sabato 27 agosto 2011

Crepuscolo del mondo borghese – Giuseppe Giacosa



Giuseppe Giacosa


Giuseppe Giacosa, nato in provincia di Torino il 21 ottobre del 1847 (e morto nel 1906 nel paese natale, oggi chiamato Colleretto Giacosa), fu spinto dal padre magistrato agli studi di legge che condusse sino alla laurea, per scegliere poi la letteratura e il giornalismo.


Amico di Verga, ne ispirò il teatro e ne fu influenzato: Verga scrisse “Rose caduche” (1869), pub­blicata postuma, che rappresentava un vacuo ambiente mondano ove gli amori passeggeri erano destinati a sfiorire come le rose; questa caducità sarà poi quella di Come le foglie (1900), il capolavoro ricco di crepuscolare sentimentalismo, in cui Giacosa rappresentava lo sfacelo economico e morale di un’oziosa ricca famiglia e la sua faticosa ricostruzione in una seria operosità. Giacosa, al quale Verga dedicò “Cavalleria rusticana”, era convinto che il testo verghiano fosse moderno per la teatralità drammatica, l’assenza di retorica e l’essenzialità. Diceva del­l’amico: «La novità di Verga non consiste nel fare di più, ma forse, nel fare di meno, certo nel fare diversamente».

Il primo successo di Giacosa fu il «bozzetto romantico» medievale in versi Una partita a scacchi (1873); seguirono altri drammi storici ma in seguito egli, pur nel suo naturalismo e patetismo, fu coinvolto alla maniera del contemporaneo Ibsen nei drammi sociali e nelle crisi psicologiche dell’attualità contemporanea. Scrisse, pertanto, Tristi amori (1887) – in cui nobilita il consunto tema dell’amore colpevole – e I diritti dell’anima (1894).

In quel periodo, in Francia e nei paesi scandinavi (sull’onda degli studi di Freud), da parte degli intellettuali si sviluppò un vivo rigurgito antinaturalista, nel recupero di una cruda analisi psicologica: negli stessi anni, Strindberg rappresentava i suoi cupi drammi psicoanalitici, pieni d’umana sofferenza.

Giacosa, molto amato e rappresentato anche dopo la sua morte da grandi artiste, quali la Duse e la Bernhardt (aveva saputo dar voce alla sensibilità femminile), ebbe molti amici i quali frequentarono la sua casa, che il poeta F. Pastonchi definì «grande arca».

I suoi drammi erano solidi nella forma scenica, avevano dialoghi sobri che si nutrivano delle parole della quotidianità e raccontavano spesso grigie e tristi esistenze, esaltando la sana moralità della borghesia piemontese e i valori del dovere, dell’onore e della responsabilità personale.

Ha fornito inoltre, in collaborazione con il lombardo L. Illica (che scriveva la prima stesura mentre Giacosa la traduceva in versi), i libretti delle grandi opere di Puccini La Bohème, Tosca e Madame Butterfly, guardando però più al valore scenico delle parole che all’eleganza dei versi. Il compositore lo soprannominò «Buddha» per la serenità del suo carattere e la maestosa corpulenza. In realtà, Giacosa non amava quest’attività; scrisse a Ricordi: «…è lavoro senza stimoli e senza calore interno… Qui nulla che sollevi lo spirito.».

Con la sua morte prematura, finì per sempre la collaborazione tra Illica e Puccini. (“La Sicilia” 22/10/2007)

P.S. La commedia Come le foglie di Giuseppe Giacosa è stata il cavallo di battaglia di tutti i grandi attori del Novecento. Rappresentata per la prima volta al Teatro Manzoni di Milano nel 1900 (il 31 gennaio) dalla compagnia Tina Di Lorenzo–Flavio Andò, è una commedia drammatica centrata sulla giovane protagonista Nennele, travolta dal tracollo economico del padre Giovanni provocato dalla seconda moglie Giulia, superficiale e spendacciona, e dalle dissolutezze del fratello Tommaso, afflitto dal demone del gioco. L'unico pronto ad aiutare la famiglia è il nipote Massimo, buono e serio, che aiuta Giovanni a vendere la casa e a ripianare i debiti, e lo aiuta a trovare un lavoro onesto e dignitoso. Nennele, da parte sua, lavora dando lezioni d'inglese nel tentativo di aiutare la famiglia in difficoltà ma la situazione sembra precipitare sempre più: Giulia inganna il marito e ha un amante, Tommaso pensa di sposare una ricca donna equivoca con la quale è indebitato e il padre, preso dalla necessità di guadagnare di che vivere, sembra non accorgersi di nulla. Massimo, che ama Nennele, a lei che si lamenta per l'indegno comportamento di Giulia, così dice: «Vuoi ribellarti contro le foglie che il vento disperde? Trattienile se puoi. Hanno tanta grazia, e tanta eleganza, e non sai dove vanno a finire. Quella gente là non finisce. Nessuno farà mai la bricconata concludente: svolazzano di viltà in viltà e dileguano nella viltà universale. Un bel giorno, ti volti, non ci sono più.» (atto terzo). Massimo si offre poi di sposarla. Nennele però è troppo infelice e rifiuta, meditando il suicidio; di notte, entra nella camera del padre che lavora per dargli un ultimo sguardo; il padre la vede e intuisce tutto: riesce a dissuaderla. Insieme si accorgono intanto che in giardino si aggira Massimo, turbato e preoccupato, che cerca di vegliare da lontano sull'amata Nennele.


Ricordo una splendida edizione televisiva di Come le foglie del 1958, diretta da Anton Giulio Majano, con Sarah Ferrati, Alberto Lupo, Virna Lisi, Antonio Battistella e Warner Bentivegna (fu il suo esordio televisivo).

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