martedì 25 ottobre 2011

Emilio Cigoli, De Sica e gli albori del Neorealismo



Emilio Cigoli



Nel novembre di cento anni addietro nasceva a Livorno Emilio Cigoli (morì il 7 novembre del 1980), attore sensibile e straordinario doppiatore.


Figlio della doppiatrice Giovanna Cigoli e marito della direttrice del doppiaggio Giovanna Garatti, dopo una varia e diversificata attività teatrale e cinematografica, iniziò a lavorare dal 1936 quale socio della CDC (Cooperativa Doppiatori Cinematografici), assumendo un ruolo determinante nel doppiaggio italiano tra gli anni ’40 e ’60, insieme al cognato Giulio Panicali e a Gualtiero De Angelis (Gerardo Di Cola lo ha inserito nel suo libro Le voci del tempo perduto).

Sua è la bella voce pastosa e baritonale di Charlton Heston in Ben Hur, sue sono le straordinarie inflessioni vocali di John Wayne, Gary Cooper, Gregory Peck, Burt Lancaster, William Holden, Charles Boyer, Richard Burton, James Mason e Vincent Price; sua, la vellutata voce di Jean Gabin ne I Miserabili. Prestò la sua voce anche a Henry Fonda in Furore, a Marlon Brando in Fronte del porto, a Humphrey Bogart in Sabrina e a Orson Welles in Quarto potere. Con la sua voce piena di passione, Rhett Butler–Clark Gable ha fatto innamorare Rossella – e non solo – in Via col vento; con lui il cavaliere Antonius Bloch–Max von Sydow si è interrogato sul «silenzio di Dio» e ha giocato a scacchi con la morte ne Il settimo sigillo. Suoi sono i toni suadenti di voce narrante di molti documentari e film (tra i quali quelli della serie di Don Camillo).

Dal 1966 passò alla SAS (Società Attori Sincronizzatori): ciò provocò l’affranta delusione degli spettatori che, abituati alla sua voce, sentirono parlare i loro beniamini con la sconosciuta voce di altri. Si ritiene che Cigoli abbia doppiato circa 7000 film in più di 40 anni.

Emilio Cigoli merita però di essere ricordato soprattutto per il suo ruolo tragico e appassionato del padre Andrea ne I bambini ci guardano – 1943 – di Vittorio De Sica, del quale tra l’altro si celebrano i 35 anni dalla morte (è deceduto infatti il 13 novembre del 1974) e al quale LA7 ha dedicato una rassegna di film nella sua rubrica “La valigia dei sogni”. Questo film è considerato una «lezione di Neorealismo», una «finestra sul mondo», perché nasceva da un bisogno di verità dopo le mistificazioni e la retorica del regime, e da un’attenzione diversa ai fatti della vita minuta e alla difficile realtà dell’epoca (spesso sottaciuta).

Nel 1951 Glauco Viazzi scriveva su Cinema: «Questa opera costituisce quel decisivo passo avanti verso il realismo che era indispensabile per l’intero successivo sviluppo della nostra arte cinematografica».

Tratto dall’amaro e malinconico romanzo Pricò dell’autore drammatico tarantino Cesare Giulio Viola (1886–1958), che ha collaborato sia a questa sceneggiatura sia a quella di Sciuscià (nel quale Cigoli ha interpretato l’inesorabile, ma non malvagio, direttore del riformatorio), il film è stato sceneggiato splendidamente dal grande Cesare Zavattini: Pricò è un bimbo di sette anni che guarda con occhi lucidi le tristi vicende coniugali dei genitori divenendone l’innocen­te disperato testimone. Il padre Andrea è un modesto impiegato di banca e la madre è una donna irrequieta e scontenta che lascia nel dolore e nella solitudine Pricò e Andrea perché innamorata di un altro. Per amore del figlio i genitori poi si riconciliano ma, quando al mare (ad Alassio) ricompare l’amante, si riaccende la passione della madre e il bambino scappa per ritornare dal papà. I carabinieri lo riconducono dalla mamma che, una volta a casa, lo lascia sul portone proseguendo in taxi.

E il dramma familiare subisce l’impietosa intrusione dei vicini e l’invadente pettegolezzo della gente. Il padre Andrea affida Pricò a un collegio di preti e si suicida. Quando la madre in grama­glie si reca al collegio per riprendersi il figlio, il piccolo Pricò – che con occhi pieni di lacrime e sofferenza, da piccolo ometto deluso, guarda e giudica – rinuncia all’abbraccio materno per rifugiarsi invece nelle amorevoli braccia dell’anziana governante Agnese (l’attrice Giovanna Cigoli, madre di Emilio).


Questo piccolo superbo film scava nella soggettività del piccolo protagonista e viene considerato un film–chiave nella filmografia di De Sica, in quanto rappresenta il superamento delle sue commediole d’esordio e apre la via al Neorealismo, sfaldando l’atmosfera di falso perbenismo della cinematografia del ventennio (segna tra l’altro l’inizio della fruttuosa collaborazione con Zavattini). Sen­za eccessi melodrammatici, senza scene lacrimevoli e senza enfasi drammatica, la tragicità del percorso esistenziale del piccolo Pricò con i suoi piccoli occhi aperti sul mondo – quello della famiglia e quello della terra tutta (privi di umanità e in dissoluzione) – arriva agli spettatori colpendoli al cuore. (www.zam.it, News, 30/11/2009)

sabato 22 ottobre 2011

Michael Ende e “La storia infinita”


Michael Ende



Ottant’anni addietro nasceva a Garmisch Partenkirchen (il 12 novembre del 1929) Michael Ende, fantasioso scrittore tedesco che sin dall’infanzia si era sempre pasciuto di creatività.


Era il figlio del noto pittore metafisico–surrealista Edgar Ende, le cui opere sotto il regime di Hitler furono confiscate perché considerate “arte decadente”. Studente difficile (era convinto che la scuola penalizzasse le sue pulsioni creative e la sua fantasia), fu sospeso dalla scuola nel 1941, e nel 1945 venne arruolato a 16 anni e mandato al fronte senza addestramento; dopo aver visto morire alcuni suoi compagni, sconvolto dagli orrori della guerra, si diede alla fuga entrando a far parte del Fronte anti–nazista per la Baviera Libera, ove rimase sino alla fine della guerra.

Critico e autore teatrale, raggiunse il successo con il libro per ragazzi Le avventure di Jim Bottone (Un ferroviere e mezzo), cui seguirono gli altri due romanzi per ragazzi Momo (1972) – che ispirò sia la versione cinematografica di Johannes Schaaf (1986) con la colonna sonora di Angelo Branduardi (in cui lo stesso Ende si esibiva in un cammeo) sia quella a cartoni animati di Enzo D’Alò con musiche di Gianna Nannini – e La storia infinita (1979), dalla quale fu tratta la controversa versione cinematografica di Wolfgang Petersen (1984), della quale l’auto­re cercò di bloccare l’uscita e per la quale fece una causa – perduta – per togliere il suo nome dai titoli di testa (l’autore parlò di «gigantesco melodramma commerciale fatto di kitsch, plastica e felpa»).

Ende morì a Stoccarda il 28 agosto del 1995 per un cancro allo stomaco (aveva soltanto 65 anni).  

Con i suoi libri ricchi di luoghi fantastici e di chiavi simboliche, l’autore si è dedicato alla costruzione di un mondo enorme e vario, connotato da sfondi smisurati e da labirinti inestricabili, da enigmi metaforici che divengono muri invalicabili e da una fiabesca trasposizione di eventi reali. E lo scrittore – che amava il teatro – recita con parole incantate le sue incredibili storie, fatte per essere ascoltate, al suo pubblico di lettori che vengono completamente coinvolti nel suo magico cerchio.

Ha scritto l’autore: «Terre e mari, montagne e corsi d’acqua non sono sempre allo stesso posto, come avviene nel mondo degli uomini... Può capitare di passare per un deserto infuocato e trovarsi subito dopo in regioni di nevi artiche. In quel mondo non esistono distanze esterne concretamente misurabili, e così anche le parole vicino e lontano hanno un significato totalmente differente. Tutte queste cose dipendono dallo stato d’animo e dalla volontà di colui che compie un determinato cammino.». E il bambino diviene il compagno di viaggio privilegiato e il part­ner di avventure inenarrabili, cui chiedere una fiducia incondizionata alla vicenda fantastica per superare il mondo reale ed entrare in quello letterario immaginato dall’autore.

Momo (1972) è senza dubbio tra i romanzi più famosi di Michael Ende: è una tenera favola moderna ma anche una feroce critica al consumismo e alla frenesia della vita moderna, al sentimento d’impotenza di fronte al tempo che passa. Momo è un’orfanella povera e ignorante ma piena di cuore e sorrisi; abita nel rudere di un anfiteatro alla periferia di una metropoli e viene a­dottata da una piccola comunità: sa ascoltare in silenzio tutti quelli che le parlano «in modo che ai tanti, di botto, si affacciavano alla mente idee molto intelligenti», li sa rincuorare invitandoli a riassaporare le piccole cose della vita e a guardarsi dentro, li fa sentire importanti. Mo­mo deve combattere contro i Signori Grigi, i Ladri del Tempo, che possono trasformare la vita umana in un deserto e che possono rendere sterile il cuore umano.

Il romanzo La storia infinita (1979), grandissimo capolavoro del Novecento tedesco, rappresenta un testo iniziatico, una favola metaforica senza inizio e senza fine, uno stupefacente puzzle di realtà e fantasia, di fumetto e fantascienza, di enigmi e simboli, che s’incastrano come scatole cinesi. È un libro nel libro: quello rubato nel negozio d’antiquariato del signor Coriandoli da Bastiano, giovane frustrato protagonista, che vive di sogni e d’avventura attraverso le pagine dei libri che ama, e quello contenuto nella Montagna Vagante e poi riscritto dal Vecchio; è un libro che parla di altri libri ma che è anche la porta d’ingresso che rompe ogni barriera tra Bastiano e personaggi del mondo di Fantàsia, tra il lettore e i protagonisti immaginari. Attraverso le sue avventure, Bastiano diviene la rappresentazione universale dell’individuo che vuol essere diverso, che sogna quel che non ha ma che riesce a non divenire schiavo della sua fantasia. Tutto ciò può essere esemplificato in ciò che si dicono l’Infanta Imperatrice – affetta da una malattia mortale, il cui regno sta per essere inghiottito dal Nulla, – e il Vecchio della Montagna Vagante: «“Tutto ciò che accade, tu lo scrivi”, disse. “Tutto ciò che io scrivo accade”, fu la risposta». Soltanto un appartenente ai Figli di Adamo, Bastiano–Atreyu (che troverà sul suo cammino Fucùr, il Drago della Fortuna), correrà in aiuto dell’Infanta Imperatrice per salvare Fantàsia e il Mondo. Nell’inseguire i suoi sogni, Bastiano perderà poi la memoria della sua vita umana e diverrà assetato di potere: saranno Atreyu e Fucùr a ridare i ricordi perduti a Bastiano e a consentirgli la conclusione del suo viaggio.

A questo punto, è facile capire cosa Ende nascondesse sotto l’immagine del regno di Fantàsia: il mondo interiore del singolo uomo, l’inconscio collettivo, il senso dell’umanità libera e creativa, un percorso di crescita, il prendere le distanze da un mondo arido senza sogni mantenendo il contatto con la fantasia e la fiaba, ma anche il mantenere l’intelligenza e la razionalità. (www.zam.it, News, 6/11/2009)

P.S. Dal romanzo diMichael Ende La storia infinita (Die unendliche Geschichte), fu tratta la controversa omonima versione cinematografica di Wolfgang Petersen (1984), sceneggiata dallo stesso Petersen e da Herman Weigel, con Noah Hathaway (Atreyu), Barret Oliver (Bastian) e Tami Stronach (l'Imperatrice bambina). Ha commentato Morando Morandini (ne "il Morandini, Zanichelli editore): «Tratto dalla prima parte del romanzo (1979) di avventure fantastiche di Michael Ende che, furioso dopo aver visto il film, fece togliere il suo nome dai titoli: "Auguro la peste ai produttori. M'hanno ingannato. Quello che mi hanno fatto è una sozzura a livello umano, un tradimento a quello artistico". Costato 25 milioni di dollari – la più costosa produzione del cinema tedesco – è un film fantastico con messaggio: se la gente smette di sognare, non può sopravvivere. Trionfo degli effetti speciali, pachidermica macchina di spettacolo, sfilata di mostri, ma senza violenza e nemmeno orrore. Manca di tensione drammatica e di ritmo avventuroso.». In effetti, il film – girato in inglese – è teso e appassionato, e non manca di forza di suggestione rendendo ciò che di favolistico vive nel romanzo di Michael Ende. Si avvale, inoltre, della robusta colonna sonora di Klaus Doldinger, Limahl e Giorgio Moroder.

Seguirono La storia infinita 2 (The NeverEnding Story II: The Next Chapter), film diretto dal regista australiano George Miller (1990), interpretato da Kenny Morrison (Atreyu), Jonathan Brandis (Bastian) e Alexandra Johnes (l'Imperatrice bambina). Considerato inferiore al precedente, il film fu stroncato da Richard Harrington del Washington Post; Morando Morandini (ne "il Morandini") ha commentato: «Deludente seguito del film (1984) di Petersen, ispirato alla seconda parte del libro di Michael Ende: G. Miller... ha il piombo sulle ali. Tedio, con scene e costumi da megashow del sabato sera»; mentre Pino Farinotti (ne "il FARINOTTI 2007", Edizioni San Paolo), ha scritto: «... il film è ricco di effetti speciali, ma povero di idee».

Il film La storia infinita 3 (The NeverEnding Story III) di Peter MacDonald (1994) è meno aderente al romanzo di Ende (nei titoli di testa è però ben specificato che la sceneggiatura è soltanto ispirata ai personaggi del romanzo di Ende e che la trama non è fedele a quella del libro) ed è intrepretato da Jason James Richter (Bastian Bux), Melody Kay (Nicole), Jack Black (Slip) e Carole Finn (Mookie). Ha commentato Morando Morandini (ne "il Morandini"): «3° della serie, ma questa volta Michael Ende riuscì a far togliere il suo nome. Il film risulta ideato da Karin Howard e sceneggiato da Jeff Lieberman. Il progressivo calo del budget è direttamente proporzionale al calo del divertimento, degli effetti, della fantasia.».


Esiste anche una serie a cartoni de La storia infinita (1995 e 1996), prodotta da CineVox (Germania), Ellipse (Francia) e Nelvana (Canada).

giovedì 20 ottobre 2011

Elia Kazan, indimenticabile grandissimo regista



Elia Kazan

Il 7 settembre di cento anni addietro, nel 1909, nasceva a Istanbul Elia Kazanjoglou, regista e pro­duttore cinematografico statunitense, più volte Premio Oscar per la regia (morì a New York il 28 settembre del 2003).


Di origini greche, a quattro mesi dalla nascita, si trasferì in USA con la famiglia, divenendo uno dei tanti umili immigrati che hanno fatto grande l’America e che hanno onorato il panorama della cinematografia mondiale: innumerevoli e splendidi sono i suoi film girati tra gli anni cinquanta e sessanta, rimasti nella memoria collettiva.

A proposito del suo talento a ottenere il meglio dai suoi attori, scrisse: «La macchina da presa è più di un registratore, è un microscopio, penetra, entra dentro le persone e consente di vedere i loro pensieri più intimi e nascosti, e sono riuscito a farlo con gli attori. Voglio dire, ho rivelato cose che gli attori non sapevano stessero rilevando di loro stessi.».

I suoi interessi iniziali furono la letteratura e il teatro: diresse tutte le commedie di Arthur Miller e Tennessee Williams, dei quali aveva intuito grandezza e immortalità.

Dalla fine degli anni trenta si era dedicato al cinema, ed ebbe il merito d’imporre all’attenzione del pubblico e della critica la sua icona cinematografica, Marlon Brando, il protagonista dei suoi due grandi film Un tram che si chiama Desiderio (1951), dalla commedia di Williams, e Fronte del porto (1954), che vinse il Leone d’Argento alla Mostra del Cinema di Venezia e che si aggiudicò ben otto premi Oscar. Come dimenticare anche Un albero cresce a Brooklyn (1945) ispirato dal bel romanzo di Betty Smith, Mare d’erba (1947), Viva Zapata! (1952), La valle dell’Eden (1954), tratto dal capolavoro di John Steinbeck, Il ribelle dell'Anatolia (1963), Il compromesso (1969), I visitatori (1972), e Gli ultimi fuochi (1976).

Uno tra i grandi film di Elia Kazan è Splendore nell’erba (1961), il cui copione è stato scritto da William Inge, drammaturgo statunitense che per questo film fu premiato con l’Oscar per la migliore sceneggiatura originale (nel 1953 aveva già vinto il Premio Pulitzer per l’opera teatrale “Picnic”). Questo film, tra l’altro, ci ha fatto conoscere il grande poeta inglese William Wordsworth (1770–1850), segnato dalla povertà e dalle sventure domestiche; una strofa della sua “Ode: Intuizioni di immortalità nei ricordi dell’infanzia” (Intimation of Immortality from Recollections of Early Childhood) (1807) è recitata nel film e si è come scolpita nei nostri cuori: «Se niente può far sì che si rinnovi / all’erba il suo splendore o che riviva il fiore, / della sorte funesta non ci dorremo allora / ma, ancor più saldi in petto, godrem di quel che resta» (questa poesia esprime con sofferta malinconia la nostalgia degli ideali, di ciò che non può essere più, insieme alla necessità di accogliere nella vita reale anche soltanto quel che resta dei sogni).

Kazan era un convinto sostenitore del metodo Stanislavskij (il metodo del regista russo Konstantin Stanislavskij, conosciuto negli USA per il suo Il lavoro dell’attore su se stesso del 1938), che insisteva sul lavoro preparatorio che l’attore deve affrontare per dare verità interiore al suo personaggio, utilizzando il proprio vissuto, la propria «memoria emotiva». Per questo, a New York nel 1947, fondò l’“Actors’ Studio” insieme a Robert Lewis e a Cheryl Crawford; a loro si unì poi Lee Strasberg che nel 1951 ne divenne l’infaticabile direttore. Questa prestigiosa scuola d’arte drammatica (ancora esistente) ha consacrato tutti i migliori attori dello star sy­stem americano, forgiati sulle esperienze del “Group Theatre”, una compagnia degli anni trenta che aveva esportato in USA molte innovative soluzioni del teatro europeo.

Un unico neo della biografia di Elia Kazan fu l’abbaglio preso nel 1952, collaborando con la com­missione per le attività antiamericane di McCarthy e prendendo posizione contro registi e attori di sinistra (fu attivo nel compilare quelle famigerate liste di proscrizione che costrinsero molti artisti e produttori a presentarsi dinanzi al Comitato e a subire l’emarginazione o addirittura l’esilio). A causa di questi comportamenti, per anni, Kazan fu costretto a subire il duro ostracismo della critica di sinistra. (www.zam.it, News, 25/7/2009)

P.S. Il film Un tram che si chiama Desiderio (A Streetcar Named Desire) (1951) di Elia Kazan, superbo capolavoro della cinematografia, fu tratto dall'omonimo dramma di Tennessee Williams – messo in scena dallo stesso Kazan nel 1947 con Jessica Tandy come protagonista – ed era interpretato da Kim Hunter, Karl Malden, Vivien Leigh e Marlon Brando. E' la storia tragica di Blanche Dubois, segnata dal suicidio del marito, fragile e sessualmente inquieta, colta e di modi raffinati,la quale va ospite a New Orleans in casa della sorella Stella, sposata col rude e ribelle ma sexy Stanley Kovalski e incinta di lui. Blanche tenta di farsi sposare da un maturo corteggiatore, Harold Mitchell, ma si sente anche fatalmente attratta dal cognato che la disprezza e che – quando la moglie viene ricoverata in ospedale per il parto – la violenta facendola scivolare nella follia. Distrutta dai fantasni del passato e del presente, Blanche è costretta al ricovero in clinica psichiatrica.

Ha scritto Morando Morandini (ne "il Morandini", Zanichelli editore): «Kazan usa la cinepresa come un microscopio che penetra nella psicologia dei personaggi, punta sulla crudeltà del linguaggio nell'esibizione dei corpi, del sudore o dell'odore, scarta una scelta naturalistica nella scenografia, si affida alla violenza della parola per suggerire le pulsioni di morte che dominano il testo. 9 nomination agli Oscar e 3 statuette per V. Leigh, K. Hunter, K. Malden. Rieditato nel 1993 con i 4 minuti a suo tempo censurati. Rifatto 2 volte per la TV.». Il film ebbe una statuetta anche per la migliore scenografia in bianco e nero a Richard Day e George James Hopkins; fu presentato nel 1951 al Festival di Venezia: Elia Kazan ottenne il Gran premio della giuria e Vivien Leigh si aggiudicò il premio per la migliore interpretazione femminile. Ha commentato Marzia Gandolfi in una sua interessante recensione al film: «Con Brando nasceva al cinema un nuovo tipo di attore, intenso e introspettivo, indolente ed esplosivo, portatore di un "metodo" innovativo messo al servizio del realismo sociale del cinema di Kazan. Il metodo era quello del maestro russo Stanislavskij, praticato dall’Actors Studio fondato a New York da Lee Strasberg e dallo stesso Kazan. "Un tram che si chiama desiderio" è un grande classico mutuato da Broadway... A teatro come al cinema fu diretto da Elia Kazan, che per primo utilizzò le convenzioni melodrammatiche di Hollywood per raccontare la realtà sociale e i suoi conflitti e per drammatizzare le relazioni tra uomini e donne... Al centro di questo dramma, girato all’inizio degli anni Cinquanta e ambientato nel dopoguerra, ci sono due donne, un uomo e una sfida, quella che Stanley Kowalski sferra contro il mondo garbato di Blanche, e ancora prima contro l’intero sistema della cortesia e della buona creanza... La macchina da presa sembra superare la fenomenologia degli attori e scavare un percorso interiore, che rivela e libera da una parte il sadismo e la carica erotica di Stanley, dall’altra l’instabilità e la stravaganza di Blanche. La convivenza, lo stato di cattività e la miseria economica e culturale in cui versano finiscono per esasperare la relazione e farla esplodere nell’odiosa violenza finale (consultare http://www.filmfilm.it/film.asp?idfilm=21031)».

Il film Fronte del porto (On the Waterfront) (1954), un vero classico del cinema di Elia Kazan, narra di Terry Malloy, portuale e pugilatore di talento, che viene coinvolto dal fratello Charley (un piccolo criminale e pezzo grosso di una gang che controlla le losche attività dell'organizzazione sindacale che gestisce con mano brutale i lavoratori del porto di Hoboken, in New Jersey. Innamoratosi di una giovane studentessa, Edie Doyle, la sorella di un amico vittima del racket, e sostenuto dal sacerdote Padre Barry, Terry si riscatterà mettendosi con dignità e coraggio – pesto e massacrato dalla banda dei corrotti sindacalisti – alla testa degli altri portuali guidandoli nello sciopero e sulla via della emancipazione. Il film fu interpretato mirabilmente da un sublime team di attori: Marlon Brando (Terry Malloy), Karl Malden (Padre Barry), Lee J. Cobb (Johnny Friendly, il boss del porto), Eva Marie Saint (Edie Doyle) e Rod Steiger (il fratello Charley Malloy, che verrà ucciso dai mafiosi del porto). Nel 1954 Elia Kazan vinse il Leone d’Argento e il Premio della Critica alla Mostra del Cinema di Venezia, mentre nel 1955 il film si aggiudicò ben otto premi Oscar (miglior film al produttore Sam Spiegel, migliore regia a Elia Kazan, miglior attore protagonista a Marlon Brando, miglior attrice non protagonista a Eva Marie Saint, migliore sceneggiatura originale a Budd Schulberg, migliore fotografia a Boris Kaufman, miglior scenografia a Richard Day e miglior montaggio a Gene Milford). Da non dimenticare anche le straordinarie musiche di Leonard Bernstein.

Ha così commentato Morando Morandini (ne "il Morandini"): «Da un romanzo di Budd Schulberg (autore anche della sceneggiatura) e articoli di Malcolm Johnson... Film nero – girato per intero a New York, quasi sempre in esterni – con forti implicazioni sociali, sottintesi etici, risvolti politici e accensioni melodrammatiche, è il trionfo dell'ambiguità di Kazan che, come Schulberg, aveva molti conti da regolare con i comunisti e li regola, imbrogliando le carte. È anche il trionfo di uno stile di recitazione, quello del Metodo, cioè dell'Actors' Studio...».:

mercoledì 19 ottobre 2011

L’infelice Malcolm Lowry e la sua “Divina Commedia ubriaca”



Malcolm Lowry



Il 28 luglio del 1909 a Birkenhead nasceva Malcolm Lowry, lo scrittore inglese che con Sotto il Vulcano si è guadagnato un posto importante tra i grandi narratori anglosassoni contemporanei, accanto a Joyce e Faulkner.


Ebbe una vita infelicissima: per anni, da bambino, fu quasi cieco per un’ulcera corneale e, da adulto, fu un alcolista cronico che ingurgitava qualsiasi cosa contenesse alcol (“il veleno della lost generation”). Figlio di un ricco e astemio commerciante metodista, animato da un inquieto desiderio d’avventura e in rivolta contro l’ottusa scuola borghese, a 18 anni s’imbarcò come mozzo su un mercantile per la Cina (sull’argomento scrisse Ultramarina).

Dopo la Laurea in Filosofia a Cambridge e un turbolento matrimonio, per disturbi psichici subì un ricovero a New York e una serie di elettroshock devastanti.

Fermatosi in Canada con la seconda moglie (una scrittrice di talento) in una capanna da pionieri, iniziò la tormentatissima stesura del suo capolavoro Sotto il Vulcano, scritto e riscritto sul filo dell’autobiografia, completato nel 1947, rifiutato da 12 editori, e salvato a stento dall’in­cendio della rustica abitazione. Il romanzo – il cui primo abbozzo fu composto in un bar – con tragica consapevolezza fu definito dall’autore una moderna «Divina Commedia ubriaca». Rappresenta “una grandiosa allegoria moderna della redenzione”, infarcita di flashback che hanno molto sia della scrittura cinematografica sia del “flusso di coscienza” di stile joyciano.

Scrisse Lowry del suo romanzo: «Esso deve essere considerato come una forma di sinfonia, o co­me una sorta di opera – o anche un’opera western. È musica calda, un poema, un canto, una com­media, una farsa, e così via. Esso è superficiale, profondo, interessante o noioso, a seconda dei gusti. È una profezia, un monito politico, un criptogramma, un assurdo film.».

Il libro narra l’ultimo tremendo giorno di vita di Geoffrey Firmin, un quarantenne ex console inglese alcolizzato (“alter ego” di Malcolm) che vive alle falde del Popocatepetl (un vulcano, sim­bolo contemporaneo di elevazione e di caduta) e che è stato lasciato dalla moglie trentenne Yvonne, che ama e odia allo stesso tempo (la felicità non è per loro: una maledizione ha trasformato in un deserto il loro giardino dell’Eden, e hanno perso il paradiso). E la tragica vicenda si snoda in un ambiente messicano allucinato e immerso in una disperata atmosfera di morte e fatalità: Geoffrey – completamente ubriaco per sfuggire all’inumanità del mondo moderno e al proprio fallimento – morirà solo e abbandonato sul margine della strada.

Salutato dai critici come una rivelazione, questo ispirato testo rimase per anni un classico clandestino; soltanto dopo la morte prematura dell’autore per suicidio – avvenuta il 27 giugno del 1957 ad appena 48 anni per una overdose d’ipnotici – il pubblico ne capì la grandezza, anche grazie al film di un ormai anziano John Huston con A. Finney e J. Bisset (1984).

Come in un epitaffio, Lowry aveva scritto: «Malcolm L. /…egli viveva, di notte, e beveva, di giorno, / e morì suonando l’ukelele». Lowry ha lasciato molte pagine inedite che la vedova ha raccolto e ordinato, pubblicando racconti e frammenti postumi che toccano vette di altissima scrittura e che ci mostrano un uomo alla deriva, dominato da sentimenti di angosciata tristezza e da una ricerca spasmodica dell’oblio in paradisi artificiali, in bilico tra abiezione e nobili aspirazioni, tra cruda realtà e sogni irrealizzabili. (www.zam.it, News, 25/7/2009)

P.S. Il romanzo Under the Volcano (Sotto il vulcano) è il capolavoro da Malcolm Lowry, scritto sul filo dell’autobiografia e dalla stesura tormentata, contemporaneamente un inno alla vita e alla morte, e una forte e tenera storia d’amore e gelosia. Con angosciata disperazione racconta l’ultimo tremendo giorno di vita di Geoffrey Firmin, un quarantenne ex console anglo–indiano alcolizzato; questo giorno è commemorato dagli amici esattamente un anno dopo, nel primo capitolo, che è il preludio del dramma svelato negli altri capitoli. Geoffrey è un bevitore portentoso ma in grado di mantenersi lucido, e altri non è che l’alcolizzato Malcolm. Ha il sogno nascosto di scrivere un libro sulla Cabala ebraica destinato a regalargli fama internazionale e, malvisto per i deteriorati rapporti tra il Messico e la Gran Bretagna, vive in Messico alle falde del Popocatépetl. Da più di un anno è stato lasciato dalla bella moglie trentenne Yvonne, una ricca e bella ex attrice che vive con i traumi del suicidio del padre che amava tanto e della perdita di un bimbo di sei mesi avuto con il primo marito. Lei ritorna (ma forse troppo tardi) all’inizio del romanzo; ha avuto molte relazioni con altri, compresi Jacques Laruelle (un grasso produttore cinematografico e amico d’infanzia del Console) e Hugh, il fratellastro di Geoffrey, giornalista antifascista interessato alla guerra civile in Spagna. Il Console è profondamente umiliato e offeso dagli adulteri di Yvonne e trasforma la sua gelosia, acuita dal bere, in un impellente desiderio di autodistruzione. E’ anche interiormente straziato da una colpa segreta per la quale non riesce ad assolversi: ha lasciato che prigionieri nemici fossero bruciati vivi dall’equipaggio nelle caldaie della sua nave “il Samaritano”. Vivendo in un mondo che ha smarrito la capacità di amare e la carità per il prossimo, e che ha visto addirittura tradita la fraternità, Geoffrey avverte la sua esistenza come un Inferno e sente morire a poco a poco la sua anima, perdendo qualsiasi ragione per vivere. L’uomo ama e odia contemporaneamente Yvonne perché non riesce a perdonarla, mentre Yvonne – che ricambia il suo amore – lo ha lasciato per l’impossibilità di vivere con lui così dominato dal bere. Geoffrey non ha saputo o voluto trattenerla, ha lottato contro il suo amore e ha trovato conforto nelle “cantinas”, abbandonandosi all’alcol per evadere da se stesso e per sfuggire all’inumanità del mondo moderno e al proprio fallimento. Se non possono stare insieme, i due non possono neppure stare lontani: sono «come due fortezze che non comunicano». La felicità non è per loro: una maledizione ha trasformato in un deserto il loro Giardino dell’Eden, esemplificato dalla rovina miserevole in cui è caduto il loro bel giardino all’inglese; assassinando volutamente il loro matrimonio, i due amanti hanno perso il luogo beato, il Paradiso. E’ vero che entrambi, pur con tante parole rimaste non dette, sognano di ripartire da zero altrove, in un posto nuovo, nella Columbia britannica in Canada: la «sua Siberia gentile… la più straordinaria fetta di mondo che si possa immaginare… un Paradiso ancora inesplorato, forse inesplorabile per sempre». Essi sognano quella che potrebbe essere una «resurrezione», ricreando il loro nido d’amore in una grigia casetta su una piccola baia di pescatori ove vivere «felici l’uno dell’altra, sul balcone di questa casa, guardando il mare». Ma purtroppo: «No se puede vivir sin amar» (è il leitmotiv che si ripete per tutto il libro, e queste sono le ultime parole che il Console pronuncia ad alta voce prima di morire) e, lontano da Yvonne, Geoffrey, pur «suscettibile di redenzione» ma «bisognoso del suo aiuto» e per la prima volta completamente ubriaco a causa del mescal (un forte e tossico alcolico messicano), si muove da un bar all’altro, da un’osteria all’altra, in balia dei suoi fantasmi e senza il possibile soccorso da parte di alcuno, andando di ora in ora alla disperata e cieca ricerca della morte. Viene, infine, coinvolto in una rissa con alcuni poliziotti (tentano di togliergli le amate lettere di Yvonne), e, ferito e abbandonato sulla strada, sarà precipitato da un precipizio in un fossato: «Qualcuno gli scagliò dietro un cane morto, nel burrone». Con queste tremende parole finisce il romanzo, che in modo volutamente triste è pieno di tutti i rischi e tutte le tragiche conseguenze della vita di un alcolizzato, comprese le farneticazioni, le voci di dentro e le allucinazioni spaventose del delirium tremens che accompagnano l’infelice Console sino alla fatale conclusione finale. Tutto è molto autobiografico e vissuto di prima mano sulla pelle di Malcolm, costretto a «bere il calice fino alla feccia» ma in fondo anche convinto di essere la rappresentazione simbolica di un mito leggendario: quello del genio e della sregolatezza»! Aveva scritto: «La rivoluzione infuria anche nella terra caliente di ciascuna anima d’uomo. Non v’è pace che non debba pagare un congruo tributo all’inferno…».


Nel 1984 John Huston trasse dal romanzo il bel film Under the Volcano con Albert Finney (Geoffrey) e Jacqueline Bisset (Yvonne), ambientato a Cuernavaca, in un allucinato ambiente messicano immerso in un’atmosfera di fatalità disperata e di presagi di morte. E il Messico – che Lowry non aveva mai amato (tra l’altro, non era mai riuscito a imparare la lingua spagnola e aveva subito una ingiusta carcerazione con espulsione quale presunta spia della Spagna) – , altro non è che la metafora del mondo. E Geoffrey e Yvonne altri non sono che Malcolm e la prima moglie Jan (attrice come la Yvonne del romanzo), uniti da un turbolento rapporto matrimoniale e andati in Messico per tentare di ritrovarsi e riconciliarsi. Scrisse Lowry che aveva imprestato parti di sé a tutti i protagonisti del suo romanzo. Ha commentato Morando Morandini (ne "il Morandini", Zanichelli editore): «Si dice che siano state scritte 66 sceneggiature dal romanzo e che vi hanno rinunciato Buñuel, Losey, Dassin, Polanski, Kubrick, Skolimovski. Quella di Guy Gallo riduce il romanzo all'osso. J. Huston ne ha fatto un film semplice, lineare, classico, splendidamente inutile. La fotografia di Gabriel Figueroa, tenuto a briglia corta, è bella e senza bellurie. Finney si butta in uno stravagante ma controllato saggio di alto istrionismo.». Il film è stato presentato in concorso al 37º Festival di Cannes e ha ricevuto nel 1985 due nomination agli Oscar (come miglior attore protagonista ad Albert Finney e come migliore colonna sonora originale ad Alex North) e due nomination ai Golden Globes (a Finney e a Bisset come migliori attori protagonisti).

martedì 18 ottobre 2011

Alfonso Gatto, poeta errabondo e militante di sinistra



Alfonso Gatto

Cento anni addietro, il 17 luglio del 1909, nasceva a Salerno Alfonso Gatto, figlio di gente di mare dall’infanzia travagliata – marchiata a fuoco dalla morte del fratellino Gerardo – e dalla vita adulta errabonda e piena di miseria (per lo più, volutamente ricercata).


Tentò di laurearsi in Lettere all’Università di Napoli ma dovette rinunziarvi nel 1926, iniziando a vagare deluso per diverse città alla caccia di diversi lavori; fece il commesso, l’istitutore, il correttore di bozze e infine il giornalista. Mentre cercava di costruire la sua difficile identità (scrisse: «Un fenomeno oscuro il divenire... sono diventato poeta per avere sempre sentito dietro di me, dalla nascita, altre stanze, altri luoghi, altre stagioni in cui ero vissuto»), tentava di ritagliarsi il ruolo di poeta–esule.

Fu antifascista, conobbe l’ingiusta detenzione per cospirazione sovversiva nel 1936, fu comunista militante, e partecipò alla Resistenza e alle successive lotte sociali. Divenne, quindi, un intellettuale di sinistra molto attivo, animato dall’urgenza della militanza politica e dal solidale impegno civile (nel 1951 abbandonò, però, il Partito Comunista per dissidenza).

Dopo aver iniziato come poeta melodico sul solco di Salvatore Di Giacomo, divenne col tempo sempre più oscuro e allusivo, allontanandosi dai moduli della tradizione e fondando nel 1938 – insieme con Vasco Pratolini – la rivista letteraria “Campo di Marte” che diventò il vessillo dell’ermetismo. Baciato dal consenso del pubblico e dalla stima della critica, con La forza degli occhi vinse il premio Bagutta (1955) e con Storia delle vittime si aggiudicò il premio Viareggio (1966). Fu anche un acuto critico d’arte, mosso dall’amore per la scultura, la pittura e la moderna architettura oltre che dal desiderio di rinnovare forme e contenuti dell’arte.

Al cinema – che amava – prestò il suo volto espressivo, segnato dalla vita, recitando in ottimi film di Pasolini, Rosi e Monicelli.

Fu un fan entusiasta del ciclismo e, insieme all’amico Pratolini, seguì per “L’Unità” il Giro d’Ita­lia (1947 e 1948), mentre dieci anni dopo fu inviato giornalistico al Tour de France (1957 e 1958). Dal 1974 fu collaboratore sportivo del quotidiano milanese “Il Giornale”, ai tempi della direzione di Indro Montanelli.

Con la sua poesia ricca di musicalità, celebrò i Martiri della Resistenza («...Tornerà tornerà, / d’un balzo il cuore / desto / avrà parole? / Chiamerà le cose, le luci, i vivi? / I morti, i vinti, chi li desterà?»), esaltò l’ideologia di sinistra con i suoi forti simboli (la bandiera rossa e il saluto comunista) ma cantò anche l’amore per la donna, il dolore quotidiano e le meditazioni di morte, la memoria e l’oblio, la natura e la terra; e sempre si fece coinvolgere nella pena degli altri («...Imme­ritata la gioia / che non sia di tutti / e i nostri lutti / che non son nostri...»).

L’8 marzo del 1976, all’età di sessantacinque anni, Alfonso Gatto moriva in un incidente automobilistico che mise fine al suo confuso vagabondare di Uomo e al suo tormentato esistere di Poeta. (www.zam.it, News, 17/7/2009)

P.S. Tra le partecipazioni cinematografiche più significative di Alfonso Gatto sono da ricordare quella ne Il sole sorge ancora (1946) di Aldo Vergano (aveva il ruolo di un conduttore di treni) e quelle nei film di Pier Paolo Pasolini Il Vangelo secondo Matteo (1964) (era l'apostolo Andrea) e Teorema (1968) (rappresentava la parte del dottore). Notevoli anche le partecipazioni in Cadaveri eccellenti (1976) di Francesco Rosi (era Nocio) e in Caro Michele (1976) di Mario Monicelli dal romanzo di Natalia Ginzburg (interpretava il padre di Michele).


Nel 1944 il poeta salernitano, aveva scritto il testo teatrale Il duello, molto lirico e quasi leopardiano nel considerare il dolore come esperienza fondamentale, ma anche metafisico e surreale, certamente molto arduo da rappresentare per le sue proprietà decisamente antiteatrali (i protagonisti sono il disperato Tom e il distratto Nuvolo, circondati da quattro ballerinette discinte, Maura, Iride, Leda e Stella). In occasione del centenario della nascita, il pezzo teatrale è stato ristampato a cura di Francesco D’Episcopo con una postfazione di Pasquale De Cristofaro, il regista che nel 2004 lo aveva portato in scena a Salerno.

lunedì 17 ottobre 2011

Teleromanzi, la Tv che fa cultura – Cento anni fa nasceva il regista e sceneggiatore Anton Giulio Majano


Anton Giulio Majano


Il 5 luglio 1909 (secondo alcune fonti 1912) nasceva a Chieti il regista–sceneggiatore italiano Anton Giulio Majano, che morì a 85 anni per un ictus a Marino (sui colli romani) il 12 agosto 1994.


Regista cinematografico, colto e amante dei classici, fu tra i primi a intuire le potenzialità del mezzo televisivo e a portare sul piccolo schermo i grandi romanzi, facendoli divenire un successo popolare e un patrimonio comune, e proteggendone le preziose eredità culturali. Con gli sceneggiati televisivi letterari e le trascrizioni in prosa radiofonica – i suoi radiodrammi hanno divulgato in Italia i romanzi di Simenon – ha costruito per più di trent’anni la storia più nobile della radio–televisione italiana, lasciando in molti un rimpianto mai colmato e la nausea per gli odierni programmi pieni di trash.

Agli albori della TV, presentò l’indimenticabile Piccole donne (1955) con Lea Padovani, Vira Silenti, Emma Danieli e Maresa Gallo (la giovanissima moglie, che interpretava Beth e che recitò in molti dei suoi teleromanzi): previsto in quattro puntate, a furor di popolo, Majano fu costretto ad aggiungerne una quinta, quasi oscurando il contemporaneo fortunato film hollywoodiano. Seguirono Jane Eyre, Capitan Fracassa, L’isola del tesoro, Ottocento, Una tragedia americana, Delitto e castigo, La Cittadella, David Copperfield, La freccia nera e infine E le stelle stanno a guardare: il loro fascino non è stato mai scalfito nel cuore dei nostalgici.

Gli veniva spesso rimproverato di premere esageratamente sulle corde del sentimento e sulla commozione, ma Majano col suo “teleromanzo a puntate”, emulo del romanzo d’appendice o del feuilletton ottocentesco e simile all’amato fotoromanzo dei primi anni ’50, tentava di trasformare la televisione in una ricca biblioteca illustrata che mettesse il pubblico in comunicazione con la grande letteratura (diceva: «Ritengo che il teleromanzo debba avere il ritmo, l’am­piezza e l’apertura analitica del libro»). E i giovani della mia generazione – quelli che amavano il teatro in diretta e la cosiddetta “televisione didascalica” – rispondevano in massa affollando le librerie per acquistare i libri dei quali il regista faceva balenare luce e anima con le sue incantate immagini in bianco e nero e col nuovo linguaggio televisivo.

Le sue storie, suddivise in puntate che si esaurivano nell’arco di alcune settimane, hanno gettato le basi narrative della “miniserie”, che tanta fortuna ha nella televisione di oggi; hanno creato inoltre l’inossidabile entusiasmo del pubblico per il teatro: Majano ha inventato infatti una sorta di “teatro filmato”, coagulando attorno a sé i grandi interpreti provenienti dal teatro, facendoli conoscere al pubblico di provincia e creando i primi casi di divismo televisivo. Allestiva scene e inquadrature da palcoscenico e costruiva dialoghi organizzati come in uno spettacolo teatrale, limitando al minimo gli esterni (col tempo, tentò però di aprirsi a scenografie più complesse e a modelli di tipo cinematografico). Indimenticabili le musiche di sigla, a risentirle così ricche di suggestioni! Prodotti in proprio e in diretta senza dispendio di mezzi e trasmessi di domenica sera, questi sceneggiati coinvolgevano – educandone il gusto e la sensibilità – decine di milioni di spettatori di tutte le età che disertavano i cinema e i teatri per riunirsi in massa in casa dei pochi che possedevano un televisore.

Ha detto di lui Ettore Bernabei: «Credo che Majano abbia svolto una grande funzione, quella di volgarizzare la grande narrativa per persone che non avevano probabilmente mai letto un vero romanzo, parlando a spettatori non ancora smaliziati e riuscendo a interessarli.». In occasione della sua morte, Maurizio Porro del “Corriere della Sera” ha scritto: «Il sogno, in parte riuscito, di Majano e della sua generazione era di fare del video, a scadenza fissa, un doposcuola d’evasione dove i massimi autori scendessero, senza perdere dignità, al livello del più semplice dei telespettatori. Naturalmente ci voleva l’aiuto dei sentimenti, suonati a pieno volume, e di volti che sapevano diventare cari, carissimi alla fantasia...». (“La Sicilia” 9/7/2009)

sabato 15 ottobre 2011

Eric Ambler, il pioniere della moderna spy–story prestato al cinema



Eric Ambler



Cento anni addietro, il 28 giugno del 1909, nasceva a Londra – ove morì il 22 ottobre del 1998 – Eric Ambler, autore soprattutto di romanzi di spionaggio (21 sono i suoi libri pubblicati).


Vero maestro del thriller, ha portato alla perfezione la spy–story ritenuta prima di lui «una forma infima di vita letteraria», dando origine a quel particolare filone che avrà il suo massimo rappresentante in John Le Carré (oggi tutti conoscono John Le Carré, ma hanno purtroppo dimenticato Eric Ambler).

Superando l’avventura fine a se stessa e creando suspense e atmosfera, con precisione e humour britannico, Ambler ha analizzato i meccanismi di funzionamento delle sue investigazioni e ha documentato in modo realistico «il razionale labirinto, dove tutto torna e si lega, con logica impeccabile, nella soluzione finale». I suoi diabolici e sofisticati intrighi sono infarciti di politica internazionale (scrisse: «Gli affari internazionali possono condurre le loro operazioni con pezzi di carta, ma l’inchiostro usato è il sangue umano.») e sono ambientati spesso in un’epoca sinistra e preoccupante (quella nazi–fascista della fine degli anni ’30), in improbabili ipotetici paesi balcanici – il cui nome è quasi sempre taciuto – ove si parla un «bastardo dialetto turco–slavo».

A proposito de Il processo Deltchev (1951), scrive Angela Fodale: «Se di solito il paese fantastico, luogo di avventure e prodigi, è lontano dall’Europa, centro ideale della cultura occidentale, la regione balcanica costituisce nell’immaginario collettivo un “cuore di tenebra” del vecchio continente, tanto più inquietante quanto più ci è vicino... terra straniera che tuttavia il protagonista non riesce a comprendere ed accettare».

Il suo romanzo più riuscito è La maschera di Dimitrios (1939), vicenda «scombinata, non artistica... priva di moventi occulti» che riguarda Dimitrios Makropoulos, grande criminale europeo coinvolto in orribili delitti (incluso il traffico di eroina e l’assassinio politico), ritrovato cadavere. I protagonisti delle intricate storie di Ambler sono spesso uomini comuni dalla vita banale, costretti per innocente curiosità a divenire antieroi, supereroi o talora soltanto pedine in una vicenda piena di scheletri nascosti. Nel 1944 Jean Negulesco ne ha ricavato l’omonimo celebre film, interpretato da Peter Lorre.

Notevoli sono anche: La rotta del terrore (1940), da cui fu tratto il film di Norman Foster con Joseph Cotten e Dolores Del Rio; Topkapi (1964), che divenne il memorabile film diretto da Jules Dassin con Melina Mercouri e Peter Ustinov (ispirando Blake Edwards per l’ironico “La pantera rosa”); Una sporca storia (1967); Il levantino (1972), che vinse il Gold Dagger Award; e Doctor Frigo (1974). Molti di questi romanzi sono stati pubblicati in Italia; tra l’altro, l’irresistibile romanzo d’esordio La frontiera proibita (1936) e il raffinato Il caso Schirmer (1953) furono tradotti da Giorgio Manganelli, riconosciuto più tardi un maestro della prosa italiana.

Eric Ambler ha vissuto a Hollywood per molti anni, curando la sceneggiatura di numerosi film; tra quelle più popolari: I giganti del mare di Michael Anderson con Gary Coope, Gli ammutinati del Bounty di Lewis Milestone con Marlon Brando, Pianura rossa di Robert Parrish con Gregory Peck, e Mare crudele di Charles Frend (che gli valse la nomination all’Oscar nel 1953). È sua anche la sceneggiatura di Titanic, latitudine 41 nord del regista Roy Ward Baker, uno dei primi film dedicati alla nota tragedia (tratto dal libro di Walter Lord del 1912).

Joan Harrison, la seconda moglie americana di Eric, è stata assistente e produttrice di alcuni film di Alfred Hitchcock, che certamente fu molto influenzato da Ambler (anche Somerset Maugham e Graham Greene gli devono molto).

Lo scrittore–critico Edmondo Aroldi ha scritto di lui: «Maestro del romanzo poliziesco e di spionaggio, un classico della narrativa sull’intrigo internazionale e, guarda caso, uno scrittore di razza». (www.zam.it, News, 2/7/2009)

P.S. Dall'intrigante romanzo La maschera di Dimitrios (The Mask of Dimitrios) (1939), il regista rumeno Jean Negulesco, ai suoi esordi, ricavò nel 1944 l’omonimo celebre film, sceneggiato da Frank Gruber e interpretato da Sydney Greenstreet, Peter Lorre, Zachary Scott e Faye Emerson. La trama noir, complessa e morbosa, si svolge attorno a Dimitrios Makropoulos – un criminale senza scrupoli, un vero "genio del male", affascinato dal delitto, che viene ripescato morto nel Bosforo (siamo a Istanbul, un crocevia di traffici sporchi e di delinquenti di ogni tipo e provenienza) – e a un innocuo scrittore di gialli che si interessa al caso mettendosi nei guai (di Peter Lorre, che lo interpretava, disse il regista Negulesco: «il maggior talento che abbia mai visto in vita mia»). La storia coinvolge altre figure enigmatiche (una bolsa cantante di night, una elegante ex spia e altri tipi ambigui e inafferrabili), e al centro di tutto domina l'amore per il denaro e la sua fatale forza di corruzione. Il regista utilizza in modo sapiente i flash-back, con i quali ricostruisce lentamente una realtà inquietante e misteriosa che si va via via rivelando in una oscurità che è sia effettiva sia psicologica (superba la fotografia in bianco e nero, avvolgenti i chiaro–scuri di Arthur Edeson).


Dal romanzo di Ambler La rotta del terrore (Journey Into fear) (1940), fu tratto il film di fantapolitica da Norman Foster con Joseph Cotten, Dolores Del Rio, Agnes Moorehead e Orson Welles. A cavallo tra thriller, spy–story, noir ma anche commedia, il film è ambientato sempre a Istanbul, ove delle spie naziste assumono un sicario allo scopo di far fuori l’ingegnere americano Howard Graham, esperto di artiglieria navale, in partenza da Istanbul per New York, un "antieroe" su tutta la linea: inetto e imbranato, lamentoso e superstizioso, insensibile al fascino della ballerina Josette Martel. Sulla nave scalcinata (vero fulcro di questa vicenda di doppio gioco), l'uomo viene pedinato da un misterioso personaggio, un killer melomane, che cerca di ucciderlo e si salva fortunosamente soltanto per l'aiuto del cinico colonnello turco Haki, capo della polizia segreta (interpretato da un Orson Welles truccato in modo da sembrare Stalin). Ha scritto Morando Morandini (ne "il Morandini", Zanichelli editore): «Da un romanzo di Eric Ambler, sceneggiato da Cotten e Welles, un thriller spionistico RKO ad alta tensione che a livello stilistico è impregnato di tocchi ed eccessi wellesiani. Welles dichiarò di aver "disegnato" il film senza averne diretto le riprese. Ne fu, comunque, il supervisore, l'eminenza grigia.». In una sua intervista Welles, che aveva scritto la sceneggiatura ed era stato molto vicino alla direzione del film da parte di quel che era un suo caro amico, disse: «Ė orribile quello che gli hanno fatto, perché la nostra sceneggiatura era ottima, e avrebbe dovuto essere un film più che decente. Buon cast e tutto. Era il contrario di un film d’azione, perché era basato su quelle cose che Ambler scrive tanto bene, gli antieroi, l’antiazione, eccetera. E quelli hanno tolto tutti i motivi d’interesse tranne l’azione, cercando disperatamente di trasformarlo in un film d’azione di serie B. Ne hanno ricavato un bel po' di solido nulla... Montaggio è una parola grossa, semmai una falciatura con il tosaerba rotto.» ("Journey into Fear" di Lorenzo Pellizzari, http://www.lafuriaumana.it/index.php/archive/51-la-furia-umana-nd-4-springtime-2010/150-journey-into-the-fear). E anche in questo film prevalgono le suggestioni del buio della notte e dell'oscurità degli interni o dei lividi corridoi della nave (creati dall'ottima fotografia di Karl Struss). Daniel Mann fece un "pallido remake" del film di Foster nel 1975 (distribuito col titolo La via della paura) con Sherley Winters, Vincent Price e Sam Waterston.  


Dal romanzo di Eric Ambler The Light of Day (1962), adattato da Monja Danischewsky e diretto e prodotto da Jules Dassin, fu tratto il memorabile film Topkapi (1964) con Melina Mercouri (che diventerà più tardi la moglie di Dassin), Maximilian Schell, Peter Ustinov – che vinse nel 1964 l'Oscar per il miglior attore non protagonista, nonostante avesse un ruolo primario nel film –, Robert Morley, Gilles Ségal e Akim Tamiroff. Il film (un giallo divertente e ben girato e recitato, ricco di humor e ritmo, che si avvaleva della grande fotografia di Henri Alekan) narra le vicende di un'affascinante avventuriera, Elizabeth Lipp, e del suo ex amante Walter Harper, un criminale svizzero; insieme, organizzano l'acrobatico furto di un preziosissimo diamante incastonato in un pugnale conservato nel Museo di Costantinopoli (il Topkapi) con misure di sicurezza a prova di ladro. I due utilizzano una banda d'individui scelti e addestrati per un'esecuzione studiata al millimetro: un eccentrico tecnico britannico, un acrobata muto e un ladro–falsario, spregevole e pasticcione, di origini angloegiziane che senza saperlo viene reclutato come autista di una macchina di lusso piena di armi ed esplosivo e che in un secondo tempo viene assunto dlla polizia per spiare Lipp e Harper. Malgrado alcuni inevitabili inciampi il colpo riesce ma, per una serie di errori apparentemente insignificanti, si giunge alla rovina di quel piano così complicato e studiato nei più piccoli particolari. Il film si chiude con la gang in una prigione turca e l'incontenibile Lipp che illustra il suo nuovo piano di rubare i gioielli imperiali russi al Cremlino. Ispirato da "Rififi", girato dallo stesso Dassin nel 1955, ha ispirato a sua volta "Mission: impossible" diretto nel 1996 da Brian De Palma con Tom Cruise.

Ambler ha sceneggiato il film bellico inglese Mare crudele (The Cruel Sea), diretto nel 1953 da Charles Frend (il soggetto era di Nicholas Monsarrat), interpretato da Jack Hawkins, Donald Sinden, Denholm Elliott, Virginia McKenna, Bruce Seton e Liam Redmond. Questa sceneggiatura non oripginale valse allo scrittore nello stesso anno la nomination all’Oscar. Ambientato durante la Seconda guerra mondiale, il film narra le tragiche vicende del colonnello Ericson e del suo aiuto, al comando di una corvetta della marina britannica, la Compass Rose, e di un equipaggio senza esperienza e mal affiatato. Scortando diversi convogli in mare aperto, la corvetta riesce a solcare più volte l'Oceano Atlantico ma, dopo tre anni di servizio,  viene silurata dai tedeschi causando la morte di gran parte dell'equipaggio. Il colonnello Ericson solcherà di nuovo il mare con una nuova corvetta ma stavolta riuscirà a vendicare la sua prima sconfitta distruggendo un sommergibile tedesco.

venerdì 14 ottobre 2011

Sherlock Holmes l’immortale detective di Arthur Conan Doyle


Arthur Conan Doyle


Il 22 maggio del 1859 nasceva a Edimburgo Arthur Conan Doyle, ideatore del giallo–fan­tastico e padre di Sherlock Holmes, il magro intelligente e compassato ma stravagante investigatore dilettante – imparentato con Auguste Dupin di Edgar Allan Poe – che, con il suo immancabile cappellino da cacciatore scozzese e la sua pipa ricurva, pone la logica al di sopra di tutto.


Grande osservatore di dettagli, Holmes è l’abile detective in grado di trovare una soluzione a casi apparentemente irrisolvibili, ma è anche un delicato violinista, uno scattante pugilatore e schermitore, oltre che l’autore d’interessanti trattati di tipo pratico. Comparso in quattro romanzi e cinquantasei racconti, questo consulente deduttivo è divenuto l’icona immortale della letteratura gialla e il personaggio letterario protagonista del maggior numero di spettacoli teatrali e di film: sino agli anni ’30 l’attore americano William Gillette lo ha portato sul palco per più di 1300 volte mentre tra il 1939 e il 1946 Basil Rathbone ha interpretato il detective in ben 14 pellicole cinematografiche.

Così lo descrive il suo autore: «...il suo sguardo era acuto e penetrante; e il sottile naso aquilino conferiva alla sua espressione un’aria attenta e decisa. Il mento, sporgente e quadrato, era tipico dell’uomo d’azione. Le mani, sempre sporche d’inchiostro e scoloriture provocate dagli acidi, avevano un tocco straordinariamente delicato...».

Autore di una vastissima produzione (scrisse di sé: «il vecchio cavallo ha trascinato una pesante soma per questa pesante strada, ma è ancora in grado di lavorare»), Doyle ha raccontato l’av­ven­tura, la fantascienza e il terrificante ma anche la storia; La Grande Guerra boera del 1900 – scritto da corrispondente di guerra durante il conflitto anglo–boero in Sudafrica – gli valse nel 1902 il titolo di baronetto, e i critici sostenevano che i suoi documentati romanzi storici fossero i migliori dopo “Ivanhoe” di Walter Scott.

Convinto che gli spiriti dei morti continuassero a esistere e potessero essere contattati dai viventi, negli ultimi anni di vita fu interessato dai fenomeni paranormali, dallo spiritismo e dal soprannaturale. Malgrado i molteplici interessi, Conan Doyle deve notorietà e ricchezza al suo specialissimo detective, che ben presto iniziò a odiare perché si sentiva soverchiato e quasi annullato da lui; ne L’ultima avventura tentò di farlo morire ma – per le pressioni dell’editore e del pubblico, che prese il lutto sommergendolo di suppliche – dovette farlo ritornare in vita; sconfortato, nel 1924, nella sua biografia scriveva: «Ucciderò Sherlock Holmes» (l’esperta di Doyle Alessandra Calanchi ha così concluso una sua intervista: «Conan Doyle è morto ma Sherlock Holmes no»).

Aristocratico da parte di madre (discendeva da un’antica famiglia cattolica irlandese, originaria dai Plantageneti) ma con scarsi mezzi economici, dopo gli studi presso i Gesuiti, nel 1885, si laureò in Medicina all’Università di Edimburgo e iniziò a lavorare presso l’ospedale locale, ove conobbe il brillante e gelido chirurgo–medico legale dottor Joseph Bell che esercitava il metodo scientifico deduttivo – un Doctor Gregory House dell’Ottocento che aveva aiutato la polizia nelle indagini su Jack lo squartatore, cui s’ispirò per la costruzione del suo indimenticabile personaggio. Hercule Poirot, Ellery Queen, Nero Wolfe e tanti altri ancora sono da considerarsi “discendenti diretti” del famoso Sherlock Holmes.

Dopo un avventuroso periodo trascorso come medico di bordo su una baleniera, aprì uno studio medico in un sobborgo di Portsmouth, dedicandosi poi alla letteratura e pubblicando con successo il primo romanzo del ciclo di Sherlock Holmes Uno studio in rosso (1887), in cui già compariva il saggio Dr Watson (amico e biografo del detective, che agisce da spalla vivendo con lui in Baker Street al numero 221B), vero e proprio “alter ego” di Conan Doyle (celebre la frase: «Elementary, my dear Watson!»). Altri personaggi di rilievo nella serie sono l’imbelle Ispettore Lestrade di Scotland Yard (di cui Sherlock Holmes si prende continuamente gioco) e l’acerrimo nemico Professor Moriarty. L’ultimo libro dedicato all’intramontabile personaggio fu Il taccuino di Sherlock Holmes (1927), una raccolta di 12 racconti.

Conan Doyle si sposò due volte: con Louisa Hawkins nel 1885 (ebbe due figli) e – dopo la morte di Louise avvenuta nel 1906 – con Jean Leckie (ebbe altri tre figli). Morì improvvisamente a 71 anni il 7 luglio del 1930 per un attacco cardiaco nella sua casa di campagna a Windlesham (Crowborough). (www.zam.it, News, 31/5/2009)

P.S. Lo Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle era una creatura adattissima per il teatro e il cinema, e sin dagli anni ’30 il palco ha visto come protagonista dello stravagante investigatore l’attore teatrale americano William Gillette (che lo ha interpretato ben 1300 volte) mentre al cinema Sherlock Holmes è stato interpretato da Harry Benham nel 1913 (in Sherlock Holmes Solves the Sign of the Four di Lloyd Lonergan); da John Barrymore nel 1922 (in Sherlock Holmes di Albert Parker); da Eille Norwood nel 1923 (in The Sign of Four di Maurice Elvey); da Clive Brook nel 1929 (in The Return of Sherlock Holmes di Basil Dean) e nel 1932 (in Sherlock Holmes di William K. Howard); da Arthur Wontner (in Il segno dei quattro di Graham Cutts); e da Reginald Owen nel 1933 (in A Study in Scarlet di Edwin L. Marin).

Fu Basil Rathbone a ricevere il testimone, interpretando il detective negli anni '30 e '40 in almeno 14 pellicole cinematografiche; mi limiterò a ricordare la prima del 1939, Sherlock Holmes e il cane dei Baskerville (The Hound of the Baskerville) di Sidney Lanfield, e l'ultima del 1946, Sherlock Holmes – terrore di notte (Terror by Night) di Roy William Neill. Attore di valore e interprete shakespeariano, Basil Rathbone deve all'interpretazione del personaggio di Sherlock Holmes in questa fortunata serie di film prodotta dagli Universal Studios il suo successo planetario (Basil era Sherlock Holmes, e nessun altro!). Interpretò il personaggio del celebre investigatore anche nella trasmissione radiofonica Le nuove avventure di Sherlock Holmes, avendo accanto sempre Nigel Bruce nel ruolo del dottor Watson.

Tra i tanti altri film su Sherlock Holmes, sono da ricordare:

La vita privata di Sherlock Holmes (The private life of Sherlock Holmes) di Billy Wilder del 1970, sceneggiato da I.A.L. Diamond, con Robert Stephens (Sherlock Holmes) e Colin Blakely (dottor Watson), un film che sembra interrogarsi sull'ambiguità sentimentale e sulla misoginia di Holmes, e che dipinge uno Sherlock Holmes diverso, cocainomane e malinconico, con un che di macabro che indulge alla morte. Un maligno critico americano lo definì «A qualcuno piace tiepido» (ne "Il Morandini, Zanichelli editore).

Sherlock Holmes: soluzione sette per cento (The SevenperCent Solution) (1976), tratto da Herbert Ross dal romanzo di Nicholas Meyer (1973), che lo adattò per il film (7è e la concentrazione della soluzione di cocaina consuamata dall'investigatore), con Robert Duvall (dottor Watson), Laurence Olivier (il professor Moriarty), Alan Arkin (Sigmund Freud) e Nicol Williamson (Sherlock Holmes). Il dottor Watson vuol far guarire Holmes, cocainomane e schizofrenico, e lo porta a Vienna da Sigmund Freud; qui vengono coinvolti nel sequestro di una tossicomane, Lola. Ha scritto Morando Morandini: «... mescola il metodo deduttivo di Arthur Conan Doyle con l'analisi di Freud, è un film sgangherato, delirante, condotto a ritmo forsennato (con un bell'inseguimento ferroviario), assai curato nella parte decorativa, sostenuto da una recitazione raffinatamente ironica.».

Assassinio su commissione (Murder by Decree) (1979) di Bob Clark con Christopher Plummer (Sherlock Holmes) e James Mason (il dottor Watson): i due indagano sul serial killer Jack lo Squartatore, assassino di prostitute, sospettando un coinvogimento dei quartieri "bene". Ha scritto Morando Morandini: «L’idea di unire la vicenda (reale) di Jack lo Squartatore alle indagini (di fantasia) di Sherlock Holmes, l’unico che avrebbe potuto risolvere il mistero, era già stata utilizzata... ma questo film di Bob Clark è decisamente superiore ed è uno dei più interessanti film su Holmes, pur derivando da Conan Doyle solo la caratterizzazione dei personaggi principali. Clark ha radicato profondamente nella realtà del tempo la figura dell’assassino, basandosi sui fatti e sulle teorie più accreditate, e nello stesso tempo ha dato di Holmes un ritratto molto rispondente al personaggio di Conan Doyle, aiutato anche dall’ottima interpretazione di Christopher Plummer. E quello del cast, che annovera tra l’altro un James Mason perfetto nel ruolo di un Watson una volta tanto non idiota, è uno dei grossi punti a favore del film, assieme a una precisa ricostruzione ambientale. Teso, avvincente e con una sceneggiatura molto curata anche nei dialoghi, è un film solo marginalmente dell’orrore, ma è molto raccomandabile.».

Sherlock Holmes e il caso della calza di seta (Sherlock Holmes and the Case of the Silk Stocking) (2004), buon film di Simon Cellan Jones con Rupert Everett (Sherlock Holmes) e Ian Hart (il dottor Watson), narra un complesso intrigo a partire dal ritrovamento di una donna, dalla cui calza di seta l'investigatore deduce l'appartenenza all'alta società.

Il film di Guy Ritchie Sherlock Holmes (2009), interpretato da Robert Downey Jr. (Sherlock Holmes) – premiato col Golden Globe nel 2010 – e Jude Law (dottor Watson), ricco di spunti di magia nera e di  occultismo satanico. E' previsto il sequel Sherlock Holmes - Gioco di ombre (Sherlock Holmes: A Game of Shadows), che dovrebbe uscire nel 2011, con gli stessi attori Downey Jr. e Law, che vede nel cast anche la bravissima attrice svedese Noomi Rapace (che ha interpretato "Uomini che odiano le donne"), la quale sarà la protagonista interpretando il ruolo chiave della storia.