mercoledì 12 ottobre 2011

Montanelli, il Grande Vecchio del giornalismo



Indro Montanelli



Cento anni addietro, il 22 aprile del 1909 – «l’anno in cui sono state messe in commercio le prime macchine da scrivere portatili» (Stefano Bartezzaghi) – , nasceva a Fucecchio (Firenze) Indro Montanelli, non solo giornalista carismatico ma anche ottimo scrittore e colto storico.


Seguì il padre, preside di Liceo, nei suoi numerosi spostamenti (Lucca, Nuoro e Rieti ove frequentò il Liceo) dando inizio a una vita straordinaria e avventurosa. Laureatosi in Giurisprudenza, iniziò a scrivere su riviste e periodici divenendo amico di Longanesi e Prezzolini; passò poi a lavorare come reporter di prestigiosi giornali esteri.

Aderì al regime fascista, arruolandosi volontario in Abissinia come comandante di un battaglione di Ascari (vi sposò una ragazzina eritrea – comprata dal padre secondo gli usi locali – che gli rimase accanto nella permanenza in Africa). Partecipò poi come corrispondente alla Guerra di Spagna, prendendo posizione contro il regime di Franco e guastandosi per le sue critiche anche con il regime fascista. Preferì allontanarsi dall’Italia e al suo ritorno entrò a far parte dello staff del “Corriere della Sera” (1938), andando in giro per l’Europa come «redattore viaggiante». Durante la guerra fu in Germania, Polonia, Finlandia, Francia e Grecia, pubblicando articoli schietti che in Italia aumentarono lo scontento perché considerati “disfattisti”.

Dopo l’8 settembre, si legò al movimento partigiano “Giustizia e Libertà”; ricercato e catturato dai tedeschi, fu incarcerato e condannato a morte ma si salvò fortunosamente con la fuga in Svizzera; l’esperienza del carcere gli ispirò il racconto Il generale Della Rovere (chi era realmente il suo compagno di cella a San Vittore nel 1944? Il generale Della Rovere, fucilato poi dai tedeschi, o Giovanni Bertone, un pregiudicato spia dei tedeschi?), scritto contemporaneamente alla sceneggiatura del bel film di Rossellini (1959), premiato a Venezia con il Leon d’o­ro. Il film suscitò molte tensioni e dai politici d’entrambi gli schieramenti fu accusato di distorsione storica (rappresentava un tedesco buono!).

Nel 1945 fu chiamato alla direzione de “La Domenica del Corriere”, ritornò quindi al “Corriere della Sera” (1946) e partecipò alla creazione della casa editrice Longanesi che pubblicò il suo libro Morire in piedi (1949).

Negli anni cinquanta su “La Domenica del Corriere” creò «La Stanza di Montanelli», fortunatissima rubrica che gli diede fama immensa. Contemporaneamente iniziò a occuparsi a puntate di Storia, curando la pubblicazione di vendutissimi libri che contribuirono a divulgare la disciplina storica tra il grande pubblico.

Partecipò alla rivoluzione ungherese del 1956 e raccontò la sua repressione da parte sovietica nell’o­pera teatrale I sogni muoiono all’alba, divenuto un film da lui stesso diretto insieme a M. Craveri ed E. Gras, ricco di un cast stellare (1961). A Budapest, cinque giornalisti italiani di diverse tendenze politiche si ritrovano a trascorrere nelle chiuse stanze di un albergo le interminabili ore di una drammatica trattativa tra i Sovietici, discutendo i loro drammi interiori mentre il fragore dei carri armati sovietici annuncia la tragedia imminente.

Anticomunista filo–americano (disse alla Iotti: «Tengo una vecchia icona di Stalin perché è il comunista che ammiro di più: quello che ha fatto fuori più comunisti»), fu un conservatore illuminato appartenente a «una destra che non esiste» – quella dei Padri del Risorgimento e di Giovanni Giolitti – ma egli stesso per le sue idee controcorrente amava definirsi un «anarco–conservatore» (molti lo tacciavano invece di fascismo).

Nei primi anni settanta lasciò il Corriere che aveva virato a sinistra e fondò “Il Giornale”: con quella «traversata nel deserto» voleva dar voce alla «maggioranza silenziosa». Nel giugno del 1977 Montanelli, mentre si recava al giornale, fu gambizzato dalle Brigate Rosse che lo ritenevano “uno schiavo delle multinazionali”: questo episodio aumentò la sua notorietà e lo avvicinò maggiormente ai suoi lettori. Nel 1993 per contrasti con Silvio Berlusconi – che nel 1977 era divenuto il proprietario della testata – abbandonò il Giornale (scrisse Indro: «... fu una separazione consensuale tra me e Berlusconi. Il patto su cui si reggeva la nostra convivenza, che era stato scrupolosamente osservato da entrambe le parti, era venuto meno»). Da quel momento, numerosi furono i suoi attacchi a Berlusconi entrato in politica, che egli considerava inadatto e portatore d’istinti autoritari.

Si buttò quindi nella nuova avventura della creazione del quotidiano d’opinione “La Voce” (così chiamato in omaggio a Prezzolini) ma l’impresa fallì ben presto per motivi economici; ritornò allora al Corriere, ripristinando il sodalizio durato oltre quarant’anni.

Forse il più grande giornalista italiano della seconda metà del ’900, Montanelli scrisse circa 60 libri e ricevette numerosi riconoscimenti in Italia e all’estero. Nel 1991 il presidente Cossiga gli offrì la nomina a senatore a vita ma, per salvaguardare la sua indipendenza, egli rifiutò (scrisse: «Non è stato un gesto di esibizionismo... il giornalista deve tenere il potere a una distanza di sicurezza»).

Morì a Milano il 22 luglio del 2001. Il giorno seguente il Corriere pubblicò in prima pagina il necrologio scritto dallo stesso giornalista poco prima di morire: «... Giunto al termine della sua lunga e tormentata esistenza Indro Montanelli... prende congedo dai suoi lettori, ringraziandoli dell’affetto e della fedeltà con cui lo hanno seguito... Non sono gradite né cerimonie religiose né commemorazioni civili».

Nei Giardini di Porta Venezia – oggi i “Giardini Indro Montanelli” – il Comune di Milano gli ha dedicato una statua di bronzo che lo raffigura con la sua inseparabile Lettera 22 sulle ginocchia. (www.zam.it, News, 21/4/2009)

P.S. Il racconto Il generale Della Rovere, scritto da Indro Montanelli nel 1959, divenne nello stesso anno il bel film di Roberto Rossellini, sceneggiato dagli stessi Montanelli e Rossellini e da Diego Fabbri e Sergio Amidei, con Vittorio De Sica, Hannes Messemer, Vittorio Caprioli, Giovanna Ralli, Sandra Milo, Ester Carloni, Franco Interlenghi e Herbert Fischer. Il film vinse il Leone d'Oro alla 24a Mostra del Cinema di Venezia come miglior film (ex aequo con "La grande guerra" di Mario Monicelli), in mezzo a grosse contestazioni di destra, e si aggiudicò nel 1960 il David di Donatello come miglior produttore (alla Zebra film). Siamo a Genova nel 1944. Emanuele Bardone (le sue vicende sono ispirate da quelle di Giovanni Bertone, conosciuto da Montanelli) è un anziano trafficone amante del gioco d'azzardo, che – millantando conoscenze nell'ambiente nazifascista – riesce a estorcere denaro ai familiari di detenuti politici, fingendo un decisivo interessamento per una soluzione favorevole nei confronti dei loro cari. Sperpera invece quei soldi per giocare e per mantenere una ballerina, Valeria. Denunciato da una moglie che egli tenta d'ingannare mentre è già a conoscenza della fucilazione del marito, finisce in galera. Il colonnello Müller, un tedesco dal volto umano, gli propone di assumere l'identità del generale badogliano Giovanni Braccioforte della Rovere (in effetti, ucciso per errore) – in cambio della libertà, di denaro e di un salvacondotto – e lo fa trasferire a San Vittore nel braccio politico, nel tentativo di carpire informazioni che portino all'identificazione del capo della Resistenza "Fabrizio", arrestato insieme ad altri partigiani. L'uomo, che viene a contatto con il coraggio di uomini che lottano per la Patria (e per la Patria, accettano le torture e la morte) e che lo ammirano, è costretto a riconsiderare la sua vita miserabile e il turpe incarico che gli è stato affidato. Ottenuta l'informazione ("Fabrizio" gli si è presentato credendolo il generale Della Rovere), Bardone rinuncia a tutto preferendo riscattarsi nella condivisione del destino dei suoi compagni di reclusione, condannati a morte per rappresaglia. Sposando gli ideali della Resistenza, affronterà con coraggiosa dignità il plotone d'esecuzione al grido «Viva l'Italia!» e il colonnello Müller sarà costretto a ricredersi sullo spessore umano e sulla forza di carattere del truffatore Emanuele Bardone. Bosley Crowther del New York Times (1960) scrisse: «... nel complesso il film è splendido, sempre più articolato e profondo a mano a mano che procede». Ha osservato invece Morando Morandini (ne "il Morandini", Zanichelli editore): «... il meno originale degli ultimi film di Rossellini, girato su commissione a basso costo, ma il più efficace e accattivante, di notevole interesse tecnico–stilistico per una serie di espedienti che il regista avrebbe poi usato nel suo lavoro per la TV. De Sica modula da maestro il suo gigionismo.».

Proprio in questi giorni va in onda la miniserie televisiva in due puntate Il generale Della Rovere, molto fedele al testo autobiografico di Indro Montanelli, per la regia di Carlo Carlei con Pierfrancesco Favino nella parte del generale Della Rovere alias Giovanni Bertone, Raffaella Rea, Andrea Tidona e Hristo Shopov.


Il dramma teatrale I sogni muoiono all’alba (1960) di Indro Montanelli divenne nel 1961 un film da lui stesso diretto insieme a Mario Craveri ed Enrico Gras, ricco di un cast stellare costituito da Ivo Garrani, Aroldo Tieri, Lea Massari, Gianni Santuccio, Mario Feliciani, Renzo Montagnani e Rina Centa. Ambientato a Budapest nella notte tra il 3 e il 4 novembre del 1956, racconta i sentimenti e le attese di un gruppo di giornalisti italiani che aspettano chiusi in una camera d'albergo l'arrivo dei carri armati sovietici destinati a soffocare la rivolta popolare. Gli insorti ungheresi, guidati da Maleter, tentano l'ultima e drammatica trattativa con i Sovietici. I cinque giornalisti italiani sono d'idee politiche diverse, quindi diversi sono i loro atteggiamenti nei confronti degli eventi vissuti: Gianni è un vecchio e cinico cronista di guerra; Antonio è un ex partigiano e il sarcastico inviato di un giornale comunista in seria crisi ideologica (tra i due sono continue e astiose le polemiche); Mario è un anziano giornalista malato che sembra esser divenuto indifferente a tutto; Andrea è intelligente e attento alla tragedia che gli si svolge innanzi; Sergio è invece un attivista comunista che ha un intenso rapporto d'amore con la partigiana ungherese Anna Miklos. Quando all'alba le truppe corazzate dell'Armata Rossa danno il via alla battaglia, Anna si precipita in strada seguita da Sergio, intenzionato a condividerne il destino di morte. Infine anche Mario, che ha perduto ogni ragione di vivere, sceglie di morire per le vie di Budapest. Ha commentato Morando Morandini (ne "il Morandini, Zanichelli editore): «Crisi di coscienza, tentato suicidio, disillusioni. Un giovane militante comunista decide di morire al fianco di una rivoltosa ungherese. Da una pièce teatrale di I. Montanelli, messa in scena con un certo successo, un film inerte, statico, verboso, diretto da 2 documentaristi impacciati tra quattro mura.».

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