Catullo – il primo dei grandi poeti latini – occupa certamente un posto d’onore nella letteratura amorosa perché è il poeta dell’Amore per eccellenza, il poeta che della passione per Lesbia (così chiamava nelle sue poesie Clodia) aveva fatto il centro e la sostanza della sua poesia.
Ricco, bello, colto ed elegante, Catullo fu un vero play–boy dell’antichità. Passava le vacanze nelle sue due ville di Tivoli e di Sirmione sul Garda, conducendo una vita dissoluta con tanti amici e amiche e con tanti amanti di entrambi i sessi (è noto il suo amore per il bel ragazzino Giovenzio). La sua vita cambiò completamente quando conobbe Clodia, una delle tre sorelle di Publio Clodio, crudele e dissoluto tribuno della plebe (ucciso poi in un combattimento di strada), oltre che moglie di Quinto Metello Celere che lei avrebbe forse avvelenato. Clodia, soprannominata Lesbia (da Lesbo che con Saffo era divenuta l’isola dell’amore), donna bella e sensuale, seppe legare il poeta a sé con un amore esclusivo, grandissimo e doloroso, fatto di insulti velenosi, di tristi separazioni e di strazianti riconciliazioni. Per la sua dissolutezza, Clodia fu vituperata da Cicerone nella nota orazione Pro Caelio.
Catullo amò Clodia, prima beatamente perché riamato, poi infelicemente perché tradito. I ripetuti tradimenti trasformarono l’amore di Catullo in un odio feroce, in cui si mescolavano sentimento deluso, tenerezza nostalgica, delirio sfrenato, disprezzo sferzante e sguaiatezza infelice. Catullo lasciò Clodia quando non ne poté proprio più di tutti i suoi tradimenti, ma iniziò per lui un amaro tramonto, favorito dalla sofferenza per il tradimento degli amici divenuti tutti amanti di Clodia e dal dolore per la morte del fratello al quale era legatissimo. Morì giovanissimo a Roma nel 54 a.C., minato dalla tisi e dalla malinconia. Da poeta distaccato e intimista, scrisse sempre e soltanto di sé e per sé, con verità di sentimenti e con integrità umana, trattando temi di grande libertà, quasi eversivi nel loro essere in rottura con i costumi del tempo.
Nel Carme 5, così scriveva:
«Godiamoci la vita, mia Lesbia, l’amore,
e il mormorio dei vecchi inaciditi
consideriamolo un soldo bucato.
I giorni che muoiono possono tornare,
ma se questa nostra breve luce muore
noi dormiremo un’unica notte senza fine.
Dammi mille baci e ancora cento,
dammene altri mille e ancora cento,
sempre, sempre mille e ancora cento.
E quando alla fine saranno migliaia
per scordare tutto ne imbroglieremo il conto,
perché nessuno possa stringere in malie
un numero di baci così grande.»
(Da “Le Poesie”, traduzione di Mario Ramous, Garzanti, Milano, 1996)
(Da “Le Poesie”, traduzione di Mario Ramous, Garzanti, Milano, 1996)
Dal 7° verso in poi «da mi basia milledeinde centum, / dein mille altera, dein secunda centum, / deinde usque altera mille, dinde centum / dein, cum milia multa fecerimus, […]» la lirica diviene straordinaria e i versi sono stati molto copiati. Sesto Properzio (47–15 a.C.), per esempio scriveva: «Se mi darai tutti i baci saranno sempre pochi» mentre Ludovico Ariosto (1474–1533) recitava nelle sue Rime: «[…] ma dolci baci, dolcemente impressi / ben mille e mille e mille e mille volte; / se potran contarsi anco fien pochi». E i tanti baci per Lesbia ritornano nel carme 7 di Catullo, ove il poeta scriveva: «Mi chiedi quanti tuoi baci, o Lesbia, mi bastino e avanzino. / Quanti sono i granelli di sabbia / nel deserto di Libia […] / o quante stelle che spiano i furtivi amori degli uomini, / tanti baci baciare è abbastanza / a Catullo impazzito d’amore, / tanti che i curiosi non possano / contarli […]».
Questi versi di Catullo hanno ispirato il titolo del libro Dammi mille baci. Veri uomini e vere donne nell’antica Roma di Eva Cantarella (Feltrinelli, Milano, 2009), professore ordinario di Istituzioni di Diritto romano presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Milano (ove insegna anche Diritto greco antico) ed esperta di morale e comportamenti sessuali dei romani.
Dei nostri lontani antenati ha scritto la saggista: «... sono meno monumentali di quanto una retorica che stenta a morire ce li ha troppo spesso presentati; meno solenni, meno severi, meno moralisti». Naturalmente la virilità per gli antichi romani era un’attività sganciata dal rigore (introdotto, soltanto dopo, dal Cristianesimo che iniziò a considerare l’amore non più come piacere ma come fondamento basilare del matrimonio e della procreazione): per l’uomo – a differenza della donna che era poco emancipata a meno di chiamarsi Clodia – la fedeltà coniugale non era un obbligo, lo stupro era all’ordine del giorno e praticamente privo di conseguenze penali (a meno che la violentata non fosse una sposata donna perbene), e il marito poteva portare in casa i figli nati al di fuori del matrimonio senza che la moglie potesse avere nulla da obiettare.
I riferimenti ai molti baci dell’amore della poesia di Catullo, mi spingono a dire qualche cosa sul bacio, un gesto pieno di grande valenza simbolica, immortalato nella letteratura e fonte d’ispirazione nelle arti figurative di tutti i tempi (e naturalmente nella Settima Arte), con il quale esprimiamo tutti i nostri più ardenti sentimenti e tutta la nostra passione amorosa. Alcuni scienziati americani hanno attribuito ai baci proprietà taumaturgiche: avrebbero la funzione di prevenire la carie (aumentano la salivazione), funzionerebbero da vaccino orale (mettono in circolo grandi quantità di germi), ridurrebbero gli incidenti automobilistici (rilassano il sistema nervoso), e addirittura allungherebbero la vita (chi bacia molto, ha la possibilità di vivere cinque anni più dei solitari non baciatori). James Joyce (1882–1941), scrittore irlandese ardito e sconcertante, scriveva: «Non c’è niente al mondo come un bacio lungo e caldo che ti arriva al cuore». Partendo dal presupposto che «la poesia parla a tutti, ma la poesia d’amore prima ancora di parlare... accende e possiede», Roberto Mussapi, nel suo libro Tanti baci ci vogliono a baciare. L’amore classico: poesie per giovani innamorati (Salani Editore, Milano, 2004), ha raccolto tutti i versi scritti dai poeti dell’antica Grecia e di Roma (compreso naturalmente anche Catullo).
Non posso non pensare, naturalmente, ai cento baci del film Nuovo Cinema Paradiso (1989) di Giuseppe Tornatore, noto regista siciliano di Bagheria, vincitore dell’Oscar e premiato a Cannes. Nell’immaginario paese di Giancaldo, durante i primissimi anni ’50, Alfredo, l’operatore del locale Cinema Paradiso, il saggio padre putativo del povero piccolo orfano siciliano Salvatore (soprannominato Totò), l’amico divenuto cieco e mutilato, dopo la sua morte lascia in eredità a Totò una “pizza” di pellicola. Lontano dalla Sicilia, Salvatore è divenuto un regista di successo dopo una fantastica e formativa esperienza in cabina di proiezione come operatore che lo ha educato alla vita, all’amore e al cinema. Salvatore è divenuto, però, un uomo solo e deluso. Quando proietta il film lasciatogli dall’amico degli infantili anni perduti, con stupore e nostalgico rimpianto, si accorge che esso contiene montati insieme i trailer dei baci dei film – tutti romantici e carichi di sensualità – che non aveva mai potuto mandare in proiezione durante la sua vita d’operatore perché il bigotto parroco, padre Adelfio (primo gestore del cinema Paradiso), glieli faceva tagliare considerandoli troppo lascivi. Dinanzi a quel fluire sullo schermo di tutti quei baci più o meno casti, più o meno voluttuosi, e di tutti i volti ispirati degli amati divi del passato (accompagnato dal fluire della straordinaria musica di Ennio Morricone), Salvatore ritorna al passato dimenticato e ai sopiti ricordi giovanili. Ebbene, quei baci – con tutta la loro grande forza emotiva – hanno rappresentato per me la parte più bella e originale di un film grande e bellissimo. Quest’ultima scena era così densa di fascino cinematografico e di gioioso incanto che qualcuno, in un primo tempo, aveva suggerito a Tornatore di dare al film il titolo di “Baci rubati”.
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