giovedì 29 settembre 2011

Eugene O’Neill, un Tragico ispirato da una vita drammatica



Eugene O’Neill


Eugene O’Neill nasceva a New York nel 1888, il 16 Ottobre di centoventi anni addietro. Drammaturgo tragico, per molti anni incarnò il solo teatro americano in grado di confrontarsi col più maturo teatro europeo; con i suoi temi rilanciò Broadway – che negli anni ’20 rappresentava soltanto musical, farse o melodrammi – e aprì il varco al teatro d’avanguardia e ad Arthur Miller.


Figlio di un famoso attore irlandese di tipo romantico, visse una vita inquieta ed errabonda (nato in un hotel di Broadway, passò l’infanzia tra alberghi e teatri). Fu interno in una rigida scuola cattolica del Connecticut e frequentò l’Università di Princeton per un anno, prima di esserne espulso. Un feroce rapporto amore–odio lo legò alla famiglia: il padre era un uomo frustrato, la madre morfinomane e piena di risentimento aveva tentato il suicidio, il fratello maggiore alcolizzato morì prematuramente.

Attore nella compagnia del padre, redattore, cercatore d’oro e marinaio imbarcato su navi mercantili, nel 1912 fu costretto dalla tubercolosi a un ritiro in sanatorio per sei mesi che cambiò la sua vita (era depresso e aveva tentato il suicidio, abusava di alcol e faceva baldoria con le prostitute); iniziò invece a leggere e a dedicarsi alla scrittura teatrale (aveva d’altronde il teatro nel sangue). Parlò egli stesso di «rinascita».

La dottrina calvinista della predestinazione sviluppò in lui una visione pessimistica della vita con un senso incombente di fatalismo (scrisse «... noi siamo più o meno schiavi delle convenzioni, o della disciplina, o di qualche altro tipo di rigido sistema»). Si occupò del difficile rapporto uomo e Dio, in bilico tra idealismo e materialismo, influenzato da due drammaturghi scandinavi – il norvegese Ibsen e lo svedese Strindberg («soprattutto Strindberg», come scrisse) – ma fu segnato anche dalla psicanalisi (i suoi testi vanno letti tutti da un punto di vista psicologico).

A chi gli parlava di Realismo, Eugene rispondeva che i suoi drammi erano «realmente reali» non tanto per la somiglianza meticolosa alla vita quanto piuttosto perché erano «spiritualmente veri». Queste suggestioni contribuirono a creare drammi originali e di gran potenza espressiva, che lo imposero per il talento geniale e per lo sperimentalismo scenico.

I primi atti unici giovanili, denominati Drammi marini (amava il mare di un amore struggente), erano ambientati sul nudo ponte di una nave con i protagonisti obbligati nell’inevitabile ruolo di “vinti”. I testi più importanti, scritti tra il 1920 e il 1931, sono: Al di là dell’orizzonte che gli meritò il primo Pulitzer, Anna Christie (storia di «una prostituta dal cuore d’oro») che gli fece vincere il secondo Pulitzer, Tutti i figli di Dio hanno le ali, Desiderio sotto gli olmi, Strano interludio (imperniato in modo autobiografico sulle frustrazioni di una famiglia) col quale vinse il terzo Pulitzer, e Il lutto si addice ad Elettra, una tragedia greca in cui all’antico fato si sovrapponeva la complessità psicologica dell’uomo moderno. Che grande forza poetica hanno già soltanto i titoli di questi testi drammatici! In questi anni, O’Neill divenne l’autore anglosassone più tradotto e rappresentato dopo Shakespeare e Bernard Shaw.

Gli ultimi drammi (seguiti a un lungo silenzio), più costruiti e senza l’originaria forza giovanile, ebbero il merito di adattare al teatro l’ardita tecnica del monologo interiore e del “flusso della coscienza” creato dall’irlandese Joyce; ricordiamo: Arriva l’uomo del ghiaccio (1946) e, pubblicati postumi, la Lunga giornata verso la notte – i cui personaggi riconducono all’infer­nale vissuto familiare e alle angosce dell’autore (meritò post–mortem il quarto Pulitzer nel 1957) – , Una luna per i bastardi e Più grandiose dimore (molte altre carte inedite furono distrutte dalla moglie per suo desiderio).

Nel 1936 ebbe conferito il Nobel per la letteratura (primo autore teatrale americano), che non ritirò per problemi di salute.

Spinto da un’ossessiva urgenza per lo scrivere, teso e dubbioso (riscriveva i suoi testi una mezza dozzina di volte, riempiendoli di note, sottolineature e suggerimenti scenici), era un uomo privo di punti di riferimento e travolto dai lutti, che portava ancora sanguinanti le cicatrici del difficile rapporto familiare e che non aveva saputo creare neppure relazioni stabili con mogli e figli: si sposò tre volte ed ebbe due divorzi insieme al dolore per la malattia mentale della figlia più piccola e per il suicidio nel 1950 del figlio più grande alcolizzato (un altro figlio eroinomane morirà suicida nel 1977); ruppe ogni rapporto con l’altra figlia Oona, che a 18 anni lasciò la famiglia per sposare Charlie Chaplin che aveva l’età di Eugene (fu però un matrimonio felice).


Una precoce paralizzante malattia neurodegenerativa gli impedì di continuare a scrivere; estraniato dalla comunità letteraria e dalla famiglia, morì il 27 novembre del 1953 aspettando la fine da solo in un hotel di Boston, assistito da un medico e da un’infermiera (in un hotel era nato e in un hotel moriva!). La solitudine era il suo destino (aveva scritto: «La vita è per ogni uomo una cella solitaria dove le pareti sono specchi») e, dopo tanta autodistruzione e tanti foschi presagi di morte dei quali erano imbevuti il suo vissuto e i suoi testi tragici, la conclusione della sua esistenza ebbe la stessa atrocità di quella dei suoi derelitti personaggi. (www.zam.it, News, 13/10/2008)

Nessun commento:

Posta un commento