Diego Fabbri
A volte si può schizzare un ritratto anche di chi non è più. Diego Fabbri merita un omaggio per essere stato certamente un drammaturgo al di fuori degli schemi che seppe coniugare la passione per il teatro – suo, ad esempio, un gioiello come "Processo a Gesù", messo in scena al Piccolo Teatro di Milano per la regia di Orazio Costa Giovangigli – a quella per una televisione che, seppure in bianco e nero, sapeva unire cultura e intrattenimento – basti citare che dal suo adattamento teatrale de "I fratelli Karamàzov" di Dostoevskij fu sceneggiato l’omonimo teleromanzo di Sandro Bolchi con Corrado Pani, Umberto Orsini, Salvo Randone, Lea Massari e Carla Gravina; e che Fabbri ha firmato, con Romildo Crivelli, "Le inchieste del commissario Maigret" con l’indimenticabile Gino Cervi.
Il 2 luglio del 1911 nasceva a Forlì Diego Fabbri (morì a Riccione il 14 agosto del 1980).
Grande drammaturgo italiano, pose al centro della sua tematica appassionanti contenuti etico–religiosi. Maturò la sua passione per il teatro frequentando l'oratorio di don Giuseppe Prati, sacerdote carismatico, che nel 1919 aveva fondato "Il Momento" (una voce della città di Forlì). Scrisse per il teatro della parrocchia di San Luigi e dedicò a don Prati I fiori del dolore (1931): «A don Pippo, che per primo m'insegnò come fecondare di dolore le aiuole dei fiori».
Dopo la laurea in Economia e commercio (Bologna, 1936) pubblicò Il nodo, che fu rifiutato dalla censura, e nel 1939 si trasferì a Roma ove fiorirono tutti i suoi talenti. Intellettuale di punta, nel 1945 fondò con Ugo Betti, Massimo Bontempelli e altri autori teatrali il Sindacato Nazionale Autori Drammatici; negli anni Cinquanta fu segretario e presidente del Centro Cinematografico Cattolico; tra il 1949 e il 1967 fu condirettore prima (con il poeta Vincenzo Cardarelli) e direttore poi della "Fiera letteraria", dando voce a una cultura libera e apolitica sostenuta da valori cristiani; dal 1977 diresse, inoltre, la rivista di critica e cultura teatrale "Il dramma".
Contribuì alla sceneggiatura di più di quaranta film, per lo più diretti da grandi registi: De Sica, Germi, Blasetti, Rossellini, Fellini, Zampa, Antonioni, Clair e Buñuel. Fece parte del pool di sceneggiatori de Il generale Della Rovere (tratto da un racconto di Indro Montanelli), che comprendeva Montanelli, Fabbri, Rossellini e Amidei (ottennero la nomination all'Oscar per il miglior soggetto originale nel 1962); il film fu diretto da Rossellini con Vittorio De Sica, Sandra Milo e Vittorio Caprioli, e si meritò il Leone d'oro a Venezia nel 1959 (ex aequo con La grande guerra di Mario Monicelli) e il Nastro d'argento.
Fabbri curò per la radio i grandi radiodrammi degli anni Cinquanta–Sessanta e per la televisione gli indimenticabili sceneggiati dell'età d'oro televisiva: nel 1969 prestò il suo adattamento teatrale de I fratelli Karamàzov di Dostoevskij (presentato al Teatro della Cometa di Roma nel 1960) per la sceneggiatura del superbo teleromanzo di Sandro Bolchi con Corrado Pani, Umberto Orsini, Salvo Randone, Lea Massari e Carla Gravina (capolavoro della televisione che fu, e non è più!). Tra il 1964 e il 1972, con Romildo Crivelli sceneggiò Le inchieste del commissario Maigret per la regia di Mario Landi con il grande Gino Cervi.
Ma veramente notevole fu la sua produzione drammaturgica – densa d'idee e temi morali – che lo impose come uno degli autori più impegnati e significativi: il suo è stato considerato un teatro dello spirito e della coscienza. Secondo lo scrittore–teologo Quinto Cappelli è stato il «drammaturgo dell’assoluto» (Convegno su Diego Fabbri, “Civiltà Cattolica”, 6–11–1984).
Scrisse quarantaquattro drammi, molti dei quali ospitati in teatri prestigiosi e celebrati dal pubblico e dalla critica di tutto il mondo. Del 1946 è il dramma Inquisizione, rappresentato a Milano al Teatro Odeon (1950) per la regia di Giulio Pacuvio (vinse il Premio della Presidenza del Consiglio); seguirono: Rancore (messo in scena nel 1950 al Teatro La Soffitta di Bologna, fondato da Sandro Bolchi nel 1948) con Salvo Randone e Processo di famiglia (presentato al Teatro Carignano di Torino, 1953) con la Compagnia Brignone–Benassi–Santuccio che vide il debutto di Enrico Maria Salerno.
Del 1955 è il suo grande capolavoro Processo a Gesù, messo in scena al Piccolo Teatro di Milano per la regia di Orazio Costa Giovangigli (suo regista prediletto) con Anna Miserocchi, Tino Carraro, Valentina Fortunato e Sergio Fantoni. Ispirato dal processo politico messo in atto da un gruppo di giuristi anglosassoni a Gerusalemme nel 1933, conclusosi con l’assoluzione di Gesù, il testo è quasi una sacra rappresentazione, che ha l'intento di stabilire se il Cristo è innocente o no. Attraverso un dibattito intenso e stringente, volto alla ricerca della "verità", in una struttura che ha l'apparenza di un processo vero e proprio, i membri di una famiglia di profughi ebrei scampati al genocidio nazista intentano un processo a Gesù. Il dramma arriva alla conclusione che «tutti lo misero a morte con nascosto rammarico, ma con un sospiro di sollievo», rinnegandolo e condannandolo alla crocifissione. Fabbri aveva scritto: «Ambisco che il pubblico esca dalla mia rappresentazione diverso da come è entrato, altrimenti la mia fatica è stata pressoché inutile». Inspiegabilmente e con suo grande rammarico, l'autore fu denunciato al Santo Uffizio per «offesa alla religione e istigazione all'odio sociale».
La produzione drammaturgica di Fabbri include quattro tipologie narrative: i drammi morali, i drammi religiosi, i drammi della coscienza, e le commedie (secondo la suddivisione proposta dal sociologo–saggista Gianfranco Morra in "Diego Fabbri", Sguardi sulla Romagna, 2009).
Tra le commedie sono da includere Il seduttore (presentata al Teatro La Fenice di Venezia, 1951) per la regia di Luchino Visconti con Paolo Stoppa, Rina Morelli, Rossella Falk e Carla Bizzarri, e La bugiarda, messa in scena al Teatro di via Manzoni in Milano nel 1956 dalla Compagnia dei Giovani (De Lullo–Falk–Guarnieri–Valli) per la regia di Giorgio De Lullo.
Del 1980 è l'ultimo dramma, Al Dio ignoto, il suo "canto del cigno", rappresentato al Teatro dello Spirito a San Miniato poche settimane prima della sua morte per la regia di Orazio Costa e Pino Manzari con Gianrico Tedeschi, Bianca Toccafondi e Andrea Bosic; ritornando alla struttura del "teatro nel teatro" e a Dostoevskij, Fabbri intese dare «una verità autentica, che conti davvero per gli uomini sofferenti di oggi e di domani».
Nel 1960 assunse la direzione artistica del Teatro della Cometa di Roma, che ospitò molti suoi drammi, e nel 1970 fu eletto presidente dell'Ente Teatrale Italiano. La sua città gli intitolò il Teatro comunale e nel 1977 ricevette dall’Accademia dei Lincei il Premio Feltrinelli.
Nel solco della drammaturgia del Novecento, cattolico inquieto, si ricollegò alla tradizione europea dell'interiorità e si convinse che negli anni Sessanta gli intellettuali fossero divenuti degli «strumenti in mano alle forze politiche». Scrisse: «Con una massiccia operazione di politica culturale, è stato imposto il teatro marxista di Brecht, ai danni di quello di Pirandello, di tanto più grande, ostracizzato sbrigativamente come "individualismo borghese". Un piano di persuasione, attraverso Brecht e il brechtismo, si è svolto incontrastato in Italia... Le voci spiritualmente più importanti, personali e ascoltate dal pubblico erano state gradualmente messe in silenzio o relegate ai margini della vita teatrale ufficiale...» ("Da Brecht a Pirandello", su Il Resto del Carlino, 26 marzo 1965). In un articolo pubblicato su "Il Tempo" (18 aprile del 1959), già aveva scritto: «... proprio perché sento l'arte come un fatto sociale, auspico che l'artista sia "apolitico"... Direi che l'eccellenza dell'uomo risiede proprio in ciò che di meno politico è in lui, cioè in quel tanto di assoluto, in quella fiammella di eterno che si sente dentro. Credo che l'artista debba operare per svegliare e dilatare questa scintilla di assoluto, che è in tutti e che ci fa veramente uomini.».
L'esperta di teatro Elena Siri, in "Diego Fabbri grande intellettuale e piccolo drammaturgo" (siri@ragionpolitica.it, 2 luglio 2004), in un intervento piuttosto severo nei confronti del drammaturgo, ha scritto tra l'altro: «Intellettuale atipico e per molti aspetti controverso si proclamò antifascista e anti–marxista, certamente spirituale e cattolico, benché talvolta incline al populismo ed al cattocomunismo. Un autore che ha tra i suoi meriti quello di aver scritto un teatro ispirato a valori cristiani perduti come a esempio la coscienza del peccato... Un intellettuale a disagio che spesso è stato coinvolto e strumentalizzato dal contesto stesso in cui operava... non sceglie il teatro come arte in sé... non si abbandona all'estetica del bello né vuole portare il pubblico a "divertirsi" su nuovi sentieri... il senso del suo teatro è tutto nella tematica, nell'argomento, nel messaggio, nell'impegno religioso o civile... Un uomo che forse non si sentiva bene sotto nessuna etichetta e che non si riconosceva mai fino in fondo in nessun gruppo...».
A mio parere (ho avuto il bene di vedere alcune delle storiche messe in scena delle sue opere), la tensione spirituale e religiosa dei drammi di Diego Fabbri ha qualcosa di veramente affascinante e coinvolgente, che può stare alla pari di quella di Georges Bernanos, di cui – quasi identificandosi con lui – traspose per il teatro Sotto il sole di Satana, e di François Mauriac, del quale adattò Teresa desQueiroux. E questi autori, impregnati di vivo senso religioso, ne ispirarono certamente poetica e narrazione. ("Persinsala.it", 3 luglio 2011)
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