sabato 23 febbraio 2013

Saro Urzì, “maschera” della sicilianità nel mondo


Saro Urzì


Il 24 febbraio di cento anni addietro nasceva il grande attore siciliano Saro Urzì. Dopo aver lasciato la Sicilia, negli anni Trenta e Quaranta, vivacchiò lavorando nel cinema come comparsa e controfigura (fu anche acrobata) e come attore si secondo piano, segnalandosi però per la sua caratterizzazione sanguigna dell'isolano verace e sopra le righe che lasciava pur tuttavia intuire una forte carica di umanità.

Di questo periodo, ricordo soltanto Campo de' fiori (1943) di Mario Bonnard, La freccia nel fianco (1944) di Alberto Lattuada ed Emigrantes (1948) di Aldo Fabrizi.

Fu così che Saro Urzì fu notato dal grandissimo Pietro Germi (1914–1974), regista genovese «attento alla realtà dei sentimenti e all'ambiente sociale» (in Pietro Germi, ne “Il Cinema – Grande storia illustrata”, vol. iv°, Ist. Geografico De Agostini, Novara 1981). Nel 1948 Germi scelse Urzì (e lo scelse una volta per tutte) e insieme affrontarono il tema scottante del latifondo e della mafia in Sicilia nel suo capolavoro romantico e appena un po' retorico ma ricco di forza morale, In nome della legge (1949), «anticipatore del cinema civile degli anni Sessanta» e, secondo Mario Sesti (in Tutto il cinema di Pietro Germi, Baldini&Castoldi, Milano 2007), ispirato a “Sfida infernale” del 1946, film diretto da John Ford con Henry Fonda e Victor Mature. Urzì v'interpretava il maresciallo Grifò. Il film, girato a Sciacca, era stato tratto dal romanzo Piccola pretura del magistrato Giuseppe Guido Lo Schiavo, che – a dire di Leonardo Sciascia (ne La Sicilia nel cinema, in “La corda pazza”, Einaudi, Torino 1982) – accreditava però la falsa immagine di una mafia ancora guidata da un profondo senso di giustizia. Il film era interpretato da Massimo Girotti (Guido Schiavi), Jone Salinas (baronessa Teresa Lo Vasto), Camillo Mastrocinque (barone Lo Vasto), Charles Vanel (Turi Passalacqua), e altri due grandi caratteristi siciliani che diedero manforte a Urzì: Turi Pandolfini (don Fifì) e Umberto Spadaro (avvocato Faraglia). Il film – vigoroso nella rappresentazione ambientale, dal ritmo teso e nervoso, virile e asciutto nel racconto – vinse tre Nastri d'argento (per Girotti e Urzì, e uno speciale per il regista). Raccontava di un giovane pretore mandato in un paesino siciliano dell'entroterra e costretto a misurarsi con l'ingiustizia sociale (rappresentata emblematicamente da un nobile latifondista) e con la mafia (rappresentata da un potente campiere–massaro a cavallo) in una comunità misera e in una terra infelice e omertosa. Urzì si trovò a interpretare l'unica figura veramente positiva del film: il maresciallo della locale Stazione Carabinieri, che appoggerà l'inesperto pretore, riconoscendo il valore morale della sua lotta per la legalità e la dignità umana. E il pretore alla fine sembra soccombere: ha già presentato le sue dimissioni, ma l'assassinio del giovane amico Paolino (Bernardo Indelicato) lo spingerà a ritirarle e a rimanere “a difesa del fortino”.

Da quel film nacque una intensa collaborazione artistica e una solida amicizia tra quel regista «ruvido e schivo, introverso e quasi scontroso» e quel siciliano vivace e ridanciano, tanto che Urzì fu presente in molti altri film girati da Germi, in quel cinema di “eroi umili” che privilegiava la sincerità degli affetti e la commozione nata dall'onestà, ritagliandosi ruoli minori ma coloriti e di fondamentale importanza. Lo ricordiamo ne Il cammino della speranza (1950) – è un losco individuo che aiuta a emigrare clandestinamente in Francia alcuni poveracci di un piccolo paese siciliano in una sofferta odissea sostenuta dalla speranza in un avvenire migliore – , Il brigante di Tacca del Lupo (1952) – è il commissario Siceli, un ambiguo ex funzionario della polizia borbonica – , Il ferroviere (1956) – è l'amico fedele, solidale e simpatico, del protagonista interpretato mirabilmente dallo stesso Germi – , Un maledetto imbroglio (1958) – adattato dal romanzo di Carlo Emilio Gadda Quel pasticciaccio brutto di via Merulana – , e L'uomo di paglia (1958), dedicato alla crisi esistenziale di un uomo di mezza età.

Ma Urzì seguì Germi anche nella sua svolta verso le «grottesche satire di costume» con il suo ruolo da protagonista di don Vincenzo Ascalone, il padre siciliano collerico e autoritario, nell'impietoso e corrosivo film di Germi Sedotta e abbandonata (1964), vero capolavoro della “commedia all'italiana”, successivo a “Divorzio all'italiana” (1963): «Ecco, dunque, una Sicilia, già vista nei suoi aspetti più aspri e drammatici in “In nome della legge” e nel “Cammino della speranza”, che offre stavolta lo spunto e l'ambiente a uno straordinario pezzo grottesco che, al di là degli estri comici e paradossali […], assume anche una notevole importanza civile.» (Pietro Germi, ne “Il Cinema – Grande storia illustrata”, vol. iv°, Ist. Geografico De Agostini, Novara 1981). E “Sedotta e abbandonata” in «una deformazione comica della realtà» è «ancora ambientato in Sicilia, e ancora sulla corda del grottesco che investiva con l'arma della satira (ma un po' spuntata) la sopravvivenza anacronistica e inaccettabile di un altro barbaro articolo del Codice concernente l'assoluzione di una violenza sessuale in presenza di un matrimonio riparatore, la riflessione amara, ma anche la rivolta suscitata nel pubblico verso certe ataviche superstizioni e certi odiosi tabù, […]» (Pietro Germi, ne “Il Cinema – Grande storia illustrata”, vol. iv°, Ist. Geografico De Agostini, Novara 1981). Interpretato da Stefania Sandrelli (nel ruolo di Agnese Ascalone), con un contorno di eccezionali caratterizzazioni: Aldo Puglisi (Peppino Califano), Lando Buzzanca (Antonio Ascalone), Lola Braccini (Amalia Califano), Leopoldo Trieste (barone Rizieri), Umberto Spadaro (cugino di Ascalone) e Rocco D'Assunta (Orlando Califano), il film fu presentato al 17º Festival di Cannes e meritò a Saro Urzì il premio per la migliore interpretazione maschile. Ed effettivamente Urzì seppe dare caliente esuberanza ed egoismo al senso d'onore del patriarca prepotente e manesco, schiantato da quella che considera una grave colpa della figlia e dal brutale colpo inferto al suo ruolo di custode intransigente dell'onore familiare. Da lì tutta una serie di mosse – una più sbagliata dell'altra – per coprire, aggiustare e avvalorare tesi edulcorate e folli, e di furiosi contrasti familiari per realizzare delle nozze riparatrici, fino all'esito grottesco del “pater familias” che si sacrifica, morendo di nascosto nella sua stanza, per evitare che il matrimonio sia rimandato (sulla sua tomba sarà marchiato a fuoco l'epitaffio “Onore e famiglia”). La sua interpretazione fu veramente grandiosa, simbolo ed emblema di una cupa, feroce e caricaturale sicilianità, schiava di mille arcaiche convenzioni e di cento ipocrisie sociali (solo le apparenze contano, e a esse si devono immolare tutto e tutti); per essa, Urzì ricevette un secondo Nastro d'Argento nel 1965. Fu nuovamente con Germi in Serafino (1968), dalle ambizioni bucolico–ecologiche, e Alfredo, Alfredo (1972), abile commedia molto spassosa.

Negli anni Sessanta e Settanta, continuarono le sue caratterizzazioni anche in film di noti registi internazionali. Partecipò a cinque film della saga di Don Camillo e Peppone, a fianco di Fernandel e Gino Cervi, interpretando il personaggio del Brusco: Don Camillo (1952) e Il ritorno di Don Camillo (1953) di Julien Duvivier, Don Camillo e l'onorevole Peppone (1955) e Don Camillo monsignore ma non troppo (1961) di Carmine Gallone, e Il compagno Don Camillo (1965) di Luigi Comencini.

Urzì comparve, inoltre, ne Il tesoro dell'Africa (Beat the Devil) (1953) di John Huston e nel film Il padrino (The Godfather) (1972) di Francis Ford Coppola (tratto dall'omonimo romanzo di Mario Puzo) – era il signor Vitelli – , e non disdegnò la parodia Il figlioccio del Padrino (1973) di Mariano Laurenti accanto a Franco Franchi. Girò i suoi ultimi film nel 1976: Occhio alla vedova! di Sergio Pastore e Giovannino di Paolo Nuzzi.

Saro Urzì fu presente anche in diversi programmi televisivi; degne di nota le sue partecipazioni a Johnny Belinda (1968) di Piero Schivazappa e a un episodio dell'adattamento televisivo de Il padrino di Coppola (1977).

Giulio Berruti, in Saro Urzì – Luce e Colore del 9 dicembre 2010, scrive: «Saro Urzì appartiene a quella categoria di valenti professionisti che senza una ragione apparente restano relegati in ruoli di secondo piano anche nell'attenzione degli spettatori, e non riescono ad uscire da quel ruolo nemmeno quando registi di grande talento – come Pietro Germi – decidono di “investire” sulla loro bravura scegliendoli – e non una volta sola – per  ruoli importanti in film di grande successo.» (http://cortoin.screenweek.it/archivio/cronologico/2010/12/saro-urzi.php).

Su La Sicilia di qualche giorno addietro è uscito un articolo commemorativo per il centenario della sua nascita di Lorenzo Catania, dal titolo Saro Urzì, volto dei film di Germi – Cento anni fa nasceva l’attore “prima catanese, poi siciliano, poi italiano, se rimane qualcosa”; scrive Catania: «Prima di essere sottratto dal regista Pietro Germi al sottobosco del mondo dei cinematografari, per dare man forte all’intransigenza etico–civile del giovane pretore Guido
Schiavi che si oppone all’autorità mafiosa di massaro Turi Passalacqua e all’indifferenza e all’omertà dell’ambiente dove è stato comandato di servizio, la carriera di Urzì aveva sperimentato un'estenuante gavetta. […] Insieme alla retìna, ai baffetti e al risucchio dentale del pirandelliano barone Fefè Cefalù di “Divorzio all’italiana”, il corpo grasso e sudaticcio di Saro Urzì–Vincenzo Ascalone, chiuso nel bianco e nero degli abiti, il suo sguardo ora allucinato ora disperato o ebete, i suoi gesti e i suoi comportamenti tribali caratteristici di un antico padre–padrone che a suon di sberle e di sotterfugi cerca di difendere l'onore della famiglia, compromesso da una figlia incinta senza essere sposata, lungi dallo scadere nel divertimento qualunquista e nella critica cinica e antimeridionale, hanno costretto i siciliani e tutti gli italiani a guardare dentro se stessi per conoscersi meglio e cambiare la propria mentalità.».

Gianni Canova ha scritto: «Caratterista vulcanico e debordante, lega strettamente il suo nome alla Sicilia e a quello del regista P. Germi […]» (Cinema, le garzantine, Garzanti 2009).

Saro Urzì morì a San Giuseppe Vesuviano il 1º novembre del 1979 (aveva 66 anni). Concludendo, mi sento di poter affermare che Pietro Germi, Saro Urzì e la Sicilia in diversi suoi aspetti costituirono un insuperabile tutt'uno, rimasto unico e irripetibile nel cinema italiano.

giovedì 14 febbraio 2013

San Valentino, Jacques Prévert e la poesia dei giovani innamorati


Jacques Prévert


Certamente Jacques Prévert (1900–1977) ha scritto le poesie d’amore più conosciute e amate nel mondo (scritte per sé, per la persona amata e per tutti quelli che si amano o si sono amati) e può considerarsi senz’altro come il poeta elettivo dei giovani innamorati.

Riporto una poesia che è un vero e proprio inno all’amore:

Questo amore (Cet amour) (da “Paroles”, 1946)
Questo amore
Così violento
Così fragile
Così tenero
Così disperato
Questo amore
Bello come il giorno
Cattivo come il tempo
Quando il tempo è cattivo
Questo amore così vero
Questo amore così bello
Così felice
Così gioioso
Così irrisorio
Tremante di paura come un bambino quando è buio
Così sicuro di sé
Come un uomo tranquillo nel cuore della notte
Questo amore che faceva paura
Agli altri
E li faceva parlare e impallidire
Questo amore tenuto d’occhio
Perché noi lo tenevamo d’occhio
Braccato ferito calpestato fatto fuori negato cancellato
Perché noi l’abbiamo braccato ferito calpestato fatto
fuori negato cancellato
Quest’amore tutt’intero
Così vivo ancora
E baciato dal sole
è il tuo amore
è il mio amore
è quel che è stato
Questa cosa sempre nuova
Che non è mai cambiata
Vera come una pianta
Tremante come un uccello
Calda viva come l’estate
Sia tu che io possiamo
Dimenticare
E poi riaddormentarci
Svegliarci soffrire invecchiare
Addormentarci ancora
Sognarci della morte
Ringiovanire
E svegli sorridere ridere
E il nostro amore non si muove
Testardo come un mulo
Vivo come il desiderio
Crudele come la memoria
Stupido come i rimpianti
Tenero come il ricordo
Freddo come il marmo
Bello come il giorno
Fragile come un bambino
Ci guarda sorridendo
Ci parla senza dire
E io l’ascolto tremando
E grido
Grido per te
Grido per me
Ti supplico
Per te per me per tutti quelli che si amano
E che si sono amati
Oh sì gli grido
Per te per me per tutti gli altri
Che non conosco
Resta dove sei
Non andartene via
Resta dov’eri un tempo
Resta dove sei
Non muoverti
Non te ne andare
Noi che siamo amati noi t’abbiamo
Dimenticato
Tu non dimenticarci
Non avevamo che te sulla terra
Non lasciarci morire assiderati
Lontano sempre più lontano
Dove tu vuoi
Dacci un segno di vita
Più tardi, più tardi, di notte
Nella foresta del ricordo
Sorgi improvviso
Tendici la mano
Portaci in salvo.
(da “Poesie d’amore e libertà” di Jacques Prévert, nella traduzione di M. Cucchi e G Roboni, Ugo Guanda Editore, Parma 1999)

La poesia termina con l’implorazione all’amore di non andare via, di non dimenticarsi di noi, di non lasciarci morire di freddo nell’abbandono, di darci un segno di vita tendendoci la mano nella notte per portarci in salvo. Io credo molto nel potere salvifico dell’amore (e parlo per esperienza personale): vada malissimo il lavoro, manchi la realizzazione professionale, stenti l’aspetto economico nella vita di ciascuno di noi, se esiste accanto a noi l’amore caldo e vivo di una persona vicina e partecipe, si può comunque sopravvivere e guardare avanti. Già nel passato il poeta tragico Sofocle (496–406 a.C.), uomo complesso e piuttosto pessimista, venerato in Grecia dopo la sua morte come un eroe, diceva: «Una parola ci libera da tutto il peso e il dolore della vita: quella parola è “amare”.».

Un’altra nota e stupenda poesia è Parigi di notte (Paris at night) (da “Paroles”, 1946): «Tre fiammiferi accesi uno per uno nella notte / Il primo per vederti tutto il viso / Il secondo per vederti gli occhi / L’ultimo per vedere la tua bocca / E tutto il buio per ricordarmi queste cose. / Mentre ti stringo fra le braccia.» (da “Poesie d’amore e libertà” di Jacques Prévert, nella traduzione di M. Cucchi e G Roboni, Ugo Guanda Editore, Parma, 1999)

E vorrei ricordare: Semplice come il buongiorno (Simple comme bonjour), musicata da Henri Crolla e parte della raccolta “Soleil de nuit”, pubblicata postuma nel 1980:
L’amore è chiaro come il giorno
l’amore è semplice come il buongiorno
l’amore è nudo come la mano
ma è il tuo amore il mio amore
perché parlare di grande amore
perché cantare alla grande vita?
Il nostro amore è felice di vivere
e ciò gli basta.

è vero l’amore è molto felice
e anche un po’ troppo… può darsi
e quando chiudi la porta
sogna di andarsene dalla finestra

Se il nostro amore voleva partire
facevamo di tutto per farlo restare
che cosa sarebbe senza di lui la vita
un valzer lento senza la musica
un bambino che non ride mai
un romanzo che nessuno legge
la meccanica della noia
senza amore né vita!
(da “Jacques Prévert – Le Foglie Morte”, a cura di Maurizio Cucchi, Le fenici tascabili, Ugo Guanda Editore, Parma 1981)

Quelle di Prévert sono bellissime pagine di poesia surreale ma popolare, che esprimono tutte le diverse sensazioni e tutte le possibili sfaccettature di quel sentimento familiare a coloro che hanno amato almeno una volta nella vita. E il suo modo di comunicare è molto naturale e immediato, fatto di frasi apparentemente spezzate o disarticolate e di metrica senza punteggiatura, privo di metafore o trasfigurazioni, fresco e ingenuamente infantile, intenso e senza ipocrisie, come se il poeta parlasse al “popolo” dei suoi lettori di cose banali e senza importanza. In realtà, con una forza lirica facile ed espressiva, Prévert parla dell’esistenza dell’uomo e dei suoi dolori, della sua cieca disperazione ma anche della sua contagiosa gioia di vivere.

Parlando dello stile di Prévert, Maurizio Cucchi (Ugo Guanda Editore, 1981) nell’introduzione di Le foglie morte scrive: «Uno stile e una personalità che lo portano a muoversi sempre con noncurante disinvoltura tra l’arrogante e il tenero, tra l’aristocratico e il plebeo, nell’insieme di composizioni che costituiscono sempre un accortissimo artificio, un paradosso perfettamente riuscito, un meccanismo affascinante.». Cucchi accenna pure a un’«accattivante cialtroneria garbata», a «elenchi incongrui, stravaganti» e a un agire poetico «sciolto, felicemente e senza disagi in posizione bassa, lontano da tendenze o tentazioni (che guarda con estremo sospetto) al sublime».  

Nella poesia Alicante (da “Paroles” del 1946), con intenso erotismo, Prévert scriveva: «Un’arancia sulla tavola / Il tuo vestito sul tappeto / E nel mio letto tu / Dolce presente del presente / Freschezza della notte / Calore della mia vita.» (da “Poesie d’amore e libertà di Jacques Prévert”, traduzione di M. Cucchi e G Roboni, Ugo Guanda Editore, Parma 1999).

Nella notissima e lunga composizione lirica I ragazzi che si amano (Les enfantes qui s’aiment) (da “Spectacle” del 1951), Prévert racconta il rapimento creato dall’amore e mostra i ragazzi che rapiti si baciano di nascosto, suscitando la derisione e i risolini (ma in fondo anche l’acida invidia) dei passanti: «I ragazzi che si amano si baciano in piedi / Contro le porte della notte / E i passanti che passano li segnano a dito / Ma i ragazzi che si amano / Non ci sono per nessuno / Ed è soltanto la loro ombra / Che trema nel buio […] / I ragazzi che si amano non ci sono per nessuno / Loro sono altrove ben più lontano della notte / Ben più in alto del sole / Nell’abbagliante splendore del loro primo amore.» (da “Poesie d’amore e libertà di Jacques Prévert”, traduzione di M. Cucchi e G Roboni, Ugo Guanda Editore, Parma 1999)

E come non ricordare Baciami (Embrasse-moi) (da “Histoires - D’autre histoires” del 1963), nella quale il poeta invita gli amanti a cogliere l’attimo fuggente: «[…] / Stringimi tra le braccia / Baciami / Baciami a lungo / Baciami / Più tardi sarà troppo tardi / La nostra vita è ora / […] / Se tu smettessi di baciarmi / Credo che ne morrei soffocata / Abbiam pure il diritto di baciarci / Più tardi sarà troppo tardi / La nostra vita è ora / Baciami!». (da “Poesie d’amore e libertà di Jacques Prévert”, traduzione di M. Cucchi e G Roboni, Ugo Guanda Editore, Parma 1999)

Jacques Prévert nacque il 4 febbraio del 1900 da padre bretone e madre dell’Alvernia a Neuilly–sur Seine in Bretagna, una regione che lo influenzò con le sue usanze vivaci e con le sue popolari tradizioni folcloristiche. Fece studi scarsi e irregolari e presto iniziò a guadagnarsi da vivere nei modi più disparati. Nel 1920 fece il servizio militare e quindi ritornò a Parigi, ove mise su abitazione a Montparnasse (una casa frequentata da molti artisti e aperta all’intensa vita culturale di allora) insieme col fratello minore Pierre (1906–1988), regista, e con i due amici Yves Tanguy (1900–1955), un pittore appartenente alla corrente dadaista, e Marcel Duhamel (1884–1966), editore della Gallimard. Ben presto prese posizioni anarcoidi contro l’ipocrisia del mondo borghese del suo tempo e contro lo status quo del potere precostituito, cimentandosi nelle esperienze più nuove e sperimentando tutti gli stimoli culturali più innovativi (musica moderna, alcolici, influenze di mondi diversi, partecipazione a film in qualità d’attore, scrittura di testi di canzoni da caffè–concerto, etc.). Diceva di essere un uomo che viveva una vita «a briglie sciolte». Giovanissimo, si legò di grande amicizia con André Breton (1896–1966) e Louis Aragon (1897–1982), i maggiori esponenti del Surrealismo, e con lo scrittore esistenzialista Raymond Queneau (1903–1976). Nel 1931 si fece conoscere con una satira trasgressiva dai toni acri e sarcastici e dal lungo titolo Tentativo di descrizione di un pranzo di teste a Parigi, Francia (Tentative de description d’un diner de tetes a Paris, France)

Prévert è stato anche un grande cantautore: ha scritto quasi 100 canzoni, ed è sua la bellissima Le foglie morte (Le feuilles mortes), emblema della canzone francese di tutti i tempi, musicata da Joseph Kosma (compositore ungherese fuggito dalla Germania), che è entrata a pieno titolo nella storia della musica. Come non ricordare l’emozione suscitata dalle bellissime parole di Prévert cantate dalla struggente Edith Piaf o dalla diafana Juliette Greco (la musa degli esistenzialisti) o dall’affascinante Yves Montand: «Oh, vorrei tanto che anche tu ricordassi / i giorni felici del nostro amore / Com’era più bella la vita / E com’era più bruciante il sole / Le foglie morte cadono a mucchi… / Vedi: non ho dimenticato / Le foglie morte cadono a mucchi / come i ricordi, e i rimpianti / e il vento del nord porta via tutto / nella più fredda notte che dimentica / Vedi: non ho dimenticato / la canzone che mi cantavi / è una canzone che ci somiglia / Tu che mi amavi / e io ti amavo / E vivevamo, noi due, insieme / tu che mi amavi / io che ti amavo / Ma la vita separa chi si ama / piano piano / senza nessun rumore / e il mare cancella sulla sabbia / i passi degli amanti divisi / […] / Eri la mia più dolce amica… / Ma non ho ormai che rimpianti / E la canzone che tu cantavi / la sentirò per sempre / […]» (da “Jacques Prévert – Le Foglie Morte”, a cura di Maurizio Cucchi, Le fenici tascabili, Ugo Guanda Editore, Parma 1981). E alcuni refrain si ripetono in un’affascinante maniera nostalgica e malinconica. Il poeta francese Paul Verlaine ha scritto la Canzone d’autunno che presenta una certa affinità con il tema di Prévert: «I singhiozzi lunghi / dei violini / d’autunno / mi feriscono il cuore / con languore / monotono. / Ansimante / e smorto, quando / l’ora rintocca, / io mi ricordo / dei giorni antichi / e piango; / e me ne vado / nel vento ostile / che mi trascina / di qua e di là / come la foglia / morta.» (nella traduzione di Lanfranco Binni, Garzanti, Milano 1993).

Le poesie più belle di Prévert sono raccolte in Parole (Paroles) (1946), Storie (Histoires) (1946), Spettacolo (Spectacle) (1951), Le Grand Bal du Printemps (Il grande ballo di primavera) e La pioggia e il bel tempo (La pluie et le beau temps) (1955). Pubblicò in seguito le raccolte di versi Storie – Altre storie (Histoires – D’autre histoires) (1963), Cose ed altro (Choses et autres) (1972) e Alberi (Arbres) (1976).

Nonostante qualche momentaneo periodo di crisi, Jacques Prévert fece parte del movimento surrealista e frequentò il “Groupe Octobre” della Federazione Teatro Operaio. Per questa struttura teatrale di sinistra, che promuoveva una forma di “teatro sociale”, scrisse numerosi testi di drammaturgia, messi in scena tra il 1932 e il 1937. Dal 1945 riprese l’attività teatrale, lavorando insieme a Pablo Picasso per la rappresentazione del balletto L’incontro (Le rendez-vous).

Oltre alle poesie e alle opere teatrali, Prévert amò la cinematografia e fece parte di quella scuola francese degli anni Trenta che venne definita del “realismo poetico” per i suoi film, e ne rappresentò prevalentemente «il filone pessimista e drammatico, portati come sono alla descrizione di un ambiente reso amaro dalla società e dalla lotta per la vita» (in Capitolo 5, L’età d'oro del cinema francese, “Il Cinema – Grande storia illustrata”, Ist. Geografico De Agostini, Novara 1981). Troverebbero le origini nel “Verismo” della narrativa di Emile Zola (1840–1902) con i suoi interpreti costretti nel ruolo di “bestie umane”. Nel 1932 Jacques Prévert esordì nel cinema, scrivendo la sceneggiatura per il film Affare fatto (L’affaire est dans le sac), diretto dal fratello Pierre, appassionato di cinema e aiuto–regista di Jean Renoir (1914–1993); il film era una satirica astrazione intellettuale e ha scritto Gianni Canova (in Cinema, le garzantine, Garzanti, 2009): «definito un esempio di “burlesco poetico”, con echi surrealisti e anarchici, il film non viene apprezzato dal pubblico, abituato alle commedie brillanti americane». Jacques preparò, quindi, per registi famosi delle straordinarie sceneggiature. Tra il 1938 e il 1944 si dedicò prevalentemente all’attività cinematografica (nel 1938 fu anche a Hollywood), collaborando con Jean Grémillon (1901–1959) – regista di grande ispirazione e «fascinazione visiva» – con cui fece Tempesta (Remorques) (1940) e Luci d'estate (Lumière d'été) (1942). Scrisse per Marcel Carné (1906–1996) le sceneggiature degli splendidi film Quai des brumes (Il porto delle nebbie) (1938) e Alba tragica (Le jour se Lève) (1939) (interpretati da un grande Jean Gabin) e Les enfants du paradis (1945) (il cui titolo italiano è stato trasformato romanticamente in Amanti perduti). Quest’ultimo film rappresenta veramente l’epopea dell’amore impossibile dall’esito tragico e ha come protagonista il triste e appassionato mimo bianco Baptiste, interpretato da un grande e malinconico Jean-Louis Barrault (1910–1994) perduto d’amore per l’enigmatica cortigiana Garance, interpretata dalla magica Arletty (1898–1992). Seguì Mentre Parigi dorme (Les portes de la nuit) (1946). A proposito delle sceneggiature scritte da Jacques per Marcel Carné (uno dei più ispirati e crudi registi francesi del periodo, dal linguaggio alto e dalle intense atmosfere, i cui film sono autentici capolavori dello schermo), ha scritto Gianni Canova (in Cinema, le garzantine, Garzanti, 2009): «tutte caratterizzate dalla presenza ossessiva del destino, dalla solitudine, dalla morte, dall’infelicità amorosa». In Marcel Carné (“Il Cinema – Grande storia illustrata”, Ist. Geografico De Agostini, Novara 1981), è scritto: «Così si configurano i temi pressoché costanti della coppia Carné–Prévert individuati da Georges Sadoul nell’“amore che, solo, può dare la felicità, ma che non può durare a lungo, travolto dal destino; la lotta del Bene e del Male in cui i cattivi hanno sempre la meglio; eroi proletari di cui la società ha fatto dei criminali, mai banditi di professione: 'eroi' che sognano un 'altrove' dove l’amore sia possibile ed eterno, scontrandosi con un Destino spesso simbolizzato da uno dei protagonisti o dallo stesso ambiente. E questa fatalità è in definitiva espressione di un ordine sociale, le cui possibilità di modificazione sono viste con pessimismo”». Quel pessimismo era ispirato dalla situazione storica della Francia in cui sembrava svanita ogni speranza sotto l’avanzare del nazifascismo, con le ombre minacciose di una guerra incombente; e quei film divenivano «una metafora dello sfacelo politico e morale», «barometro della sua epoca» ma non «causa delle tempeste rispecchiate e previste».

In seguito Prévert elaborò per il noto regista Jean Renoir la sceneggiatura di Le crime de Monsieur Lange (Il delitto del signor Lange).

Fra il 1961 e il 1968 lavorò per la televisione, collaborando attivamente con il fratello Pierre.

Nel 1947 Jacques Prévert aveva sposato Janine Tricotet, che gli diede la figlia Michelle. Nel 1948 lo scrittore subì un grave incidente, precipitando misteriosamente da una finestra degli uffici della radio e rimanendo in coma per diverse settimane: questo trauma richiese una convalescenza di alcuni anni. Nell’ultimo periodo della sua esistenza si dedicò – oltre che alla scrittura poetica – alla composizione di collage, che espose in una mostra e che furono pubblicati in Guazzabuglio (Fatras), e si concentrò nella scrittura dei due saggi L’universo di Klee (L’universe de Klee) e Juan Mirò.

Distrutto da un cancro al polmone, morì a Omonville–la–Petite l’11 aprile del 1977 dopo lunghi anni di sofferenze, confortato dall’amore appassionato del suo pubblico e dall’affetto di pochi e affezionati amici (Yves Montand, Juliette Greco, Raymond Queneau, Joseph Losey e Serge Reggiani). In base ai dati di un recente sondaggio popolare, Prévert è stato nominato «scrittore del secolo» ed è stato preferito a grandi autori francesi del calibro di Albert Camus (1913–1960), premio Nobel nel 1957, o di Marcel Proust (1871–1922).

venerdì 8 febbraio 2013

Saffo e i tormentati amori di Lesbo


Saffo


Poetessa dell’amore, Saffo nacque a Lesbo in Grecia probabilmente nel 640 a.C. circa, ma esistono dati contrastanti sull’esatto periodo storico in cui si svolse la sua vita. Fu definita da Platone (Atene, 426-347 a.C.) la «decima Musa» e «un miracolo» dallo storico–geografo greco Strabone (63 a.C.-20 d.C.) che molto ci ha fatto conoscere del mondo antico.

I suoi versi sono straordinariamente musicali: non per nulla, la poesia di Saffo era destinata ad accompagnarsi alla danza e al suono della lira o della cetra o di altri strumenti a corda, a recitarsi durante le feste o i fidanzamenti o i matrimoni, oppure come preghiera a Venere, la dea protettrice. Saffo ha disegnato i misteri e i riti di un’era perduta, ha cantato in maniera splendida l’amore morboso (privo di misura o di freni) e ha espresso il nucleo profondo del suo essere femminile in modo tanto completo e irriducibile che nelle sue poesie l’uomo non esiste in nessuna forma e in nessun aspetto, o è al massimo portatore di sofferenza e tradimento.

Ricordo alcune tra le sue più belle poesie (da Saffo ne “I MITI – Poesia”, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1996). Nella Poesia 1, così scriveva:

Afrodite immortale, che siedi
sopra il tono intarsiato,
figlia di Zeus, tessitrice d’inganni,
ti supplico: non domare il mio cuore
con ansie e con tormenti, o divina,

ma vienimi accanto, come una volta
quando, udito il mio grido da lontano,
mi hai ascoltata: giungesti
lasciando la casa d’oro del padre,

dopo aver aggiogato il tuo carro.
Sopra la terra bruna ti conducevano i passeri:
belli, veloci, battevano rapidi le ali
nell’abisso del cielo.

In un attimo, furono qui! E tu, beata,
sorridendo nel volto immortale
hai chiesto perché ancora soffrivo
e perché ancora chiamavo

e che cosa voleva sopra ogni cosa il mio
cuore folle. «E chi ancora devo convincere
ad accettare il tuo amore?
Saffo, chi ti fa torto?

Se ora fugge presto inseguirà
e se respinge i tuoi doni poi ne offrirà
e se non ama presto ti amerà
pur se non vuole.»

Vieni ancora, liberami dal penoso tormento,
e quello che il mio cuore desidera,
còmpilo: sii mia alleata!

Nella nota poesia Poesia 12, piena di gelosia, Saffo così si lamentava:

Mi pare simile a un dio
l’uomo che ti siede davanti
e ti ascolta così da vicino, mentre parli
con lieve sussurro e ridi amabile:
questo mi stringe il cuore nel petto!

Basta che ti getti uno sguardo
e subito la voce mi manca
la lingua si spezza, subito
un fuoco sottile mi corre
sotto la pelle,

lo sguardo s’offusca, rombano le orecchie,
un freddo sudore mi cola, tutta
mi scuote un tremito,
e più verde dell’erba divento
e poco manca che muoia.

Ma bisogna che tutto sopporti

Nella Poesia 21, costituita da soli tre versi, la poetessa con straordinaria forza espressiva scriveva: «Eros ha scosso la mia mente / come vento che giù dal monte / si abbatte sulle querce»; l’amore appare come una forza più devastante della natura, alla quale non è possibile opporsi. E la viscerale poetessa minaccia vendetta tremenda per i traditori dell’amore: «L’uomo che mi biasima / lo travolgano i venti e le sciagure.» (p. 15). E altri versi sono di un vigore impareggiabile: «Tu mi cuoci.» (p. 16), oppure: «… il loro cuore divenne di gelo / si chiusero le ali.» (p. 18), o ancora: «Sei giunta, ti bramavo / hai dato ristoro alla mia anima / bruciante di desiderio.» (p. 22).

In Donna, mistero senza fine bello, passando in rassegna la poesia femminile dell’occidente dalla Grecia classica alle soglie del xx secolo, il poeta–traduttore romano Silvio Raffo (Newton Compton Editori, Roma, 1994) prende in considerazione Saffo, della quale così scrive: «In una società prettamente maschilista come quella greca, Saffo risultò senz’altro figura trasgressiva, difficile da accettare, troppo forte il suo temperamento e troppo palese la sua superiorità, di maestra e d’artista, rispetto alla norma; troppo in contrasto insomma coi costumi del tempo (siamo ancora nella Grecia arcaica, in cui la vita sociale era dominata da schemi e principi piuttosto rigidi e decisamente conservatori) […] L’opera di Saffo, di eccezionale vigore e intensità espressiva, è il primo grande esempio di poesia individualistica, soggettiva, in cui l’io si impone come protagonista e, senza falsi pudori, opera scelte, afferma le proprie esigenze, i propri desideri e sogni indipendentemente da tradizioni o conformismi. […] il tono e la qualità delle immagini, l’ardore “mitico” della passionalità e la perizia tecnica raggiungono esiti di tale possanza da superare qualsiasi voce maschile di quei tempi. […] Il dialetto è quello eolico, il metro vario, ma la strofa che ricorre più frequentemente, e che appunto si chiama “strofe saffica”, presenta uno schema fisso, di tre versi endecasillabi e un quinario.».

L’acme della creazione artistica di Saffo si ebbe in Mitilene, ove conduceva un’esistenza molto diversa da quella che si svolgeva in Atene. Saffo vi creò un Tiaso, una sorta di confraternita religiosa e di sodalizio pedagogico – quasi una scuola d’iniziazione – nella quale la poetessa (appartenente all’aristocrazia di Lesbo) viveva circondata da un gruppo di giovani e nobili ragazze, dedite alla musica, alla danza, alla poesia e al culto delle Muse e di Afrodite. Le fanciulle lasciavano il sodalizio soltanto al momento del matrimonio o – in alcuni casi molto tristi per Saffo – per passare dal suo a un Tiaso rivale. Tra Saffo e le giovani donne esisteva un amore vivo e ardente, per nulla platonico – da ciò è nato il termine di “amore saffico” o “amore lesbico” per indicare il rapporto omosessuale femminile – e il difficile equilibrio della vita di relazione e le gelosie aspre del Tiaso ci sono note, così come ci sono noti i nomi e le caratteristiche di alcune delle ragazze ospiti:
– Anattoria: «Dicono che sopra la terra nera / la cosa più bella sia una fila di cavalieri, / o di opliti, o di navi. / Io dico invece quello che s’ama. / […] / Così ora mi torna alla mente / Anattoria lontana.» (p. 6);
– Gongila: «… vola di nuovo il desiderio / accanto a Gongila bella. / […]» (p. 8);
– Attis: «Ti amai un tempo, Attis / … / mi parevi una bambina piccola e sgraziata.» (p. 23) e «[…] / Si aggira inquieta, ricorda, / e il desiderio della tenera Attis / le consuma l’anima lieve / […]» (p. 39), ed ancora: «[…] / Attis, ora rifiuti / di pensare a me / e voli via, da Andromeda.» (p. 61);
– Dica: «E tu, Dica, avvolgi attorno alle chiome / amabili ghirlande d’aneto (erba simile al finocchio), intrecciandole / con le tue piccole dita: sono fiori belli! / […]» (p. 33).

Saffo cita molte altre ragazze ancora: «E Mnasidica è più bella di Girinno.» (p. 34), e «Care amiche erano Niobe e Latona.» (p. 69).

Della vita di Saffo si sa poco: è certo che fosse la figlia di Scamandro e di Cleide e che avesse tre fratelli. Si pensa che abbia raggiunto il massimo della sua fama nel periodo tra il 612 e il 598 a.C., e che per motivi politici fosse stata costretta per un certo periodo a riparare in esilio in Sicilia. Intorno al 595 a.C. sposò Cerchila ed ebbe una figlia che chiamò Cleide (come la madre) e alla quale dedicò alcuni versi: «Ho una bella bambina, / bella come fiorellini d’oro: / Cleide amata. / Non la scambierei per tutta la Lidia / né per l’amabile [Sardi]…» (p. 62). Saffo fu quindi anche sposa felice e madre affettuosa, nonostante la sua predilezione per gli amori femminili.

Su di lei si sbizzarrirono i comici e i narratori di leggende: circolarono voci di una sua tremenda bruttezza; in effetti, in una breve poesia, scrisse della bellezza: «Chi è bello, è bello solo da vedere; / chi è valente, parrà subito anche bello.» (p. 24). Non sono note la data della morte – ma avrebbe raggiunto la tarda età – e le circostanze della morte, anche se si parlò molto del suo suicidio provocato dall’amore non corrisposto per il barcaiolo Faone e attuato con un tuffo fatale dalla rupe dell’isola di Leucade (Lefkada, vicino la spiaggia di Porto Katsiki). A questo proposito, nel testo già citato, Silvio Raffo ha scritto: «Contro l’“outsider” Saffo furono soprattutto i commediografi attici a lanciare strali velenosi, tramandandoci il modello, o meglio la caricatura di una Saffo brutta e deforme, cosa che non corrispondeva al vero (il suo contemporaneo Alceo di Metilene ce la descrive leggiadramente “dolce, coronata di viole”).».

Saffo scrisse moltissimo: inni, poesie d’amore, canti di nozze e poemetti lirici, che ci sono stati tramandati in circa 9–10 libri ordinati secondo criteri metrici che costituivano una sorta di diario lirico–sentimentale della memoria, ricco di amore delirante e di malinconia, di febbre e di desiderio, di gelosie, di ricerca dell’oblio e di sofferenze sentimentali a non finire. Non ci sono rimasti, purtroppo, che una intera ode e dei frammenti poetici gravemente mutilati, giunti a noi sia direttamente attraverso papiri o pergamene egiziane, sia indirettamente attraverso i testi degli studiosi antichi di poesia e metrica. I suoi versi sono densi di sensibilità, eleganza e raffinatezza, così come sensibile, elegante e raffinata era l’autrice. Con indubbia modernità, Saffo sosteneva che «la cosa più bella è quella che si ama» e che ciascuno ha il diritto di stabilire individualmente ciò che è bello e degno di essere amato: la bellezza e l’amore furono i suoi fari d’ispirazione, i due poli fondanti della sua poesia. Soffrì molto a causa del fratello Carasso, un commerciante di vino in Egitto, preda di un amore indecente per la cortigiana Dorica che riuscì a spogliarlo di tutto il suo patrimonio e a renderlo indegno del ruolo di aristocratico assegnatogli dal destino. Per lui, la sorella scrisse una lirica piena di malinconico rammarico (pervenutaci incompleta): «Cipride e Nereidi, fate che il fratello / mi torni qui senza danno, e quanto / il suo cuore desidera, fate / che avvenga! / E fate che siano cancellati / gli errori di un tempo e diventi / una gioia ai suoi cari, una sciagura / per i nemici, / …e voglia rendere onore alla sorella, e l’odioso dolore…» (p. 3).

Negli epitalami, componimenti d’occasione, Saffo dedicò numerosi versi agli sposi e alle loro nozze: ne dedicò uno anche a Ettore e Andromaca («dagli occhi vivaci, tenera») che «… erano simili a dèi!..» (p. 19). Sono noti anche due suoi versi dedicati alla verginità, che così è invocata: «Verginità, verginità, mi lasci, e dove vai?»; e lei risponde: «Non più tornerò da te, non più tornerò.» (p. 52).

Saffo fu amata da Catullo che tradusse i versi dell’ode “Un dio mi sembra l’uomo che seduto…” e che sentì la sua poetica affine a quella della poetessa greca; ebbe grande fortuna nel Medio Evo; e fu prediletta da Ugo Foscolo (1778-1827) che s’ispirò a lei per alcuni suoi carmi.

Ma l’amò soprattutto il grande Giacomo Leopardi (1798-1837) – da Canti, Newton Compton, Roma l996 – che nel 1822 dedicò la canzone filosofica Ultimo canto di Saffo alla poetessa e alla sua infelicità in amore; a lei, il poeta si sentiva affine nel tormento e nell’emarginazione, dovuti alla mancanza della grazia e della bellezza: «[…] / Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella / sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta / infinita beltà parte nessuna / alla misera Saffo i numi e l’empia / sorte non fenno. […] / […] / Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso / macchiommi anzi il natale, onde sì torvo / il ciel mi fosse e di fortuna il volto? / in che peccai bambina, allor che ignara / di misfatto è la vita, onde poi scemo / di giovinezza, e disfiorato, al fuso / dell’indomita Parca si volvesse / il ferrigno mio stame? […] / […] / […] Negletta prole / nascemmo al pianto, e la ragione in grembo / de’ celesti si posa. Oh cure, oh speme / de’ più verd’anni! Alle sembianze il Padre, / alle amene sembianze eterno regno / diè nelle genti; e per virili imprese, / per dotta lira o canto, / virtù non luce in disadorno ammanto. / […] / […] Ogni più lieto / giorno di nostra età primo s’invola. / Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l’ombra / della gelida morte. Ecco di tante / sperate palme e dilettosi errori, / il Tartaro m’avanza; e il prode ingegno / han la tenaria Diva, / e l’atra notte, e la silente riva.». 

Il poeta inglese John Keats (1795-1821) – da Sonetti, traduzione di Roberto Cresti, Garzanti, Milano 2000 – , di umili origini e dalla vita piena di sofferenze, minato dalla tisi e morto giovane, fece del culto della bellezza e del mondo greco di Saffo un costante motivo d’ispirazione. Nel suo LVI sonetto – (a Fanny), scriveva dell’amore con una sensibilità e con una morbosità esagerate, simili a quelle di Saffo: «Grazia ti grido, pietà, amore – sì, amore! / […] / Lascia che tutta ti abbia, tutta - sii mia! / […] / tu, fin nell’anima, ti prego, dammi tutto, / non mi negar la fibra di una fibra, o morirò, / o, forse, seguitando, misero servo tuo, / nella foschia dell’inutile pena, io scorderò / i fini della vita – secco al palato dello spirito / il gusto, e il mio bramare divenuto cieco.». Nel saggio Una stanza tutta per sé (cap. III) – traduzione di Maria Antonietta Saracino, ne I Meridiani, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1998 – , Virginia Woolf accenna allo stato d’animo dell’infelice Keats «mentre cercava di scrivere poesia per opporsi all’approssimarsi della morte e all’indifferenza del mondo». Keats fu un grandissimo poeta, avvilito sia dalla miseria sia dal disprezzo degli altri che non riusciva proprio a tollerare. Sulla sua tomba, nel Cimitero Acattolico di Roma, fece incidere: «Qui giace un uomo il cui nome fu scritto sull’acqua». Così invece non è stato, perché – pur tardivo – è arrivato quel riconoscimento eterno, cui tanto agognava.

P.S. Un discreto film italiano del 1960 di Pietro Francisci dal titolo Saffo Venere di Lesbo –sceneggiato dallo stesso Francisci insieme con Ennio De Concini e Luciano Martino, interpretato da Antonio Battistella, Strelsa Brown, Renzo Cesena, Solvejg D'Assunta, Isa Cresenzi, Jim Dolan, Mirella Di Centa, Riccardo Garrone e Tina Louise – racconta con forte spirito d'avventura l'amore di Saffo per Faone.


 Per informazioni su film a tematica omosessuale femminile, vedere “I mille volti di Saffo al cinema” di Elena Romanello (http://www.rivistahydepark.org/miscellanea/i-mille-volti-di-saffo-al-cinema-di-elena-romanello/).