martedì 25 giugno 2013

L’amore di Tagore come una canzone


   Rabindranath Tagore                 William Butler Yeats


Rabindranath Tagore (versione anglicizzata di Rabíndranáth Thákhur) nacque a Calcutta il 6 maggio del 1861 e fu poeta, scrittore, drammaturgo e filosofo ma anche pittore e musicista. Saggio pensatore e compositore di «massime per una vita armoniosa», fu un mistico molto vicino a Dio. Ho scelto le seguenti due poesie tra le sue più belle.

VI. L’uccello prigioniero nella gabbia
L’uccello prigioniero nella gabbia,
l’uccello libero nella foresta:
quando venne il tempo s’incontrarono,
questo era il decreto del destino.
L’uccello libero grida al compagno:
«Amore mio, voliamo nel bosco!»
L’uccello prigioniero gli sussurra:
«Vieni, viviamo entrambi nella gabbia».
Dice l’uccello libero: «Tra sbarre,
dove c’è spazio per stendere l’ali?»
«Ahimè», grida l’uccello nella gabbia,
«Non so dove appollaiarmi nel cielo».

L’uccello libero grida: «Amore mio,
canta le canzoni delle foreste».
L’uccello in gabbia dice:
«Siedi al mio fianco,
t’insegnerò il linguaggio dei sapienti».
L’uccello libero grida: «No, oh no!
I canti non si possono insegnare».
L’uccello nella gabbia dice: «Ahimè,
non conosco i canti delle foreste».

Il loro amore è intenso e struggente,
ma non possono mai volare assieme.
Attraverso le sbarre della gabbia
si guardano e si guardano, ma è vano
il loro desiderio di conoscersi.
Scuotono ansiosamente le ali e cantano:
«Vieni vicino a me, amore mio!».
L’uccello libero grida: «E’ impossibile,
temo le porte chiuse della gabbia».
L’uccello in gabbia sussurra: «Ahimè,
le mie ali sono morte e impotenti».

XVI. Le mani si stringono alle mani
Le mani si stringono alle mani
e gli occhi indugiano sugli occhi:
così comincia la storia
                                   dei nostri cuori.
è la notte della luna di marzo;
nell’aria un dolce profumo di henna (pianta aromatica subtropicale);
il mio flauto giace per terra
e la tua ghirlanda di fiori
                                   non è terminata.
Questo amore fra me e te
è semplice come una canzone.

Il tuo velo color zafferano
inebria i miei occhi, la corona
di gelsomini che tu intrecci
mi commuove come una lode.
è un gioco di dare e trattenere,
di svelare e di nuovo velare;
di sorrisi e di timidezze,
e di dolci inutili lotte.
Questo amore fra me e te
è semplice come una canzone.

Nessun mistero al di là del presente;
nessuna lotta per l’impossibile;
nessuna ombra dietro l’incanto;
nessuna ricerca nel buio.
Questo amore fra me e te
è semplice come una canzone.

Non vaghiamo oltre le parole
per cercare l’eterno silenzio;
non leviamo le mani nel vuoto
per cose al di là della speranza.
Ciò che diamo e otteniamo ci basta.
La gioia non abbiamo schiacciata
per spremere il vino del dolore.
Questo amore fra me e te
è semplice come una canzone.
(Da: Il Giardiniere, in “Tagore - Poesie – Gitanjali / Il Giardiniere”, traduzione di Girolamo Mancuso, Newton Compton Editori, Roma, 1971)

La prima poesia è veramente straordinaria e rappresenta in modo magico ciò che accade quando un amore impossibile si svolge tra due esseri profondamente diversi che pur s’amano: sono come due uccellini, uno aduso alla libertà dei «canti della foresta» e uno dalle «ali morte e impotenti» ma abituato al «linguaggio dei sapienti». Questi due amanti «si guardano e si guardano, ma è vano / il loro desiderio di conoscersi»; infatti, non possono amarsi e nonostante il loro amore sia «intenso e struggente… non possono mai volare assieme».

Nella seconda poesia, Tagore canta invece la semplicità dell’amore che è come una canzone che unisce i due amanti, le cui mani si stringono tra loro e i cui occhi s’incontrano nello sguardo; tra loro si stabilisce l’eterno seducente gioco amoroso del dare e del non dare, del mostrare e del nascondere, senza però misteri particolari, senza dure lotte, senza ombre dietro l’incanto, senza silenzi trascendentali e infine senza pretendere nulla che sia «al di là della speranza».

In un’altra poesia, piena di desiderio amoroso, nella cornice di una Natura complice, Tagore scrive: «Quando a notte vado sola al mio convegno d’amore, / gli uccelli non cantano, il vento non soffia, / le case ai lati della strada sono silenziose. / Sono i miei bracciali che risuonano a ogni passo, / e io sono piena di vergogna. / […] / è il mio cuore che batte selvaggiamente – / e non so come acquietarlo. / Quando il mio amore viene e si siede al mio fianco, / quando il mio corpo trema e le palpebre s’abbassano, / la notte s’oscura, il vento spegne la lampada, / e le nuvole stendono veli sopra le stelle. / è il gioiello al mio petto che brilla e risplende. / E non so come nasconderlo.» (IX). E l’amore sensuale e la Natura complice ritornano in un’altra lirica: «Vieni come sei, non indugiare a farti bella. / Se la treccia s’è sciolta dei capelli, / se la scriminatura non è dritta, / se i nastri del corsetto non sono allacciati, / non badarci. / Vieni come sei, non indugiare a farti bella. / Vieni sull’erba con passi veloci. / […] / Non vedi le nubi che coprono il cielo? / […] / Vieni come sei, non indugiare a farti bella. / Se la ghirlanda non è stata intrecciata, che importa; / se il braccialetto non è chiuso, lascia fare. / Il cielo è coperto di nuvole – è tardi. / Vieni come sei; non indugiare a farti bella.» (XI).

Con un forte senso religioso panteista, Tagore amava la Natura – e la «madre-Terra» con la sua «salutare polvere» e per le sue splendide bellezze e per le sue povere imperfezioni. In una poesia il poeta esaltato scriveva: «Dimmi se questo è vero, amore mio, / dimmi se questo è tutto vero. / […] / è vero che le mie labbra son dolci / come il boccio del primo amore? / […] / Che la terra, come un’arpa, vibra / di canzoni al tocco dei miei piedi? / […] / E dimmi infine se è proprio vero / che il mistero dell’infinito / è scritto sulla mia piccola fronte. / Dimmi, amor mio, se tutto questo è vero.» (XXXII). Le liriche del poeta indiano vivono delle foglie che stormiscono sui rami, del lieve rumore del torrente in movimento, delle stelle splendenti in cielo, della notte oscura, delle raffiche di vento che spengono le lampade, del cielo fosco e coperto di nubi, delle nuvole che stendono veli sulle stelle, degli stormi delle gru che si levano in volo, ecc., ecc. (Da: Il Giardiniere, in “Tagore - Poesie – Gitanjali / Il Giardiniere”, traduzione di Girolamo Mancuso, Newton Compton Editori, Roma, 1971)

Ma per Tagore, l’unione suprema fra gli innamorati è un’esperienza così piena e così totalizzante che non può che sublimarsi nell’amore per Dio. In conseguenza di ciò, in quel che scrive, sacro e profano s’accavallano e s’intrecciano in una luce comune: «In questo mondo coloro che m’amano / cercano con tutti i mezzi / di tenermi avvinti a loro. / Il tuo amore è più grande del loro, / eppure mi lasci libero. / […]» (XXXII). Il poeta sentiva di essere vicino a Dio e agli uomini per mezzo della sua poesia che è come un canto religioso: «Quando mi comandi di cantare, il mio cuore / sembra scoppiare d’orgoglio / e fisso il tuo volto / e le lacrime mi riempiono gli occhi. / […] / So che ti diletti del mio canto, / che soltanto come cantore / posso presentarmi al tuo cospetto. / Con l’ala distesa del mio canto / sfioro i tuoi piedi, che mai / avrei pensato di poter sfiorare. / […]» (II). E il poeta conferma così le proprietà della sua poesia–canto. «Ho ricevuto il mio invito / alla festa di questo mondo; / la mia vita è stata benedetta. / I miei occhi hanno veduto, / le mie orecchie hanno ascoltato. / […] / In questa festa dovevo soltanto / suonare il mio strumento: / ho fatto come meglio potevo la parte / che mi era stata assegnata. / […]» (XVI). E la sua lirica, semplice e serena (monotona soltanto in apparenza), è come un canto d’amore che prende e stringe nella rete della sua musica: «Attendo soltanto l’amore / per abbandonarmi alfine / nelle sue mani. / […]» (XVII), versi che si ripetono come un ritornello lungo tutta la poesia. Senza intenti didascalici o moralistici, il poeta mette a disposizione di tutti il suo canto: «Sono qui a cantarti canzoni. / In questa tua sala ho soltanto / un piccolo posto in un canto. / Nel tuo mondo non ho / nessun lavoro da fare – / la mia inutile vita può soltanto / sgorgare in melodie senza scopo. / […]» (XV); e a questo canto Tagore attribuisce un alto significato culturale e una pratica finalità educativa. (Da: Gitanjali, in “Tagore - Poesie – Gitanjali / Il Giardiniere”, traduzione di Girolamo Mancuso, Newton Compton Editori, Roma, 1971)    

Se il lettore vuole dedicarsi alle poesie d’amore di Tagore (che sono soltanto una piccola parte dei suoi scritti), potrebbe leggere Tagore - Poesie d’amore (A cura di G. Mancuso, Newton e Compton, 2005), oppure Tagore - Hai colorato i miei pensieri e i miei sogni. Poesie per giovani innamorati (Salani Editore, Milano, 2006), nella collana “Poesie per giovani innamorati”.

Rabindranath Tagore nacque a Calcutta da una delle famiglie bengalesi più aristocratiche e colte: il padre era un filosofo e il leader di una setta religiosa di origine induista mentre i fratelli furono tutti letterati o artisti. Sino ai diciassette anni studiò in casa a Calcutta, vivendo in un ambiente ricco di esperienze orientali ma anche aperto agli stimoli occidentali; andò quindi per un anno in Inghilterra (a Londra) per imparare Legge, senza però completare gli studi. Iniziò a scrivere prestissimo, e la sua opera è tanto estesa che alcuni critici lo hanno paragonato per la vastità e la varietà della produzione e per la lunghezza della vita letteraria al grande scrittore francese Victor Hugo (1802-1885). Nel 1883 sposò Mrinalini Debi, amata di un affetto duraturo. Nel 1901 fondò l’Università internazionale di Visva-bharati (nata dal nucleo costituito da una scuola sperimentale) che chiamò «Asilo di pace» e che sostenne con denaro proprio e con fondi procurati durante i suoi numerosi viaggi per il mondo: il motto dell’Università era costituito dal versetto sanscrito «Là dove tutto il mondo si unisce in un nido». Tra il 1902 e il 1907 visse tutta una lunga serie di lutti privati: perse la moglie, due figli (tra i quali il primogenito), una cognata (morta suicida) alla quale era legato da grande affetto, e il padre–maestro.

Tagore scrisse circa duemila poesie, che spesso musicò e che raccolse in cinque volumi di versi, tra i quali ricordiamo la raccolta di poesie religiose Offerta di Canti (Gitanjali) (1909–1912) e Il Giardiniere (The Gardener). Eseguì personali traduzioni inglesi dei suoi poemetti lirici che furono raccolti in tre volumi non perfettamente corrispondenti ai tomi bengalesi, perché in prosa e non in versi. Gitanjali fu letto e divulgato da William Butler Yeats (poeta, drammaturgo, scrittore e mistico dublinese, 1865–1939), facendo conoscere al mondo questo grande poeta indiano, gli fece guadagnare il premio Nobel nel 1913 (il primo dato a una personalità asiatica). Nel 1915 re Giorgio V lo nominò baronetto ma nel 1919 il poeta rinunciò al titolo nobiliare per motivi politici.

Pubblicò anche numerosi drammi teatrali simbolici e commedie sociali di grande originalità, tra i quali Oleandri rossi (Rakta Karabi), il capolavoro nella sua carriera di drammaturgo composto nel 1923, in cui celebra l’amore e critica la civiltà moderna in continua corsa verso un vuoto arricchimento economico (un re avido d’oro costringe i suoi sudditi a un lavoro brutale nelle miniere, distruggendo la Natura, ma la sua avidità sarà la sua maledizione e la sua perdita); lo splendido testo, bellissimo da leggere, era nobilitato dalla musica e il canto, dalla gestualità e dal movimento nello spazio. Tagore scrisse anche diverse opere musicali sullo stile dei melodrammi europei e alcuni balletti nei quali tentò di armonizzare Oriente e Occidente; una sua composizione musicale è stata scelta come inno nazionale indiano (Bharata–bhagya–vidata).

Pubblicò anche molte novelle, raccolte in più di otto volumi, e otto romanzi, tra i quali sono da segnalare Gora (1910) e La casa e il mondo (Ghare–Baire) (1916), nei quali realizzò una sorta di realismo simbolico, dando risalto lirico e letterario alla lingua viva del suo popolo. Compose anche diversi diari di viaggio (si mosse tantissimo in Europa, America e Asia) e numerosi saggi di critica letteraria (tra i quali Investigazioni letterarie), di politica e di religione. Pubblicò anche due autobiografie, una scritta in età adulta (Ricordi della mia vita) e una composta al termine della sua vita (morì a Santiniketan il 7 agosto del 1941): esse hanno fatto conoscere al mondo un uomo sensibile e ricco d’intensa religiosità che aveva vissuto in uno struggente rimpianto nostalgico del divino e in un’ardente spiritualità assetata di bellezza.

Tagore seppe avvicinarsi anche ai problemi della povera gente («a coloro che non hanno compagni, tra i più poveri, i più umili, e i perduti»). In età avanzata si dedicò sia a tentativi scolastici innovativi sia a progetti di riforma sociale, assumendo spesso una posizione contraria alle politiche coloniali britanniche. Condivise con Gandhi, il «padre della patria», una viva amicizia e profondi ideali etico–politici, ritenendo che l’Oriente dovesse guardare all’Occidente (che occupava posizioni più avanzate) con riferimento al progresso sociale e alle libertà individuali, senza dimenticare tuttavia le sue peculiari caratteristiche, rappresentate da una maggiore serenità interiore e da una più intensa capacità meditativa. D’altra parte, in quello stesso periodo, l’Occidente coloniale e materialista riscopriva le filosofie e la cultura indiana, il sanscrito e la religiosità asiatica. In India, Tagore ha raggiunto una fama immensa: fu nominato vice presidente dell’Accademia delle Lettere del Bengala (1891), presidente del Congresso Nazionale Indiano a Calcutta (1917) e presidente del Congresso Filosofico delle Indie (1925). Anche in Europa fu molto stimato e amato per il senso religioso e la profonda spiritualità, che  seppe propagandare grazie alle numerose letture dei suoi testi eseguite sia in patria che all’estero, e grazie alle versioni inglesi dei suoi testi (da lui stesso curate). Dal 1933, ormai in condizioni di cattiva salute, non si mosse più dall’India dedicando tutte le sue poche forze all’amata Università Internazionale.

Concludendo, Tagore ha dato inizio alla letteratura bengalese (che già aveva prodotto alcuni generi a cavallo tra sacro e profano, che prevedevano l’uso della mimica e della danza, del canto e della musica), arricchendola di forme e aspetti letterari di gusto europeo e divenendo l’icona spirituale e la voce morale più intensa e ascoltata della cultura filosofica e della vita letteraria in Oriente: egli ha certamente improntato di sé tutto il mondo sociale e intellettuale dell’India moderna.

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