzionario.

Nel 1924 ritornò in patria, mettendo al servizio del popolo turco la sua poesia e la sua attività segreta di comunista. Condannato in contumacia, aprì una tipografia clandestina nei pressi di Smirne e scrisse in lingua turca il primo volume di versi Il canto degli uomini che bevono il sole. Ritornato nuovamente a Mosca, tra il 1925 e il 1928 pubblicò in russo il già citato libro di versi e scrisse diverse opere teatrali (per lo più in forma di atti unici). Fu di nuovo in patria nel 1929 – sempre in modo clandestino – e, dopo un breve periodo di prigionia, divenne un giornalista molto attivo nella propaganda politica e nell'attività letteraria, pubblicando quattro piccoli volumi di versi che furono molto amati e che venivano citati a memoria dai molti giovani contrari al regime.

Negli anni Trenta, in Turchia, Hikmet fu anche coinvolto nell'attività cinematografica: per gli Studi Cinematografici Ipek scrisse sceneggiature e diresse film; del 1933 si ricordano: Fena Yol, una sceneggiatura tratta dal noto romanzo dello scrittore greco Grigorios Ksenopoulos sul fato e sulla provvidenza; Milyon Avcilari, un adattamento di una commedia musicale tedesca di Max Neufled; e Gunese Dagru, diretto dallo stesso Hikmet, che rappresentò una tappa verso la liberazione del cinema dai legami del teatro. Tra il 1939 e il 1947 scrisse almeno cinque sceneggiature con lo pseudonimo di Mümtaz Osman. Durante l'esilio, elaborò sceneggiature per il cinema polacco, cecoslovacco e bulgaro. Alcune sue sceneggiature furono trasformate in film dal cinema russo dopo la sua morte. (http://www.nazimhikmet. org.tr/sinemasi2-en.asp).

Accusato di attività sovversive, fu condannato a cinque anni di carcere: nella prigione di Bursa, in Anatolia, iniziò a scrivere un’accorata raccolta poetica (le prime Lettere dal carcere), dedicata alla prima moglie Piranye. Grazie a un'amnistia uscì dal carcere nel 1933 e continuò nella sua propaganda antigovernativa con diverse opere antifasciste in versi che, seppur non pubblicate, furono conosciute e apprezzate. Arrestato nuovamente, fu condannato a 32 anni di carcere e rimase imprigionato dal 1938 al 1950 senza né carta né penna, costretto a far imparare a memoria i suoi versi ai suoi visitatori, perché potessero essere poi trascritti e diffusi. Si servì per questo scopo anche della vecchia madre, che era solita andare in giro con un cartello appeso al collo nel quale chiedeva la libertà per il figlio imprigionato. Durante questa nuova prigionia, Hikmet riprese a scrivere le sue Lettere dal carcere, dedicate stavolta alla seconda moglie, la diletta Munevvér, che gli fu vicina nei durissimi anni di segregazione e che fu per lui sia madre che amica e amante: «In questa notte d’autunno / sono pieno delle tue parole / parole eterne come il tempo / […] / mi sono giunte le tue parole / le tue parole cariche di te / le tue parole, madre / le tue parole, amore / le tue parole, amica […]» (1948); Munevvér fu anche una solidale compagna di lotta: «Sono tra gli uomini amo gli uomini / amo l'azione / amo il pensiero / amo la mia lotta / sei un essere umano nella mia lotta / ti amo.» (1943) (Hikmet – Poesie, traduzione di Joyce Lussu e Velso Mucci, Newton Compton Editori, Roma 1972).

In questo periodo, diffuse clandestinamente, le sue liriche furono tradotte in varie lingue e divennero molto conosciute. Grazie all'intervento del poeta–saggista rumeno Tristan Tzara (1896–1963), fondatore del “Dadaismo”, si creò un comitato di sostegno democratico che fece conoscere in tutto il mondo sia l'opera sia la vicenda politica di Nazim e che protestò vivacemente presso il governo turco. Nel 1950, infastiditi da questa vasta e insistente campagna di liberazione, i burocrati turchi rilasciarono il poeta in libertà vigilata. I suoi scritti furono però distrutti e vietati, ed egli – privato della cittadinanza turca – fu costretto a vivere con la preoccupazione di essere di nuovo imprigionato.

Nel 1951 Hikmet scelse l'esilio, andando a vivere in Unione Sovietica e nell'Europa dell’Est; fu costretto, però, a lasciare in Turchia l’amata Munevvér, incinta di suo figlio: soltanto dopo dieci anni Nazim riuscì a riunirsi alla moglie e al figlio, fuggiti clandestinamente dalla Turchia (grazie anche all'aiuto della stessa Joyce Lussu). Ritornato a Mosca dopo trent'anni, prese la cittadinanza russa e continuò a coltivare con forza il sogno comunista. Nonostante quest'attiva militanza, Hikmet seppe però mantenere uno spirito libero lottando strenuamente contro le censure che molti scrittori sovietici furono costretti a subire in quel periodo di duro realismo socialista e contribuì nel 1956 nel dare inizio in Unione Sovietica al disgelo culturale.

Negli ultimi anni di vita, ormai anziano e stanco, Nazim, s’innamorò di Vara, una giovane e bionda ragazza russa, che sposò e che gli rimase vicina sino alla morte. In questi anni pubblicò Il duro mestiere dell’esilio (1958) e La conga di Fidel (1961), un diario in versi su una sua visita a Cuba. Hikmet viaggiò moltissimo, anche quando la sua salute, logorata dal lungo periodo di prigionia e da una grave cardiopatia (aveva avuto diversi infarti), non avrebbe potuto permetterglielo. Venne varie volte in Italia (che adorava) mentre non andò mai né in Inghilterra né in America o in altro paese di lingua inglese (probabilmente, profondi motivi ideologici glielo impedirono). In giro per il mondo, si creò molti amici che erano tutti soggiogati dal suo carisma di uomo prestante e intelligente. Morì a Mosca il 3 giugno del 1963 a causa di un ultimo infarto fatale, dopo un periodo in cui il presagio della morte lo afflisse di continuo: la sua ultima poesia era appunto intitolata Il mio funerale. Già nel 1955, nella poesia Forse la mia ultima lettera a Mehmet, destinata all’amato figlio lontano, timoroso di non rivedere più i suoi cari, Hikmet così scriveva: «[…] / Non ho paura di morire, figlio mio; però malgrado tutto / a volte quando lavoro / trasalisco di colpo / oppure nella solitudine del dormiveglia / contare i giorni è difficile / non ci si può saziare del mondo / Mehmet / non ci si può saziare. / […] / La nostra terra, la Turchia, / è un bel paese / tra gli altri paesi / […] / Mehmet, forse morirò / lontano dalla mia lingua / lontano dalle mie canzoni / lontano dal mio sale e dal mio pane / con la nostalgia di tua madre e di te / del mio popolo dei miei compagni / ma non in esilio / non in terra straniera / morirò nel paese dei miei sogni / nella bianca città dei miei giorni più belli. / Mehmet, piccolo mio / ti affido / ai compagni turchi / me ne vado ma sono calmo / la vita che si disperde in me / si ritroverà in te / per lungo tempo / e nel mio popolo / per sempre.» (Nazim Hikmet – Poesie d’amore, traduzione di Joyce Lussu, Oscar Mondadori, Milano 2002). Dopo la sua morte, Hikmet è diventato il grande eroe della sinistra turca, conosciuto e celebrato in quasi tutto il mondo, grazie alle numerose traduzioni delle sue poesie.

P.S. Nel film Le fate ignoranti (2001) del regista turco Ferzan Özpetek con Margherita Buy e Stefano Accorsi, la sensibile attrice recita, al femminile, alcuni versi di Hikmet tratti dalla poesia Notte d’autunno: In questa notte d’autunno / sono pieno delle tue parole / parole eterne come il tempo / come la materia / parole pesanti come la mano / scintillanti come le stelle. / Dalla tua testa alla tua carne / dal tuo cuore / mi sono giunte le tue parole / le tue parole cariche di te / le tue parole, padre / le tue parole, amore / le tue parole, amico. / Erano tristi, amare / erano allegre, piene di speranza / erano coraggiose, eroiche / le tue parole / erano uomini.


Nel 2007, il regista turco Biket Ilhan ha girato il film biografico Mavi gözlü dev (Un gigante dagli occhi blu), dedicato alla complessa e sofferta biografia di Nazim Hikmet, poeta della lotta e dell'amore, con Yetkin Dikinciler, Dolunay Soysert e Özge Özberk. Il film è riuscito a restituirci per intero il suo coraggio civile, la sua passione politica, il suo candido comunismo, la sua poesia immortale, e il suo spirito libero nonostante la prigionia.


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