Manoel de Oliveira
In questi giorni Manoel de Oliveira, grande regista portoghese e maestro incontrastato della cinematografia (ancora molto attivo e tra i più premiati al mondo), compie cento anni: è nato, infatti, a Oporto l’11 dicembre del 1908.
Di famiglia borghese, il padre ebbe il merito di suscitare in lui l’interesse per la tecnica cinematografica, allora agli albori (scrisse Manoel: «Il teatro è un’arte, ma il cinema non è altro che un mezzo per fissare ciò che accade davanti alla macchina da presa… Filmare è costituire una realtà cinematografica che a sua volta rappresenta un’altra realtà»).
Iniziò come attore nel film Fátima Milagrosa (1928), diretto dall’italiano Rino Lupo, e la rivista di cinematografia Imagem lo definì «uno degli attori più fotogenici della sua epoca».
Dopo una fase di transizione durante la quale fu un ottimo documentarista (il documentario era per lui «una forma di aderenza alla realtà»), presentò il suo primo film lirico e simbolico, Aniki–Bóbó (1942), del quale il critico francese e storico del cinema Georges Sadoul scrisse che era «un precursore del Neorealismo».
Partendo poi da una riflessione sui rapporti tra il cinema e la letteratura (e molto suo cinema è stato ispirato dalla letteratura), si dedicò alla tetralogia dell’«amore frustrato» di cui faceva parte Amor di perdizione (1978), tratto dall’omonimo romanzo – letto nelle scuole – di Camilo Castelo Branco, considerato «il Balzac portoghese»; a proposito di questo film, de Oliveira scrisse: «Tutto quello che venne da me per il film venne dal libro per me. Non mi posso spogliare della mia soggettività. Ma lo sforzo in questo senso è salutare».
Dagli anni ’90, nonostante l’età avanzata, ha cominciato a girare un film dopo l’altro in una “escalation” di creatività e di successo, «all’insegna di una ricerca estetico–formale del tutto estranea a ogni forma di classicismo o di calligrafismo…». Col tempo, i suoi film si sono caratterizzati per un ritorno al cinema delle origini, attraverso l’uso della macchina fissa e l’abbandono di tecnicismi o alterazioni di montaggio, privilegiando la ieraticità della rappresentazione cinematografica.
Manoel ha scritto che gira tanti film perché ha un gran piacere a farli mentre gli interessano poco le reazioni che i suoi film producono sul pubblico e sulla critica.
Ne La lettera, trasse la storia da “La principessa di Clèves” (scritto nel 1678 da Madame de la Fayette e considerato l’antesignano del moderno romanzo psicologico) ma la traspose ai giorni nostri, mostrando l’attualità dell’intreccio. In Film parlato (2003) racconta di una nave da crociera che trasporta i suoi ospiti in posti fisici (i porti tipici del Mediterraneo) e in luoghi dell’anima: gli ospiti sono culturalmente diversi e parlano lingue diverse ma riescono a capirsi lo stesso (il film è la parabola di un possibile dialogo tra i popoli).
Con riferimento a Specchio Magico (2005), ricavato dal romanzo “A alma dos ricos” della scrittrice portoghese Agustina Bessa–Luís, Tullio Kezich (Corriere della Sera) ha scritto: «Il maestro lusitano ha tratto uno dei suoi film più insinuanti e misteriosi: la storia di una signora ricca che sogna fin da bambina di veder apparire la Madonna… È stimolante vedere un cineasta che avendo l’età di Matusalemme non perde un colpo, geniale come ai suoi bei dì.», mentre Paolo D’Agostini (La Repubblica) ha concluso: «Divagando da par suo – elegantemente, ironicamente, saggiamente, audacemente, senza fretta – intorno a questo spunto per chiunque altro esile lungo due ore e un quarto di film, il grande vecchio parla di grandi ansie contemporanee.». (www.zam.it, News, 9/12/2008)
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