Aristofane gli Uccelli
è in corso per il 2012 il xlviii ciclo di rappresentazioni
classiche a Siracusa con inizio l'11
maggio e conclusione il 30 giugno. Si rappresenta, oltre al Prometeo di Eschilo e alle Baccanti di Euripide, gli Uccelli di Aristofane. Nel 1947,
l'Istituto Nazionale del Dramma Antico curò la messa in scena di questa
commedia al Teatro Romano di Ostia Antica nella traduzione del grande ellenista
Ettore Romagnoli (Bietti, Milano 1933), scomparso nel 1938, dopo il periodo
d'interruzione dovuto alla seconda guerra mondiale. La commedia andrà in scena
per la prima volta al Teatro Greco di Siracusa nel suo superbo palcoscenico
all'aria aperta, per la regia di Roberta Torre e nella traduzione di Alessandro
Grilli (BUR, 2008).
Gli Uccelli
(titolo originale in greco antico Ὄρνιθες), è una delle più grandi commedie dell'autore
greco Aristofane. Fu composta nel 414 a.C. e fu data in prima assoluta nello
stesso anno presso il Teatro di Diòniso in Atene per le Grandi Dionisie ove si
classificò al secondo posto.
I personaggi sono numerosi: Evelpide (Sergio Mancinelli),
Pisetero (Mauro Avogadro), il servo di Upupa (Massimo Tuccitto), l'Upupa (Rocco
Castrocielo), la corifea e il sacerdote (Simonetta Cartia), un sedicente poeta
(Giacinto Palmarini), l'indovino (Enzo Campailla), l'ispettore (Doriana La
Fauci), il venditore di decreti (Alessandro Aiello), il primo Messaggero (Rocco
Castrocielo), il secondo Messaggero (Andrea Spatola), Iride (Valentina Rubino),
l'araldo (Davide Geluardi), Prometeo (Giacinto Palmarini), Poseidone (Francesco
Scaringi), Eracle (Giuseppe Orto), il dio barbaro Triballo (Sebastiano Fazzina),
Regina (Giulia Zuppardo) e tutto l'intero Coro degli Uccelli (ben 24 uccelli quanto
mai variopinti), costituito da usignoli, civette, tortore, monachelle,
allodole, colombe, alcioni, etc..
Ambientata in un paese roccioso e deserto, nella casa di
Upupa (Bubbola, nella traduzione di Romagnoli) circondata da alberi e
mascherata dalla verzura, narra di due ateniesi, Pisetero (Gabbacompagno in Romagnoli)
ed Evelpide (Sperabene in Romagnoli) che –
disgustati dai comportamenti dei loro concittadini che con le loro delazioni e
i loro processi hanno reso la loro città invivibile – prendono la decisione di abbandonare la città e di cercare un
posto dove vivere in pace. Seguiti dai servi che portano i bagagli e guidati da
una specie di corvo, il graccio, e da una cornacchia, cercano la loro nuova
patria e decidono d'insediarsi nel mondo degli uccelli che appare loro come
l'unico veramente libero. I due si lamentano. Gabbacompagno così dice: «E io, misero me, per dare ascolto / a una
cornacchia, me ne vado a zonzo / per più di mille miglia!» e Sperabene gli
risponde: «E io, per dare / ascolto a un
graccio, ho già ridotte in polvere / l'unghie dei piedi, poveretto me!». E
Sperabene rivolto agli spettatori spiega il motivo di quell'andare a zonzo: «O spettatori, è buffa o non è buffa? / Noi
due dobbiamo andare a quel paese, / ci andiam di nostra buona voglia, e intanto
/ non troviamo la via. Giacché soffriamo, / o spettatori, un male opposto a
quello / di Saca, noi. Lui, che non è d'Atene, / ci si vuole ficcare. Invece
noi, / onorati per nascita e tribù, / noi, cittadini in mezzo a cittadini, / spicchiamo
il volo dalla patria, a gambe / levate, senza che nessun ci scacci. / Né l'odiamo,
no, perché non sia / grande per sua natura, e fortunata, / e aperta a tutti…
per buttar quattrini. / Ma le cicale sopra i rami cantano / un mese o due: gli
Ateniesi cantano / sui piati vita natural durante. / Perciò, dunque, facciam
questo viaggio, / con un canestro, un pentolo, e dei rami / di mortella; ed
erriamo alla ventura, / cercando un luogo senza grattacapi. / E siam diretti al
Bubbola, Terèo, / per chiedergli se mai, girando a volo, / ha visto una città
di questo genere.».
Raggiungono il nido di Bubbola, che altri non è che Terèo, il
re di Tracia trasformato dagli dei invidiosi in un uccello, il cui servo si
chiama Trottolino perché «trotta» per
il suo padrone. I due uomini decidono di chiamare Bubbola con il loro «Ehi di casa!», anzi meglio «Ehi di nido!» (quale sublime comicità!).
E si affaccia proprio Trottolino, «un
uccello schiavo» con un becco enorme che tiene sempre spalancato, che – quando il padrone era stato
trasformato in bubbola – era
divenuto uccello «per stargli sempre a
fianco, e servirgli da domestico». Si affaccia Bubbola che è un attore
camuffato da upupa, mezzo spennacchiato sulle ali con un ciuffo appariscente,
il quale geme per essere beffato a causa delle sue penne e dice loro: «O forestieri, un tempo uomo già fui!». Discorrendo
con lui, i due propongono a Terèo di fondare una nuova città felice; così gli
parla Sperabene: «Ecco. / Tu eri, al par
di noi, mortale, un dì: / chiodi, al pari di noi, piantavi, un dì: / saldarli,
al par di noi, t'uggiva, un dì. / Assunta quindi immagine d'uccello, / su la
terra e sul mar volasti in giro; / sicché ne sai per uomo e per uccello. / Per
questo, dunque, a te siamo venuti / peregrinando, perché tu c'insegni / una
città di buona lana, morbida / come una materassa, da sdraiarcisi!».
Bubbola suggerisce loro diverse città dove poter andare ad abitare ma Gabbacompagno,
dopo lunga meditazione, così esplode: «Evviva,
evviva! / Che gran progetto mi balena per / la razza degli uccelli! Oh, che
potere / sarebbe il vostro, se mi deste retta! / […] / Fondate una città! / […]
/ L'aria sta / fra terra e cielo. Or, come quando noi / vogliamo andare a Pito,
dobbiam chieder / il passaggio ai Beoti; così, quando / gli uomini fanno
sacrifizio ai Numi, / se i Numi non vi pagano un tributo, / intercettate i fumi
delle vittime.». Con entusiasmo Bubbola si dice pronto a fondare con lui
quella città se pure gli altri uccelli sono d'accordo. Si mette in moto per
radunarli, facendoli volare al richiamo della sua voce, e pian piano gli
uccelli si raccolgono (i ventiquattro coreuti, camuffati da uccelli, entrano
tumultuosamente facendo i loro vari versi e agitando le ali mentre i quattro
uccelli musicisti accompagnano col suono dei flauti il loro stridìo); la
confusione è tale che Gabbacompagno commenta: «Per Nettuno, quanti uccelli! Guarda che maledizione / se ne sta mettendo
insieme!». Non fidandosi degli uomini, inizialmente, gli Uccelli si sentono
traditi e sono ostili sia ai due uomini sia all'idea ma Bubbola tenta di
convincerli: «Se nemici son per nascita,
han d'amici il sentimento, / e son qui per dirvi cose che v'arrechin giovamento.
/ […] / Ma se al savio apprendon molte cose giusto gli avversari! / Ben ti
guardi, ben ti salvi. Ma a guardarti non l'impari / finché sei fra gente amica:
ti ci astringe l'inimica! / Le città, dagl'inimici l'impararono, e non mica /
dagli amici, a costruire l'alte mura e i gran navigli; / e con ciò pur si
tutelano e le case, e i beni, e i figli. / […] / D'una felicità / ei favella indicibile, / grande, incredibile.
/ Che tutto al mondo è tuo, qui, là, costà, / parlando ei proverà.». Gli Uccelli
si convincono a creare nel cielo quella nuova «città dei nuvoli» situata a metà tra i Numi e gli uomini e cinta
intorno con un gran muraglione come a Babilonia, perché Gabbacompagno li seduce
dicendo che sono loro i più antichi abitanti del mondo e superiori agli stessi dei:
«Voi, sì, di quanto esiste! Di me, di
questo qui, / (Accenna Sperabene) / e di Giove in persona! E che siete più
anziani, / e al giorno pria venuti che non Crono, e i Titani, / e la terra…
/ […] / Orsù, / quelli che pria dei Numi,
pria della terra fûro, / non han, come più
anziani, dritto al regno? / […] / Che uccelli, e non già Numi fûr negli antichi
tempi / padroni e re degli uomini, lo provan molti esempi. / […] /Adesso viene il buono. / Com'è scolpito
Giove, quello che adesso regna? / Ha sopra il capo un'aquila, quasi regale
insegna; / sua figlia ha una civetta, e Apollo uno sparviero: / degno emblema
d'un servo! […] / Tutti così da prima
/ v'ebber per grandi e santi; ed or v'hanno in istima / di schiavi, di grulli,
/ di servi citrulli.».
Sperabene e Gabbacompagno si camuffano in modo ridicolo, uno
da oca disegnata alla carlona e uno da tordo col capo spennacchiato, e riescono
a trasformare quel nuovo mondo, chiamato Nubicuculía, abbandonandolo alle umane
logiche del potere e rendendolo molto simile alla triste città dalla quale erano
fuggiti. Gli Uccelli arrivano addirittura a fare guerra ai Numi e a ridurre gli
dei alla fame, intercettando i fumi delle vittime sacrificali offerte loro dagli
uomini e creando un alto muro di cinta che impedisce agli dei di comunicare con
gli umani senza il volere degli uccelli («Opera
grandiosissima e bellissima» costruita da «Uccelli, e nessun altro. Non ci fu / egizio manoval, né muratore, / né
scalpellino: uccelli, di lor mano, / sì ch'io restai di stucco.»). Pisetero,
quanto mai prepotente e aggressivo, arriva a scacciare in malo modo dalla città
sia alcuni individui che considera intrusi (un sacerdote che vuole presiedere a
un sacrificio, un poeta che vuole cantare alla nuova città, un indovino detto
Spacciaoracoli che vuole presentare il suo responso, il geometra Metone che vuole
misurare l'aria e spartirla in iugeri, un ispettore che patrocina gli affari di
un tale, un decretivendolo che spaccia delle nuove leggi nel caso che un
nubicuculiese faccia un torto a un ateniese), sia la prima messaggera degli dei,
Iride, che è arrivata di corsa agitando le sue due ali smisurate con un gran
peplo svolazzante gonfiato dall'aria e chiedendo: «E per che strade han da volare, i Numi?». Gabbacompagno,
minacciandola in modo osceno, le urla che gli uccelli adesso sono i Numi degli
uomini e che a essi bisogna offrire i sacrifici, e non a Giove. Un araldo,
mandato tra gli uomini, ritorna dicendo che gli umani sono diventati pazzi per
gli Uccelli e li pigliano per modello, allegramente, e la loro uccellomania è arrivata
a tal segno che si appiccicano nomignoli da uccelli, e così conclude: «E ti dico una cosa. Più di dodicimila, /
verranno fra le nubi, a chiederti / ali ed artigli ben aguzzi. Dunque, / scova,
donde che sia, penne per gli ospiti!». Arriva, infatti, un figlio snaturato
che dice a Gabbacompagno: «Evviva! / Non
c'è cosa più dolce che volare! / Io vado pazzo per gli uccelli, e voglio /
volare, voglio dimorar con voi, / sotto le vostre leggi! / […] / Tutte! E massime quella che considera
/ prodezza grande dar di becco al padre, / e strangolarlo! / […] / Ecco perché / io voglio appunto
stabilirmi qui, / strozzare il babbo, e aver tutta la roba.». Arriva poi il
poeta ditirambico Cinesia che vuol spiccare il volo, trasformarsi in «un arguto rosignolo» e vagare fra i
soffi dei venti sui flutti del mare ma Gabboacompagno lo prende a bastonate.
Nell'ultima parte della commedia entra Prometeo, avvolto in
un mantellone e con un grande ombrello sotto il braccio, che si guarda attorno
con sospetto, timoroso che Giove lo scopra. Dice a Gabbacompagno che gli vuole
spifferare tutte le faccende di lassù e che Giove è spacciato: «Da quando avete fabbricato in aria. /
Nessuno più degli uomini sacrifica / ai Numi; da quel dì non è più giunto / in
ciel fumo di vittime; e noialtri, / privi d'offerte, digiuniamo come / alle
feste di Dèmetra. Ed i Numi / barbari, strepitando per la fame perché non gli
arrivano più / come Illirî, minaccian di piombare / dall'alto sopra Giove,
ov'ei non faccia / riaprire i mercati, per pigliarci / i budelli al minuto.».
Gli preannuncia che, infuriati, gli dei vogliono inviare una loro delegazione
(formata da Posídone, Ercole e un Nume Triballo) per convincere gli Uccelli a
desistere e per far la pace. Gli consiglia però di non fare tregue con Giove, a
meno che non consegni agli Uccelli lo scettro del potere e non dia a lui in
moglie Regina: «Una bellezza / di
ragazza; e amministra le saette / di Giove, e tutto il resto: il buon consiglio
/ la saggezza, il diritto, l'arsenale, / il cassiere, il tribolo, le ingiurie…».
Gabbacompagno accoglie la delegazione offrendo loro un piatto colmo di uccelli,
a cui ha tirato il collo, arrostiti a puntino (oppositori del regime puniti in
modo esemplare) e chiede agli ambasciatori dei Numi lo scettro di Giove.
Blandendoli e minacciandoli, aggiunge: «Lascio
Giunone a Giove; ma Regina, / la ragazza, la voglio io per consorte!».
Ercole gli risponde: «Tutto quel che
chiedi / ti s'accorda. Ora in ciel vieni con noi, / per pigliarti Regina ed
ogni cosa!». La commedia si chiude con la celebrazione delle nozze tra Gabbacompagno,
che indossa come abito da sposo un mantello di lusso, e Regina; si avanzano
seguiti dal corteo nuziale mentre Gabbacompagno si rallegra: «Seguite ora il corteo, / tutti, o compagni
aligeri, / fino all'olimpia stanza / e al letto nuziale. / E tu la mano
porgimi, / cara, e mi stringi all'ale; / saldo il mio braccio a danza / agil ti
rapirà.» e il Coro con giubilo conclude: «Viva, viva, tralleralà! / Cantiamo l'inno della vittoria! / Al più
possente dei Numi, gloria!» (traduzione di Ettore Romagnoli, http://www.filosofico.net/aristofuccelli42.htm).
L'opera fu rappresentata nel 414 a.C., quando era appena
iniziata la spedizione ateniese in Sicilia che si risolse con la resa completa di
Atene dieci anni dopo, nel 404 a.C., e con la perdita del suo primato nel mondo
greco. Per questo, i critici hanno dato una lettura in senso allegorico e
simbolico: Nubicuculìa rappresentava l'infelice spedizione in Sicilia, gli
uccelli erano gli ateniesi mentre gli dei simbolizzavano i nemici di Atene (Siracusa,
Selinunte e Sparta) e sotto le spoglie di Pisetero–Gabbacompagno si nascondeva la figura dello stratega Alcibiade,
aggressivo ed espansionista. è
probabile che questa rigida interpretazione non sia del tutto veritiera e che
si tratti piuttosto di un'opera di grande fantasia e di forte impianto lirico e
favolistico.
Aristofane (in greco Ἀριστοφάνης) è nato ad Atene, nel
distretto di Citadene (450 a.C. circa – 385 a.C. circa). Fu un poeta della
commedia antica (l'Archaia) di stile comico–parodistico e di lui sappiamo ben poco. Nella sua vita fu
coinvolto in eventi storico–politici importantissimi: la guerra del
Peloponneso voluta da Pericle, la spedizione in Sicilia, la fine dell'impero
ateniese e del suo splendore, e la grave crisi democratica dopo la sconfitta. E
in Aristofane, la storia impronta con i suoi eventi tutte le sue commedie ma con
lui la storia viene raccontata in modo allegorico dalla letteratura. Fu molto
prolifico: scrisse 44 commedie delle quali soltanto 11 ci sono arrivate integre.
Oltre a Gli uccelli già citata, ci rimangono: gli Acarnesi (425 a.C.), commedia dedicata alle sofferenze della
guerra che vengono denunciate dal protagonista comico Diceopoli (un povero
contadino che per l'assurdità della guerra non può più vivere e decide di
concludere una sua pace separata con gli Spartani); i Cavalieri (424 a.C.), che vedono Paflagone (che personifica
l'odiato demagogo Cleone) spadroneggiare con inganni e calunnie adulando e
derubando il padrone Demos (il popolo), combattuto invano dal ceto dei
Cavalieri; le Nuvole (423 a.C.), che
mette in scena il filosofo Socrate e il disastroso effetto della Sofistica
sulla democrazia ateniese (il vecchio Strepsiade manda il figlio Fidippide,
causa dei suoi tanti debiti, da Socrate perché impari a non pagare i debiti ma
il filosofo gli insegna anche a picchiare i genitori); le Vespe (422 a.C.), in cui Aristofane irride i giudici popolari che in
Atene costituivano il nerbo del sistema giudiziario e che erano per lo più
persone di disponibilità economica non brillante e di età molto avanzata,
mentre i tribunali spesso erano molto parziali e a discreto tasso di corruzione
(il coro è formato da vecchi giudici mascherati da vespe); La pace (421 a.C.), che narra del contadino Trigeo che va a
disseppellire la Pace volando poi eroicamente su uno scarabeo con le ali; Tesmoforiazuse (411 a.C.), commedia
critica nei confronti di Euripide e dei suoi testi, che si svolge intorno alla
celebrazione di una festa riservata alle donne; Lisistrata (414 a.C.), commedia molto nota, che narra di una donna
che per interrompere la spirale di una guerra senza fine propone a tutte le
mogli greche lo “sciopero sessuale” affinché gli uomini la smettano di
uccidersi in battaglia; le Rane (405
a.C.), che racconta del dio Dioniso che scende all'Ade per riportare in vita il
suo amato Euripide e invece risuscita Eschilo; Ecclesiazuse (392 a.C.), in cui Aristofane vagheggia le donne in parlamento
(vestita da uomo, Prassagora s'infiltra nell'assemblea e riesce a far approvare
il passaggio del potere nelle mani delle donne come l'unica possibilità di sopravvivenza
per Atene martoriata); e Pluto (388
a.C.), imperniata sul tema della ricchezza che è distribuita ingiustamente tra
gli uomini (Cremilo accoglie nella sua casa un cieco, che si rivelerà essere il
dio Pluto, e gli restituisce la vista chiedendogli che la ricchezza venga
distribuita secondo i meriti).
I
testi straordinari di Aristofane, che mettono in scena in modo antropomorfico vizi
e vicende umane, sono ancora molto rappresentati. Le commedie sono semplici e
ricche di fantasia, di comicità e spirito genuinamente sarcastico e caustico,
rappresentando quel mondo rurale che Aristofane amava moltissimo, quel mondo di
piccoli proprietari terrieri ai quali si sentiva vicino e che costituiva il vero
cardine della polis ateniese. Il suo
tipico eroe comico è spesso un individuo anziano legato alla sua terra, non molto
colto ma acuto e intelligente, candido ma ardito e intraprendente. Il suo modo
di considerare le cose e il mondo è ben esemplificato dai seguenti suoi aforismi:
«La patria è sempre dove si prospera.», «Ingiuriare i mascalzoni con la satira
è cosa nobile: a ben vedere, significa onorare gli onesti.», «Chiunque è un
uomo libero non può starsene a dormire.», e «La gioventù invecchia,
l'immaturità si perde via via, l'ignoranza può diventare istruzione e
l'ubriachezza sobrietà, ma la stupidità dura per sempre.». E a proposito delle
donne, così scriveva in “Lisistrata”: «Non esistono al mondo creature più
sfrontate delle donne.», «Non si può vivere con questo accidente, né senza!», e
«Se cediamo, se diamo loro il minimo appiglio, non ci sarà più un mestiere che
queste, con la loro ostinazione, non riusciranno a fare. Costruiranno navi,
vorranno combattere per mare […]. Se poi si mettono a cavalcare, è la fine dei
cavalieri.». Il filosofo, critico e traduttore tedesco Friedrich Schlege (1772–1829)
ha scritto: «Lo spirito comico è una mescolanza dell'epico e del giambico.
Aristofane è Omero e Archiloco insieme. […] Ma spirito entusiastico e forma
classica restano sempre l'essenza dell'arte comica.».
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