sabato 23 febbraio 2013

Saro Urzì, “maschera” della sicilianità nel mondo


Saro Urzì


Il 24 febbraio di cento anni addietro nasceva il grande attore siciliano Saro Urzì. Dopo aver lasciato la Sicilia, negli anni Trenta e Quaranta, vivacchiò lavorando nel cinema come comparsa e controfigura (fu anche acrobata) e come attore si secondo piano, segnalandosi però per la sua caratterizzazione sanguigna dell'isolano verace e sopra le righe che lasciava pur tuttavia intuire una forte carica di umanità.

Di questo periodo, ricordo soltanto Campo de' fiori (1943) di Mario Bonnard, La freccia nel fianco (1944) di Alberto Lattuada ed Emigrantes (1948) di Aldo Fabrizi.

Fu così che Saro Urzì fu notato dal grandissimo Pietro Germi (1914–1974), regista genovese «attento alla realtà dei sentimenti e all'ambiente sociale» (in Pietro Germi, ne “Il Cinema – Grande storia illustrata”, vol. iv°, Ist. Geografico De Agostini, Novara 1981). Nel 1948 Germi scelse Urzì (e lo scelse una volta per tutte) e insieme affrontarono il tema scottante del latifondo e della mafia in Sicilia nel suo capolavoro romantico e appena un po' retorico ma ricco di forza morale, In nome della legge (1949), «anticipatore del cinema civile degli anni Sessanta» e, secondo Mario Sesti (in Tutto il cinema di Pietro Germi, Baldini&Castoldi, Milano 2007), ispirato a “Sfida infernale” del 1946, film diretto da John Ford con Henry Fonda e Victor Mature. Urzì v'interpretava il maresciallo Grifò. Il film, girato a Sciacca, era stato tratto dal romanzo Piccola pretura del magistrato Giuseppe Guido Lo Schiavo, che – a dire di Leonardo Sciascia (ne La Sicilia nel cinema, in “La corda pazza”, Einaudi, Torino 1982) – accreditava però la falsa immagine di una mafia ancora guidata da un profondo senso di giustizia. Il film era interpretato da Massimo Girotti (Guido Schiavi), Jone Salinas (baronessa Teresa Lo Vasto), Camillo Mastrocinque (barone Lo Vasto), Charles Vanel (Turi Passalacqua), e altri due grandi caratteristi siciliani che diedero manforte a Urzì: Turi Pandolfini (don Fifì) e Umberto Spadaro (avvocato Faraglia). Il film – vigoroso nella rappresentazione ambientale, dal ritmo teso e nervoso, virile e asciutto nel racconto – vinse tre Nastri d'argento (per Girotti e Urzì, e uno speciale per il regista). Raccontava di un giovane pretore mandato in un paesino siciliano dell'entroterra e costretto a misurarsi con l'ingiustizia sociale (rappresentata emblematicamente da un nobile latifondista) e con la mafia (rappresentata da un potente campiere–massaro a cavallo) in una comunità misera e in una terra infelice e omertosa. Urzì si trovò a interpretare l'unica figura veramente positiva del film: il maresciallo della locale Stazione Carabinieri, che appoggerà l'inesperto pretore, riconoscendo il valore morale della sua lotta per la legalità e la dignità umana. E il pretore alla fine sembra soccombere: ha già presentato le sue dimissioni, ma l'assassinio del giovane amico Paolino (Bernardo Indelicato) lo spingerà a ritirarle e a rimanere “a difesa del fortino”.

Da quel film nacque una intensa collaborazione artistica e una solida amicizia tra quel regista «ruvido e schivo, introverso e quasi scontroso» e quel siciliano vivace e ridanciano, tanto che Urzì fu presente in molti altri film girati da Germi, in quel cinema di “eroi umili” che privilegiava la sincerità degli affetti e la commozione nata dall'onestà, ritagliandosi ruoli minori ma coloriti e di fondamentale importanza. Lo ricordiamo ne Il cammino della speranza (1950) – è un losco individuo che aiuta a emigrare clandestinamente in Francia alcuni poveracci di un piccolo paese siciliano in una sofferta odissea sostenuta dalla speranza in un avvenire migliore – , Il brigante di Tacca del Lupo (1952) – è il commissario Siceli, un ambiguo ex funzionario della polizia borbonica – , Il ferroviere (1956) – è l'amico fedele, solidale e simpatico, del protagonista interpretato mirabilmente dallo stesso Germi – , Un maledetto imbroglio (1958) – adattato dal romanzo di Carlo Emilio Gadda Quel pasticciaccio brutto di via Merulana – , e L'uomo di paglia (1958), dedicato alla crisi esistenziale di un uomo di mezza età.

Ma Urzì seguì Germi anche nella sua svolta verso le «grottesche satire di costume» con il suo ruolo da protagonista di don Vincenzo Ascalone, il padre siciliano collerico e autoritario, nell'impietoso e corrosivo film di Germi Sedotta e abbandonata (1964), vero capolavoro della “commedia all'italiana”, successivo a “Divorzio all'italiana” (1963): «Ecco, dunque, una Sicilia, già vista nei suoi aspetti più aspri e drammatici in “In nome della legge” e nel “Cammino della speranza”, che offre stavolta lo spunto e l'ambiente a uno straordinario pezzo grottesco che, al di là degli estri comici e paradossali […], assume anche una notevole importanza civile.» (Pietro Germi, ne “Il Cinema – Grande storia illustrata”, vol. iv°, Ist. Geografico De Agostini, Novara 1981). E “Sedotta e abbandonata” in «una deformazione comica della realtà» è «ancora ambientato in Sicilia, e ancora sulla corda del grottesco che investiva con l'arma della satira (ma un po' spuntata) la sopravvivenza anacronistica e inaccettabile di un altro barbaro articolo del Codice concernente l'assoluzione di una violenza sessuale in presenza di un matrimonio riparatore, la riflessione amara, ma anche la rivolta suscitata nel pubblico verso certe ataviche superstizioni e certi odiosi tabù, […]» (Pietro Germi, ne “Il Cinema – Grande storia illustrata”, vol. iv°, Ist. Geografico De Agostini, Novara 1981). Interpretato da Stefania Sandrelli (nel ruolo di Agnese Ascalone), con un contorno di eccezionali caratterizzazioni: Aldo Puglisi (Peppino Califano), Lando Buzzanca (Antonio Ascalone), Lola Braccini (Amalia Califano), Leopoldo Trieste (barone Rizieri), Umberto Spadaro (cugino di Ascalone) e Rocco D'Assunta (Orlando Califano), il film fu presentato al 17º Festival di Cannes e meritò a Saro Urzì il premio per la migliore interpretazione maschile. Ed effettivamente Urzì seppe dare caliente esuberanza ed egoismo al senso d'onore del patriarca prepotente e manesco, schiantato da quella che considera una grave colpa della figlia e dal brutale colpo inferto al suo ruolo di custode intransigente dell'onore familiare. Da lì tutta una serie di mosse – una più sbagliata dell'altra – per coprire, aggiustare e avvalorare tesi edulcorate e folli, e di furiosi contrasti familiari per realizzare delle nozze riparatrici, fino all'esito grottesco del “pater familias” che si sacrifica, morendo di nascosto nella sua stanza, per evitare che il matrimonio sia rimandato (sulla sua tomba sarà marchiato a fuoco l'epitaffio “Onore e famiglia”). La sua interpretazione fu veramente grandiosa, simbolo ed emblema di una cupa, feroce e caricaturale sicilianità, schiava di mille arcaiche convenzioni e di cento ipocrisie sociali (solo le apparenze contano, e a esse si devono immolare tutto e tutti); per essa, Urzì ricevette un secondo Nastro d'Argento nel 1965. Fu nuovamente con Germi in Serafino (1968), dalle ambizioni bucolico–ecologiche, e Alfredo, Alfredo (1972), abile commedia molto spassosa.

Negli anni Sessanta e Settanta, continuarono le sue caratterizzazioni anche in film di noti registi internazionali. Partecipò a cinque film della saga di Don Camillo e Peppone, a fianco di Fernandel e Gino Cervi, interpretando il personaggio del Brusco: Don Camillo (1952) e Il ritorno di Don Camillo (1953) di Julien Duvivier, Don Camillo e l'onorevole Peppone (1955) e Don Camillo monsignore ma non troppo (1961) di Carmine Gallone, e Il compagno Don Camillo (1965) di Luigi Comencini.

Urzì comparve, inoltre, ne Il tesoro dell'Africa (Beat the Devil) (1953) di John Huston e nel film Il padrino (The Godfather) (1972) di Francis Ford Coppola (tratto dall'omonimo romanzo di Mario Puzo) – era il signor Vitelli – , e non disdegnò la parodia Il figlioccio del Padrino (1973) di Mariano Laurenti accanto a Franco Franchi. Girò i suoi ultimi film nel 1976: Occhio alla vedova! di Sergio Pastore e Giovannino di Paolo Nuzzi.

Saro Urzì fu presente anche in diversi programmi televisivi; degne di nota le sue partecipazioni a Johnny Belinda (1968) di Piero Schivazappa e a un episodio dell'adattamento televisivo de Il padrino di Coppola (1977).

Giulio Berruti, in Saro Urzì – Luce e Colore del 9 dicembre 2010, scrive: «Saro Urzì appartiene a quella categoria di valenti professionisti che senza una ragione apparente restano relegati in ruoli di secondo piano anche nell'attenzione degli spettatori, e non riescono ad uscire da quel ruolo nemmeno quando registi di grande talento – come Pietro Germi – decidono di “investire” sulla loro bravura scegliendoli – e non una volta sola – per  ruoli importanti in film di grande successo.» (http://cortoin.screenweek.it/archivio/cronologico/2010/12/saro-urzi.php).

Su La Sicilia di qualche giorno addietro è uscito un articolo commemorativo per il centenario della sua nascita di Lorenzo Catania, dal titolo Saro Urzì, volto dei film di Germi – Cento anni fa nasceva l’attore “prima catanese, poi siciliano, poi italiano, se rimane qualcosa”; scrive Catania: «Prima di essere sottratto dal regista Pietro Germi al sottobosco del mondo dei cinematografari, per dare man forte all’intransigenza etico–civile del giovane pretore Guido
Schiavi che si oppone all’autorità mafiosa di massaro Turi Passalacqua e all’indifferenza e all’omertà dell’ambiente dove è stato comandato di servizio, la carriera di Urzì aveva sperimentato un'estenuante gavetta. […] Insieme alla retìna, ai baffetti e al risucchio dentale del pirandelliano barone Fefè Cefalù di “Divorzio all’italiana”, il corpo grasso e sudaticcio di Saro Urzì–Vincenzo Ascalone, chiuso nel bianco e nero degli abiti, il suo sguardo ora allucinato ora disperato o ebete, i suoi gesti e i suoi comportamenti tribali caratteristici di un antico padre–padrone che a suon di sberle e di sotterfugi cerca di difendere l'onore della famiglia, compromesso da una figlia incinta senza essere sposata, lungi dallo scadere nel divertimento qualunquista e nella critica cinica e antimeridionale, hanno costretto i siciliani e tutti gli italiani a guardare dentro se stessi per conoscersi meglio e cambiare la propria mentalità.».

Gianni Canova ha scritto: «Caratterista vulcanico e debordante, lega strettamente il suo nome alla Sicilia e a quello del regista P. Germi […]» (Cinema, le garzantine, Garzanti 2009).

Saro Urzì morì a San Giuseppe Vesuviano il 1º novembre del 1979 (aveva 66 anni). Concludendo, mi sento di poter affermare che Pietro Germi, Saro Urzì e la Sicilia in diversi suoi aspetti costituirono un insuperabile tutt'uno, rimasto unico e irripetibile nel cinema italiano.

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