martedì 18 ottobre 2011

Alfonso Gatto, poeta errabondo e militante di sinistra



Alfonso Gatto

Cento anni addietro, il 17 luglio del 1909, nasceva a Salerno Alfonso Gatto, figlio di gente di mare dall’infanzia travagliata – marchiata a fuoco dalla morte del fratellino Gerardo – e dalla vita adulta errabonda e piena di miseria (per lo più, volutamente ricercata).


Tentò di laurearsi in Lettere all’Università di Napoli ma dovette rinunziarvi nel 1926, iniziando a vagare deluso per diverse città alla caccia di diversi lavori; fece il commesso, l’istitutore, il correttore di bozze e infine il giornalista. Mentre cercava di costruire la sua difficile identità (scrisse: «Un fenomeno oscuro il divenire... sono diventato poeta per avere sempre sentito dietro di me, dalla nascita, altre stanze, altri luoghi, altre stagioni in cui ero vissuto»), tentava di ritagliarsi il ruolo di poeta–esule.

Fu antifascista, conobbe l’ingiusta detenzione per cospirazione sovversiva nel 1936, fu comunista militante, e partecipò alla Resistenza e alle successive lotte sociali. Divenne, quindi, un intellettuale di sinistra molto attivo, animato dall’urgenza della militanza politica e dal solidale impegno civile (nel 1951 abbandonò, però, il Partito Comunista per dissidenza).

Dopo aver iniziato come poeta melodico sul solco di Salvatore Di Giacomo, divenne col tempo sempre più oscuro e allusivo, allontanandosi dai moduli della tradizione e fondando nel 1938 – insieme con Vasco Pratolini – la rivista letteraria “Campo di Marte” che diventò il vessillo dell’ermetismo. Baciato dal consenso del pubblico e dalla stima della critica, con La forza degli occhi vinse il premio Bagutta (1955) e con Storia delle vittime si aggiudicò il premio Viareggio (1966). Fu anche un acuto critico d’arte, mosso dall’amore per la scultura, la pittura e la moderna architettura oltre che dal desiderio di rinnovare forme e contenuti dell’arte.

Al cinema – che amava – prestò il suo volto espressivo, segnato dalla vita, recitando in ottimi film di Pasolini, Rosi e Monicelli.

Fu un fan entusiasta del ciclismo e, insieme all’amico Pratolini, seguì per “L’Unità” il Giro d’Ita­lia (1947 e 1948), mentre dieci anni dopo fu inviato giornalistico al Tour de France (1957 e 1958). Dal 1974 fu collaboratore sportivo del quotidiano milanese “Il Giornale”, ai tempi della direzione di Indro Montanelli.

Con la sua poesia ricca di musicalità, celebrò i Martiri della Resistenza («...Tornerà tornerà, / d’un balzo il cuore / desto / avrà parole? / Chiamerà le cose, le luci, i vivi? / I morti, i vinti, chi li desterà?»), esaltò l’ideologia di sinistra con i suoi forti simboli (la bandiera rossa e il saluto comunista) ma cantò anche l’amore per la donna, il dolore quotidiano e le meditazioni di morte, la memoria e l’oblio, la natura e la terra; e sempre si fece coinvolgere nella pena degli altri («...Imme­ritata la gioia / che non sia di tutti / e i nostri lutti / che non son nostri...»).

L’8 marzo del 1976, all’età di sessantacinque anni, Alfonso Gatto moriva in un incidente automobilistico che mise fine al suo confuso vagabondare di Uomo e al suo tormentato esistere di Poeta. (www.zam.it, News, 17/7/2009)

P.S. Tra le partecipazioni cinematografiche più significative di Alfonso Gatto sono da ricordare quella ne Il sole sorge ancora (1946) di Aldo Vergano (aveva il ruolo di un conduttore di treni) e quelle nei film di Pier Paolo Pasolini Il Vangelo secondo Matteo (1964) (era l'apostolo Andrea) e Teorema (1968) (rappresentava la parte del dottore). Notevoli anche le partecipazioni in Cadaveri eccellenti (1976) di Francesco Rosi (era Nocio) e in Caro Michele (1976) di Mario Monicelli dal romanzo di Natalia Ginzburg (interpretava il padre di Michele).


Nel 1944 il poeta salernitano, aveva scritto il testo teatrale Il duello, molto lirico e quasi leopardiano nel considerare il dolore come esperienza fondamentale, ma anche metafisico e surreale, certamente molto arduo da rappresentare per le sue proprietà decisamente antiteatrali (i protagonisti sono il disperato Tom e il distratto Nuvolo, circondati da quattro ballerinette discinte, Maura, Iride, Leda e Stella). In occasione del centenario della nascita, il pezzo teatrale è stato ristampato a cura di Francesco D’Episcopo con una postfazione di Pasquale De Cristofaro, il regista che nel 2004 lo aveva portato in scena a Salerno.

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