sabato 29 settembre 2012

Michelangelo Antonioni: la crisi dell'uomo e la “malattia dei sentimenti”



Michelangelo Antonioni



Il 29 settembre del 1912, cento anni addietro, nasceva a Ferrara il grande maestro Michelangelo Antonioni, un gigante della moderna cinematografia mondiale, Leone d'Oro alla carriera nel 1983 e Oscar alla carriera nel 1995, regista ma non solo, anche sceneggiatore e montatore, oltre che scrittore di “asciutta densità” e sensibile pittore negli ultimi anni della sua vita (i suoi quadri, le sue Montagne incantate sono attualmente esposte al Museo “Michelangelo Antonioni” di Ferrara).

Appartenente alla media borghesia, conseguì la laurea in Economia e commercio presso l'Università di Bologna, maturando alcune giovanili esperienze teatrali universitarie che gli fecero conoscere i testi ambigui e controversi di Pirandello, Ibsen e Cechov. Interessato al cinema, negli anni Trenta e Quaranta, iniziò a scrivere articoli di cinematografia sul «Corriere Padano» e sulla rivista «Cinema». Frequentò soltanto per un semestre il “Centro Sperimentale di Cinematografia”, venendo richiamato alle armi, e curò alcune sceneggiature come quella di Un pilota ritorna (1942) di Roberto Rossellini, di Caccia tragica (1945) di Giuseppe De Santis, e di Sceicco bianco (1952) di Fellini. Nel 1942 ottenne un contratto con la Scalera Film che lo prese come sceneggiatore e aiuto regista di Enrico Fulchignoni per il film I due Foscari. Fu aiuto-regista del grande regista francese Marcel Carné nel film italo-francese Les visiteurs du soir e girò il lungometraggio Gente del Po (filmato nel 1943 con uno stile neorealista, su «un’umanità fluviale», quella della sua terra) – «L'ambiente è quello che conosce meglio e che ama, ma la sua attenzione più che su luoghi e cose si accentra sugli uomini, la loro vita e i loro sentimenti. Il lavoro finale non sarà però quello voluto: la guerra costringe Antonioni a lasciare incompiute le riprese, e ad abbandonare le pellicole girate, parte delle quali si deteriora; solo nel '47 il materiale rimasto verrà montato.» 
(http://www.michelangeloantonioni.it/biografia.htm). Del 1948 è N. U. - Nettezza urbana che vinse il Nastro d'Argento, «semplicemente un capolavoro, solo un grande visionario in grado di scoprire significati nascosti della realtà poteva rendere poetica la Nettezza Urbana»
(http://lorenzocostanzini.wordpress.com/2007/07/31/63/).

Antonioni esordì nel cinema vero e proprio nel 1950 con Cronaca di un amore, che vinse il Nastro d'argento e che segnò la fine del Neorealismo, aprendo a un cinema italiano più moderno e più profondamente introspettivo, volto a rappresentare il dramma del disagio esistenziale e il tormento dell'alienazione dell'uomo moderno, coinvolto essenzialmente dai risvolti psicologici dei personaggi. «Negli anni in cui il cinema neorealista è interessato prevalentemente a temi come dopoguerra e povertà, Antonioni ha il coraggio di uscire dagli schemi e dalle tendenze ricorrenti: il suo film è un dramma d'amore nell'ambiente dell'alta borghesia e mostra la profonda trasformazione che l'Italia subisce in quegli anni.» (http://www.michelangeloantonioni.it/biografia.htm). Storia di un adulterio maturato nel mondo dell'alta borghesia industriale lombarda falso ed egoista  e nell'ambito di una coppia in crisi; nonostante la morte accidentale del marito, del quale la moglie aveva programmato l'assassinio insieme all'amante giovane, bello ma povero, il senso di colpa separerà per sempre i due innamorati. Alain Resnais lo definì «un romanzo noir americano… pavesiano». «È un giallo freddo ed elegante che scava impietosamente nell'alta borghesia di una metropoli industriale come Milano e che integra in un'unica entità ambiente e personaggi, come Gente del Po aveva lasciato presagire. […] Il rapporto fra uomo e ambiente e il rapporto fra caso e destino aprono invece una meditazione più universale sull'esistenza. Antonioni ricerca inoltre uno stile “totale” (figurativo, recitativo, musicale, narrativo) per caricare al massimo le immagini e, di conseguenza, le atmosfere.» (http://www.scaruffi.com/director/antonion.html.)

Girati spesso tra le difficoltà con la produzione e la incomprensione del pubblico, seguirono: I vinti (1953) che, rappresentando la violenza di un mondo giovanile in crisi di valori, raccontava tre delitti compiuti da tre giovani in tre episodi ambientati in diverse nazioni, Francia, Inghilterra e Italia (fu tagliato e censurato perché l'episodio italiano coinvolgeva due omosessuali); Amore in città (1953), film a episodi girato da Marco Ferreri con il segmento “Tentato suicido”, molto originale nel precorrere il film-inchiesta; La signora senza camelie (1953) con Lucia Bosè (ma pensato per Gina Lollobrigida), un altro ritratto di donna che tenta una inutile ascesa nel cinema allargato al divismo cinematografico (la critica al mondo del cinema e ai suoi assurdi meccanismi è forte): «Il disagio creato dal passaggio dall'ambiente naturale della piccola borghesia a quello artificiale del cinema è il primo sintomo della perdita di personalità e della progressiva assuefazione al cinismo e alla mediocrità. Questa Signora è l'archetipo di tutte le eroine di Antonioni: disponibile, vulnerabile, cosciente della propria crisi, alla ricerca di un'identità.» (http://www.scaruffi.com/director/antonion.html.); e Le amiche (1955), tratto dal romanzo Tra donne sole di Cesare Pavese (Leone d'Argento alla Mostra di Venezia), riflessione sulla condizione e sulle inquietudini della donna moderna: «Il lavoro e la vita sentimentale di quattro donne sole mettono a nudo la futilità dei rapporti fra le persone e consentono di indagare ancora sul tema del suicidio (oltre alla più fragile delle quattro anche l'autore del racconto si era suicidato). […] chi non si adatta all'ambiente (al cinismo, alla mediocrità, alla solitudine, al vuoto) è destinato ad estinguersi.»
(http://www.scaruffi.com/director/antonion.html.)

Il grido (1957) è un film capolavoro concentrato sul tormento esistenziale dell'individuo ed esemplificato da un proletario in crisi, costretto a un viaggio senza meta e sperso in una società che gli è divenuta estranea, la cui unica possibile soluzione finale è salire in cima a una torre della fabbrica e buttarsi giù. Non compreso del tutto, il film fu un insuccesso al botteghino e fu giudicato dalla critica come «un film frammentario, freddo e formalista» ma in Francia si gridò al capolavoro (http://www.michelangeloantonioni.it/biografia.htm). «Il pessimismo è più duro rispetto a quello dei film precedenti in quanto l'operaio, a differenza delle eroine che lo hanno preceduto, non si limita a subire passivamente l'alienazione, cerca in ogni modo di salvarsi, di resistere, di non adattarsi e non estinguersi; ciononostante soccombe, la vita finisce senza pietà. […] Le tre grandi crisi “private” di Antonioni [la crisi di incomunicabilità, la crisi di identità e la crisi di estinzione] sono ormai parte integrante di ogni uomo.» (http://www.scaruffi.com/director/antonion.html.). In effetti, il film pose Antonioni su di un “piedistallo prestigioso” (Franco Nebbia).

Restano superbi e indimenticabili i tre film girati tra il 1960 e il 1962, appartenenti alla “trilogia dell'incomunicabilità”, con una giovane e sensibile Monica Vitti (parte di un sodalizio con Antonioni nel cinema e nella vita), e accolti in modo contrastante dal pubblico e dalla critica. Con questa trilogia l'autore esprimeva «una difficoltà più generale, storica ed esistenziale, provocata dal dissidio tra un “vecchio” che crolla e che non serve e un “nuovo” che impaurisce.» (http://www.treccani.it/enciclopedia/michelangelo-antonioni/). «La trilogia segna il punto più schematico dell'intellettualismo e del didascalismo di Antonioni e il punto più accademico della sua analisi psicologica e sociologica. Più che trame da raccontare o da spiegare sono romanzi di costume e di comportamento…»
(http://www.scaruffi.com/director/antonion.html.).

Il primo film, L'avventura (1960), presentato al festival di Cannes si aggiudicò il premio speciale della giuria e fu fischiato dal pubblico ma osannato dalla critica, «per molti è la rivelazione di un autore raffinato e poetico che avrà sempre più consensi nella critica che fra il grande pubblico» (http://www.michelangeloantonioni.it/biografia.htm). Alain Resnais ha parlato di un «film mitico», di una «padronanza straordinaria della disposizione degli attori in rapporto alla scenografia» e di una «utilizzazione della profondità di campo che c'imprigiona come mosche in una tela di ragno». è stato osservato che «La precarietà dei sentimenti determina l'itinerario dei due protagonisti; la rassegnazione davanti all'incostanza umana e la pietà per le sue disastrose conseguenze morali (soprattutto il rimorso di vivere) costituiscono la meta del viaggio; gli ambienti ([…]) si dilatano e si svuotano, le atmosfere si sfaldano e si rarefanno, i personaggi si tradiscono l'un l'altro e restano soli. La dialettica del distacco dalla loro emotività li lascia a penzolare senza appiglio sui loro abissi.» 
(http://www.scaruffi.com/director/antonion.html.).

Nel secondo film, La notte (1961), Orso d'oro e premio speciale della giuria a Cannes, con Marcello Mastroianni e Jeanne Moreau, «si parla della crisi di una coppia per parlare in realtà di una profonda crisi sociale» (http://www.michelangeloantonioni.it/biografia.htm). Un intellettuale (metafora dello stesso Antonioni) e la sua compagna vanno a trovare un amico ricoverato in ospedale per un male incurabile (innamorato silenzioso della donna), e dopo una giornata di futili occupazioni all'insegna di diversi stimoli sessuali, la sera, mentre tornano a casa, la donna informa il compagno della morte dell'amico. Si abbracciano e si coricano sull'erba ed è già l'alba: «Ancora una volta il rimorso della vita, i tradimenti, l'ennesimo triangolo in cui due si amano abbandonando un terzo al suo tragico destino, anzi quasi contenti che la morte lo elimini.» (http://www.scaruffi.com/director/antonion.html.).

 Il terzo film, L'eclisse (1962), Premio speciale della Giuria al Festival di Cannes, narra di una ricca ragazza romana (Monica Vitti) che, lasciato un vecchio amante (un intellettuale come lei), crede di trovare amore e calore umano in un giovane agente di cambio, che altro non è che un cinico e impenitente donnaiolo: «La scena finale è il capolavoro di tutto il cinema antonionano: oltre la fine del rapporto fra due persone la camera scorre verso la fine di tutto in un misto apocalittico di mistero, suspense, depressione, solitudine esistenziale.»
(http://www.scaruffi.com/director/antonion.html.). è stato scritto che «L'opera, a tratti esageratamente intellettualistica, lenta e poco comprensibile nel messaggio, si snoda lungo un intenso rapporto tra spazio e personaggi.» (http://www.1aait.com/larovere/antonion.htm).

A proposito di questa trilogia, ha commentato Gianni Canova: «Sono film che rappresentano il vuoto assoluto di esistenze perdute nella quotidianità, di personaggi borghesi annoiati e/o immobilizzati in una crisi la cui prima spia è la fine di una storia d'amore, ma sono, soprattutto, opere che rinnovano la drammaturgia filmica. Comunicazione rarefatta, lunghi e dilatati piani-sequenza, tempi morti, finali aperti; Antonioni trasforma le sue storie in una sorta di autopsia dei rapporti umani, una lenta e inesorabile dissezione del disagio di essere (Cinema, le garzantine, Garzanti, Milano 2009). è stato osservato che «L'avventura, La notte, L'eclisse, e Deserto rosso, tutti interpretati dall'allora sua compagna Monica Vitti, costituiscono la tetralogia dei sentimenti, o meglio del viaggio analitico attraverso la malattia dei sentimenti, secondo le parole dello stesso regista. Questi film consacrano Antonioni tra i dieci registi più importanti del mondo, e gli fanno ottenere un contratto per tre film con la Metro Goldwin Mayer.» (http://www.michelangeloantonioni.it/biografia.htm).

Seguì poi Il deserto rosso (1964), il primo film a colori (pregevole la fotografia di Carlo Di Palma) e il primo in cui venivano trattati temi profondamente legati all'ecologia, Leone d'oro come miglior film al Festival di Venezia, in cui il tema dell'alienazione e dell'incomunicabilità veniva affrontato con perfezione stilistica e tecnica matura. Il film racconta la grave crisi di Giuliana (Monica Vitti), moglie di un ingegnere, che vive in una cittadina padana stravolta dal moderno processo d'industrializzazione; ha tentato il suicidio ma è stata dimessa più depressa e angosciata di prima, in preda a un'invincibile nevrosi. è stato commentato: «L'alienazione causata dall'industrializzazione si manifesta più che dalle maschere ormai schematiche soprattutto attraverso il paesaggio deprimente, grigio e fumoso, sommerso da ciminiere e serbatoi; per la prima volta Antonioni fa uso del colore e si comporta come un pittore astratto; […] Antonioni afferma la funzione psicologica del colore e tenta di definire un'estetica pittorica della fabbrica.» (http://www.scaruffi.com/director/antonion.html.). L'uso del colore non naturalistico riesce infatti a trasmettere in modo sorprendente tutte le sensazioni soggettive.

Questi tre film americani, sempre più innovativi, fecero di Antonioni un regista d'élite a livello internazionale. Deputati all'analisi approfondita della crisi della modernità e del consumismo, furono girati in inglese e all'estero, con attori internazionali, produttore Carlo Ponti.

Blow-Up (1966), il suo successo commerciale più grande, Gran premio internazionale a Cannes, tratto da un soggetto di Julio Cortázar e interpretato da David Hemmings, è ambientato in Inghilterra e narra di un fotografo di moda che crede di avere immortalato nei suoi scatti fotografici un omicidio che forse non esiste. Dominato da un pessimismo angoscioso, il film esita in un totale rifiuto della realtà e in una totale incomunicabilità: «La conclusione è pirandelliana: alla fine l'individuo si rende conto che solo fingendo si può continuare a vivere. […] Blow-up è anche la suprema metafora sull'illusione: dalla foto che mostra ciò che era sfuggito all'occhio alla partita di tennis finale, tutto il film è giocato sui limiti e sulle distorsioni della percezione.» (http://www.scaruffi.com/director/antonion.html.). Il film vinse la Palma d'oro al Festival di Cannes e fu nominato all'Oscar come Miglior regista e Migliore sceneggiatura originale (a Tonino Guerra).

Zabriskie Point (1970), purtroppo un disastro finanziario, ambientato nell’America della contestazione giovanile e del rock, ruota attorno alla contestazione giovanile e racconta di una giovane segretaria di Los Angeles che compie un viaggio solitario in auto, la quale incontra a Zabriskie Point, in un luogo deserto, uno studente deluso dai moti universitari che ha rubato un aereo; i due ragazzi si amano in solitudine ma la conclusione tragica è in agguato (quando il giovane torna per restituire l'aereo, viene ucciso da un poliziotto). Fu «considerato un film contro l'America, e come tale boicottato, pur contenendo alcune tra le sequenze più belle e particolari girate dal regista; solo anni dopo se ne apprezzerà la poesia.»
(http://www.michelangeloantonioni.it/biografia.htm). è un film di grande spessore poetico: «Pur non riuscendo ad eludere il destino di morte e solitudine a cui Antonioni condanna i suoi eroi, questi due ragazzi, generati dall'utopia dei figli dei fiori, rappresentano una generazione positiva, che tenta di riscattare il mondo dalla schiavitù del consumismo, anche se non possiede ancora la forza per sopravvivere alla feroce repressione messa in atto dal Sistema.» (http://www.scaruffi.com/director/antonion.html.).

Professione: reporter (1975) con Maria Schneider e Jack Nicholson, tratto da un soggetto di Mark Peploe, filmato a Barcellona e in Africa, è un film bello e misterioso per l'impenetrabilità della realtà che si fa sempre più complessa mettendosi in conflitto con l'individuo e che è rappresentata dal rapido cambio d'identità del protagonista (è stato definito da Mereghetti: «assolato, vitreo, impareggiabile nell'usare scenari tanto diversi»). Racconta di un giornalista televisivo inglese in crisi, un esponente di una generazione fallita, stanco della moglie che lo tradisce, che va in Africa per un reportage su un movimento di liberazione ma che è in realtà tanto privo di entusiasmo e nauseato dal suo mestiere che decide di assumere l'identità di un suo vicino morto, cacciandosi nei guai e finendo ucciso (anzi, meglio, si lascerà uccidere): «La vita è un tentativo impossibile, la morte è l'unica possibile fuga dall'identità del vivo. Per Antonioni il suicidio è l'unico atto eroico.» (http://www.scaruffi.com/director/antonion.html.). «Il film è divenuto famoso per la spettacolare sequenza finale girata con una macchina da presa particolare.»(http://www.michelangeloantonioni.it/biografia.htm). 
«Di pari passo con lo svolgimento tematico, un continuo processo di sperimentazione formale portò il regista a cercare con maggiore chiarezza di intenti la via della metafora, che permetteva da una storia particolare di arrivare alla descrizione allusiva delle ambiguità di fondo della nostra esistenza.» (http://www.treccani.it/enciclopedia/michelangelo-antonioni/).

Dopo cinque anni di mutismo creativo, Antonioni girò per la televisione il film sperimentale Il mistero di Oberwald (1980), con Moniva Vitti, un mèlo a tinte noir, tratto da L'aigle à deux têtes di J. Cocteau e realizzato in alta definizione con mezzi innovativi; viene considerato come il primo esempio di cinema elettronico della storia: «grazie ad uno strumento chiamato correttore di colori per Antonioni è possibile dipingere i fotogrammi, cambiando o togliendo colori in base all'effetto psicologico che vuole ottenere.»
(http://www.michelangeloantonioni.it/biografia.htm). 
«Ma non è arida sperimentazione: Antonioni tenta di cavar poesia dall'elettrocromatica televisiva, di far storia, sentimenti e dialoghi solo attraverso i colori che illuminano e rabbuiano lo schermo. Il colore come forma, apparenza, del pathos; ectoplasma ipnotico che riveste le immagini di significato.» (http://www.scaruffi.com/director/antonion.html.). Gianni Canova ha definito il film: «interessante ma verboso» (Cinema, le garzantine, Garzanti, Milano 2009).

Dopo un lungo periodo di silenzio, ritornò al cinema nel 1982 con Identificazione di una donna, interpretato da Tomas Milian, un'analisi piena di erotismo di una crisi sentimentale e comportamentale che si contorce attorno ai temi tipici del regista (il vuoto, la solitudine e la morte), «nervoso e spregiudicato» grazie al montaggio dello stesso Antonioni. Storia di un regista intellettuale in crisi d'identità, alla ricerca della protagonista di un suo film (prova una giovane aristocratica, intellettuale ed emancipata, vivace e disponibile, e una modesta attrice teatrale dai gusti piccolo-borghesi): «Il linguaggio cinematografico di atmosfere nevrotiche e scene metaforiche è fluente ed elegante; i paesaggi sono ormai tutto (non a caso Antonioni si serve di attori minori e spesso fuori ruolo) e l'intellettuale tiene salotto cinematografico con il suo virtuosismo.» (http://www.scaruffi.com/director/antonion.html.).

Dopo la lavorazione di questo film, Antonioni fu colpito da un ictus che lo paralizzò all'emilato destro e che lo rese afasico, costringendolo alla sedia a rotelle. Assistito dalla seconda moglie Enrica Fico, sposata nel 1985, continuò a lavorare tra grandi difficoltà (Enrica divenne la mano destra e la lingua di un intellettuale ancora vigile e attento che aveva detto: «Fare un film è per me vivere»). In quel periodo si diede soprattutto alla scrittura e alla pittura: «Per il regista dipingere e scrivere non sono operazioni estranee al cinema, ma anzi un “approfondimento dello sguardo”» (http://www.michelangeloantonioni.it/biografia.htm).

Appartengono a questo periodo: Ritorno a Lisca Bianca (1983) per Raitre – un breve documentario a colori sui luoghi del film L'Avventura –, Kumbha Mela (1989) – presentato a Cannes che utilizzava del materiale girato nel 1977 in India in occasione di una suggestiva festa religiosa –, 12 registi per 12 città (1989) con il segmento “Roma”, e diversi altri documentari.

Nel 1995, dopo più di un decennio, ritornò a girare, con l'assistenza dell'amico Wim Wenders, Al di là delle nuvole, tratto da alcuni racconti del suo volume Quel bowling sul Tevere (Einaudi, Torino 1983); ha scritto del film Gianni Canova: «irrisolto e didascalico, soffre di un eccesso d'ostentata “poeticità” nella sceneggiatura firmata da T. Guerra» (Cinema, le garzantine, Garzanti, Milano 2009). Nel 2004, il cortometraggio “Il filo pericoloso delle cose (The Dangerous Thread of Things)” (tratto da un altro racconto di Quel bowling sul Tevere e scritto da Tonino Guerra) fu inserito nel film Eros, insieme ai due cortometraggi girati da Wong Kar Wai e da Steven Soderbergh. Del 2004 è pure il documentario Lo sguardo di Michelangelo, che vede protagonisti i due “Michelangelo”: Antonioni e Buonarroti col suo Mosè.

Antonioni morì a Roma il 30 luglio del 2007 nella sua casa romana, all'età di 94 anni, spirando serenamente su una poltrona accanto alla moglie Enrica, per una coincidenza del destino proprio lo stesso giorno in cui scompariva il regista svedese Ingmar Bergman (altro intellettuale e cineasta che aveva fatto della crisi dell'uomo la materia viva dei suoi film, il più vicino ad Antonioni sia per lo stile asciutto e scarno, severo e intransigente – usato come elemento determinante d'indagine e rinnovamento –, sia per la tematica della solitudine dell'uomo e dell'incomunicabilità degli esseri umani soffocati dall'ipocrisia della società). Entrambi avevano creato una sorta di “neorealismo interiore” (espressione creata dai francesi per Antonioni) (http://www.michelangeloantonioni.it/biografia.htm). Michelangelo Antonioni fu sepolto nel Cimitero Monumentale della Certosa di Ferrara.

Di Antonioni ha scritto Gian Piero Brunetta (Storia del cinema italiano: dal 1945 agli anni ottanta, Editori riuniti, Roma 1982 e Cent'anni di cinema italiano, Laterza, Bari 1991): «[...] già nel 1961 Antonioni è assunto a forza nell'empireo dei massimi maestri del cinema mondiale e per merito dell'“Avventura” e della “Notte”, oltre che della “Dolce vita” [di Federico Fellini], il cinema italiano riguadagna quel prestigio che alla fine degli anni cinquanta appariva un po' appannato [...] alla misurazioni degli spazi reali Antonioni ha cercato di sostituire le misurazioni degli spazi interiori».

Aldo Tassone (I film di Michelangelo Antonioni: un poeta della visione, 3. ed., Gremese, Roma 2002) ha riportato molti commenti di colleghi di Antonioni: ha commentato Andrej Tarkovskij: «Antonioni fa parte della ristrettissima schiera di cineasti-poeti che si creano il proprio mondo, i suoi grandi film non solo non invecchiano ma col tempo si riscaldano»; ha scritto Alain Robbe-Grillet: «Per me Antonioni è il più grande regista vivente al mondo. L'insieme della sua opera è qualcosa di assolutamente monumentale, è un'opera che implica una vera e propria metafisica, un'opera che può essere studiata nelle Università come Flaubert e Mallarmé.»; Alain Resnais ha detto: «Le sue immagini sono molto ricercate, ma sempre necessarie. Antonioni maestro dell'astrazione al cinema? Io lo vedo piuttosto come un artista figurativo, perché fa sempre sentire con molta precisione dove ci troviamo […] Si è detto a volte che Antonioni è di ghiaccio: trovo che non sia affatto freddo, al contrario quel “ghiaccio brucia”. […] Si direbbe che Antonioni ci intrappoli continuamente per ipnotizzarci.»; ha commentato Francis Ford Coppola: «Ha lasciato un'impronta su centinaia di registi contemporanei»; ha oservato Stanley Kubrick: «Antonioni è il grande artista del nostro tempo» e Akira Kurosawa, a sua volta, ha scritto: «Nell'indagine dei sentimenti è sceso a profondità insondabili»; Claude Sautet  ha annotato: «Antonioni è stato il primo a trattare della difficoltà di comunicare. Forse è il vero erede di Pavese. Nei suoi film l'uomo non agisce, non è attivo, è complessato di fronte all'attivismo sentimentale, sensuale, creativo delle donne».

è stato osservato: «I film di Antonioni più che puntare sull'azione puntano a descriverne le conseguenze; con la “non azione” si compie l'opera di questo straordinario film-maker. […] Autore di una regia moderna strutturata filmando i cosiddetti “tempi morti”, gira sequenze e inquadrature che un altro regista avrebbe tagliato in fase di montaggio. Dunque una cinematografia complessa, lenta e riflessiva: montaggio essenziale, lunghi e statici piani sequenza intrisi di ripetuti silenzi, limitati dialoghi esageratamente intellettualistici se non al limite del comprensibile. […] e alla narrazione tradizionale viene preferita una casualità degli accadimenti che si evolve su percorsi poco prevedibili. Per Tonino Guerra Antonioni è: “sempre a un metro sopra della realtà”. Cinema ermetico, mai d'intrattenimento, intellettuale, […] La decisa e coerente intransigenza di autore “puro” senza compromessi è entrata in continuo contrasto con i produttori, che ritenevano una pellicola di Antonioni un rischio commerciale. Non solo! Anche con la censura ha dovuto spesso fare i conti. Dunque un cineasta ardito dal nessun compromesso! […] È dunque la critica della borghesia, presa come terreno di riferimento e studio, senza dubbio il tema ricorrente e preferito della cinematografia di Michelangelo Antonioni, tutta interiore, capace di narrare in modo straordinario l'inquietudine umana e sociale. La sua regia raggiunge altissimi livelli figurativo-stilistici nel rendere il rapporto tra i personaggi e l'ambiente; un cinema dentro cui si vaga senza raggiungere mai una meta.» (http://www.1aait.com/larovere/antonion.htm).

Giorgio Gosetti, in Michelangelo Antonioni il poeta dell’immagine, ha scritto che in occasione del centenario della nascita di Antonioni, la moglie Enrica Fico lo ha così ricordato: «Michelangelo non amava guardare indietro, diceva che è un atteggiamento che ci invecchia. Così il modo migliore di festeggiarlo mi pare cercare di capire quanto di segreto c'è ancora nella sua visione, un occhio del Novecento che guarda oltre». Il critico ha riportato che il regista Carlo di Carlo, «compagno di molte avventure e studioso di riferimento per la sua opera», ha osservato: «Parliamo di un artista che è stato un grande sperimentatore, consapevole e profetico nello stesso tempo, con un approccio alla cultura, all'immagine, alla musica e al suono del suo tempo che oggi possiamo dire unici». Conclude così Gosetti: «E nella mente, augurandogli buon compleanno, resta il ricordo del suo ultimo giorno su un set, del suo passo lento e solenne mentre esce dalla Basilica di Santa Maria in Vincoli dopo l'assorta contemplazione, un muto dialogo di sguardi, del Mosé di Michelangelo Buonarroti. Là due artisti si guardano e ciascuno racconta il suo mondo in una sintesi folgorante oltre il tempo.» 
(http://corriere.com/2012/09/25/michelangelo-antonioni-il-poeta-dellimmagine/).

Il lungo articolo “Michelangelo Antonioni: centenary of a forgotten giant” (comparso su http://www.guardian.co.uk/film/filmblog/2012/sep/27/michelangelo-antonioni-centenary-forgotten-giant) lamenta una certa indifferenza nei confronti di questo grande regista, creatore del “modernismo cinematografico” e focalizza l'attenzione sui suoi film più importanti. Confronta, inoltre, l'isola misteriosa de L'avventura alla misteriosa e inquietante formazione rocciosa australiana del film Hanging Rock di Peter Weir o alle Marabar Caves del film A Passage to India di EM Forster, epicentri di una “occult metaphysical crisis”: «Anna has dematerialised. Her atoms have been blown away in the wind. (Anna si è dematerializzata. I suoi atomi sono stati soffiati via nel vento)».

Per ricordare il centesimo compleanno di Michelangelo Antonioni, suo massimo orgoglio, il 29 settembre, il Comune di Ferrara ha programmato una grande festa con omaggi, mostre, una retrospettiva completa dei suoi film, una targa commemorativa sul prospetto della casa ove il regista abitò dal 1918 al 1929 e l'intitolazione di “Largo Michelangelo Antonioni” del piazzale antistante il Conservatorio musicale G. Frescobaldi
(http://www.ferrara24ore.it/news/ferrara/009920-sguardo-michelangelo-antonioni).


lunedì 24 settembre 2012

Amore e matrimonio: filosofia e psicanalisi


Erich Fromm                                        Umberto Galimberti


Molti filosofi hanno posto il tema dell'Amore al centro delle loro speculazioni. La filosofia, sin dagli albori della conoscenza, ha tentato di aiutare a capire il senso e i segreti dell’amore.

Il filosofo francese Cartesio (René Descartes, 1596-1650), creatore del razionalismo, della geometria analitica e dell’applicazione del metodo matematico alla filosofia, il cui principio di certezza era il «Cogito ergo sum (Penso quindi sono)», ne Le passioni dell’anima (1649) (a cura di S. Obinu, Editore Bompiani – Collana Testi a Fronte, Milano 2003) si è occupato tardivamente di sentimenti. Egli esaminava le emozioni, che sono le azioni alle quali è sottoposta l’anima da parte del corpo e che hanno la funzione di consentire all’anima di prepararsi e di reagire quindi alle situazioni nelle quali il corpo è coinvolto. Cartesio esaminava il pensiero che deve dominare le emozioni attraverso una sua rigorosa disciplina, e in modo alquanto naturalistico intendeva l’amore (che è una passione dell’anima) non nel senso romantico di un fenomeno cosmico più che individuale oppure di un’unità assoluta o infinita che annulla le singole vicende umane, bensì come un rapporto che rafforza senza comprometterle le realtà degli individui tra i quali si stabilisce. In base alla sua intensità, individuava tre forme d’amore: (1) l’affetto: stimiamo l’oggetto d’amore meno di noi; (2) l’amicizia: stimiamo l’oggetto d’amore come noi; e (3) la devozione: stimiamo l’oggetto d’amore più di noi (e questo accade con Dio).

A proposito di fedeltà e di matrimonio, originale era l’atteggiamento del filosofo danese Soren Aabye Kierkegaard (1813-1855), precursore dell’esistenzialismo moderno, la cui breve vita fu illuminata dalla filosofia. Era convinto che all’uomo si offrono soltanto delle possibilità che impegnano (escludendosi a vicenda) in modo tale che l’esistenza umana ovvero la realizzazione del proprio destino non sia altro che un perpetuo «aut aut». Questa continua libera scelta è vissuta però nella disperazione (nulla di finito può accontentare l’uomo che sente il bisogno incessante dell’eterno) e nell’angoscia per il futuro, che sono esperienze comuni a ogni essere umano. Kierkegaard scriveva: «Nella vita l’unica cosa certa è la morte, cioè l’unica cosa di cui non si può sapere nulla con certezza». In Aut-Aut: estetica ed etica nella formazione della personalita (1843) (a cura di Remo Cantoni, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1956), parla di tre stadi evolutivi dell’esistenza: (1) lo stadio estetico, (2) lo stadio etico e (3) lo stadio religioso. Ebbene nello stadio estetico, l’uomo rifiuta qualsiasi impegno ripetitivo e serio, vivendo il “carpe diem” e ricercando sempre nuove sensazioni senza mai impegnarsi in legami affettivi stabili, allo stesso modo di Don Giovanni che non ama nessuna donna veramente, passando dall’una all’altra in una esteriorità estenuante, in una noia alienante e in una disperazione senza rimedio («A ogni donna corrisponde un seduttore; la sua felicità sta nell’incontrarlo»). Nello stadio etico, l’uomo invece privilegia l’interiorità e sceglie la fedeltà e la ripetitività, allo stesso modo di colui che si decide al matrimonio, rinunciando all’instabilità affettiva e accettando delle regole e degli impegni durevoli nei quali però non riesce ancora a realizzare se stesso. Una piena realizzazione, infatti, avverrà soltanto nell’amore di Dio col passaggio allo stadio religioso.

Il filosofo e matematico inglese Bertrand Russell (1872-1970), premio Nobel nel 1950 e sfegatato pacifista su posizioni di antiriarmo nucleare, ha scritto vere perle di saggezza sull’amore, sulla felicità e sul matrimonio. Ha consigliato di evitare il timore di amare per la paura di soffrire, il che sarebbe come fermarsi e rifiutare di vivere per paura di morire: «Temere l’amore è temere la vita, e chi teme la vita è già morto per tre quarti». D’altra parte, parlando della felicità, Russell ha puntualizzato come ci si debba accontentare di ciò che l’altro può darci, senza abbandonarci a sogni romantici di perfetta realizzazione. Scriveva, infatti: «La mancanza di qualcosa da desiderare è una parte indispensabile della felicità… Un matrimonio ha qualche probabilità di successo se nessuno dei coniugi si aspetta da esso troppa felicità». Nell’amore non ci si deve aspettare, pertanto, di cogliere la perfezione, bensì è necessario avere la forza di riconoscere i difetti dell’altro e di accettarli o perdonarli.

A proposito di amore e filosofia, ho avuto modo di leggere su La Repubblica (dicembre 2005) un articolo di Franco Volpi (storico di Filosofia, deceduto purtroppo prematuramente nell’aprile del 2009, vittima di un incidente stradale mentre andava in bicicletta), che raccontava l’amore scoppiato nell’inverno 1924-1925 a Marburgo tra Martin Heiddeger (1889-1976), il filosofo tedesco che ha innestato l’esistenzialismo alla fenomenologia, e la sua affascinante allieva Hannah Arendt (1906-1975), colta figlia della ricca borghesia ebraica e grande pensatrice politica del 20° secolo, la quale frequentava il corso magistrale di Heiddeger su Platone e Aristotele. Scriveva Volpe: «Il trentacinquenne filosofo rimase colpito come scriverà nelle lettere da “quello sguardo che mi rivolgevi mentre parlavo dalla cattedra”. A fulminarlo furono gli occhi della diciottenne Hannah Arendt che, vestita di un verde sgargiante, seguiva con soggezione le sue lezioni. Benché sposato e padre di due figli, il promettente professore s’accese come una fiaccola nella travolgente passione per la giovane matricola […].  Martin non trovò però il coraggio di andare fino in fondo, per dare a Hannah “il dono della visibilità pubblica”, che lei con insistenza gli chiedeva. E si lasciò sfuggire come confesserà “la passione della mia vita”. Dopo l’uscita della versione tedesca di Vita Activa, nel 1960, Hannah spedì in omaggio a Heiddeger la prima copia del suo libro con una dedica molto formale in cui dichiarava a Martin di essergli debitrice di tutto, in conseguenza di ciò che aveva appreso da lui in gioventù. Hannah, però, appuntò per sé una dedica più sincera che recitava: “Rinuncio alla dedica di questo libro. Come potrei dedicarlo a te, mio intimo, a cui sono e non sono rimasta fedele sempre, ed entrambe le cose amandoti.”». Nel concludere il suo articolo, così commentava Volpi: «Era l’ultima segreta dichiarazione d’amore». Nella stessa pagina de La Repubblica (dicembre 2005), a proposito di quell’amore, Hans Jonas scriveva: «Quella tra Heidegger e Hannah Arendt fu una storia d’amore incredibile, intessuta di incontri segreti di rara intensità (“Hannah è l’unica che mi abbia veramente capito”), di strazianti separazioni, ritrovamenti fugaci, smarrimenti e illusioni, è una storia che accende come poche la nostra immaginazione. Vuoi per il nome dei protagonisti, primi attori sulla scena del pensiero ma francamente inattesi nel ruolo di amanti. Vuoi per le travagliate circostanze in cui fu vissuta, che meriterebbero di essere raccontate in un romanzo. Vuoi perché realizzò una “coincidentia oppositorum”, un combaciare di due modi di essere e pensare contrapposti, che se avesse avuto libero corso avrebbe potuto cambiare le sorti della filosofia del Novecento […]. Insomma una storia che alimenta, oltre l’immaginario romantico dell’amore, anche impertinenti fantasie filosofiche.». Nel 1929 Hannah sposò Gunther Stern, anch’egli allievo di Heidegger, conservando sempre nel suo cuore un posticino caldo per il suo Martin.

Anche la psicologia e la psicanalisi, che si occupano dei sentimenti umani fondamentali, hanno prestato e prestano molta attenzione all’Amore e ne hanno facilitato una più intima comprensione. Il noto medico viennese Sigmund Freud (1856-1939), fondatore della psicanalisi, sosteneva che l’amore è la sublimazione della “libido”, forza istintiva e originaria, mentre l’amore universale altro non è che una deviazione dell’amore individuale nata dal desiderio di evitare la paura per la perdita dell’oggetto amato. Nel suo libro Al di là del principio del piacere (traduzione di Flavio Manieri, Tascabili Economici Newton, Roma 1993), Freud ha precisato bene l’«ambivalenza affettiva», la dualità di «amore (o affetto)» e «odio (o aggressività)», e la «forte tendenza della psiche verso il principio del piacere». Ha anche preso in considerazione l’esistenza delle «pulsioni libidiche» (che esprimono l’istinto di riproduzione), delle «pulsioni dell’Io» (che esprimono l’istinto di conservazione) e delle «pulsioni aggressive» (che esprimono l’istinto di morte). Per Freud: «la perdita dell’amore e lo scacco subito si lasciano dietro una ferita indelebile dell’autostima sotto forma di una cicatrice narcisistica, che più di ogni altra causa contribuisce a quel “senso di inferiorità” così frequente nei nevrotici»; ha anche considerato «l’eterno ritorno dell’identico… la coazione a ripetere» di alcuni individui pur privi di veri e propri conflitti nevrotici, come per esempio quegli «amanti, le cui relazioni amorose con ogni donna ricalcano sempre lo stesso schema e si concludono sempre allo stesso modo». Nel libro sopra citato, Freud racconta in modo affascinante il mito dell’origine della pulsione sessuale narrato da Platone, così scrivendo: «[…] la scienza ha così poco da dirci sull’origine della sessualità che possiamo equiparare il problema a una tenebra che nemmeno il lume di una ipotesi ha squarciato. Una ipotesi siffatta la “troviamo” sì, ma in un campo del tutto diverso; e di natura talmente fantastica – un mito più che una spiegazione scientifica – che non mi arrischierei nemmeno a citare se essa non appagasse proprio un’aspirazione che è nostro desiderio colmare. Essa, infatti, postula all’origine di una pulsione “il bisogno di ristabilire uno stato anteriore”. Mi riferisco, naturalmente, alla teoria che Platone, per bocca di Aristofane, sostiene nel Convito, e che non solo tratta dell’“origine” della pulsione sessuale ma anche delle sue importanti variazioni in rapporto all’oggetto. “Una volta la natura umana non era com’è attualmente, era diversa. Innanzitutto, i sessi erano originariamente tre, e non due come adesso; c’era l’uomo, la donna, ed esseri che l’uno e l’altra erano insieme […]”. Tutto in questi esseri primordiali era doppio: essi avevano quattro mani e quattro piedi, due facce, due parti intime, e così via. Alla fine, Zeus decise di tagliare questi esseri in due, proprio come si “spacca a mezzo una sorba per metterla in conserva”. Dopo che la divisione ebbe luogo, “poiché ogni metà desiderava riunirsi all’altra sua metà, ecco che le due metà si cercavano e si gettavano l’una nelle braccia dell’altra, bramose di riformare l’uno” […]». In base alla teoria di Freud, Eros assume un carattere di «pulsione di vita», in opposizione alla «pulsione di morte», mentre «l’enigma della vita si risolve nella lotta incessante che si è stabilita tra queste due pulsioni sin dai primordi».

Il grande e tormentato scrittore russo Fedor Dostoevskij (1821-1881), con un “animus” da filosofo e psicanalista, ne I demoni (premessa di Fausto Malcovati, traduzione di Margherita Santi–Farina, in “Dostoevskij – Grandi romanzi”, I Mammut 76, Newton Compton editori, Roma 2010) dà una rappresentazione straordinaria e sfaccettata di quest’ambivalenza amore–odio. Lizavèta Nikolàjevna, fanciulla nervosa e interessante, è combattuta tra due uomini: Mavrìkij Nikolàjevic (affidabile e innamorato con il quale si è fidanzata) e Nikolàj Vsévolodovic (uomo enigmatico ma bellissimo, strano e con qualcosa di demoniaco), che ama segretamente di un amore impossibile. Il primo – vedendola soffrire e volendo sacrificarsi – va dal secondo per convincerlo a sposarla e, parlandogli dell’amore di lei, così dice: «Sotto all’odio incessante per voi, odio sincero e assoluto, traspare ogni momento l’amore e… la pazzia… l’amore più sincero e sconfinato e… la pazzia! Al contrario, di dietro l’amore che sente per me – e anche questo è sincero – lampeggia ogni momento l’odio, un odio immenso! Non avrei mai potuto immaginare, prima, tutte queste… metamorfosi. […] Voi solo in tutto il mondo potete renderla felice. E io solo posso renderla infelice. […] Se si tratta d’un dissidio amoroso avvenuto all’estero e se per troncarlo occorre sacrificare me, sacrificatemi. è troppo infelice, e io non lo sopporto.». A proposito di questo ambiguo sentimento di amore–odio che talora alberga nel cuore dell’uomo, Freud – facendo l’elogio del cane (il solo capace di «amore puro») – ha scritto: «I cani amano gli amici e mordono i nemici, a differenza degli esseri umani, che sono incapaci di amore puro e nelle loro relazioni mescolano l’amore con l’odio».

Lo psicologo tedesco Eric Fromm (1900-1980), un altro grande della psicanalisi (emigrato in America nel 1935), che con la moglie Frieda Reichmann aveva fondato l’Istituto Psicoanalitico di Heidelberg, si è molto occupato dell’Amore. Ricordo il suo classico L’arte di amare (traduzione di Marilena Damiani, Arnoldo Mondatori Editore, Milano 1986), nel quale elabora una teoria – con risvolti pratici – dell’amore inteso come via etica alla liberazione dell’individuo. Convinto che amare non sia così facile come si creda, sostiene che l’Amore è un’arte che deve essere imparata con umiltà, sforzo e saggezza, allo stesso modo in cui s’imparano tutte le altre arti. Crede, inoltre, che si possa cominciare ad amare soltanto dopo aver sviluppato la propria personalità e dopo aver imparato ad amare il prossimo, mentre non è possibile limitarsi all’amore individuale e alla passione esclusiva, che altro non sarebbero che «un attaccamento simbiotico». Si può dire a un altro di amarlo veramente, soltanto se si è in grado di dire «amo tutti in te, amo il mondo attraverso te, amo in te anche me stesso» e l’amore è tanto più maturo, quanto più è disinteressato. Schiavi del mito dell’amore romantico, si cade spesso nell’equivoco di credere che amare significhi essere amati e che la prima fase d’infatuazione dell’innamoramento sia, in effetti, l’amore duraturo. L’amore origina dal bisogno dell’uomo di superare l’isolamento che nasce dalla sua solitudine, dal suo terrore del nulla e dal desiderio di fusione con un’altra persona; questa fusione tuttavia deve avvenire in modo sano, attraverso la conservazione dell’integrità e dell’individualità di ciascuno dei partner («nell’amore due esseri diventano uno, e tuttavia restano due»). In ciò, l’amore erotico è proprio l’opposto di quello materno, nel quale «due persone, che erano una sola, si separano». Lo psichiatra svizzero Ludwig Binswanger (1881-1966) – noto per i suoi studi sulla fuga delle idee – ha sostenuto un concetto simile: «L’essere-se-stesso dell’amore non è un “io” ma un “noi”», così individuando nell’amore la risposta più perfetta a un bisogno innato di ricongiungimento, al fine di superare l’estraniamento da sé.

Nel testo già citato Fromm esemplifica anche due tipi di fusione senza integrità e completamente patologici: il “masochismo (una forma di fusione passiva) in cui la persona che ama annulla se stessa per sottoporsi al potere dell’altro che diviene il suo idolo, e il “sadismo(una forma di fusione attiva) in cui la persona che ama domina, offende e umilia. Ed entrambi (il sadico e il succube) non possono vivere l’uno senza l’altro, non possono esistere al di fuori di questa relazione malata che condanna entrambi all’infelicità e alla delusione. Per Fromm, il vero amore è più dare che ricevere: dare se stesso, avendo l’attenzione di assicurare premura e di rispondere ai bisogni dell’altro, mostrando sempre la rispettosa accettazione di ciò che l’altro è (senza tentare di cambiarlo) e cercando di conoscere l’altro profondamente per ciò che è veramente, senza le illusioni dell’amore romantico («nell’altro essere trovo me stesso, scopro me stesso, scopro tutti e due, scopro l’uomo»).

A questo proposito, desidero ricordare quanto scritto dal filosofo Umberto Galimberti, in risposta a una lettera, nella sua rubrica di posta sul supplemento “D Repubblica delle Donne” (La Repubblica del 28/6/2008), dal titolo Il conflitto tra amore e società. Al lettore anonimo – che tra le altre cose gli scriveva: «Per dirla con Thomas Mann, finché il matrimonio è stato un’istituzione forte e credibile e i contraenti hanno accettato il ruolo di vittime sacrificali, sposando non la persona amata ma l’idea del matrimonio, tutto ha funzionato a dovere in ossequio all’ipocrisia sociale. Da quando ci si sposa per amore, invece, i guai e le contraddizioni sono venuti alla luce.» – Galimberti così rispondeva: «Un tempo, l’amore non sanciva tanto la relazione tra due persone, quanto l’unione di due famiglie o gruppi parentali che, attraverso il veicolo dell’amore, potevano acquisire sicurezza economica, forza lavoro per l’impresa familiare, avere eredi, assicurare il possesso esistente e, nel caso dei privilegiati, ampliare il patrimonio e il prestigio. In una parola l’amore era funzionale alla struttura della società. Oggi l’unione di due persone […] è il frutto di una scelta individuale che avviene in nome dell’amore, su cui le condizioni economiche, le condizioni di classe o di ceto, la famiglia, lo Stato, il Diritto, la Chiesa non hanno più influenza e non esercitano più alcun potere. In questo modo l’amore perde tutti i suoi legami sociali e diventa un assoluto (solutus ab, sciolto da tutto), dove ciascuno può liberare quel profondo se stesso che non sempre può esprimere nei ruoli che occupa nell’ambito sociale. E se un tempo l’amore s’infrangeva di fronte alle convenzioni sociali, oggi appare l’unico rifugio che salva l’individuo da queste convenzioni, in cui nessuno ha l’impressione di poter essere veramente se stesso. Ma così l’amore si avvolge nel suo enigma, dove il desiderare, lo sperare, l’intravedere una possibilità di realizzazione per se stessi cozza con la natura dell’amore che è essenzialmente relazione all’altro, per configurarsi come un culto esasperato della soggettività […] Ma quando l’intimità è cercata per sé e non per l’altro, l’individuo non esce dalla sua solitudine e tanto meno dalla sua impermeabilità, perché, già, nell’intenzione di reperire nell’amore se stesso, egli ha bloccato ogni moto di trascendenza, di eccedenza, di ulteriorità, capaci di mettere in gioco la sua autosufficienza intransitiva e di aprire una breccia o anche una ferita nella sua identità protetta. Una sorta di rottura di sé perché l’altro lo attraversi. Questo è l’amore. Non una ricerca di sé, ma dell’altro, che sia in grado, naturalmente a nostro rischio, di spezzare la nostra autonomia, di alterare la nostra identità, squilibrandola nelle sue difese. […] L’amore non è ricerca della propria segreta soggettività, che non si riesce a reperire nel vivere sociale. Amore è piuttosto l’espropriazione della soggettività, e l’essere trascinato del soggetto oltre la sua identità, e il suo concedersi a questo trascinamento, perché solo l’altro può liberarci dal peso della soggettività che non sa che fare di stessa. […] Amore è violazione dell’integrità degli individui. La sola cosa capace di aprirci all’altro.». Galimberti richiama, inoltre, la massima dello scrittore– filosofo francese (oltre che rappresentante dell’antica nobiltà) François de La Rochefoucauld (1613-1680): «La cosa più difficile da trovare nei legami amorosi è l’amore».
Accanto alla capacità di aprirci all’amato, richiamerei anche l’importanza di tentare di cambiare noi stessi nell’amore per l’altro; quello che dico è esemplificato in modo ideale nella bellissima frase di Gabriel García Márquez (il grande scrittore colombiano triste e misterioso, premio Nobel nel 1892): «Ti amo non per chi sei tu, ma per chi sono io quando sto con te».

Nel testo già citato (traduzione di Marilena Damiani, Arnoldo Mondatori Editore, Milano 1986), Fromm ricorda anche il poeta mistico persiano Gialal al Din detto Rumi (1207-1273), autore del poema Mathnawi (“Jalal alDin Rumi – Mathnawi”, edizione italiana a cura di Gabriele Mandel Khan, Bompiani, Milano 2006), un “Corano in versi” esoterico e simbolico, difficile ma ardente, in cui l’Amore è la religione con cui rimediare a ogni male e nutrire la «sete su sete» che fa raggiungere l’Essere supremo. Ispirato da amori omosessuali, Gialal credeva che la mutua reciprocità di questo sentimento potesse arrivare sino alla quasi completa identificazione fra amante e amato («in effetti, mai l’amante cerca senza essere cercato dall’amato»).

Per Fromm, in un amore maturo, ciascuno deve capire che i bisogni dell’altro sono diventati più indispensabili dei suoi, che dare è divenuto più importante che ricevere, e che amare è meglio che essere amato («Sono amato perché amo»). Nell’amore immaturo, invece, si dice «ti amo perché ho bisogno di te». L’amore è un atto di volontà, «una scelta, una promessa, un impegno». E proprio Fromm sostiene che «la condizione essenziale per la conquista dell’amore è il “superamento” del proprio narcisismo», insieme all’umiltà, alla ragione e all’obiettiva capacità di «vedere la gente e le cose così come sono». Nello stesso tempo, è necessario «aver fede» in se stessi – nel proprio amore e nella propria capacità di suscitare amore – e nell’essere amato – nelle sue qualità e nel suo amore – avendo il coraggio di accettare anche i dolori e le delusioni. Fromm scriveva: «Chiunque avrà poca fede, avrà anche poco amore».

Diversi secoli prima, già Gottfried W. von Leibniz (1646-1716), il filosofo e scienziato tedesco creatore dell’idea delle «monadi», aveva sostenuto che «amare è porre la nostra felicità nella felicità di un altro».

mercoledì 19 settembre 2012

Roberta Torre, originale regista e produttrice di rottura



Roberta Torre


Compie in questi giorni cinquant'anni Roberta Torre, la talentuosa regista milanese – ma anche sceneggiatrice, produttrice, scrittrice e fotografa – nata a Milano il 21 settembre del 1962. Laureatasi in Filosofia, si è specializzata in regia presso la “Civica Scuola di Cinema e Televisione” e si è diplomata in recitazione e drammaturgia alla “Scuola d'arte drammatica Paolo Grassi”. Nel 1990 Roberta Torre è venuta a contatto con la drammatica realtà di Palermo, ove si era trasferita per collaborare con i registi Ciprì e Maresco, maestri di regia e di realismo grottesco, e ove è rimasta per circa quindici anni.

Si fece notare ben presto con i suoi cortometraggi e documentari, che le meritarono diversi premi in festival cinematografici nazionali e internazionali. Sono da ricordare: Tempo da buttare (1991); Hanna Schygulla (1992), un ritratto–intervista dell'attrice feticcio del grande regista tedesco Rainer Werner Fassbinder (1945–1982) e Zia Enza è in partenza (1992); Femmine Folli (Barbablù Tango, Lady M, La donna dei lupi) (1993) e Il teatro è una bestia nera (1993); Angelesse (1994) dedicato alle donne della periferia palermitana, Le anime corte (1994) e Senti amor mio? (1994) vincitore del premio Aiace a Venezia; Il cielo sotto Palermo (1995) costituito da appassionate interviste con detenuti dell'Ucciardone, Angeli con la faccia storta (1995) e Spioni (1995) sui bambini di Borgo Nuovo e la mafia; il ritratto del cantante Nino D'angelo La vita a volo d'Angelo (1996), Verginella (1996) e Palermo Bandita (1996), dedicato ai ragazzi di Brancaccio. Nel sito della regista è scritto: «La cifra stilistica che li percorre è costantemente quella di una stretta commistione tra documentario e finzione, dove la realtà più cruda è mescolata a toni teatrali e stranianti.»
(http://www.robertatorre.com).

Ma il successo – quello vero – arrivò con Tano da morire (1997), originale e coloratissimo, ironico e grottesco fin quasi al demenziale, musical a tempo di rap sulla mafia e sui suoi riti, recitato da numerosi eccezionali attori non professionisti, che ottenne un gran successo aggiudicandosi tre Nastri d'Argento e due David di Donatello (la Torre come migliore regista esordiente e Nino D'angelo per le migliori musiche). Il film è ispirato a una storia vera, l'omicidio di Tano Guarrasi, apparentemente un macellaio di Palermo ma in effetti un importante esponente della mafia. Ha scritto Morando Morandini: «Storia parlata, cantata, suonata e un po' ballata di Tano Guarrasi, boss palermitano di quartiere ucciso nel 1988 da un sicario dei corleonesi, e delle sue quattro sorelle zitelle. […] è un film dove si mette in musica – non in burla – la mafia, rappresentata dall'interno, partendo dall'immaginario dei suoi personaggi/attori che la sentono come un sistema di valori che ha strutture, necessità, codici, riti. […] Film impudico e blasfemo che trasforma l'antropologia in spettacolo e comunicazione con una qualità rara nel cinema italiano (europeo): l'energia. 1° premio a Sulmona.» (http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=24596). Ha scritto Fabio Secchi Frau del film: «La Torre mischia Tati e Waters in una serie di gag strepitose, coadiuvata dalle musiche di Nino d'Angelo, e gioca con il tema della mafia (pur facendone una satira) in chiave originale, […]» (http://www.mymovies.it/biografia/?r=7450). Gianni Canova parla di «film originale e intelligente […] inconsueto musical sulla mafia» che utilizza «un linguaggio ridondante ma di sicura efficacia» e che mette in scena «l'immaginario e il sistema di valori dei mafiosi osservati con un occhio più antropologico che politico» (Cinema, le garzantine, Garzanti, 2009).

Seguì il corale Sud Side Stori – La storia vera di Romea e Giulietto (2000), un altro particolare musical con Mario Merola e Little Tony, incentrato su una moderna coppia di giovani amanti e interpretato da alcune centinaia d'immigrati africani sbarcati sulle coste della Sicilia (la regista ha curato anche la scenografia, i testi e le musiche multietniche in collaborazione con altri). Il titolo richiama ironicamente il famosissimo musical degli anni Cinquanta West Side Story. Ha scritto Gianni Canova: «Più confuso e meno controllato […], in cui il mélange di frammenti diversi (da spezzoni di finto cinema verità a numeri musicali veri e propri) risulta poco riuscito» (Cinema, le garzantine, Garzanti, 2009).

Fu poi la volta del mèlo Angela (2002), con Donatella Finocchiaro e Andrea Di Stefano, storia d'amore fra una donna di mafia (che copre i suoi loschi traffici in un negozio di scarpe) e un “mafiosetto”, Masino, sentimentale e chiacchierone. Presentato con successo alla Quinzaine des Realizateurs di Cannes nel 2002, è stato vincitore di premi ai Festival internazionali di Tokio e Mosca, e candidato a sette David di Donatello. Durante un'intervista rilasciata in occasione dell'uscita del film successivo, Mare Nero, la Torre ha detto: «In Angela, il mio film precedente, la sceneggiatura era ferrea e al tempo stesso semplice, quasi una cronaca. Questo mi ha dato la possibilità di fare un grande lavoro con gli attori proprio perché sapevo di avere dei punti fermi sul piano narrativo. È un bel modo di lavorare ma devi avere anche un meccanismo produttivo che te lo permette e più tempo per le riprese. Mare Nero è un film concepito in nove settimane di riprese, ridotto via via a sei. Sicuramente l’aver dovuto ridurre in corsa la sceneggiatura non ha giovato. Ma era un rischio che avevo sottovalutato perché io ho sempre lavorato in condizioni limite, tranne per Angela appunto, che ritengo il film dove ho potuto avere realmente quello che serviva, le mie esperienze  produttive sono state sempre di adattamento. Da un certo punto di vista mi è servito perché quando hai pochi mezzi devi avere molte più idee (Tano da Morire è un film “di cartone” se ci si pensa… sei settimane di riprese, attori presi per strada, scenografie di cartapesta…) ma ci sono casi in cui non lo puoi fare.» (http://www.blackmailmag.com/Intervista_a_Roberta_Torre.htm).
Ha scritto di Angela Pino Farinotti: «Roberta Torre fa di nuovo parlare di sé. Con Tano da morire aveva, nel suo piccolo, reinventato un genere, successivamente molto apprezzato dagli americani che hanno, in un certo senso, adottato la regista. Sarebbe stato facile, per lei, ripercorrere quella strada: quasi una franchigia, una garanzia di successo. Invece ha cambiato direzione. L’ambiente continua ad essere quello della mala siciliana, ma i toni diversi. è storia d’amore. […] Lei perde la testa e crede di poter ricominciare rinnegando tutto il resto. Ma proprio non si può. Il film ha ottenuto un buon successo di critica (presentato a Cannes) e anche di pubblico. La Torre, così come Muccino (certo, per contenuti completamente diversi), sta acquisendo i contorni di “autore di culto”. Vedremo.»
(http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=34221).

Con Mare Nero (2006) la Torre ha realizzato un noir affascinate (fotografia di Daniele Ciprì), interpretato da Luigi Lo Cascio e Anna Mouglalis, che narra del “viaggio infernale” di un ispettore di polizia che, alle prese con le sue ossessioni, deve lottare contro i demoni del Dubbio e del Tradimento. Ambientato nel torbido mondo notturno dei club privé e degli scambi di coppia, come al solito, il film si è fatto notare in diversi festival internazionali. A proposito di questo film (che l'ha fatta «soffrire parecchio» e da lei definito «psicoanalitico») e dei suoi limiti di produzione che hanno influito sul suo contenuto artistico provocandone una non perfetta riuscita, ha rivelato Roberta Torre in un'intervista: «In realtà devo dire che da quando ho iniziato a fare cinema io non ho mai creduto alle storie e cioè non credo che la trama di per sé possa o meno garantire il valore di un film. Film senza storia in senso classico sono capolavori (basti pensare a Godard) e storie bellissime possono diventare film mediocri. Quando ho pensato a Mare Nero non ho pensato a una storia da raccontare, piuttosto sono partita dall'idea di fare un viaggio  e prima ancora da un'ossessione. Era qualcosa che conoscevo bene emotivamente, qualcosa che mi apparteneva. La scommessa era far diventare tutto questo una storia, quindi una sceneggiatura e poi un film. Mentre le ossessioni e le emozioni che volevo ritrovare nel protagonista del film mi erano chiarissime (tradimento, delirio di gelosia, senso di abbandono) non sapevo davvero dove mi avrebbero portato in termini drammaturgici. So che qualcosa di tutto questo è rimasto in quel film, altro si è perso o non ha trovato una sua strada definitiva. […] Volevo raccontare “semplicemente” la paura di un uomo che guarda la donna che ha accanto e si accorge di non sapere assolutamente chi sia e quindi  ha chiaramente e nello stesso momento il terrore di perderla. Naturalmente questo terrore passa attraverso la possibilità di un tradimento ed ecco dove viene messo in gioco il corpo. Il corpo di quella donna diventa Il Corpo che scatena ossessioni. Ma in fondo la sua è una paura più antica, assomiglia a qualcosa che ha a che fare con la perdita, con la morte. […] Comunque sarebbe meglio dire: è un viaggio. E a quel punto uno sa che cosa aspettarsi. […] Sono stata nei locali di scambisti ed è lì che ho sentito questo senso esasperante di morte, una lentezza quasi rituale di gesti sessuali di uomini e donne senza volto. Corridoi bui e buchi dove guardare. E tutto in un silenzio irreale.». Parlando dei protagonisti Luigi Lo Cascio e Anna Mouglalis, ha detto tra l'altro Roberta Torre: «Con gli attori mi piace che siano anche i loro lati autentici a mescolarsi con quelli del personaggio, che si mettano in gioco il più possibile, che si compromettano sul piano personale. Ho capito che entrambi l’avrebbero fatto pur partendo da esperienze e tecniche diverse.». In questa stessa intervista, Roberta Torre si è lamentata della mancanza di libertà del cinema odierno: «Oggi quella libertà si è totalmente perduta stritolata dall’utopia degli incassi (che spesso non ci sono comunque) e, quel che è più grave, da una sorta di censura preventiva e sottile operata su argomenti e sceneggiature. […] Non si può raccontare la violenza, non si può  mostrare mai nulla che sia vero, reale, doloroso, umano. Il lato oscuro della realtà, la passione deve scomparire a favore di una visione addomesticata e ipocrita. […] credo che viviamo in un periodo di fortissima censura. La cosa grave è che è così scontata che viene considerato normale. Ormai i criteri di realizzabilità sono criteri televisivi e quindi tutto deve essere uniformato in quel senso.»; la regista parla anche di «un contesto di melassa e rassicuranti sceneggiature paratelevisive»
(http://www.blackmailmag.com/Intervista_a_Roberta_Torre.htm).
Gianni Canova ha parlato di «torbida indagine su un ambiguo omicidio a sfondo sessuale, in cui l'ispettore di polizia L. Lo Cascio è tormentato da morbose pulsioni.» (Cinema, le garzantine, Garzanti, 2009).

Spirito poliedrico, nel 2007, la Torre ha creato una sua casa di produzione, la “Rosettafilm”, con la quale ha realizzato I tiburtinoterzo (2009), dedicato alle borgate romane e allo storico quartiere di Roma. Ha scritto Roberto Rippa: «“Tiburtino terzo è come una riserva indiana”, così dice Daniele – detto “Er porpo” (perché ha “sempre le mani dappertutto”) – per descrivere il suo quartiere. E il Tiburtino terzo, noto quartiere popolare di Roma, è davvero una riserva indiana, dove vivono Daniele, Jari, Emilianino, Massimo e Robertino, ragazzi di vita con il mito della bella vita fatta di soldi facili, cocaina a fiumi e notti passate sul raccordo a guidare senza meta. Sullo sfondo Roma e le sue tante strade, il suo presente e futuro carico di aspettative. Come un miraggio. È un mondo dove il futuro è il tempo che non si sa se verrà mai, dove solo il presente vale e tutto deve essere qui e ora, bruciato in fretta e poi di nuovo a correre sul raccordo. In questa corsa verso non si sa dove i nostri si raccontano, ridono, piangono aspettano, pensano ai sogni di ragazzini e alle aspettative da uomini […] La regista, che confessa un’attrazione morbosa per le periferie, dichiara di non avere pensato di realizzare un film e definisce questi materiali come appunti di lavoro. I tiburtinoterzo è un breve film di grande fascino, testimonianza di parte dell'eredità italiana degli anni '70 che si vorrebbe vedere sviluppata in ancora più sensi e ritratto di un quartiere di Roma da cui la città pare lontanissima. Da vedere, sperando riesca a trovare una distribuzione in Italia e non solo.»
(http://www.rapportoconfidenziale.org/?p=2425).

Sempre prodotto dalla “Rosettafilm”, seguì La notte quando è morto Pasolini (2009), documentario–intervista di Pino Pelosi sulla morte di Pierpaolo Pasolini, che si sviluppa tra i ricordi del passato e un difficile presente, una sintesi del materiale di documentazione raccolto dalla Torre per un lavoro teatrale sul regista friulano ucciso nel 1975.

Nel 2010 Roberta Torre ha prodotto e girato il film I baci mai dati, «un apologo sugli inganni della fanciullezza», storia di un'adolescente catanese che vede la Madonna e sembra poter fare miracoli, con Donatella Finocchiaro, Beppe Fiorello, Carla Marchese, Pino Micol e una partecipazione “straordinaria” (nel senso etimologico della parola) di Piera Degli Esposti. Il film ha aperto al Lido di Venezia la sezione Controcampo Italiano della 67° Mostra di Venezia del 2010, al Sundance Festival di Robert Redford, nel 2011 fu l'unico film italiano in concorso, e ha ottenuto due candidature ai Nastri d'Argento. In un'intervista rilasciata a Venezia da Roberta Torre, l'attrice ha sostenuto di credere ai miracoli e di non temere i critici (non c’entrano niente con il successo o meno di un film); ha aggiunto, inoltre, che in Italia (e anche nel cinema) domina la cultura dell’appartenenza, mentre lei non appartiene a nessuno: «il mio è un film libero» (http://luigilocatelli.wordpress.com/2010/09/01/intervista-a-roberta-torre-domani-a-venezia-con-i-baci-mai-dati/). Ha scritto Laura Frigerio nel suo articolointervista “Donna della Settimana. Roberta Torre alla regia”: «Roberta Torre è una donna che non si ferma mai: attiva su più fronti artistici, passa da un progetto all'altro riuscendo sempre a fare centro.»; alla domanda come le fosse venuta l'idea per questo film, la Torre ha risposto: «È una storia totalmente inventata, tratta da un racconto. Volevo che fosse una sorta di favola ma alla fine è diventata abbastanza cruda. Per l'ambientazione ho scelto un quartiere di periferia, con la giusta connotazione metafisica.» (http://www.alfemminile.com/donne-societa-diritti-della-donna/intervista-roberta-torre-d20130.html).
Ha scritto Domenico Barone (Vivilcinema): «Suggestivo, grottesco ed eccentrico viaggio di formazione di un’adolescente in fuga da un mondo che non comprende e non riconosce, raccontato con ironia ed umorismo nero in un teatro dell’assurdo popolato da acconciature cotonate, volti deformati dal trucco e dall’uso del grandangolo, filtrati dalla comica esasperazione del falso. […] I baci mai dati evita la retorica, sfrutta la radicata attenzione antropologica per i caratteri di un mondo invisibile, rifugio surreale illuminato da luci al neon, in un cinema naif e folcloristico, fragile e corale che resta brillante, eccessivo, ricco di finte bionde, di soffocanti amori materni, unghie laccate, vestiti leopardati e che conquista con la forza dello stupore e l’eterna curiosità per statue e misteri religiosi.»
(http://www.robertatorre.com/).

Dal 2011 la Torre ha in programma di girare il lungometraggio Rose e matematica, ancora in fase di sceneggiatura, incentrato sulla vita del nonno Pier Luigi Torre, ingegnere aeronautico e inventore della Lambretta, dei motori dell'idrovolante della sorvolata atlantica di Italo Balbo e della scatola nera, ma anche di una varietà di “rosa blu” (morto all'età di 80 anni in una casa di cura, Pier Luigi Torre era particolarmente ossessionato dalla rosa blu).

Roberta Torre è anche una originale e sensibile regista teatrale; sono da ricordare: La Ciociara (2010) di Annibale Ruccello con Donatella Finocchiaro,una delle sue attrici preferite (la Torre ha ottenuto una candidatura al Golden Graal come miglior regista), e Uccelli (2012) di Aristofane al Teatro Greco di Siracusa.

Genio multiforme, la regista ha pubblicato nel 2011 il suo primo romanzo dal titolo I baci mai dati (edizioni La Tartaruga), «una sorta di diario onirico, una scrittura joyciana, tra grottesco e drammatico…» (recensione di Roberta Maciocci), ambientato a Librino, estrema e grottesca periferia di Catania, e dedicato a un'adolescente, Manuela, sottoposta a pressioni spaventose per un supposto miracolo che mette in moto tutta una serie di tremende superstizioni (in suo diario intimo, la ragazza si abbandona al “flusso di coscienza”). Conclude Roberta Maciocci: «Il registro linguistico stesso del libro rifugge la caratterizzazione geografica: potrebbe essere una storia ispirata da Calvino, popolata da personaggi, ripeto ancora una volta, felliniani. Uno scenario di speranza, non di degrado, comunque, dice l’autrice, perché la speranza che ci sia qualche posto dove un miracolo possa avvenire è una necessità comune.»
(http://www.diariodipensieripersi.com/2011/07/recensione-i-baci-mai-dati-di-roberta.html).

Nel suo blog su il Fatto Quotidiano (http://www.ilfattoquotidiano.it/blog/rtorre/), la regista scrive così: «Sono Roberta Torre faccio film. Come regista, sceneggiatrice e ora anche come produttrice perché voglio far esordire giovani registi prima che diventino vecchi registi. […] Ma è stato un caso. In realtà volevo fare la strizzacervelli. Comunque la voglia di ficcare il naso nella vita degli altri mi è sempre rimasta. Grazie al cinema ho potuto infilarmi nella vita di delinquenti, mafiosi, preti, scambisti, truffatori e molto altro. Uscirne non è stato sempre altrettanto semplice. Ma questo è stato il bello. Sono nata a Milano e poi per un caso ho vissuto a Palermo quindici lunghi anni di pura felicità. Ora vivo a Roma, ma sento che traslocherò ancora. Nei miei film mi piace mescolare tutto: immagini, generi, suoni, corpi, rumori e soprattutto odori.» (www.robertatorre.com e www.rosettafilm.it).

Ha scritto Fabio Secchi Frau: «Roberta Torre è stata considerata la regina dei musical–sceneggiata, molto amata da pubblico e critica per le sue mitiche pellicole che, prendendo piede dalla realtà, spingevano grottescamente la storia vera in quella della dimensione fantastica che le alleggeriva del peso della cronaca nera, consegnando al pubblico dei cult italiani veri e propri: uno su tutti Tano da morire. Poi, però, la Torre cambia gioco e in mezzo a quella grande scacchiera che è il panorama cinematografico cambia e si dirige in una dimensione drammatica e romantica allo stesso tempo. Questa è la mossa della Torre: prendere costantemente in contropiede lo spettatore.» (http://www.mymovies.it/biografia/?r=7450).

In un recente articolo–intervista a Roberta Torre dal titolo “L'alchimista del cinema tra realismo e utopia”, scrive Marisa Labanca: «In un cinema malato di familismo e incapace di esprimere la realtà, credere nell’Utopia significa credere e impegnarsi nella realizzazione di un nuovo “sistema di valori possibili”. […] Una donna determinata, pragmatica e al tempo stesso estrosa e fuori dagli schemi. Un’artista che riconoscendo i limiti reali del cinema italiano contemporaneo, viziato dall’assenza di meritocrazia e da logiche di appartenenza politica e culturale, ne prende le distanze, scegliendo la scrittura prima e l’autoproduzione poi come atti di libertà. La libertà di esprimere la propria visione della realtà, anche negli aspetti più crudeli della mafia e dell’immigrazione, mescolandola con i tratti onirici e stranianti del musical e del teatro. […] Dal 2007 Roberta Torre è anche produttrice dei suoi film attraverso la Rosettafilm, sua casa di produzione creata per evitare che logiche estranee possano influenzare e alterare il risultato finale dei suoi lavori. […] Attualmente la regista e sceneggiatrice è impegnata nel racconto del reale attraverso la riaffermazione dell’Utopia, concetto ormai desueto nella nostra società, intesa non come sogno irrealizzabile, ma come “la possibilità di creare un nuovo sistema di valori possibili”. È questo l’obiettivo comune de Gli Uccelli, di Aristofane, in scena dal prossimo 14 maggio al Teatro Greco di Siracusa, e di Rose e matematica, trasposizione cinematografica della vita dell’inventore Pier Luigi Torre.». A Marisa Labanca, ha confessato la Torre: «È complicato autodefinirsi. Mi piace paragonare il mio lavoro a quello di un alchimista, ogni opera, ogni film per me è un costante e complicato, mai finito lavoro di ricerca, di come elementi apparentemente diversi e inconciliabili possano fondersi insieme dando un risultato, un’opera mai esistita prima, che non assomiglia a nulla di esistente. In questa ricerca credo che risieda la caratteristica fondamentale del mio essere artista. […] La regia è bellissima, ma senza la produzione in Italia è impossibile da gestire. Credo che quello tra regista e produttore debba essere un matrimonio azzeccato. […] Ultimamente mi piace molto dedicare tanto tempo alla sceneggiatura e alla scrittura, proprio perché in passato ho sempre considerato la sceneggiatura solo un mezzo per ottenere finanziamenti, ora invece che mi sono liberata da questo vincolo il mio sguardo è cambiato.». Parlando del cinema italiano, Roberta Torre ha detto: «Passato glorioso, Presente povero, Futuro incerto. […] Il cinema italiano rispecchia piuttosto fedelmente lo stato della nostra Italia tutta. In fondo il cinema in Italia è stato grande e in modo compatto, inequivocabile, nel dopo guerra perché la nazione era spinta da una potente voglia di riscatto. Forse non era un periodo di ricchezza, ma certo c’era una potente speranza e una grande voglia di ricominciare. Il nostro cinema soffre oggi di una pochezza tematica, di un'incapacità di osservazione della realtà e soprattutto soffre di una malattia che ha corroso tutta l'Italia: il familismo. […] Quando ho iniziato a lavorare ho sempre detto che non c’erano differenze di genere. Ora, dopo diversi anni di lotte e guerre per mantenere intatto il mio lavoro, per proteggerlo e preservarlo da varie forme di razzia artistica, produttiva, politica e umana, devo dire che sì c’è una forte discriminazione di genere. E più in generale credo che sia una questione di autorità. L’autorità femminile è mal sopportata. […] Il binomio donna autorevole, quindi decisionale, quindi creatrice di immaginario mal si sposa con l’immagine di una donna femminile e felice di esserlo. In realtà per me è stato semplice affermarmi, più complicato mantenere una posizione che mi garantisse la libertà delle mie scelte artistiche. La libertà è un altro tabù della nostra società. Una pensatrice/artista libera da logiche di appartenenza fa molta paura. […] Credo che in Italia siamo ancora molto indietro rispetto alla possibilità delle donne di essere libere davvero. […]»
(http://www.unosguardoalfemminile.it/wordpress/donne-e-cultura/intervista-a-roberta-torre-lalchimista-del-cinema-tra-realismo-e-utopia).


Francesca Conti e Giorgio Fonio hanno dedicato al cinema irriverente di Roberta Torre il saggio I baci mai dati e altre storie (2011), con un'intervista di Giuseppe Rizzo.

domenica 9 settembre 2012

Il matrimonio nella letteratura dell’Ottocento


Honoré de Balzac                     Henrik Ibsen


I primi segni del traballare del matrimonio come istituzione, nellOttocento, comparvero in Anna Karenina di Tolstoj e in Emma Bovary di Flaubert (romanzi ai quali ho dedicato diversi articoli).


Oscar Wilde (1854-1900), stravagante e anticonformista scrittore irlandese omosessuale, accusato e imprigionato per immoralità, così scriveva: «Chi non ha mai amato non ha mai vissuto… Il mistero dell’amore è più grande del mistero della morte»; aggiungeva anche: «I dolori superficiali e gli amori superficiali durano. Gli amori e i dolori profondi sono uccisi dalla loro stessa intensità». Avendo capito una profonda verità del rapporto uomo-donna, dichiarava: «Le donne sono fatte per essere amate, non per essere comprese». Nonostante la sua esibita omosessualità, Wilde si sposò ed ebbe due figli ma la sua avversione per il matrimonio (al quale ha dedicato numerosi motti corrosivi e diverse frasi sferzanti) è divenuta proverbiale. Scrisse: «Al giorno d’oggi è cosa molto pericolosa per un marito usare, in pubblico, riguardi per la propria moglie: ciò fa sempre pensare alla gente che egli la bastoni nell’intimità. Tanto grande è l’incredulità del mondo per ciò che ha l’apparenza di una felicità coniugale.». E, ironicamente, sosteneva ancora: «La base logica del matrimonio è il malinteso reciproco… Il fascino del matrimonio consiste nel fatto che rende necessaria per entrambi i coniugi una vita d’inganni»; paradossalmente, aggiungeva: «Un uomo può essere felice con qualsiasi donna fintanto che non l’ama veramente». Il tema dell’amaro inganno creato dall’amore ritorna in un altro suo motto: «Quando una persona è innamorata comincia con l’ingannare se stessa e finisce con l’ingannare gli altri». Oltre che il matrimonio, Oscar sembrava disprezzare anche la fedeltà in amore; scrisse infatti: «Chi ama una volta sola nella vita ha una natura superficiale. Ciò che alcuni quantificano per lealtà e fedeltà io direi piuttosto apatia dovuta all’uso o all’assenza di immaginazione… La fedeltà in amore non è altro che una questione fisiologica. E’ indipendente dalla nostra volontà. I giovani vorrebbero essere fedeli e non possono esserlo; i vecchi vorrebbero essere infedeli e non ci riescono». Negava infine l’esistenza della passione eterna, scrivendo con profondo senso d’amarezza: «L’unica differenza che corre fra un capriccio e una passione eterna, è che il capriccio è più durevole» (Aforismi a cura di Riccardo Reim, Tascabili Economici Newton, Roma, 1992).

Con inimicizia simile e sarcasmo egualmente amaro, lo scrittore siciliano Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957), autore de Il Gattopardo, ha scritto del matrimonio: «L’amore. Certo, l’amore. Fuoco e fiamme per un anno, cenere per trenta.» (romanzo pubblicato postumo dalla Feltrinelli, a cura di Giorgio Bassani nella sua collana, Milano, 1958).

Luigi Pirandello (1867-1936), altro grande scrittore siciliano, scrive una frase simile nella novella L’onda, contenuta nella sua prima raccolta di novelle (il primo volume di narrativa pubblicato nel 1894) che aveva il titolo di “Amori senza amore”. Nel racconto ispirato dalla storia d’amore vissuta in età adolescenziale da Luigi (innamorato della cugina Lina, più grande d’età) e sfociata in un fidanzamento finito miseramente, Pirandello ci mostra le difficoltà di un amore ambiguo, nel quale i due non si amano mai nello stesso momento. Fidanzata abbandonata alla vigilia del matrimonio, Agata sposa senza amore Giulio, molto innamorato ma dilaniato dalla gelosia per il suo passato; col tempo lei impara ad amarlo ma lui dopo il matrimonio si raffredda, e la sorella Erminia la consola dicendo: «Tutti gli uomini son così… Fuoco, prima delle nozze; cenere, dopo.». La ragazza, accorata, le risponde: «Sarà il mio destino… Amata quando non amo; disamata, amando…» (Tascabili Economici Newton, Roma, 1995).

Il grande romanziere francese Victor Hugo (1802-1885) paragona in modo simbolico il matrimonio a una pianta: «Il matrimonio è come un innesto: attecchisce o no»; inoltre, convinto che l’amore si componesse dell’unione dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo, pensava che la massima felicità nel matrimonio e nella vita in genere consistesse nel sapere che si è amati per ciò che si è, o ancor meglio, nonostante ciò che si è, dal momento che chi ama veramente deve saper accettare l’essere amato per quel che è.

Honoré de Balzac (1799-1850), altro monumento della letteratura francese e uomo molto esperto nelle umane passioni, bruciò la sua vita tra amori disordinati (la sua prima amante fu Laure de Berny, di ventidue anni più anziana di lui, alla quale si legò a ventitre anni in un rapporto che durò per più di dieci anni e che si sovrappose a numerose altre relazioni sentimentali), ebbe due figli naturali, contrasse debiti e patì la persecuzioni dei creditori. Soltanto alcuni mesi prima della morte si decise a un tardivo matrimonio, sposando la contessa Eva Hanska, l’amante degli ultimi venti anni, divenuta libera per il decesso del marito mentre era già incinta del suo terzo figlio. Col suo sguardo narrativo insieme romantico e realista e prendendo in considerazione uno dei grandi nemici del matrimonio, lo scrittore scriveva: «Il matrimonio deve continuamente combattere con un mostro che divora tutto: l’intimità… è più facile essere un amante che un marito, perché è più difficile avere dello spirito tutti i giorni che dire cose dolci di tanto in tanto.». Nel suo capolavoro La cugina Bette, che conclude l’enorme progetto narrativo della “Comédie Humaine”, Balzac narra l’appassionante e intricata storia della caduta morale e materiale di un nobile avanti nell’età, Hector, un dissipatore lussurioso e schiavo del sesso, travolto da una passione senile per le donnine facili. A queste dissolute fanciulle, l’uomo immola vigliaccamente il senso dell’onore e la moglie Adeline, vero monumento di angelica bontà e di amore coniugale devoto e fanatico che tutto perdona (anche l’assolutamente imperdonabile) suscitando in tutti culto e venerazione. In uno sfondo borghese, gli intrighi e i crimini sono manipolati dall’odio diabolico (ma ben occultato sino alla morte) e dal desiderio di vendetta di un’anziana brutta cugina, «parente povera» vissuta di avanzi e nutrita di gelosa invidia per la bellezza sfolgorante e lo splendido matrimonio di Adeline. Ebbene, in questo romanzo, in una lotta continua, si fronteggiano la virtù troppo rigida contro i vizi pieni di sfumature e d’indulgenza, la dignità eroica della gente perbene contro la crudeltà tremenda del popolo del crimine, l’amore autentico contro i sapienti raggiri della passione venale, ma soprattutto la devozione coniugale (intesa come dovere eterno) contro l’infedeltà che attira come una ghiottoneria. Accanto alla critica per l’immoralità dilagante del mondo della borghesia francese di metà Ottocento, in Balzac c’è anche la convinzione che la bellezza sia il più grande dei poteri umani, che una donna fatale e pericolosa possa dare un sapore piccante alla vita così come le spezie danno sapore alle vivande, e che l’eccessiva debolezza e l’esagerata sottomissione di Adeline siano un grosso errore che rende la vittima complice del suo carnefice. Balzac focalizza anche il potere che l’uomo dell’Ottocento aveva nel fare della propria moglie «una martire o una donna felice», e pone l’accento sull’enorme vanità di quest’uomo nel godere del fascino e dei piaceri di una «donna in vista, donna desiderata» che lo convince di valere tutta l’infelicità che provoca («Di lì viene la terribile potenza delle attrici») (traduzione di L. Chiavarelli, Editore Newton Compton – Collana Biblioteca Economica Newton, Roma 2007).

Il drammaturgo norvegese Henrik Ibsen (1828-1906), con la sua Una casa di bambola (1879), crea una protagonista Nora che, rifiutando il suo ruolo di bambina (o peggio di oggetto di lusso), prende coscienza di sé e del suo essere donna, e realizza la sua personalità in una nuova autonomia, rompendo il matrimonio e scegliendo la solitudine, abbandonando la casa e la famiglia. Con questo dramma Ibsen mostrò tutta la sua capacità di anticipatore sociale, svolgendo un tema di argomento femminista. Antonio Gramsci, commentando il 22 marzo 1917 la rappresentazione della commedia al Teatro Carignano con Emma Grammatica, ha delineato un confronto tra la donna del Nord e quella dell’Italia di inizio secolo: «La donna dei nostri paesi, la donna che ha una storia, la donna della famiglia borghese, rimane come prima la schiava, senza profondità di vita morale, senza bisogni spirituali, sottomessa anche quando sembra ribelle Rimane la bambola più cara quanto più è stupida, più diletta ed esaltata quanto più rinunzia a se stessa, ai doveri che dovrebbe avere verso se stessa, per dedicarsi agli altri…». Ne La donna del mare (1882), Ibsen racconta di una donna apparentemente debole che, lasciata libera di scegliere al di là delle convenzioni, rifiuta il sogno del grande amore e resta con l’affettuoso marito, mentre in Hedda Glaber (1890), una donna si sente superiore e distrugge il marito e la sua opera letteraria trovando la fine nel suicidio (una simile terribile superdonna è stata rappresentata nel 1887 nella pièce teatrale Il padre anche dal misogino August Strinberg, messo in crisi da brevi e tempestosi matrimoni conclusi nel divorzio). Tutti i drammi ibseniani, scritti con tecnica perfetta e linguaggio incisivo, presentano trame coinvolgenti e sentimenti umani grandiosi che debbono essere letti in chiave psicoanalitica; essi appaiono eterni, irresistibili e modernissimi nel loro affrontare con consapevole serietà morale i conflitti sociali, i dissidi familiari e la condizione della donna nell’Ottocento.

Lev N. Tolstoj (1828-1910), nato lo stesso anno di Ibsen, sembrò accettare alla fine della sua vita l’idea che il matrimonio non fosse altro che una vecchia istituzione in crisi, idea che serpeggiava ormai per tutta l’Europa. Visse gli ultimi anni in un perenne conflitto familiare con una moglie che non condivideva i suoi sogni e le sue aspirazioni, tanto che più volte aveva meditato la fuga per sottrarsi ai minacciosi ricatti coniugali. Il 28 ottobre del 1910, finalmente, riuscì ad abbandonare la sua casa ma si ammalò e morì il 7 novembre nella fredda e solitaria stazione di Astapovo.