domenica 9 giugno 2013

Sofocle, Antigone, teatro greco di Siracusa e la regia di Cristina Pezzoli


Immagini da Antigone, per la regia di Cristina Pezzoli

Alternandosi con la tragedia di Sofocle, Edipo re, diretta da Daniele Salvo, e con la commedia di Aristofane, Donne al parlamento, diretta da Vincenzo Pirrotta, dal 12 maggio al 23 giugno, presso il Teatro Greco di Siracusa, si rappresenta Antigone di Sofocle, per la traduzione di Anna Beltrametti e per la regia di Cristina Pezzoli, con Ilenia Maccarrone (Antigone), Maurizo Donadoni (Creonte), Isa Danieli (l'indovino cieco Tiresia), Matteo Cremon (Emone) e Valentina Cenni (Ismene), musiche di Stefano Bollani (malinconiche e scandite dalle percussioni) e gli splendidi costumi di Nanà Cecchi. Un prologo, tratto dalle Fenicie di Euripide, mostra l’ombra di Giocasta che, ricordando la vicenda della famiglia di Edipo, permette agli spettatori di riprendere le fila della vicenda. Questa tragedia – che vede l'autorità contro il potere, la legge umana della polis contro la legge divina, e la legge morale non scritta contro la legge dello Stato – da sempre è stata considerata un'efficace metafora dei diritti dell'individuo in contrapposizione a quella di uno Stato totalitario.

Durante l'incontro nell’Auditorium del Museo “Paolo Orsi” con i registi del XLIX Ciclo di Rappresentazioni Classiche (organizzato dall'Associazione Amici dell’INDA), il Commissario straordinario Alessandro Giacchetti ha così commentato: «Sofocle è l'antico moderno, direi proprio che tutto il teatro è Arte che vive, sentimento e sensazioni inimitabili che alimentano il nostro animo. Tutta la tragedia e i sentimenti eterni di cui è fatta appartengono al nostro DNA. Ho già avuto modo di incontrare la regista Pezzoli durante le prove, ed ho visto quanta energia è capace di trasmettere ai suoi attori. Per me, ammiratore del Teatro Greco già da tempo, è tutto molto emozionante e vorrei trasmettere questo entusiasmo e questo impegno che trovo ogni giorno in Fondazione INDA a tutta la città, soprattutto in un momento di così grande difficoltà per la nazione tutta». In quell'occasione, la regista Cristina Pezzoli ha sostenuto: «Il regista è un esperto del testo, il suo è un lavoro al servizio del testo perché esso parli nella sua totalità, un testo che abbia la possibilità di parlare sempre. […] è giusto dare pari dignità ad entrambi [Creonte e Antigone], riequilibrare questo rapporto. Il mio compito di regista è, dunque, quello di dare voce anche alle ragioni di Creonte. Il suo no è al patto familistico, alle ragioni della famiglia della giovane donna. Creonte risponde no alla sepoltura perché pensa ad un ordine politico nuovo da dare alla città, vuole rifondare la patria. […] Non amo la recitazione melodrammatica. La sfida, oggi, nel recitare la tragedia, è proprio quella di recitare senza cadere nel sentimentalismo, eliminare la retorica, la vanità al servizio del racconto»
(http://www.siracusanews.it/node/37177).

La protagonista indiscussa è Ilenia Maccarrone, giovane attrice giarrese, al suo debutto negli spettacoli classici, la quale ha detto: «Per me è un onore e una sfida interpretare questo ruolo, Antigone è tradizionalmente intesa come vittima sacrificale, la regia cercherà stavolta di far comprendere le ragioni del tiranno e della vittima, individuando una terza via alla comprensione del gesto estremo della protagonista.». 
(http://palermo.repubblica.it/cronaca/2013/05/10/foto/edipo_e_antigone_siracusa_al_via-58478648/1/#1).

La regista Cristina Pezzoli – diplomata alla Scuola d'Arte Drammatica “Paolo Grassi” di Milano e regista da giovanissima, esperta di spettacoli classici, collaboratrice dello Stabile di Torino e direttore artistico dell’Associazione Teatrale Pistoiese/Teatro Manzoni di Pistoia, e regista di spettacoli lirici per il Festival Pucciniano e per il Teatro del Giglio di Lucca
(http://www.teatroteatro.it/personaggi_dettaglio.aspx?uart=98500) – nell'articolo “Cristina Pezzoli: ecco la mia Antigone”, ha voluto ribadire la diversità della sua Antigone: non più una santa e una ribelle in antitesi a Creonte, il tiranno, ma una donna portatrice di una verità diversa ma non priva di dignità; ha detto la Pezzoli di aver voluto dare un'assoluta priorità al testo e alla parola: «Pericolo di questo testo è che ci si appiattisca su versioni ormai desuete, la colpa da un lato (Creonte) e la vittima dall'altro (Antigone). Il nostro tentativo sarà quello di fondere le ragioni di entrambi. La tragedia è un modo importante per parlare del comune sentire dell'uomo di oggi.» 
(http://chairmag.it/2013/05/cristina-pezzoli-ecco-la-mia-antigone/).

Ne “La cornice del Teatro Greco per il dramma umano di Antigone” del 18 maggio del 2013
(Rubrica: Arti e Spettacolo, Teatro & Cinema), Maria Galluà ha evidenziato come la regista Cristina Pezzoli non abbia enfatizzato i toni tragici ma abbia dato «una chiave di lettura più vicina ad un pubblico moderno che vuol vedere nella tragedia qualcosa che riporti al presente, che vuole comprendere i dissidi umani che conducono all’infelicità», avvicinando così a noi «un autore antico e “grande” come Sofocle». Tra i vari personaggi, la Galluà evidenzia come in scena spicchi una guardia (impersonata da un «impeccabile» Gianluca Gobbi), che «mette davanti agli occhi dello spettatore l’uomo medio che è incapace di comprendere cosa sta accadendo fino in fondo, interessato solo alla propria salvezza e al proprio tornaconto» 
(http://portale.criluge.org/?p=18278).

In “Antigone, l'eroina oltre gli stereotipi” (del 18 maggio 2013), Anna Mallamo scrive: «Antigone: poche eroine appartengono così profondamente e durevolmente al patrimonio collettivo di miti, icone, simboli», parla d'«icona della ribellione, in nome del cuore e del sangue, contro il potere e la fissità arida delle leggi» ed evidenzia anche l'intendimento della regista Cristina Pezzoli «di rompere la crosta di sovrapposizioni, interpretazioni, simbolismi e ridare al personaggio di Antigone una sua verità fondamentale, il farsi delle sue ragioni nel dialogo con Creonte». La regista pone «in un confronto – serrato, linguisticamente percussivo – soggetto a continuo e reciproco scacco» le ragioni della philia (come affetto, appartenenza, identità e legame) che animano l'una e l'altro, fronteggiandosi. Scrive la Mallamo che Antigone (con Ilenia Maccarrone «spigolosa nel rendere il rigore adamantino dell'eroina») riesce bene ad accampare «la priorità delle leggi non scritte e antiche della pietas e dei doveri verso i defunti e i consanguinei» mentre Creonte (interpretato da un «solido» Maurizio Donadoni) le oppone con forza «la sua fede, necessaria fede, nei nomoi, le leggi umane, il diritto fondato sulla logica e il patto sociale» 
(http://www.gazzettadelsud.it/news/46973/Antigone--l-eroina--oltre.htm).

In “Un'Antigone con poco pathos al teatro greco di Siracusa” (del 28 maggio 2013), Giuseppe Distefano scrive: «Un gigantesco muro di cemento con, al centro, un portone. Porte divelte, disposte come scale, s'allungano sulla sabbia bianca del palcoscenico del teatro greco. Da una buca emergerà l'Ombra di Giocasta, figura tratta dalle Fenicie di Euripide, che funge da prologo sintetizzando le tragiche vicende della famiglia di Edipo. Quindi, all'aprirsi dell'enorme portale centrale, appariranno, via via, tutti i personaggi che animano l'Antigone
(http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2013-05-28/unantigone-poco-pathos-teatro-091612.shtml?uuid=Abrd2uzH).

Antigone di Sofocle ebbe la sua prima assoluta nel 442 a.C., presso il Teatro di Dioniso in Atene, e appartiene al ciclo dei drammi tebani ispirati alla drammatica vicenda di Edipo, re di Tebe, e della sua progenie (seguiranno altre due tragedie, l'Edipo re e l'Edipo a Colono, che in realtà raccontano gli eventi precedenti). Ambientata davanti al palazzo reale di Tebe, viene narrato come la lotta per la successione al trono di Tebe si sia conclusa con la morte di entrambi i pretendenti, i due fratelli Eteocle e Polinice, figli di Edipo e Giocasta. Subentra lo zio Creonte, che decreta una giusta sepoltura per Eteocle (che aveva difeso la città) ma decide per editto la non sepoltura del cadavere di Polinice (ritenuto un aggressore della città), lasciato alle intemperie, ai cani e agli uccelli rapaci. Nel prologo Antigone racconta alla sorella Ismene (entrambe sono frutto dell'incesto involontario di Edipo con la madre Giocasta) le decisioni di Creonte e le comunica la sua irrevocabile intenzione di opporsi all'editto di Creonte, dando una sepoltura al fratello Polinice. Riceve da Ismene il rifiuto ad aiutarla e si dispone ad agire da sola. Sorpresa dalle guardie mentre ricopre di sabbia il cadavere del fratello, Antigone viene arrestata e condotta dinanzi a Creonte, cui confessa il tradimento, appellandosi alle leggi non scritte ma eterne degli Dei. Anche Ismene viene coinvolta e accusata di complicità. Compresso fra la tutela del suo potere e prestigio personale e la decisa determinazione di Antigone, Creonte la condannata a essere chiusa in una grotta mentre (anche per l'intercessione della sorella) salva Ismene. E Creonte non cede neppure dinanzi alle suppliche del figlio Emone, fidanzato di Antigone, e alle invettive dell’indovino Tiresia. Ne segue una tragedia immane: Antigone s’impicca (come già aveva fatto la madre Giocasta), muore suicida anche Emone e la madre, e tutto il popolo di Tebe è devastato da una tremenda pestilenza. I brani della tragedia da me citati sono tratti dalla versione di Ettore Romagnoli 
(ved. http://www.filosofico.net/antigonesofocle42.htm).

Nel Prologo la scena si svolge sull'acropoli di Tebe, dinanzi alla reggia, ed è l'alba del giorno dopo che Eteocle e Polinice, i figli di Edipo, si sono uccisi vicendevolmente nel combattere per la conquista del trono di Tebe. Dalla reggia escono Antigone e Ismene. Antigone informa la sorella che Creonte, il nuovo tiranno della città, vuol dare onoranze funebri al corpo di Eteocle ma è intenzionato a lasciare insepolto quello di Polinice: «Non sai tu che Creonte, onor di tomba / concesse all'uno dei fratelli nostri, / l'altro mandò privo d'onore? Etèocle, / come la legge e la giustizia vogliono, / sotto la terra lo celò, ché onore / fra i morti avesse di laggiù; ma il corpo / di Poliníce, che perì di misera / morte, ha bandito ai cittadini, dicono, / che niun gli dia sepolcro, e niun lo gema, / ma, senza sepoltura e senza lagrime, / dolce tesoro alle pupille resti / degli uccelli, che a gaudio se ne cibino.». Antigone narra anche che, con un bando, Creonte ha proclamato che chiunque avesse trasgredito, sarebbe stato lapidato dal popolo: «[…] Son questi i fatti. E presto / mostrar dovrai se tu sei generosa, / o se, da buoni uscita, sei degenere.». L'editto non è stato ancora annunciato ufficialmente ma Antigone è certa che sarebbe stato emanato; afferma che tenterà di dare comunque sepoltura a Polinice, sfidando l'ordine del re, e domanda l'aiuto della sorella. Intimorita, Ismene si rifiuta: «Ahimè!, sorella, al padre nostro pensa, / che odïato morì, per le sue colpe / ch'egli stesso scoprì, d'onore privo, / e con la man sua stessa ambe le luci / si svelse; e poi la madre sua, sua moglie - / di nomi orrida coppia! - a un laccio stretta, / scempio fe' di sua vita; e i due fratelli, / terza sciagura, l'un l'altro s'uccisero / in un sol giorno, miseri, e compierono / con reciproche mani il triste fato. / Ora noi due, sole rimaste, vedi / quanto sarà la nostra fine orribile, / se i decreti del principe e il potere / trasgrediremo, della legge a scorno. / Ed anche a ciò convien pensare: femmine / siamo, e non tali da lottar con gli uomini; / e assai più forti son quelli che imperano; / e obbedire dobbiam dunque ai loro ordini, / e se fosser più duri. Io dunque, ai morti / chiedo perdono, poi che son costretta, / ed ai potenti obbedirò: ché ardire / oltre le proprie forze, è cosa stolta.». Visto che Ismene teme quel che la città ordina, Antigone comprende che dovrà superare da sola l’impresa: «[…] / Sepolcro io gli darò; bella, se l'opera / avrò compiuta, mi parrà la morte. / E cara giacerò presso a lui caro, / d'un pio misfatto rea. […] / […] / Tu tal pretesto adduci: io vado, e il tumulo / innalzo intanto al fratel mio diletto.».

A questo punto entra il Coro, costituito da una schiera di grandi vecchi, che – dopo alcune evoluzioni accompagnate dal canto – si fermano dinanzi all'ara di Diòniso. Gli anziani tebani sono in trionfo, perché l’esercito invasore capitanato da Polinice è stato sconfitto, e annunciano  l'arrivo del nuovo re Creonte: «[…] / Soltanto i due miseri figli / d'un grembo, d'un padre, le lancie / entrambe vittrici, appuntando / al seno un dell'altro, retaggio / di morte comune riscossero.». Dalla reggia esce Creonte, che si proclama re di Tebe e che decreta che il corpo di Polinice deve essere lasciato insepolto e deve essere punito con la morte chiunque si opponga al suo editto: «[…] / Ed ordini conformi intorno ai due / figli d'Èdipo, bandir feci: Etèocle, / che per questa città, poi che ogni prova / di valore compie', pugnando cadde, / si seppellisca, e quanti onori spettano / ai più illustri defunti, a lui si rendano; / ma suo fratello, Poliníce, dico, / l'esule che tornò, che il patrio suolo / strugger volea col fuoco, e i Numi aviti, / che del sangue fraterno abbeverarsi / voleva, e trarre gli altri in servitù, / costui col bando imposi alla città / che niun gli dia sepolcro, e niun lo pianga, / ma si lasci insepolto, e, divorato / dagli uccelli e dai cani, e, deturpato, / sia visibile il corpo. […]». Entra con passo lento, esitante e timoroso, un soldato, uno dei custodi posti a guardia del cadavere di Polinice, che informa Creonte che qualcuno ha disobbedito al suo ordine, coprendo di sabbia il corpo di Polinice e compiendo il rito funebre: «Te lo dirò. Qualcuno ha seppellito / poco fa quel defunto, ed è scomparso: / sopra le membra sparse arida polvere, / tutte compie' le cerimonie debite.». Furente, il sovrano, è convinto che il reato sia opera di cittadini dissidenti: «[…] / Il vero è questo: da gran tempo v'erano / uomini che il poter mio sopportavano / di mala voglia in Tebe, e mormoravano, / scotendo il capo di nascosto, e il collo / non tenean, come giusto è, sotto il giogo, / tanto che me gradissero. Da questi, / lo intendo, per mercede, indotti furono / quei che l'opra compieron: ché fra gli uomini / cosa non v'ha più trista del denaro: / questo perfino le città distrugge, / questo discaccia dalla patria gli uomini, / questo è maestro che perverte l'anime / oneste a compiere opere malvage, / d'ogni ribalderia questo la pratica, / d'ogni empietà l'ardire apprese agli uomini. / Ma quanti per mercede a ciò s'inducono, / arriva il giorno che la colpa espiano. / […]». Creonte congeda la guardia, ordinando di rintracciare i colpevoli, e rientra nella reggia.

Il Coro esplode in un elogio dell’ingegno umano e dell'uomo, che è molto al di sopra delle cose più mirabili del mondo: l'uomo ha, infatti, saputo sottomettere al proprio potere la terra e gli animali, ha organizzato la propria vita tramite le leggi e ha trovato la cura per molte malattie. L'essere umano può, però, rivolgere l’ingegno umano al male, distruggendo tutto ciò ch'egli stesso ha costruito: «Molti si dànno prodigi, e niuno / meraviglioso più dell'uomo. / […] / L'infaticato pensiero, e i suoni / vocali rinvenne, e le norme / del viver civile, e a fuggire / gli etèrei dardi / d'inospiti ghiacci, / di piogge nemiche. / Gran copia d'astuzie possiede; / né verso il futuro, se mezzi / di scampo non vede, s'inoltra. / […] / Oltre ogni umana credenza, il genio / dell'arti inventore possiede; / ed ora si volge a tristizia, / ed ora a virtù. / […]».

Si avanza Antigone, trascinata dalla guardia, la quale racconta che – dopo aver rimosso la sabbia dal corpo di Polinice ed essere rimasto in osservazione – ha visto la fanciulla ritornare per seppellire di nuovo il cadavere: «Questa è colei che l'opera compieva: / costei sorpresa abbiamo, che al cadavere / dava sepolcro. Ma dov'è Creonte?». Giunge Creonte e la guardia continua: «[…] / E reco a te questa fanciulla, còlta / che la tomba adornava; e non fu d'uopo / di trarre a sorte: mia fu la fortuna, / non d'altri. E adesso, o re, prendi costei, / come ti piace, esàminala, giudicala; / […] / Vidi costei che contro il tuo divieto / il corpo seppellía: non parlo chiaro? / […] Ed ecco, all'improvviso / una procella sollevò, flagello / sceso dal cielo, un nugolo di polvere, […] / la fanciulla fu vista. E si lagnava / con grida acute di doglioso augello / allor che degl'implumi orbo il giaciglio / scorge nel vuoto nido. Essa del pari, / come vide il cadavere scoperto, / ruppe in gemiti; e contro quei che l'opera / compie', lanciava imprecazioni orrende; / e sùbito raccolta arida polvere, / lo coperse; e levata alta una brocca / bella, di bronzo levigato, serto / fece di tre libagïoni al morto. / Noi che vedemmo, ci scagliammo, e sùbito / la fanciulla afferrammo. Ed essa, nulla si sbigottì. / […]». Antigone ammette il fatto ma afferma che il seppellimento del cadavere è un rito eterno voluto dagli dei, che sono di molto superiori per potere al sovrano stesso: «Non Giove a me lanciò simile bando, / né la Giustizia, che dimora insieme / coi Dèmoni d'Averno, onde altre leggi / furono imposte agli uomini; e i tuoi bandi / io non credei che tanta forza avessero / da far sì che le leggi dei Celesti, / non scritte, ed incrollabili, potesse / soverchiare un mortal: ché non adesso / furon sancite, o ieri: eterne vivono / esse; e niuno conosce il dì che nacquero. / […] / Tu dirai che da folle io mi comporto; / ma forse di follia m'accusa un folle.». Il sovrano reagisce con furia per il mancato rispetto del suo editto: «[…] / Ma figlia sia d'una sorella, o stretta / a me di sangue più di quanti Giove / protegge sotto i miei tetti, all'orribile / sorte sfuggire non potrà, né seco / la sua sorella: ché non men di questa / dell'averlo sepolto io quella incrìmino. / Chiamatela: ché in casa or or la vidi, / che furïava, uscita era di senno. / […]». E Antigone sfida lo zio: «Che dunque indugi? Delle tue parole / niuna m'è grata, e mai non mi sarà / grata: anche a te, così, piacer non possono / le mie. Ma donde mai gloria più fulgida / acquistare potrei, che al mio fratello / dando sepolcro? E lode a me darebbero / tutti costoro, se terror le lingue / non rinserrasse: privilegi ha molti / la tirannide; e questo anche fra gli altri: / che dire e far ciò ch'essa vuole può. / […] / Non è turpe onorare un consanguineo. / […] / Non un servo è il caduto: è mio fratello / […] /Ade per tutti quanti i riti brama. / […] / Chi sa se pio questo non sembri agl'Inferi? / […]». Creonte le rimprovera che – lui vivo – «mai donna non comanderà» e gli affetti mai prevarranno sulle questioni di Stato. Compare adesso Ismene, pronta a morire insieme alla sorella («Se consente costei, confesso: complice / sono, e con lei partecipo la colpa.»), ma Antigone – ricordando che nel momento del bisogno l'aveva lasciata sola – rifiuta quel suo appoggio: «Ma non consente la giustizia: ché / né tu volesti, né compagna io t'ebbi. / […] / Morir meco non devi, e far tuo quello / che non compievi; la mia morte basta. / […] / Salva te stessa: invidia io non ne avrò. / […] / Tu la vita scegliesti, ed io la morte. / […] / Tu sembrasti a taluni, ad altri io saggia. / […] / Fa' cuor! Tu vivi; e da gran tempo è morta / l'anima mia: potrà giovare ai morti.». E Ismene rimprovera allora a Creonte: «La sposa di tuo figlio ucciderai?», e irriducibile Creonte le risponde: «Altri solchi ci sono, e arar si possono»; Ismene però ribatte: «Ma non com'era questa a quello adatta!», e lo zio ribadisce: «Pei figli miei detesto tristi femmine!». Creonte pone poi entrambe in catene ma condanna soltanto Antigone. Antigone e Ismene vengono trascinate dentro, mentre Creonte s'allontana.

Sconsolatamente il Coro si lagna della fragilità della vita umana, segnata da una sfilza di sventure al di là di ogni comprensibile disegno, e così conclude: «[…] / Celebre è quella parola / detta da un uom di saggezza: / Spesso il male sembra un bene / ad un uomo a cui la mente / volse un Nume alla rovina. / E da rovina ben poco tempo lontano resta.». Compare, a questo punto, Emone, «il più giovin rampollo» dei suoi figli e promesso sposo di Antigone, che esprime al padre Creonte tutte le sue preoccupazioni ma il sovrano è irremovibile: obbediente, Emone deve sottoporsi al suo volere: «Mai la lusinga del piacer di femmina / di senno uscire non ti faccia, o figlio. / Freddo, sappi, è di femmina l'amplesso / che sia trista compagna del tuo talamo: / piaga peggior non c'è d'un tristo amore. / […] / Ché se i parenti miei vivere io lascio / senza più freno, che faran gli estranei? / […] / […] È necessario dunque / difendere le leggi, e a nessun patto / consentir che una femmina ci vinca. / Se cadere si dee, meglio cadere / per man d'un uomo: dir non si potrà / che noi fummo più fiacchi d'una femmina.». Emone tenta di controbattere e gli dice: «[…] / La tua presenza, sbigottiti rende / i cittadini, sì che non ti dicono / mai ciò che udire non ti piace: invece / io tutto posso udir, quanto nell'ombra / dicendo van: che la città commisera / questa fanciulla, immacolata più / d'ogni altra donna, e che compiuta ha l'opera / la più nobile, e in cambio ne riceve / la più misera morte. / […]». Creonte minaccia Emone, che tenta di fargli cambiare parere senza che per questo smetta di essere saggio e che gli dice: «Città non è quella ove uno solo può. / […] / Bel sovrano saresti, in un deserto!». Infastidito e accusandolo di essere «servo d'una femmina», il padre lo minaccia di uccidere Antigone dinanzi ai suoi stessi occhi: «Davvero? Ah! per l'Olimpo, a te l'ingiurie / pro' non faranno, sappilo. –  Recate / qui l'odïosa femmina: morire / deve innanzi al suo sposo, al fianco suo.». Disgustato e infelice, Emone gli risponde: «E sia, morrà; ma non morrà già sola. / […] / Ella a me presso non morrà, né tu / il viso mio vedrai più: […]», ed esce furibondo. Creonte condanna Antigone a essere seppellita in una grotta: «In un sentiero dove uomo non trànsiti /  la condurrò, la seppellirò viva / in un antro roccioso; e accanto a lei / tanto cibo porrò, quanto sol basti / ad evitare il sacrilegio, a rendere / immune Tebe dal contagio.».

Il Coro si abbandona a cantare Amore, che con la sua forza rende pazzi gli uomini che ne sono colpiti («e i cuor delirano che tu pervadi!»). Dalla reggia esce, in mezzo alle guardie, Antigone condotta al supplizio, che lamenta (e il Coro è solidale con lei) il triste destino di una giovane donna destinata a non conoscere il matrimonio: «[…] alle mie soglie / inno di nozze non suonò, ché sorte / non m'ebbi d'Imenèi: / io sarò sposa al Nume della Morte. / […] / […] Oh misera! / Ospite non di vivi / né di morti, non d'ombre / né d'uomini sarò. / […] / E tu fratello, quali tristi nozze / avesti in tuo retaggio! / Morendo, me struggesti / ch'ero tuttora in vita. / […] / Non pianto, non amici, / non inni nuzïali: a me s'appresta / sol questa via funesta.». Compare bruscamente Creonte, che avanza il desiderio di non contaminarsi del crimine odioso agli dei di uccidere una consanguinea ma sostiene la decisione di gettare Antigone in una grotta, affinché viva lontana da tutti: «[…] Nella profonda tomba, / come v'ho imposto, sia rinchiusa, e sola / vi sia lasciata, e ch'ivi morir debba, / o in quell'antro restar viva sepolta.». Antigone si dispera, immaginandosi sola ed emarginata per il resto dei suoi giorni: «[…] / Ultima ora io fra loro, e assai più misera, / discendo, prima che sia giunto il termine / della mia vita. E, lì discesa, spero / giunger diletta al padre, a te diletta, / madre, diletta, o mio fratello, a te. / […] / […] ma, così tapina, / dagli amici deserta, io viva scendo / alle fosse dei morti.». Antigone esce, portata via dalle guardie.

Il Coro passa in rassegna alcuni personaggi mitologici che avevano avuto in sorte l'esser imprigionati, tra i quali la bella Dànae e l'iracondo figlio di Driante e re degli Èdoni. Appare adesso Tiresia, il vecchio indovino cieco guidato per la mano da un fanciullo, che si rivolge a Creonte affermando che la città è stata resa impura per la mancata sepoltura di Polinice (come Antigone, Polinice è nipote di Creonte e quindi un consanguineo) e invitandolo ad abbandonare la sua inflessibilità: «[…] Queste / funeree profezie d'ambigui riti / io da questo fanciullo appresi allora: / ché guida agli altri io sono, e questi a me. / E tal morbo funesta la città / pel tuo disegno: ché gli altari e l'are / pieni son della carne, che vi spargono / cani ed uccelli, dell'esposto misero / figlio d'Èdipo; e quindi avvien che i Numi / né preci più né sacrifizi accettano / da noi, […] / […] / Perciò, figlio, fa senno: a tutti gli uomini / è possibile errar; […] / […] / […] Or tu / cedi al defunto, non colpire un morto. / Sarà prodezza uccidere un cadavere?». Il sovrano accusa Tiresia di agire per tornaconto personale, mercanteggiando e ricercando il lucro («La genìa dei profeti avida è tutta.»), e riafferma il suo potere anche contro i grandi poteri dell’indovino. Andando via, Tiresia gli consegna un ultimo avvertimento: Creonte deve stare molto attento perché le Erinni dei Numi e dell'Averno hanno deciso di agire contro di lui: «e un uom dal sangue tuo nato, cadavere / tu dovrai dare, in cambio d'un cadavere». Turbato dalle dure parole dell'indovino («che mai non disse il falso»), il re si consulta con il Coro degli anziani e decide di dare sepoltura al cadavere di  Polinice e di liberare Antigone «dalla stanza sotterranea». Creonte esce in fretta coi suoi seguaci.

Il Coro è lieto per il ravvedimento di Creonte e prega il dio Bacco, figliuolo di Giove, di guardare con benevolenza alla sua città prediletta, invasa tutta da un «morbo veemente». Giunge correndo, esterrefatto, un Messo che informa il Coro degli ultimi tremendi avvenimenti accaduti (gli ordini di Creonte non sono arrivati in tempo!). Entra la moglie di Creonte, Euridice, che ha sentito della sciagura ed è corsa, sostenuta dalle sue ancelle. Il messo osserva: «[…] Era Creonte / degno un tempo d'invidia, a quanto sembrami, / ché dai nemici libera fe' questa / terra cadmèa, solo sovrano fu / di tutto il regno, e lo guidava, e florido / era per copia di bennati figli. / Ed or, tutto ha perduto. E quando un uomo / non ha più gioie, vivo io non lo reputo, / ma spoglia inane che respiri. […]», e racconta che, seppellito Polinice, Creonte aveva udito i lamenti del figlio Emone provenire dalla grotta in cui era stata segregata Antigone. Erano entrati: «E noi guardammo, come l'ansio re / ordine dava; e dalla tomba al fondo / pel collo stretta la fanciulla, avvinta / vedemmo a un laccio di ritorto lino, / ed Emon presso lei, che, abbandonato, / a mezza vita la stringea, le nozze / piangea distrutte nell'Averno, e l'opere / empie del padre, e l'infelice talamo.». Visto il re, Emone aveva prima tentato di colpirlo con la spada ma poi aveva rivolto l’arma contro di sé: «Ma il padre via fuggì; né quei lo colse; / e con se stesso irato allora, oh misero!, / si gittò su la spada, e a mezzo il petto / se la confisse. E, ancora in sé, si stringe, / col braccio già mancante, alla fanciulla, / e sbuffa, e avventa su la bianca guancia / di rosse stille impetuoso fiotto. / E poi che i riti nuzïali, o misero, / nell'Averno compie', giace cadavere / a un cadavere avvinto; e insegna agli uomini /che d'ogni male, avventatezza è il pessimo.». Alla fine del racconto di queste orrende notizie, Euridice fugge di corsa rientrando nel palazzo.

Entra Creonte seguito dai famigli che recano il cadavere d'Emone su una bara («un insigne segnacolo / dell'error che fu suo, non d'altrui») e lamentando la propria stoltezza che è stata responsabile della morte del figlio: «O duri cruenti trascorsi / di folle pensiero! / Uscir da una stessa progenie / vedete uccisori ed uccisi. / Ahimè, dei miei consigli esito tristo! / Figlio, immaturo ad immatura morte, / ahimè, ahimè!, / tu soccombesti, tu sparito sei, / non per i tuoi delirî, anzi pei miei!». E arriva un secondo messo che, inorridito, riferisce che anche Euridice si è tolta la vita: «Morta è la sposa tua, la madre, o misero, / di questo morto: s'è trafitta or ora!». La rovina del re è completa: si definisce assassino del figlio e della moglie e, pieno di disperazione, invoca la morte liberatoria anche per sé: «E tu, che le nuove crucciose / recasti, che dici? / Ahimè, che tu finisci un uom defunto!». Si aprono le porte e si vede Euridice morta, uccisasi con una lama («Sotto il fegato, come il lagrimevole / scempio del figlio udí, s'immerse un ferro.»), dopo aver imprecato contro il marito, responsabile della morte del figlio. E Creonte piange e si lamenta: «Ahimè, ahimè! / Per il terrore abbrivido. / Perché, perché nessun giunge a trafiggermi / col ferro aguzzo il petto? Ahi, me tapino, / in qual trabocco orribile destino! / […] / Non sarà che da me questa colpa / su alcun altro ricada degli uomini. / Io l'uccisi, ecco il vero! […] / […] / Deh, giunga, giunga / infine la bellissima / fra tante morti onde reo sono, il termine / dell'ora mia fatale giunga, sì / ch'io scorgere non debba un altro dì. / […] / Via questo insano conducete, l'uomo / che te contro sua voglia uccise, o figlio, / e te, sposa, oh me misero! Lo sguardo / a chi dei due volger non so, né dove / trovi un sostegno: ché rovina è tutto / a me dintorno, e sopra il capo mio / un destino implacabile piombò.». E Creonte si allontana seguito dai suoi principi, mentre il Coreo conclude la tragedia così dicendo: «Arra (promessa) prima del viver felice / è saggezza; né mai sacrilegio / contro i Numi ti macchi. I gran vanti / dei superbi, da duri castighi / colpiti, ammaestrano / troppo tardi, a far senno, i vegliardi.».

Termina così questa tragedia, nella quale si fronteggiano (sino all'inevitabile conclusione finale) Creonte – un sovrano dispotico, rigido nelle sue idee e geloso del proprio potere e della propria immagine, maschilista nel non voler sacrificare la sua virilità dando ragione a una donna – e Antigone – dissidente perché non vuole sottomettersi alla legge del re ma anche ribelle nel non volersi sottomettere da donna alla volontà dell’uomo, in accordo alle convenzioni del tempo e allo stereotipo della debolezza femminile.

Soltanto dopo il precipitare degli eventi, Creonte riconosce la sua arroganza e i suoi errori, ma questo soltanto per la catastrofe subita e non per un'evoluzione psicologica, che non esiste minimamente nella tragedia. Antigone diventerà invece l'eroina che ha saputo affrontare la punizione e la morte per tutelare gli affetti familiari, ed è più evoluta di Creonte nel suo credere alla superiorità della legge morale che domina nel cuore dell'uomo (molti secoli più tardi il filosofo tedesco Immanuel Kant dirà: « Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me.», frase scritta anche sulla sua lapide).

Per due diverse, più moderne e stupende, interpretazioni di Antigone, vedere due miei precedenti articoli:
- Jean Anouilh e la fiera “ribelle” Antigone 
(http://silvia-iannello.blogspot.it/2011/12/jean-anouilh-e-la-fiera-ribelle.html)
- Antigone, Sofocle e Valeria Parrella 
(http://silvia-iannello.blogspot.it/2013/04/antigone-sofocle-e-valeria-parrella.html) 

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