Joyce Lussu Hazim Hikmet
Un tenacissimo “fil rouge” lega Joyce Lussu – che in questi giorni
avrebbe compiuto cento anni, intellettuale "contro" e moglie dello scrittore antifascista Emilio
Lussu – e il grande poeta turco Hazim Hikmet, del
quale Joyce fu storica traduttrice e
testimone oltre che cara e sincera amica.
Di origini aristocratiche, all'anagrafe
Gioconda Beatrice Salvadori Paleotti, nacque a Firenze l'8 maggio del 1912 da
una famiglia marchigiana di forte respiro politico (il nonno fu deputato liberale dalla XVIII alla XXII legislatura, la
nonna – una nobile inglese – aveva un fratello deputato al
Parlamento inglese, e il padre era un liberale antifascista – allievo
di Herbert Spencer ed estimatore di Bertrand Russell – che dal 1925 al 1934 si era autoesiliato in Svizzera).
La Lussu visse la sua adolescenza tra l'Italia e l'estero,
maturando un'educazione anticonformista e la passione per l'impegno politico e sociale.
Seguì a Heidelberg il corso d'insegnamento del filosofo–psichiatra Karl Theodor
Jaspers (1883–1969), venendo a contatto con gli albori del Nazismo e notando il
disinteresse della classe degli intellettuali per quei nazisti che
consideravano soltanto degli innocui scalmanati. Acuta e intelligente, femminista
ante–litteram, si laureò in Lettere alla Sorbona di Parigi e in
Filologia a Lisbona.
Nel 1934
sposò Aldo Belluigi, un giovane e ricco possidente fascista col quale si recò in
Kenia per raggiungere il fratello Max; il matrimonio con Aldo durò soltanto
qualche anno ma le fece conoscere l'Africa e la sua natura ma anche molti gravi
problemi del Colonialismo. In questo periodo sono da collocare le Liriche (1939), che furono ben ricevute
dalla critica (Benedetto Croce ne fu entusiasta).
Con il
fratello Max entrò a far parte del movimento “Giustizia
e Libertà” e nel 1938 incontrò a Ginevra Emilio
Lussu (1890–1975) e fu grande amore; con lui visse tutta la vita sino
alla morte di Emilio, e lo seguì impavida e “leggendaria” nell'esilio e nella clandestinità, nella resistenza e nella
lotta antifascista (era solita ripetere: «Non sono una donnetta»). Per
le sue imprese partigiane si meritò la medaglia d'argento. Emilio Lussu, uomo politico e scrittore, pubblicò Marcia su Roma e dintorni e Un anno sull'altipiano. Nel 1946 nel libro autobiografico di successo Fronti e Frontiere, la Lussu raccontò
le dure ma esaltanti vicende di quel periodo (era specializzata in evasioni e
documenti falsi). Convinta che la storia dell'umanità fosse una “storia come
lotta di classe”, dopo la liberazione visse con entusiasmo i primi passi della
Repubblica Italiana e in seguito militò nel Partito Socialista Italiano,
preferendo poi però dedicarsi soltanto alla scrittura e alle attività
culturali.
Negli
anni Cinquanta, sostituì al suo sentito Antifascismo con il contrasto all'Imperialismo,
sposando le cause di organizzazioni della pace, di movimenti di liberazione in
lotta con il Colonialismo e più tardi con le battaglie d'impegno ambientalista
ed ecologista. Mise la sua abilità di traduttrice al servizio di poeti viventi
provenienti da culture lontane (albanesi, curdi, vietnamiti, africani, afro–americani
e addirittura eschimesi o aborigeni australiani), stabilendo dei rapporti
diretti con molti di questi poeti, spesso perseguitati politici e oggetto di orribili
iniquità e d'ingiuste oppressioni. Strinse rapporti con grandi uomini della
politica, quali Mao, Ho Chi Min, Castro, Cabral e Mandela.
Nella
vecchiaia si ritirò nella sua tenuta marchigiana di San Tommaso, vicino
a Porto San Giorgio, che aveva trasformato in una sorta
di “Comune”
della pace, limitandosi a scrivere e a divulgare un suo nuovo metodo didattico inerente
la Storia nelle scuole. Morì a Roma il 4 novembre del 1998, all’età di 86 anni. Aveva
scritto: «Essere donna l'ho sempre considerato un fatto positivo, una sfida
gioiosa e aggressiva. Qualcuno dice che le donne sono inferiori agli uomini,
che non possono fare questo e quello. […] Che
cosa c’è da invidiare agli uomini? Tutto quello che fanno, lo posso fare anch'io.
E in più, so fare anche un figlio». (Joyce Lussu, Padre, Padrone, Padreterno. Breve storia di schiave e matrone, villane
e castellane, streghe e mercantesse, proletarie e padrone, Mazzotta, Milano
1976). Ha scritto Dino Messina: «Non
volle mai incarichi ufficiali nella sinistra e negli ultimi anni si divertiva a
stupire per le sue posizioni sempre, rigorosamente, “contro”. E per la sua
vitalità, per la capacità di non chiudersi nei ricordi nella sua casa di
campagna nelle Marche, ma di pensare sempre al futuro.» (5 novembre 1998,
Corriere della Sera, Addio a Joyce Lussu,
una donna "contro", http://archiviostorico.corriere.it/1998/novembre/05/Addio_Joyce_Lussu_una_donna_co_8_981105417.shtml).
Ha
scritto Chiara Cretella: «Se la storia è stata fatta da entrambi i sessi ma è
stata scritta solo dagli uomini, il primo impegno da assolvere per Joyce è
riappropriarsi di un passato, per ritrovare l'identità perduta. Solo questa
consapevolezza di avere alle spalle delle eroine, delle streghe, delle
combattenti, delle suffragette, permetterà alle donne di non aver paura di
irrompere nella grande storia, accontentandosi di ritagliarsi in essa solo dei
ruoli secondari, assistenziali o di sfondo. […] per
la Lussu il modo nuovo di fare storia – e di scrivere un'autobiografia, poiché
le due cose arrivano a coincidere – è semplice ma fondamentale: tornare all'oralità.
[…] Sulle antiche tracce della maieutica, la
Lussu si contorna di interlocutrici, cercando nella vivacità del confronto
femminile una tensione analitica sempre rigorosa. Se per la Lussu il poeta è il
motore della storia – prima ancora di un testimone –, anche la sua visione
della donna è intrinsecamente “materialista”: una militanza interiore, il
dettato atavico di non lasciar cadere nell'oblio le sorelle senza voce, le
cassandre non credute, le streghe mandate al rogo.» («La cultura e la coscienza
politica sono la stessa cosa», Joyce Lussu politica e femminista, estratto da:
AA.VV., Joyce Lussu. Sibilla del
Novecento, a cura di Vittoria Ravagli, Edizioni Le Voci della Luna, Milano
2008; http://www.carmillaonline.com/archives/2008/07/002698print.html).
Straordinario
fu soprattutto l'incontro di Joyce Lussu con Nazim Hikmet, le cui poesie fece
conoscere nell'Italia e nel mondo, portando alla ribalta il “problema curdo”, la
vicenda di «un popolo costretto a vivere da straniero nel suo territorio» (così
scrisse in Portrait – Cose viste e vissute nel 1988,
Transeuropa). E del problema curdo, negli anni Sessanta, fece la sua bandiera,
parlandone dappertutto, anche nelle scuole di ogni ordine e grado (amava e
privilegiava il suo rapporto con i giovani, riponendo la sua fiducia di un
futuro migliore proprio nelle nuove generazioni; e fu accanto ai giovani
durante le contestazioni studentesche).
è stata lei che ha raccontato che Hikmet scriveva di getto i versi delle
sue poesie, senza rileggere e senza correggere, e che era tanto generoso da
consentire che potessero essere riportate e tradotte a volontà (sentiva che non
erano sue ma proprietà di tutti). E Hikmet fu amato dai lettori e quasi
ignorato dalla critica, e allo stesso modo, egli rifiutò la critica e le caste
letterarie (in realtà leggeva poco gli altri autori), scrivendo le sue liriche per
gli altri (sia colti che ignoranti) e detestando – più delle stesse celle
carcerarie – le «celle dell’arte dove si sta in pochi o da soli». La sua poesia era un suo mezzo privilegiato
per combattere l'oppressore e per risvegliare la coscienza morale del suo
popolo oppresso.
Così scriveva la Lussu nell'introduzione al
volume di poesie da lei tradotto (Hikmet
- Poesie, traduzione di Joyce Lussu e Velso Mucci, Newton Compton Editori,
Roma 1972): «Non era un
letterato: il letterato si forma con lo studio dei predecessori, con l'accumulazione
libresca; a Hikmet questo non interessava. La sua fonte d'ispirazione non erano
gli altri scrittori, ma la coscienza storica e la lotta politica; e non si rivolgeva
a critici e scrittori, ma al popolo del suo paese e di tutti i paesi, anche
agli analfabeti […]». Nazim sentiva
che la sua poesia doveva essere «utile» sia per l'orecchio, sia per l'umanità e per la sua causa ideale;
sentiva che essa avrebbe dovuto essere «traducibile per i popoli più
diversi». Convinto che non si potesse «vivere
su questa terra / come un inquilino / oppure in villeggiatura / nella natura», desiderava stabilire «il ponte più
solido e comodo» tra lui e i suoi
lettori. Proprio per questo, decise di abbandonare la lingua turca ottomana,
usata soltanto ai suoi inizi e nota solo a pochi colti poeti, per scrivere in «versi
liberi a scalini» allo scopo di meglio
avvicinarsi al linguaggio dei più semplici. In una lettera inviata a Joyce Lussu
nel 1961, egli stesso scriveva: «A 18 anni passai in Anatolia, scoprii
il mio popolo e le sue lotte. Lottava con i suoi cavalli magri, con le sue armi
preistoriche, in mezzo alla sua fame e alle sue cimici, contro l’esercito greco
sostenuto dagli inglesi e dai francesi […] Ho scoperto tutta un'altra umanità.
E cominciai a scrivere in un altro modo.».
Hikmet pubblicò sempre e soltanto in turco nonostante conoscesse benissimo
numerose lingue, compresi il russo, il francese e l’arabo. Le sue poesie sono
state tradotte in moltissime lingue, mentre stranamente nessuna traduzione è
stata fatta nella lingua inglese, sicché l’autore turco è quasi sconosciuto al
mondo anglosassone. Che grande spreco!
In una nota di un altro volume, Lussu così
aggiungeva: «Era un grande poeta e un combattente assai valoroso, e piaceva
alle donne. Ma questo eccesso di doti aveva come correttivo un ingualcibile
candore, una capacità di fiducia, di meraviglia, di rispetto verso l'umanità e
verso le cose. Non vi era ombra di cinismo o di acidità […] Non si piegava ai compromessi […]
non ha mai trovato un editore nel suo paese […] ha vissuto come un uomo libero,
padrone sempre di se stesso e della sua condizione consapevolmente affrontata. Che
sia morto, non ha una grande importanza. Il suo modo di essere si è realizzato
ed espresso nella sua poesia, e tutto continua, salvo il rinnovarsi della sua
personale felicità o infelicità e il battere faticoso del cuore tra un infarto
e l’altro.» (Nazim Hikmet –
Poesie d’amore, traduzione di Joyce Lussu, Oscar Mondadori, Milano 2002).
Nazim Hikmet Ran era nato il 20 novembre del
1901 a Salonicco (che prima faceva parte dell'Impero Ottomano e che oggi è la
greca Tessalonica) ed è certamente uno degli autori più importanti della
letteratura moderna turca e di quella mondiale. Apparteneva a un'influente e colta
famiglia turca dell'alta società, e Nazim sosteneva che «la poesia, a
casa nostra, era sugli altari». Per Hikmet la cultura fu la finestra che
illuminò un individuo ricco e influente in modo tale da renderlo capace di
capire profondamente i più umili e più derelitti; e – come ha scritto la Lussu –
Hikmet «legò la sua sorte alla loro». Da ragazzo, lasciò gli studi per accorrere in Anatolia – spinto dal
suo cuore di patriota – in aiuto del suo popolo e dell'esercito di liberazione
del nazionalista Kemal Ataturk. Ataturk aveva coinvolto nella sua lotta le
masse contadine oppresse e i curdi esclusi, ma una volta andato al potere
dimenticò tutte le sue promesse e represse con durezza ogni opposizione interna
e ogni tentativo d'autonomia dei curdi, umiliati come una razza inferiore. Nazim
scoprì poi la rivoluzione sovietica e nel 1921 andò a Mosca; completamente
affascinato dal marxismo, divenne un comunista convinto, animato da un forte desiderio
di lotta sociale. A Mosca venne in contatto con una nuova cultura e con una
nuova poesia, conobbe i poeti futuristi russi e soprattutto Vladimir
Majakovskij, che influenzò molto la sua poesia. Si appassionò anche al nuovo
teatro russo, partecipando a un gruppo teatrale rivoluzionario.
Nel 1924 ritornò in patria, mettendo al
servizio del popolo turco la sua poesia e la sua attività segreta di comunista.
Condannato in contumacia, aprì una tipografia clandestina nei pressi di Smirne
e scrisse in lingua turca il primo volume di versi Il canto degli uomini che
bevono il sole. Ritornato nuovamente a Mosca, tra il 1925 e il 1928 pubblicò
in russo il già citato libro di versi e scrisse diverse opere teatrali (per lo
più in forma di atti unici). Fu di nuovo in patria nel 1929 – sempre in modo
clandestino – e, dopo un breve periodo di prigionia, divenne un giornalista
molto attivo nella propaganda politica e nell'attività letteraria, pubblicando
quattro piccoli volumi di versi che furono molto amati e che venivano citati a
memoria dai molti giovani contrari al regime.
Negli anni Trenta, in Turchia, Hikmet fu anche coinvolto nell'attività
cinematografica: per gli Studi Cinematografici Ipek scrisse
sceneggiature e diresse film; del 1933 si ricordano: Fena Yol, una sceneggiatura tratta dal noto romanzo dello scrittore
greco Grigorios Ksenopoulos sul fato e sulla provvidenza; Milyon Avcilari, un adattamento
di una commedia musicale tedesca di Max Neufled; e Gunese Dagru, diretto dallo stesso Hikmet, che rappresentò una
tappa verso la liberazione del cinema dai legami del teatro. Tra il 1939 e il
1947 scrisse almeno cinque sceneggiature con lo pseudonimo di Mümtaz Osman.
Durante l'esilio, elaborò sceneggiature per il cinema polacco, cecoslovacco e
bulgaro. Alcune sue sceneggiature furono trasformate in film dal cinema russo
dopo la sua morte. (http://www.nazimhikmet. org.tr/sinemasi2-en.asp).
Accusato di attività sovversive, fu
condannato a cinque anni di carcere: nella prigione di Bursa, in Anatolia,
iniziò a scrivere un’accorata raccolta poetica (le prime Lettere dal carcere), dedicata alla prima moglie Piranye.
Grazie a un'amnistia uscì dal carcere nel 1933 e continuò nella sua propaganda
antigovernativa con diverse opere antifasciste in versi che, seppur non
pubblicate, furono conosciute e apprezzate. Arrestato nuovamente, fu condannato
a 32 anni di carcere e rimase imprigionato dal 1938 al 1950 senza né carta né
penna, costretto a far imparare a memoria i suoi versi ai suoi visitatori,
perché potessero essere poi trascritti e diffusi. Si servì per questo scopo anche
della vecchia madre, che era solita andare in giro con un cartello appeso al
collo nel quale chiedeva la libertà per il figlio imprigionato. Durante questa
nuova prigionia, Hikmet riprese a scrivere le sue Lettere dal carcere, dedicate
stavolta alla seconda moglie, la diletta Munevvér, che gli fu vicina nei
durissimi anni di segregazione e che fu per lui sia madre che amica e amante: «In
questa notte d’autunno / sono pieno delle tue parole / parole eterne come il
tempo / […] / mi sono giunte le tue parole / le tue parole cariche di te / le
tue parole, madre / le tue parole, amore / le tue parole, amica […]» (1948); Munevvér fu anche una
solidale compagna di lotta: «Sono tra gli uomini amo gli uomini / amo l'azione
/ amo il pensiero / amo la mia lotta / sei un essere umano nella mia lotta / ti
amo.» (1943) (Hikmet – Poesie, traduzione di Joyce
Lussu e Velso Mucci, Newton Compton Editori, Roma 1972).
In questo periodo, diffuse clandestinamente,
le sue liriche furono tradotte in varie lingue e divennero molto conosciute.
Grazie all'intervento del poeta–saggista rumeno Tristan Tzara (1896–1963), fondatore
del “Dadaismo”, si creò un comitato di sostegno democratico che fece conoscere in
tutto il mondo sia l'opera sia la vicenda politica di Nazim e che protestò vivacemente
presso il governo turco. Nel 1950, infastiditi da questa vasta e insistente
campagna di liberazione, i burocrati turchi rilasciarono il poeta in libertà
vigilata. I suoi scritti furono però distrutti e vietati, ed egli – privato
della cittadinanza turca – fu costretto a vivere con la preoccupazione di
essere di nuovo imprigionato.
Nel 1951 Hikmet scelse l'esilio, andando a
vivere in Unione Sovietica e nell'Europa dell’Est; fu costretto, però, a
lasciare in Turchia l’amata Munevvér, incinta di suo figlio: soltanto dopo dieci
anni Nazim riuscì a riunirsi alla moglie e al figlio, fuggiti clandestinamente
dalla Turchia (grazie anche all'aiuto della stessa Joyce Lussu). Ritornato a
Mosca dopo trent'anni, prese la cittadinanza russa e continuò a coltivare con
forza il sogno comunista. Nonostante quest'attiva militanza, Hikmet seppe però mantenere
uno spirito libero lottando strenuamente contro le censure che molti scrittori
sovietici furono costretti a subire in quel periodo di duro realismo socialista
e contribuì nel 1956 nel dare inizio in Unione Sovietica al disgelo culturale.
Negli ultimi anni di vita, ormai anziano e
stanco, Nazim, s’innamorò di Vara, una giovane e bionda ragazza russa, che
sposò e che gli rimase vicina sino alla morte. In questi anni pubblicò Il
duro mestiere dell’esilio (1958) e La conga di Fidel (1961),
un diario in versi su una sua visita a Cuba. Hikmet viaggiò moltissimo, anche
quando la sua salute, logorata dal lungo periodo di prigionia e da una grave
cardiopatia (aveva avuto diversi infarti), non avrebbe potuto permetterglielo.
Venne varie volte in Italia (che adorava) mentre non andò mai né in Inghilterra
né in America o in altro paese di lingua inglese (probabilmente, profondi
motivi ideologici glielo impedirono). In giro per il mondo, si creò molti amici
che erano tutti soggiogati dal suo carisma di uomo prestante e intelligente.
Morì a Mosca il 3 giugno del 1963 a causa di un ultimo infarto fatale, dopo un
periodo in cui il presagio della morte lo afflisse di continuo: la sua ultima
poesia era appunto intitolata Il mio
funerale. Già nel 1955, nella poesia Forse la mia ultima lettera a Mehmet, destinata all’amato figlio lontano, timoroso di non rivedere più i
suoi cari, Hikmet così scriveva: «[…] / Non ho paura di morire, figlio
mio; però malgrado tutto / a volte quando lavoro / trasalisco di colpo / oppure
nella solitudine del dormiveglia / contare i giorni è difficile / non ci si può
saziare del mondo / Mehmet / non ci si può saziare. / […] / La nostra terra, la
Turchia, / è un bel paese / tra gli altri paesi / […] / Mehmet, forse morirò /
lontano dalla mia lingua / lontano dalle mie canzoni / lontano dal mio sale e
dal mio pane / con la nostalgia di tua madre e di te / del mio popolo dei miei
compagni / ma non in esilio / non in terra straniera / morirò nel paese dei
miei sogni / nella bianca città dei miei giorni più belli. / Mehmet, piccolo
mio / ti affido / ai compagni turchi / me ne vado ma sono calmo / la vita che
si disperde in me / si ritroverà in te / per lungo tempo / e nel mio popolo /
per sempre.» (Nazim Hikmet –
Poesie d’amore, traduzione di Joyce Lussu, Oscar Mondadori, Milano 2002). Dopo la sua morte, Hikmet è diventato il
grande eroe della sinistra turca, conosciuto e celebrato in quasi tutto il
mondo, grazie alle numerose traduzioni delle sue poesie.
P.S. Nel film Le fate
ignoranti (2001) del regista turco Ferzan Özpetek con Margherita Buy e
Stefano Accorsi, la sensibile attrice recita, al femminile, alcuni versi di Hikmet
tratti dalla poesia Notte d’autunno:
In questa notte d’autunno / sono pieno delle tue parole / parole eterne come il
tempo / come la materia / parole pesanti come la mano / scintillanti come le
stelle. / Dalla tua testa alla tua carne / dal tuo cuore / mi sono giunte le
tue parole / le tue parole cariche di te / le tue parole, padre / le tue
parole, amore / le tue parole, amico. / Erano tristi, amare / erano allegre,
piene di speranza / erano coraggiose, eroiche / le tue parole / erano uomini.
Nel
2007, il regista turco Biket Ilhan ha girato il film biografico Mavi gözlü dev (Un gigante dagli occhi
blu), dedicato alla complessa e sofferta biografia di Nazim Hikmet, poeta della
lotta e dell'amore, con Yetkin Dikinciler, Dolunay Soysert e Özge Özberk. Il
film è riuscito a restituirci per intero il suo coraggio civile, la sua
passione politica, il suo candido comunismo, la sua poesia immortale, e il suo
spirito libero nonostante la prigionia.
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