Charlotte Brontë Ilaria Occhini interpreta Jane Eyre
Desidero condurre un discorso su come il
matrimonio si sia evoluto nel corso dei secoli, e su come ciò sia descritto in
modo straordinario nella letteratura dell'Ottocento e del Novecento, iniziando
con Charlotte Brontë e il suo “Jane
Eyre”.
In Orgoglio
e pregiudizio (Pride and Prejudice) (1813), la scrittrice inglese Jane
Austen (1775-1817), un'antesignana di Charlotte Brontë, a proposito del matrimonio – coronamento d’amore tra l’eroina e l’affascinante protagonista
maschile ma anche soluzione sociale per la donna di fine Settecento – così scriveva: «l’unica onorevole
risorsa per una ragazza ben educata con scarse possibilità economiche; forse,
non proprio fonte di felicità ma certamente la protezione più piacevole dalla
povertà» (traduzione di F. Fantaccini, Newton Compton Editori, Roma 2002).
Con Jane Eyre, Charlotte Brontë ha composto un romanzo che è un’intensa
celebrazione di sentimenti e, a mio parere, la quintessenza del fascino e delle
schermaglie dell’amor romantico, pur non mancando di una certa punta di
risentimento femminile (tutti i giusti ingredienti – romanticismo, sensualità e desiderio represso – vi sono sapientemente dosati e
usati). Sul solco dell’autobiografia, ma superando i confini angusti della casa
paterna, Charlotte scrisse il suo capolavoro in rottura con gli usi e i costumi
della chiusa e moralista Inghilterra vittoriana che volevano la donna asservita
prima ai comandamenti di Dio, poi a quelli del padre, quindi a quelli dell’ordine
coniugale. Il romanzo di Jane Eyre, piccola e oscura
istitutrice (non dotata né di vistosa bellezza né di prorompente femminilità),
incapace di giochi di seduzione ma capace di affascinare con la conversazione,
il carattere e la forza morale mister Rochester, uomo non bello ma forte e
appassionato («duro di lineamenti e di aspetto malinconico» ma dagli «sguardi
penetranti e dolci»). Rochester offre a Jane, prima un matrimonio improponibile
dal momento che è già sposato con una donna pazza e perversa, poi – una volta scoperto l’infelice
matrimonio – una convivenza
inaudita per la morale del tempo. Jane reprime il suo amore e rinuncia a
Rochester ma dopo mille peripezie (compresa la cecità di Edward a causa
dell’incendio del suo maniero provocato dalla moglie che resta uccisa) gli
innamorati riusciranno infine a coronare il loro sogno d’amore.
Molto
significative sono le parole che Jane si dice, quando si accorge che Blanche
Ingram (un’aristocratica non realmente innamorata ma desiderosa di un ricco
matrimonio) tenta di suscitare l’amore di Rochester senza successo: «Quanto
sbagliava, capivo come avrebbe potuto riuscire. Gli strali che continuamente
fallivano il segno, e cadevano senza effetto ai piedi del signor Rochester,
avrebbero potuto, se lanciati da una mano più sicura, trafiggere il suo cuore
orgoglioso, richiamare l’amore nei suoi occhi severi, e la dolcezza nel suo
volto amaro; o meglio ancora, si poteva, senza armi, compiere una silenziosa
conquista. “Come mai”, mi chiedevo, “avendo la fortuna di stargli così vicino,
non riesce a conquistarlo? Certo non lo ama con sincerità, o con vero affetto.
Non avrebbe allora bisogno di sciupare sorrisi, di lanciare occhiate, di studiare
grazie e atteggiamenti. Se parlasse e guardasse meno, e stesse quietamente a
sedere al suo posto, potrebbe giungere più vicina al suo animo. Ho visto sul
volto di lui un’espressione ben diversa da quella che ora l’indurisce. Ma
allora sorgeva spontanea. Non era sollecitata da arti da cortigiana, e da
manovre calcolate. Eppure occorrerebbe solo rispondere con semplicità alle sue
domande, rivolgersi a lui senza smorfie…, e così egli diventerebbe sempre più
caro e riscalderebbe come un benefico raggio di sole. Sarà capace di piacergli
quando saranno sposati? Non credo che andranno d’accordo, ma, se andranno
d’accordo, sua moglie sarà, a mio giudizio, la donna più fortunata che c’è al
mondo.”» (Capitolo diciottesimo,
traduzione di Lia Spaventa Filippi, Newton Compton Editori, Roma 1995).
Riporto
anche le parole della parte conclusiva, che rappresentano una piccola “summa”
di quel che è il segreto per un matrimonio felice: «Sono ormai sposata da dieci
anni. So che cosa vuol dire vivere per la persona che più si ama al mondo. Mi
ritengo supremamente felice… felice come le parole non possono esprimere,
perché sono tutta la vita di mio marito, com’egli è la mia. Nessuna donna è più
vicina di me al suo compagno, e più di me è carne della sua carne. Non sono mai
stanca della compagnia del mio Edward, ed egli della mia, come se fossimo un
sol cuore che batte in due petti. Stiamo sempre insieme. Lo stare insieme è
nello stesso tempo per noi essere liberi come nella solitudine, essere contenti
come in compagnia. Chiacchieriamo tutto il giorno; chiacchierare fra noi è un
modo più vivace di pensare a voce alta. Tutta la mia fiducia è riposta in lui,
tutta la sua in me. Siamo fatti l’uno per l’altro per carattere; ne risulta un perfetto
accordo.» (Capitolo trentottesimo,
traduzione di Lia Spaventa Filippi, Newton Compton Editori, Roma 1995).
E le somiglianze del carattere sono forse la chiave del successo per questa
coppia straordinaria. In un altro punto del romanzo Jane osserva: «Dicendo che
sono della sua razza, non intendo dire che ho qualche potere sul suo fascino;
ma solo che ho in comune con lui certi gusti e sentimenti.».
Nell’amore
infelice di Jane Eyre e Mr. Rochester, c’era certamente qualcosa di realmente
vissuto: nel 1842, le sorelle Charlotte ed Emily decisero di migliorare la loro
cultura personale per aprire una scuola privata e andarono a Bruxelles per
studiare lingue nella scuola diretta dal professor Héger, del quale Charlotte
s’innamorò perdutamente e senza ritegno, suscitando la gelosia risentita della
moglie. Morta la zia che reggeva le fila dell’economia famigliare, le due
giovani dovettero ritornare precipitosamente a casa ma Charlotte ripartì di
nuovo per Bruxelles, ritornando frettolosamente e definitivamente nel 1844, respinta
dall’avversione della moglie del professore. Nel 1848 morirono il fratello Branwell
(per delirium tremens) ed Emily e Anne (per tisi), e Charlotte rimase a vivere
da sola nella solitaria parrocchia paterna in Haworth, malandata in salute e
malata di malinconica, ma riscaldata da un animo caldo e appassionato.
Charlotte era una donna molto volitiva e dalla fortissima personalità,
femminista ante–litteram nel
suo sostenere l’importanza dell’emancipazione intellettuale e nell’inneggiare all’indipendenza
economica e all’autorealizzazione lavorativa della donna. Credeva fortemente
nella possibilità di un affrancamento della “zitella” dalla soggezione della famiglia e del matrimonio. E
mister Rochester altro non era che l’esatta trasposizione del vero grande amore
di Charlotte: il professore belga piuttosto in età, marito onesto e padre
felice, destinatario di missive d’amore fanatiche con le quali la scrittrice
(tormentata dalla passione) lo perseguitava nel vano tentativo di farlo
innamorare di sé. Nel suo romanzo, però, Charlotte offre a Jane Eyre
(personaggio certamente autobiografico) quel finale felice che la vita non le
aveva concesso. A proposito di Jane –
sua “alter ego” – Charlotte, donna molto moderna in
pectore, fa pronunciare a Rochester le seguenti parole: «Non vedo nemici
nell’esito felice del suo avvenire se non sulla fronte; e quella fronte sembra
dire: “Posso vivere sola, se il rispetto di me stessa e le circostanze me lo
chiederanno. Non ho bisogno di vendere l’anima per comperare la felicità. Ho un
tesoro interiore che mi manterrà viva anche se tutti i piaceri esterni mi
saranno negati, o offerti a un prezzo che non potrò accettare”. La ragione su
quella fronte è solida e tiene le redini e non si lascerà trascinare dai sentimenti.
Anche se la passione divamperà come fuoco nell’inferno, come infatti fa, e il
desiderio può immaginare ogni genere di vanità, sarà il giudizio a dire sempre
l’ultima parola, e a dare il voto decisivo. Potrà scatenarsi la tempesta,
tremare la terra, infuriare l’incendio, seguirà sempre la sottile voce della
coscienza.» (Capitolo diciannovesimo, traduzione di Lia Spaventa Filippi, Newton Compton Editori, Roma 1995).
In età
matura, a 40 anni, superati finalmente i postumi dell’infelice amore per il
professore belga, Charlotte Brontë
sposò felicemente il reverendo Nicholls, il vicario del padre, che l’aveva
amata (non riamato) per molti anni. In effetti, il reverendo Brontë reagì malissimo all’idea del
matrimonio di Charlotte e procurò «un
dolore acuto» alla donna già avanti negli anni, la quale scrisse a
proposito della richiesta di matrimonio di Nicholls: «Quali furono le sue
parole, te lo puoi figurare, il suo tono non lo puoi immaginare, e io non
riesco a dimenticarlo […] Gli chiesi se aveva parlato con il Babbo. Rispose che
non ne aveva il coraggio.». Questo avveniva, perché l’anziano Ministro della
Chiesa anglicana disapprovava il matrimonio in genere e sparlava sempre di
quelli che si sposavano; inoltre, a causa dell’attaccamento per la figlia,
l’interesse amoroso del suo vicario gli era odioso. Intimorita, Charlotte
promise al padre di respingere il corteggiatore. Così avvenne: amava Arthur
Nicholl, eppure lo respinse e non reagì né con le parole né con i gesti, e il
reverendo Nicholls abbandonò Haworth lasciando l’amata sola col padre. Virginia
Woolf, estimatrice della scrittrice,
ha scritto così nel suo saggio Le tre ghinee: «La sua vita matrimoniale – che doveva essere breve – fu resa ancor più
breve dal desiderio di suo padre.». Più tardi, poiché il tempo tutto vince
avendo la meglio sui pregiudizi e sull’ostinazione, il padre concesse il suo
permesso e i due innamorati si sposarono. Purtroppo, Charlotte sopravvisse al
matrimonio soltanto un anno, morendo a Haworth il 31 marzo del 1855 nel corso
della prima e tardiva gravidanza.
Giuseppe
Lombardo, professore di Letteratura anglo–americana
presso l’Università di Messina, nell’introduzione alla versione del libro
utilizzata per le mie citazioni (traduzione
di Lia Spaventa Filippi, Newton Compton Editori, Roma 1995), entra nel
dettaglio del “mito dei Brontë”,
che ebbe inizio nel 1857 dopo la pubblicazione del libro Life of Charlotte Brontë da parte di Elizabeth Gaskell (intima
amica di Charlotte). Lombardo così scrive: «[…] il tema della seduzione, della
proposta d’amore inaccettabile sul piano morale o sociale è però destinata a
innescare il tormento della passione e della conseguente repressione», e la
passione repressa fa parte dell’esistenza e di diversi scritti di Charlotte. Lombardo
racconta particolari inediti e interessanti della vita di Charlotte, evidenziando
il contrapporsi della scrittrice al «conformismo della famiglia e della società
patriarcale» e al «vieto moralismo sotto cui si dissimulano i rapporti di forza
che opprimono le donne». Inoltre annota acutamente: «Jane torna accanto a un
Rochester ormai sceso dal piedistallo del rango e del sesso: la distanza fra i
due si è ridotta enormemente e il rapporto che li unisce non è più di forza ma
di vicendevole integrazione; ella vede e si muove per lui e nessuno domina.». Lombardo
individua, infine, come questo avvenga in campagna, a contatto della Natura, «lontano
da una società a cui è invece connaturato il germe della discriminazione e
dell’ingiustizia».
Virginia Woolf, nel cap. IV del saggio Una
stanza tutta per sé, scriveva di Charlotte Brontë: «Ma vi erano
molti altri influssi, oltre la collera, ad agire sulla sua immaginazione e a
distoglierla dal proprio cammino. Come l’ignoranza, ad esempio. Il ritratto di
Rochester è tracciato al buio. In esso percepiamo l’influenza della paura; così
come di continuo sentiamo un’acrimonia che deriva dall’oppressione, una
sofferenza soffocata che arde sotto la passione, un rancore che fa contrarre
quei libri, per quanto splendidi, in uno spasimo di dolore.» (Traduzione di Maria Antonietta
Saracino, I Meridiani, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1998). Nell’altro suo saggio Jane Eyre, scritto tra il 1916 e il 1917, la
Woolf scrive altre cose di notevole interesse su Charlotte: «Quando
pensiamo a lei dobbiamo immaginare qualcuno che non ebbe fortuna nel nostro
mondo moderno, dobbiamo tornare col pensiero agli anni Cinquanta del secolo
scorso, a una canonica remota tra le selvagge brughiere dello Yorkshire. In
quella canonica, tra quelle brughiere, infelice e solitaria, nella sua povertà
ed esaltazione, rimarrà sempre. Queste circostanze, se certamente influenzarono
il suo carattere, debbono aver lasciato tracce anche nella sua opera […] Né di
breve durata l’intensità. Prorompe da tutto il volume, senza darci il tempo di
pensare, senza farci alzare gli occhi dalla pagina. […] La scrittrice ci tiene
per mano, ci forza al suo percorso, ci fa vedere ciò che vede lei, non ci
lascia neppure un momento, non ci permette di dimenticarci di lei. Alla fine ci
ritroviamo totalmente imbevuti del suo genio, della veemenza, dell’indignazione
di Charlotte Brontë. Nel
frattempo facce notevoli, figure dal forte profilo e dal tratto aspro ci sono
balenate davanti, ma è coi suoi occhi che le abbiamo viste. Una volta scomparsa
lei, le cerchiamo invano. Pensate a Rochester e sarà attraverso Jane Eyre.
Pensate alla brughiera ed ecco di nuovo Jane Eyre. […] Lei non si prova nemmeno
a risolvere i problemi della vita umana, è perfino ignara che esistano tali problemi,
tutta la forza che ha, tanto più tremenda per essere costretta, va
nell’affermazione “io amo, io odio, io soffro”. […] è la luce rossa e intermittente della fiamma del
cuore che illumina la sua pagina. In altre parole, leggiamo Charlotte Brontë […] per la sua poesia.» (Traduzione di Nadia Fusini, I
Meridiani, Arnoldo Mondadori Editore,
Milano 1998).
Nel suo Dizionario dei personaggi di romanzo, Gesualdo Bufalino, – che
presenta «i simulacri dei personaggi più memorandi, così come ci vengono
incontro sulla soglia, mentre provano i gesti dell’esordio e fanno amicizia col
lettore, col caldo della vita, con la voce che li battezza» – scrive, nella presentazione dedicata a Jane Eyre, parole di rara bellezza sulle
tre sorelle Brontë: «Nelle brughiere dello Yorkshire, a metà del secolo,
tre zitelle vittoriane, quale più quale meno consumate dalla tisi ed esaltate
dalla solitudine, si buttano a inventare romanzi, a vivere in essi le
inaccadute nozze, le scherme d’amore con gli inesistiti uomini della propria
vita. Charlotte crea così Jane Eyre, una figura di magre bellezze, ma
appassionata e guerriera nel riconoscere i propri diritti di donna e nel volerne
lo sboccio fuori del busto di gesso della moralità puritana. Tutt’altro che una
rivoltosa, beninteso, e anzi incline alla dedizione, alla devozione. A patto
però – e sembra di sentire Nora
[la
protagonista di “Casa di bambola” di Henrik Ibsen] che nessuno
s’arroghi d’imporre, per legge di sesso, quei sacrifici di sé che lei così
lietamente accetta per opzione d’amore.» (Oscar Saggi, Arnoldo Mondadori
Editore, Milano 1989). Ne approfitto per ricordare lo stupendo documentario–sceneggiato della televisione
inglese (canale BBC One) del 2003 sulla vita della famiglia Brontë, dal titolo In search of the Brontës, basato
sulle lettere e sulle ricerche dei loro numerosi biografi.
è
degno di nota che Jean Rhys (1890-1979), nata in una piccola isola delle
Antille nel mar dei Caraibi da padre gallese e madre creola, scrittrice
acclamata per avere saputo dare voce alla crisi esistenziale della donna, ha
dedicato il suo romanzo Il grande mare
dei Sargassi (Wide Sargasso Sea) (Adelphi, Milano 1980) a Bertha
Mason, la moglie creola di mister Rochester, eroina di secondo piano, negativa
e silenziosa, del romanzo “Jane Eyre”. Il libro fu scritto dall’autrice nel 1966 dopo il suo trasferimento
in Cornovaglia, quando aveva 76 anni e dopo trenta anni di silenzio seguiti
alla scrittura di diversi romanzi di successo editi tra il 1920 e il 1930. A
proposito di Bertha, ne Le donne e
la letteratura, Elisabetta Rasy annota acutamente: «In questo
luogo misterioso come i castelli del romanzo gotico, Charlotte Brontë mette in scena un esemplare
sdoppiamento del femminile: Jane ha un doppio, la moglie pazza di Rochester
segregata in un’ala della casa, Bertha Mason. L’istitutrice e la folle non sono
che due facce del femminile non riconciliato, in crisi con la famiglia e la
società. Non a caso la figura della folle viene vista dagli studiosi odierni di
“Jane Eyre” come simbolo della sessualità censurata e rimossa nell’austero
periodo vittoriano […] il lavoro sottrae Jane al destino di dannazione di
Bertha, che muore tra le fiamme […] Le sorelle Charlotte ed Emily Brontë rappresentano compiutamente la
doppia anima della donna vittoriana: essa ci appare estraniata dal presente o
faticosamente e dolorosamente partecipe di questo, e insieme la vediamo
affacciata, come a mezza via tra il passato, la tradizione romantica, e il
futuro, le vie della emancipazione.» (Editori
Riuniti, Roma 1964).
Diversi film sono stati
tratti da questo romanzo: il primo è del 1943, per la regia di Robert Stevenson
con Orson Wells e Joan Fontaine, mentre da ricordare è quello del 2003 di
Franco Zeffirelli con William Hurt e Charlotte Gainsbourg. Il film di
Zeffirelli mi ha deluso: Rochester è algido e distante mentre Jane è spenta e
musona; al contrario, sappiamo bene che l’uno era un essere caldo e
appassionato e che l’altra era una personcina viva e palpitante. Nel 2011, infine,
in Inghilterra è stata girata una nuova versione di “Jane Eyre” da Cary
Fukunaga con Mia Wasikowska (Jane Eyre) e Michael Fassbender (Edward Rochester),
in cui è stata data un'enfasi particolare agli aspetti gotici del romanzo. Ha
detto Fukunaga: «Ho speso molto tempo rileggendo il libro e cercando di sentire
quello che Charlotte Brontë sentiva mentre lo scriveva. C’è un qualcosa di
sinistro che affligge l'intera storia… ci sono stati qualcosa come 24
adattamenti, ed è veramente raro che si veda questa sorta di lato più oscuro.
Lo trattano come se fosse soltanto un romanzo d’epoca, e io penso che sia molto
di più».[3]
Ricordo,
invece, con tutta la nostalgia delle persone in età, lo sceneggiato televisivo
degli anni cinquanta (visto da bambina) per la regia di Anton Giulio Majano col
tenebroso Raf Vallone e l’angelica Ilaria Occhini, che nel fascino del bianco e
nero mescolava con arte ineguagliabile sentimento e romanticismo in dosi
perfette. Sarà forse il ricordo infantile a ingigantirne le qualità?!
Nessun commento:
Posta un commento