Erich Fromm Umberto Galimberti
Molti filosofi hanno posto il tema dell'Amore al
centro delle loro speculazioni. La filosofia, sin dagli albori della conoscenza, ha
tentato di aiutare a capire il senso e i segreti dell’amore.
Il filosofo francese Cartesio (René Descartes, 1596-1650), creatore del razionalismo,
della geometria analitica e dell’applicazione del metodo matematico alla
filosofia, il cui principio di certezza era il «Cogito ergo sum (Penso quindi
sono)», ne Le passioni dell’anima
(1649) (a cura di S. Obinu, Editore Bompiani – Collana Testi a Fronte, Milano 2003) si
è occupato tardivamente di sentimenti. Egli esaminava le emozioni, che sono le
azioni alle quali è sottoposta l’anima da parte del corpo e che hanno la
funzione di consentire all’anima di prepararsi e di reagire quindi alle
situazioni nelle quali il corpo è coinvolto. Cartesio esaminava il pensiero che
deve dominare le emozioni attraverso una sua rigorosa disciplina, e – in
modo alquanto naturalistico – intendeva l’amore (che è una passione dell’anima) non
nel senso romantico di un fenomeno cosmico più che individuale oppure di un’unità
assoluta o infinita che annulla le singole vicende umane, bensì come un
rapporto che rafforza senza comprometterle le realtà degli individui tra i
quali si stabilisce. In base alla sua intensità, individuava tre forme d’amore:
(1) l’affetto: stimiamo l’oggetto d’amore meno di noi; (2) l’amicizia: stimiamo
l’oggetto d’amore come noi; e (3) la devozione: stimiamo l’oggetto d’amore più
di noi (e questo accade con Dio).
A proposito di fedeltà e di matrimonio, originale era
l’atteggiamento del filosofo danese Soren
Aabye Kierkegaard (1813-1855), precursore dell’esistenzialismo moderno, la
cui breve vita fu illuminata dalla filosofia. Era convinto che all’uomo si
offrono soltanto delle possibilità che impegnano (escludendosi a vicenda) in
modo tale che l’esistenza umana – ovvero la realizzazione del proprio destino – non
sia altro che un perpetuo «aut aut». Questa continua libera scelta è vissuta
però nella disperazione (nulla di finito può accontentare l’uomo che sente il
bisogno incessante dell’eterno) e nell’angoscia per il futuro, che sono
esperienze comuni a ogni essere umano. Kierkegaard scriveva: «Nella vita
l’unica cosa certa è la morte, cioè l’unica cosa di cui non si può sapere nulla
con certezza». In Aut-Aut: estetica ed etica nella formazione della
personalita (1843) (a cura di Remo Cantoni, Arnoldo Mondadori
Editore, Milano 1956), parla di tre stadi
evolutivi dell’esistenza: (1) lo stadio estetico, (2) lo stadio etico e (3) lo
stadio religioso. Ebbene nello stadio estetico, l’uomo rifiuta qualsiasi
impegno ripetitivo e serio, vivendo il “carpe
diem” e ricercando sempre nuove sensazioni senza mai impegnarsi in
legami affettivi stabili, allo stesso modo di Don Giovanni che non ama nessuna
donna veramente, passando dall’una all’altra in una esteriorità estenuante, in
una noia alienante e in una disperazione senza rimedio («A ogni donna
corrisponde un seduttore; la sua felicità sta nell’incontrarlo»). Nello stadio
etico, l’uomo invece privilegia l’interiorità e sceglie la fedeltà e la
ripetitività, allo stesso modo di colui che si decide al matrimonio,
rinunciando all’instabilità affettiva e accettando delle regole e degli impegni
durevoli nei quali però non riesce ancora a realizzare se stesso. Una piena
realizzazione, infatti, avverrà soltanto nell’amore di Dio col passaggio allo
stadio religioso.
Il filosofo e matematico
inglese Bertrand Russell
(1872-1970), premio Nobel nel 1950 e sfegatato pacifista su posizioni di anti–riarmo nucleare, ha scritto vere perle di saggezza
sull’amore, sulla felicità e sul matrimonio. Ha consigliato di evitare il
timore di amare per la paura di soffrire, il che sarebbe come fermarsi e
rifiutare di vivere per paura di morire: «Temere l’amore è temere la vita, e
chi teme la vita è già morto per tre quarti». D’altra parte, parlando della
felicità, Russell ha puntualizzato come ci si debba accontentare di ciò che
l’altro può darci, senza abbandonarci a sogni romantici di perfetta
realizzazione. Scriveva, infatti: «La mancanza di qualcosa da desiderare è una
parte indispensabile della felicità… Un matrimonio ha qualche probabilità di
successo se nessuno dei coniugi si aspetta da esso troppa felicità». Nell’amore
non ci si deve aspettare, pertanto, di cogliere la perfezione, bensì è
necessario avere la forza di riconoscere i difetti dell’altro e di accettarli o
perdonarli.
A proposito di amore e filosofia, ho avuto modo di
leggere su La Repubblica (dicembre
2005) un articolo di Franco Volpi (storico di Filosofia, deceduto purtroppo
prematuramente nell’aprile del 2009, vittima di un incidente stradale mentre
andava in bicicletta), che raccontava l’amore scoppiato nell’inverno 1924-1925
a Marburgo tra Martin Heiddeger (1889-1976), il filosofo tedesco che ha
innestato l’esistenzialismo alla fenomenologia, e la sua affascinante allieva Hannah
Arendt (1906-1975), colta figlia della ricca borghesia ebraica e grande
pensatrice politica del 20° secolo, la quale frequentava il corso magistrale di
Heiddeger su Platone e Aristotele. Scriveva Volpe: «Il trentacinquenne filosofo rimase colpito – come scriverà nelle lettere – da “quello sguardo che mi rivolgevi mentre parlavo
dalla cattedra”. A fulminarlo furono gli occhi della diciottenne Hannah Arendt
che, vestita di un verde sgargiante, seguiva con soggezione le sue lezioni. Benché
sposato e padre di due figli, il promettente professore s’accese come una
fiaccola nella travolgente passione per la giovane matricola […]. Martin non trovò però il coraggio di andare
fino in fondo, per dare a Hannah “il dono della visibilità pubblica”, che lei
con insistenza gli chiedeva. E si lasciò sfuggire – come confesserà – “la
passione della mia vita”. Dopo l’uscita
della versione tedesca di Vita Activa, nel 1960, Hannah spedì in omaggio
a Heiddeger la prima copia del suo libro con una dedica molto formale in cui
dichiarava a Martin di essergli debitrice di tutto, in conseguenza di ciò che
aveva appreso da lui in gioventù. Hannah, però, appuntò per sé una dedica più
sincera che recitava: “Rinuncio alla dedica di questo libro. Come potrei dedicarlo
a te, mio intimo, a cui sono e non sono rimasta fedele sempre, ed entrambe le
cose amandoti.”». Nel concludere il suo articolo, così commentava Volpi: «Era
l’ultima segreta dichiarazione d’amore». Nella stessa pagina de La
Repubblica (dicembre 2005), a
proposito di quell’amore, Hans Jonas scriveva: «Quella tra Heidegger e Hannah
Arendt fu una storia d’amore incredibile, intessuta di incontri segreti di rara
intensità (“Hannah è l’unica che mi abbia veramente capito”), di strazianti
separazioni, ritrovamenti fugaci, smarrimenti e illusioni, è una storia che
accende come poche la nostra immaginazione. Vuoi per il nome dei protagonisti,
primi attori sulla scena del pensiero ma francamente inattesi nel ruolo di
amanti. Vuoi per le travagliate circostanze in cui fu vissuta, che meriterebbero
di essere raccontate in un romanzo. Vuoi perché realizzò una “coincidentia
oppositorum”, un combaciare di due modi di essere e pensare contrapposti, che
se avesse avuto libero corso avrebbe potuto cambiare le sorti della filosofia
del Novecento […]. Insomma una storia che
alimenta, oltre l’immaginario romantico dell’amore, anche impertinenti fantasie
filosofiche.». Nel 1929 Hannah sposò Gunther Stern, anch’egli allievo di
Heidegger, conservando sempre nel suo cuore un posticino caldo per il suo Martin.
Anche la psicologia e la psicanalisi, che si
occupano dei sentimenti umani fondamentali, hanno prestato e prestano molta
attenzione all’Amore e ne hanno facilitato una più intima comprensione. Il noto medico viennese Sigmund Freud (1856-1939), fondatore della psicanalisi, sosteneva
che l’amore è la sublimazione della “libido”, forza istintiva e originaria,
mentre l’amore universale altro non è che una deviazione dell’amore individuale
nata dal desiderio di evitare la paura per la perdita dell’oggetto amato. Nel
suo libro Al di là del principio del piacere (traduzione di Flavio Manieri, Tascabili Economici Newton, Roma 1993),
Freud ha precisato bene l’«ambivalenza affettiva», la dualità di «amore (o affetto)» e «odio (o aggressività)», e la «forte tendenza della psiche
verso il principio del piacere». Ha
anche preso in considerazione l’esistenza delle «pulsioni libidiche» (che esprimono l’istinto di riproduzione),
delle «pulsioni dell’Io» (che
esprimono l’istinto di conservazione) e delle «pulsioni aggressive» (che esprimono l’istinto di morte). Per
Freud: «la perdita dell’amore e lo scacco subito si lasciano dietro una
ferita indelebile dell’autostima sotto forma di una cicatrice narcisistica, che
più di ogni altra causa contribuisce a quel “senso di inferiorità” così
frequente nei nevrotici»; ha anche
considerato «l’eterno ritorno dell’identico… la coazione a ripetere» di alcuni individui pur privi di veri e
propri conflitti nevrotici, come per esempio quegli «amanti, le cui
relazioni amorose con ogni donna ricalcano sempre lo stesso schema e si
concludono sempre allo stesso modo».
Nel libro sopra citato, Freud racconta in modo affascinante il mito
dell’origine della pulsione sessuale narrato da Platone, così scrivendo: «[…]
la scienza ha così poco da dirci sull’origine della sessualità che possiamo
equiparare il problema a una tenebra che nemmeno il lume di una ipotesi ha
squarciato. Una ipotesi siffatta la “troviamo” sì, ma in un campo del tutto
diverso; e di natura talmente fantastica –
un mito più che una spiegazione scientifica – che non mi arrischierei nemmeno a citare se essa non appagasse
proprio un’aspirazione che è nostro desiderio colmare. Essa, infatti, postula
all’origine di una pulsione “il bisogno di ristabilire uno stato anteriore”. Mi
riferisco, naturalmente, alla teoria che Platone, per bocca di Aristofane,
sostiene nel Convito, e che non solo tratta dell’“origine” della
pulsione sessuale ma anche delle sue importanti variazioni in rapporto
all’oggetto. “Una volta la natura umana non era com’è attualmente, era diversa.
Innanzitutto, i sessi erano originariamente tre, e non due come adesso; c’era
l’uomo, la donna, ed esseri che l’uno e l’altra erano insieme […]”. Tutto in
questi esseri primordiali era doppio: essi avevano quattro mani e quattro
piedi, due facce, due parti intime, e così via. Alla fine, Zeus decise di
tagliare questi esseri in due, proprio come si “spacca a mezzo una sorba per
metterla in conserva”. Dopo che la divisione ebbe luogo, “poiché ogni metà
desiderava riunirsi all’altra sua metà, ecco che le due metà si cercavano e si
gettavano l’una nelle braccia dell’altra, bramose di riformare l’uno” […]». In base alla teoria di Freud, Eros assume
un carattere di «pulsione di vita», in opposizione alla «pulsione di morte», mentre «l’enigma della vita
si risolve nella lotta incessante che si è stabilita tra queste due pulsioni
sin dai primordi».
Il grande e tormentato scrittore russo Fedor Dostoevskij (1821-1881), con un “animus” da filosofo e psicanalista, ne I demoni (premessa di
Fausto Malcovati, traduzione di Margherita Santi–Farina, in “Dostoevskij – Grandi
romanzi”, I Mammut 76, Newton Compton editori, Roma 2010) dà una rappresentazione straordinaria e sfaccettata di quest’ambivalenza
amore–odio. Lizavèta Nikolàjevna, fanciulla nervosa e interessante, è
combattuta tra due uomini: Mavrìkij Nikolàjevic (affidabile e innamorato con il
quale si è fidanzata) e Nikolàj Vsévolodovic (uomo enigmatico ma bellissimo,
strano e con qualcosa di demoniaco), che ama segretamente di un amore impossibile.
Il primo – vedendola soffrire e
volendo sacrificarsi – va dal
secondo per convincerlo a sposarla e, parlandogli dell’amore di lei, così dice:
«Sotto all’odio incessante per voi, odio sincero e assoluto, traspare ogni
momento l’amore e… la pazzia… l’amore più sincero e sconfinato e… la pazzia! Al
contrario, di dietro l’amore che sente per me – e anche questo è sincero –
lampeggia ogni momento l’odio, un odio immenso! Non avrei mai potuto
immaginare, prima, tutte queste… metamorfosi. […] Voi solo in tutto il mondo potete renderla felice. E io solo posso
renderla infelice. […] Se si
tratta d’un dissidio amoroso avvenuto all’estero e se per troncarlo occorre
sacrificare me, sacrificatemi. è troppo infelice, e io non lo sopporto.». A
proposito di questo ambiguo sentimento di amore–odio che talora alberga nel
cuore dell’uomo, Freud – facendo l’elogio del cane (il solo capace di «amore
puro») – ha scritto: «I cani amano gli amici e mordono i nemici, a differenza
degli esseri umani, che sono incapaci di amore puro e nelle loro relazioni
mescolano l’amore con l’odio».
Lo psicologo tedesco Eric Fromm (1900-1980), un altro grande
della psicanalisi (emigrato in America nel 1935), che con la moglie Frieda
Reichmann aveva fondato l’Istituto Psicoanalitico di Heidelberg, si è molto
occupato dell’Amore. Ricordo il suo classico L’arte di amare (traduzione
di Marilena Damiani, Arnoldo Mondatori Editore, Milano 1986), nel quale elabora
una teoria – con risvolti
pratici – dell’amore inteso
come via etica alla liberazione dell’individuo. Convinto che amare non sia così
facile come si creda, sostiene che l’Amore è un’arte che deve essere imparata
con umiltà, sforzo e saggezza, allo stesso modo in cui s’imparano tutte le
altre arti. Crede, inoltre, che si possa cominciare ad amare soltanto dopo aver
sviluppato la propria personalità e dopo aver imparato ad amare il prossimo,
mentre non è possibile limitarsi all’amore individuale e alla passione
esclusiva, che altro non sarebbero che «un attaccamento simbiotico». Si può
dire a un altro di amarlo veramente, soltanto se si è in grado di dire «amo
tutti in te, amo il mondo attraverso te, amo in te anche me stesso» e l’amore è
tanto più maturo, quanto più è disinteressato. Schiavi del mito dell’amore
romantico, si cade spesso nell’equivoco di credere che amare significhi essere
amati e che la prima fase d’infatuazione dell’innamoramento sia, in effetti,
l’amore duraturo. L’amore origina dal bisogno dell’uomo di superare
l’isolamento che nasce dalla sua solitudine, dal suo terrore del nulla e dal
desiderio di fusione con un’altra
persona; questa fusione tuttavia deve avvenire in modo sano, attraverso la
conservazione dell’integrità e dell’individualità di ciascuno dei partner («nell’amore
due esseri diventano uno, e tuttavia restano due»). In ciò, l’amore erotico è
proprio l’opposto di quello materno, nel quale «due persone, che erano una
sola, si separano». Lo psichiatra svizzero Ludwig
Binswanger (1881-1966) –
noto per i suoi studi sulla fuga delle idee – ha sostenuto un concetto simile: «L’essere-se-stesso
dell’amore non è un “io” ma un “noi”», così individuando nell’amore la risposta
più perfetta a un bisogno innato di ricongiungimento, al fine di superare
l’estraniamento da sé.
Nel testo
già citato Fromm esemplifica anche due tipi di fusione senza integrità e completamente
patologici: il “masochismo” (una forma di fusione passiva) in cui la
persona che ama annulla se stessa per sottoporsi al potere dell’altro che
diviene il suo idolo, e il “sadismo” (una forma di fusione attiva) in
cui la persona che ama domina, offende e umilia. Ed entrambi (il sadico e il
succube) non possono vivere l’uno senza l’altro, non possono esistere al di
fuori di questa relazione malata che condanna entrambi all’infelicità e alla
delusione. Per Fromm, il vero amore è più dare che ricevere: dare se stesso,
avendo l’attenzione di assicurare premura e di rispondere ai bisogni
dell’altro, mostrando sempre la rispettosa accettazione di ciò che l’altro è
(senza tentare di cambiarlo) e cercando di conoscere l’altro profondamente per
ciò che è veramente, senza le illusioni dell’amore romantico («nell’altro
essere trovo me stesso, scopro me stesso, scopro tutti e due, scopro l’uomo»).
A questo
proposito, desidero ricordare quanto scritto dal filosofo Umberto Galimberti, in risposta a una lettera, nella sua rubrica di
posta sul supplemento “D Repubblica delle Donne” (La Repubblica del 28/6/2008),
dal titolo Il conflitto tra amore e società. Al lettore anonimo – che tra le altre cose gli scriveva:
«Per dirla con Thomas Mann, finché il matrimonio è stato un’istituzione forte e
credibile e i contraenti hanno accettato il ruolo di vittime sacrificali,
sposando non la persona amata ma l’idea del matrimonio, tutto ha funzionato a
dovere in ossequio all’ipocrisia sociale. Da quando ci si sposa per amore,
invece, i guai e le contraddizioni sono venuti alla luce.» – Galimberti così rispondeva: «Un
tempo, l’amore non sanciva tanto la relazione tra due persone, quanto l’unione
di due famiglie o gruppi parentali che, attraverso il veicolo dell’amore,
potevano acquisire sicurezza economica, forza lavoro per l’impresa familiare,
avere eredi, assicurare il possesso esistente e, nel caso dei privilegiati,
ampliare il patrimonio e il prestigio. In una parola l’amore era funzionale
alla struttura della società. Oggi l’unione di due persone […] è il frutto di
una scelta individuale che avviene in nome dell’amore, su cui le condizioni
economiche, le condizioni di classe o di ceto, la famiglia, lo Stato, il
Diritto, la Chiesa non hanno più influenza e non esercitano più alcun potere.
In questo modo l’amore perde tutti i suoi legami sociali e diventa un assoluto
(solutus ab, sciolto da tutto), dove ciascuno può liberare quel profondo
se stesso che non sempre può esprimere nei ruoli che occupa nell’ambito
sociale. E se un tempo l’amore s’infrangeva di fronte alle convenzioni sociali,
oggi appare l’unico rifugio che salva l’individuo da queste convenzioni, in cui
nessuno ha l’impressione di poter essere veramente se stesso. Ma così l’amore
si avvolge nel suo enigma, dove il desiderare, lo sperare, l’intravedere una
possibilità di realizzazione per se stessi cozza con la natura dell’amore che è
essenzialmente relazione all’altro, per configurarsi come un culto esasperato
della soggettività […] Ma quando l’intimità è cercata per sé e non per l’altro,
l’individuo non esce dalla sua solitudine e tanto meno dalla sua
impermeabilità, perché, già, nell’intenzione di reperire nell’amore se stesso, egli
ha bloccato ogni moto di trascendenza, di eccedenza, di ulteriorità, capaci di
mettere in gioco la sua autosufficienza intransitiva e di aprire una breccia o
anche una ferita nella sua identità protetta. Una sorta di rottura di sé perché
l’altro lo attraversi. Questo è l’amore. Non una ricerca di sé, ma dell’altro,
che sia in grado, naturalmente a nostro rischio, di spezzare la nostra autonomia,
di alterare la nostra identità, squilibrandola nelle sue difese. […] L’amore
non è ricerca della propria segreta soggettività, che non si riesce a reperire
nel vivere sociale. Amore è piuttosto l’espropriazione della soggettività, e
l’essere trascinato del soggetto oltre la sua identità, e il suo concedersi a
questo trascinamento, perché solo l’altro può liberarci dal peso della
soggettività che non sa che fare di stessa. […] Amore è violazione
dell’integrità degli individui. La sola cosa capace di aprirci all’altro.».
Galimberti richiama, inoltre, la massima dello scrittore– filosofo francese (oltre che rappresentante dell’antica
nobiltà) François de La Rochefoucauld
(1613-1680): «La cosa più difficile da trovare nei legami amorosi è l’amore».
Accanto
alla capacità di aprirci all’amato, richiamerei anche l’importanza di tentare
di cambiare noi stessi nell’amore per l’altro; quello che dico è esemplificato
in modo ideale nella bellissima frase di Gabriel
García Márquez
(il grande scrittore colombiano triste e misterioso, premio Nobel nel 1892): «Ti amo non per chi sei tu, ma per chi sono
io quando sto con te».
Nel testo già citato (traduzione di
Marilena Damiani, Arnoldo Mondatori Editore, Milano 1986), Fromm ricorda anche il poeta mistico
persiano Gialal al Din detto Rumi
(1207-1273), autore del poema Mathnawi (“Jalal alDin Rumi – Mathnawi”, edizione italiana a cura di
Gabriele Mandel Khan, Bompiani, Milano 2006), un “Corano in versi”
esoterico e simbolico, difficile ma ardente, in cui l’Amore è la religione con
cui rimediare a ogni male e nutrire la «sete
su sete» che fa raggiungere
l’Essere supremo. Ispirato da amori omosessuali, Gialal credeva che la mutua
reciprocità di questo sentimento potesse arrivare sino alla quasi completa
identificazione fra amante e amato («in effetti, mai l’amante cerca senza
essere cercato dall’amato»).
Per
Fromm, in un amore maturo, ciascuno deve capire che i bisogni dell’altro sono
diventati più indispensabili dei suoi, che dare è divenuto più importante che
ricevere, e che amare è meglio che essere amato («Sono amato perché amo»).
Nell’amore immaturo, invece, si dice «ti amo perché ho bisogno di te». L’amore
è un atto di volontà, «una scelta, una promessa, un impegno». E proprio Fromm
sostiene che «la condizione essenziale per la conquista dell’amore è il
“superamento” del proprio narcisismo», insieme all’umiltà, alla ragione e all’obiettiva
capacità di «vedere la gente e le cose così come sono». Nello stesso tempo, è
necessario «aver fede» in se stessi –
nel proprio amore e nella propria capacità di suscitare amore – e nell’essere amato – nelle sue qualità e nel suo amore – avendo il coraggio di accettare anche
i dolori e le delusioni. Fromm scriveva:
«Chiunque avrà poca fede, avrà anche poco amore».
Diversi secoli prima, già Gottfried W. von Leibniz (1646-1716), il filosofo e scienziato
tedesco creatore dell’idea delle «monadi», aveva sostenuto che «amare è porre
la nostra felicità nella felicità di un altro».
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