lunedì 3 ottobre 2011

L'istrionico Edgar Allan Poe e la sua tragica leggenda


Edgar Allan Poe


Duecento anni addietro, il 19 gennaio del 1809, nasceva a Boston Edgar Allan Poe, l’inven­tore del racconto poliziesco e del giallo psicologico.


Figlio di due artisti girovaghi, la sua vita è stata un romanzo volto alla costruzione di un’auto­distruttiva immagine di “scrittore maledetto”. Il padre americano Daniel Poe aveva abbandonato i tre piccoli figli e la moglie inglese Elizabeth, che era poi morta di tisi quando Edgar aveva appena due anni. Accolto dal padrino John Allan (da ciò, il suo secondo cognome Allan), un ricco ma tirchio commerciante di Richmond senza figli, ebbe difficili rapporti con questo padre surrogato e non riuscì a superare il trauma psicologico della perdita dei genitori.

Bambino prodigio dalla memoria portentosa e dalla passione per rime e tiritere, amante della poesia e della musica, manifestò ben presto un fragile carattere. Mandato in Inghilterra (1815–1820) per un’educazione di tipo inglese, fu influenzato dai suoi villaggi misteriosi, dalle sue antiche magioni, dalle sue torri con l’orologio e dai suoi paesaggi impareggiabili.

Compose appassionate poesie per le molte donne delle quali si era innamorato ma fu Sarah Elmira Royster il suo vero grande amore; purtroppo il matrimonio venne impedito dal padre di lei che odiava a morte il genitore adottivo di Poe ed Elmira sposò un altro (per lei, Poe scrisse la poesia Tamerlano, pubblicata a sue spese nel 1827).

Nel 1826 Poe abbandonava definitivamente la casa degli Allan, iniziando una vita disordinata, piena di debiti di gioco e trasgressioni. Espulso dall’Accademia di West Point per indisciplina grave, nel 1834 andò ospite a Baltimora dalla zia Maria Clemm (che chiamava affettuosamente «Muddy») e s’innamorò della bellissima cugina Virginia appena tredicenne (per Edgar erano possibili soltanto gli amori rassicuranti per adolescenti); e tutti vivevano con la pensione della nonna, vedova di un generale. Nel 1836, dopo varie difficoltà (la ragazza era troppo giovane e cugina di 1° grado) e dopo diverse minacce di suicidio, riuscì a sposare a Baltimora la sua moglie–bambina con un matrimonio privatissimo.

Ritornato a Richmond con Virginia e Muddy, tra il bere e le numerose bizzarrie, Edgar andava costruendo con affanno la sua carriera di giornalista–scrittore, perseguitato da problemi esistenziali, ossessioni psicologiche e uso di stupefacenti. Lavorava al “Southern Literary Messenger” (ne fu l’editor, il correttore di bozze e lo stampatore) e col suo intervento la modesta rivista regionale divenne un prestigioso punto di riferimento letterario.

Poe amava il racconto per la sua concisione e riempì le sue storie di temi fantastici e bizzarri, di terrore e tormento, di follia e soprannaturale, di echi macabri e satanici; tra i moltissimi suoi racconti sono da ricordare: La caduta della casa Usher, Berenice – un racconto, Ligeia, Morella, William Wilson, Il pozzo e il pendolo e Il cuore rivelatore. In questi testi, si agitavano Fantasmi e Spettri che torturano e distruggono, Fatalità e Superstizione che provocano orrore, Delitti perversi compiuti da malvagi «esseri perduti» ma soprattutto la Morte e la sua nera Ombra oltre alla Sopravvivenza dopo la dissoluzione.

I suoi racconti – talora creduti eventi reali dai lettori e dalla stampa – mostrano l’autore in preda alle «dissennate idee del paese dei sogni», precorrendo psicanalisi e parapsicologia (aveva scritto: «Coloro che sognano ad occhi aperti, conoscono molte cose che sfuggono a quanti sognano solo dormendo. Nelle loro visioni annebbiate, essi colgono sprazzi di eternità e tremano, svegliandosi al pensiero di essersi trovati al limite di un grande segreto… Pur senza timone e bussola, essi penetrano nel vasto oceano del sublime ineffabile.»).

Con il racconto Gli omicidi della Rue Morgue (1841) ha iniziato la moderna “detective story”: il suo criminologo Auguste Dupin ha suggerito a Doyle il famoso Sherlock Holmes.

Nel 1838 pubblicò il romanzo la Storia di Arthur Gordon Pym (si riallacciava alla tradizione anglosassone del viaggio) che lo rese famoso, ispirando Melville e Verne.

Nel 1845 diede alle stampe la raccolta lirica Il corvo e altre poesie che gli diede finalmente risonanza internazionale e che fu amato da Baudelaire e Mallarmé che proposero Poe come mae­stro e modello.

Nonostante celebrità e successo, il resto della sua vita si svolse tra angosce e depressioni in una serie infinita di trasferimenti, licenziamenti e nuove collaborazioni giornalistiche. Nel 1847 mo­rì l’amatissima moglie di tubercolosi e la vita dello scrittore, annientato dal dolore e dal rammarico, si disgregò completamente nell’abuso di alcol; ebbe altre donne ma non dimenticò mai l’Amata assente. Scrisse: «…questo fu il demone più grande che mai distrusse un uomo. ...io bevvi Dio solo sa quando e quanto… Solo per sottrarmi alla tortura dei miei ricordi ho messo in pericolo la mia vita e non per il desiderio del piacere.». Dopo essere stato trovato privo di sensi sulla banchina del porto di Baltimora in seguito a una forte bevuta a un party di compleanno, il 7 ottobre del 1849 moriva in ospedale in preda a delirium tremens, povero e abbandonato come l’ultimo dei diseredati. (www.zam.it, News, 17/1/2009)


P.S. "La caduta della Casa Usher" e la psicanalisi

Nel racconto La caduta della Casa Usher, che dovrebbe essere letto in chiave psicanalitica, Poe – che precorse Freud e la psicologia – racconta il tremendo influsso esercitato da un’antichissima casa (dai «muri desolati», dalle «vuote occhiaie delle finestre», dai «tronchi bianchi di alberi in sfacelo» e «da uno stagno nero e lugubre che si stendeva, immoto specchio, davanti all’abitazione») sulla psiche dei due abitanti, i gemelli Roderico e Madeline (personaggi che potrebbero anche essere autobiografici: esistevano infatti due autentici James e Agnes Usher, parenti dal lato materno di Edgar). L’agitazione nervosa e il disturbo mentale di Roderico sono descritti con una perfetta conoscenza delle crisi di panico e delle angosce paralizzanti della depressione; Roderico «era schiavo di una forma anomala di terrore», e all’amico dice: «Temo gli eventi del futuro, non in se stessi ma nelle loro conseguenze. Tremo al pensiero di un avvenimento qualsiasi, anche quello più comune (…) sento che presto o tardi verrà il momento che dovrò lasciare insieme vita e ragione in qualche lotta con un sinistro fantasma, la Paura». La depressione di Madeline è abilmente descritta così: «Una costante apatia, un progressivo deperimento della persona… un’incessante irradiazione di tristezza… un bagliore sulfureo gettato dalla mente sul circostante universo fisico e morale».

Poe, inoltre, in un certo qual modo sembra conoscere ante–litteram il significato e la forza dell’inconscio; con riferimento a Roderico, scriveva: «In alcuni momenti, in verità, credevo che il suo spirito perpetuamente agitato fosse travagliato da qualche opprimente segreto, e che egli lottasse con se stesso per trovare il coraggio necessario per rivelarlo». E nel racconto, Poe in modo autobiografico riflette come questi comportamenti fossero simili a quelli dell’«ubriacone irrecuperabile» e dell’«incorreggibile mangiatore d’oppio», e parla di «malessere del cuore… disperata desolazione del mistero... estrema depressione d’animo ch’io non saprei più inappropriatamente paragonare ad alcuna sensazione terrena se non il distacco dal sogno di colui che ricorre all’oppio, alla sua amara graduale ricaduta nella vita quotidiana, e all’orrendo lento svanire del velo». Ed ecco, che Edgar ha fatto per noi la corretta diagnosi del suo abuso di alcol e oppio: il vano tentativo di un depresso di curare la sua malattia con una «eccitazione artificiale», in assenza dei moderni psicofarmaci! E quando i due gemelli muoiono insieme in maniera terrificante, anche le mura della casa crollano miseramente e lo stagno buio si richiude sopra le macerie fisiche e spirituali dei due protagonisti, ponendo termine finalmente ai loro incubi, alle loro angosce esistenziali.

"William Wilson" e l’inconscio

In William Wilson, altro superbo "psychological thriller" pieno di riflessi autobiografici e da leggere in senso psicanalitico, Poe narra di un ragazzo e del suo alter ego, compagni di scuola. Ne approfitta per fare una descrizione della sua scuola di Stoke Newington («antichissimo edificio di un misterioso villaggio dell’Inghilterra ricco di panorami fantastici, suoi quali gettavano le loro grandi ombre perenni degli immemorabili olmi»). Lo strano compagno è molto simile a William: è nato lo stesso giorno e ha il suo stesso nome e cognome; bisbigliando («…e il suo mormorio singolare divenne la mia stessa eco»), gli dà utili consigli e ammonimenti, comparendo in diverse situazioni e tentando di contrastarne le cattive azioni. L’autore descrive il protagonista, divenuto un essere ignobile che ha sceso tutti i gradini dell’abiezione, come un «reietto fra tutti i reietti più dissoluti», e parla di «una nube densa, lugubre e sconfinata… eternamente sospesa tra le speranze e il cielo», di «indicibile miseria e d’imperdonabile colpa… in mezzo a un deserto di orrori». E il giovane – che avverte il suo alter ego come una «sinistra coscienza… uno spettro sul suo sentiero» – decide di ucciderlo in duello, per accorgersi poi con orrore (dinanzi a uno specchio) di aver pugnalato se stesso. L’antagonista moribondo gli dice: «Tu hai vinto e io mi arrendo. Ma d’ora in avanti anche tu sei morto, morto per il Mondo, per il Cielo e per la Speranza! In me tu esistevi e nella mia morte, vedi da questa immagine – che è la tua stessa – quanto completamente hai assassinato te stesso.». In una tremenda lotta tra Bene e Male, l’Edgar colpevole e vizioso ha ucciso quel che restava dell’Edgar buono e puro, pieno di grandi sogni ed elevate aspirazioni! A Poe sembrano note le caratteristiche dell’inconscio, prima della descrizione fattane da Sigmund Freud. Non a caso, Freud scrisse l’introduzione al libro di Marie Bonaparte “La vita e i lavori di Edgar Allan Poe”, pubblicato nel 1949.


Poe, d’altra parte, ha nella sua vita mostrato un’ambigua ambivalenza sia nel temperamento sia nell’arte: era dolce e devoto con chi amava, irritabile e arrogante con gli altri; era idealista e visionario da un lato, acuto e minuzioso osservatore di dettagli dall’altro; nelle sue poesie usava versi angelici mentre nei suoi racconti era aspro e forte; era infine un critico intransigente dei grandi autori ma sapeva essere inaspettatamente generoso con gli scrittori minori.

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