Virginia Woolf Jean Starobinski
Nel primo anniversario del mio blog desidero abbandonarmi
a una riflessione. Per anni ho espletato un mestiere duro che esigeva un animo
duro (sono stata un medico universitario con attività sul campo, in ospedale),
ma ho saputo mantenere sempre un nucleo tenero e vulnerabile. è accaduto, poi, che – in un momento di crisi
– è prevalso il desiderio di un cambiamento, di uno strappo improvviso. Al di
fuori della polvere delle biblioteche e dei paludamenti eruditi dell’accademia,
mi sono lasciata guidare – da lettrice entusiasta – dal piacere di condividere
con altri lettori il gusto di leggere e di commentare quelle che sono parole
eterne, dense di significato nascosto e di valenza universale. Avendo sviluppato
di più il talento della sensibilità rispetto a quello della tecnica
dell’analisi critica, credo che la mancanza di una rigida sovrastruttura
culturale mi abbia aiutato – e mi aiuti – a evitare gli eccessi del critico di
professione, che spesso liquida impietosamente tutto ciò che non ama o che non
gli piace, e che mi consenta di esprimere in modo più semplice e diretto un
giudizio individuale indipendente, entrando nel cuore delle sensazioni e dei
sentimenti.
Nel suo saggio Come dobbiamo leggere un libro (traduzione di Livio Bacchi Wilcock e J.
Rodolfo Wilcock, I Meridiani, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1998), la
grande scrittrice e critica inglese Virginia Woolf (1882-1941) – un mio mito – rivendica
lo spirito di libertà e l’indipendenza, quali importanti qualità del lettore,
che non deve riconoscere alcuna autorità che possa imporgli come leggere o cosa
leggere. La Woolf così scrive: «il solo consiglio che si può dare sulla
lettura è quello di non seguire nessun consiglio, bensì il proprio istinto;
fare uso della propria ragione, trarre le proprie conclusioni. […] Non date
ordini al vostro scrittore; cercate di diventare lui stesso. Siate il suo
compagno di lavoro e il suo complice. […] la letteratura è un’arte molto
complessa […] Dobbiamo restare lettori; non saremo mai investiti dall’addizionale
gloria spettante a quegli esseri eletti che oltre a essere lettori sono
critici.».
Sempre Virginia Woolf, nel saggio Una stanza tutta per sé (traduzione di Maria Antonietta
Saracino, I Meridiani, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1998), ha scritto: «un
libro dobbiamo leggerlo come se fosse
l’ultimo volume di una serie molto lunga […] perché i libri sono la continuazione l’uno dell’altro, nonostante la
nostra abitudine a giudicarli separatamente». Accennando a «quei poeti dimenticati i quali aprirono la
strada e domarono la naturale primitività della lingua», la grande
scrittrice aggiungeva: «i capolavori
non sono nascite isolate e solitarie; essi sono il risultato di molti anni di
un pensare comune, di pensare avendo accanto a sé la gran parte del popolo, sì
che l’esperienza della massa si nasconde dietro quella singola voce». Contemporaneamente,
la Woolf – convinta che il carattere umano fosse mutato e che il
tradizionale romanzo realista dell’Ottocento
non fosse più adeguato a rappresentare la mutata umanità del Novecento – si
rivolgeva, con senso di ribellione, all’innovazione
del «monologo interiore» e del «flusso di coscienza», ai quali seppe conferire
una specificità tutta femminile.
Il poeta anglo–americano Wystan Hugh Auden (1907-1973), uno dei più
grandi poeti del 20° secolo, in un suo saggio sosteneva che «la critica
dovrebbe essere una conversazione informale» e per godere di una lettura «il
piacere è ben lungi dall’essere una guida critica infallibile: è però la cosa
meno ingannevole». Sono anch’io convinta che esista un’oggettività della
bellezza di un testo e della grandezza di un autore
senza tempo che prescinda da qualsiasi valutazione personale.
Provo sempre un vero piacere nel
segnalare le più belle pagine della letteratura antica e moderna, ricordandole
agli altri e tentando la massima semplificazione possibile, allo scopo di far
sì che la citazione antologica rappresenti, oltre che un evento culturale,
anche un possibile motivo di svago intellettuale. E mi piace guidare l’attenzione sulla biografia di un
autore, andando alla ricerca del come ciascun artista si è ritagliata la sua
fetta di vita e avendo cura di raccontare soprattutto gli aspetti più familiari
e intimi (fornendo notizie, ove possibile, sulla sua vita sentimentale). Credo
che ciò valga anche per gli scrittori o i poeti più antichi – le lontane voci degli antenati
ancora vive e attuali – per
quelli che possiamo considerare emblematici del tempo in cui hanno vissuto (i
veri e propri “classici”, in senso etimologico).
E mi piace anche andare alla
ricerca di un dipinto o di un’immagine fotografica per avvicinare ancor di più
l’autore al lettore, rendendo familiari visi ed espressioni dei protagonisti
della cultura, che così diventano come amici amati e conosciuti. Con le
immagini – molte delle quali sono spesso primordiali fotografie – spero di
riuscire a evocare ambienti e atmosfere, contestualizzando gli autori (produttori
di storia e cultura) nella società in cui vivevano. Sono certa, così, di accontentare
anche la bramosa curiosità di quei lettori che spesso non conoscono aspetto e
lineamenti dei grandi di cui amano le parole.
Spesso mi perdo beatamente nel
citare i brani dei quei grandi autori che, quando parlano di sé o dei loro
amori, in fondo non hanno fatto che parlare di quel che siamo noi, di raccontare
i nostri amori, di esprimere i nostri sentimenti e le nostre identità, di narrare
le nostre vite! Leggere i classici –
oggi colpevolmente trascurati –
significa intraprendere una lunga stupenda passeggiata per i sentieri della
cultura, un indimenticabile viaggio della memoria e dei sentimenti. Naturalmente nella scelta dei brani di un
grande capolavoro ci sono dei grossi limiti. A proposito della selezione
antologica, nel suo Dizionario dei
personaggi di romanzo (Oscar Saggi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano
1989), Gesualdo Bufalino (1920-1996),
con feroce ironia, scriveva: «Come
ogni appassionato di squartamenti –
tigre ircana o critico strutturalista – il compilatore di antologie è un
individuo nocivo, da fidarsene poco. Di lingua subdola, di mano spiccia, di
smisurata superbia, egli meriterebbe il bando dalle pubbliche biblioteche, se
la sua opera non si rivelasse provvidenziale nelle emergenze di apocalisse
prossima ventura […]». Aggiunge anche: «Toccherà infine al lettore, se Dio
vuole, giustificare manomissioni così disinvolte […]». Spero, pertanto, che anche
il mio amato lettore sia abbastanza
indulgente nei miei confronti per gli involontari stravolgimenti e le possibili
manomissioni che nascono da un approccio molto individuale e dal fatto che –
sfogliando i tanti libri della mia biblioteca talora logorati dalla lettura,
più spesso impolverati dall’oblio (secoli e secoli di gran letteratura) –
scelgo sempre e soltanto i brani che più mi piacciono, i quali potrebbero non
essere necessariamente né i migliori da un punto di vista letterario, né i più
significativi da un punto di vista della critica letteraria, né tanto meno i
più amati dagli autori. è questo il motivo, serio e
comprensibilissimo, per il quale alcuni autori odiano le antologie e i loro
preparatori, e non cedono mai i diritti d’autore per parti tratte dai loro
libri da pubblicare in antologie.
Nell’incipit del suo Blade
Runner intitolato “Libertà [di] critica” e dedicato al grande critico triestino
Callisto Cosulich, per il compimento dei suoi novant’anni (TV Film, 20, n. 27, 2012),
ha scritto Ilaria Feole: «Cosa fa un critico? Analizza, scompone,
decifra, confronta, trova chiavi di lettura. Per chi lo fa? La domanda
è più spinosa e meno scontata: il sospetto che lo faccia per una ristretta
cerchia di addetti ai lavori, a volte così stretta da comprendere
esclusivamente se stesso, coglie forse troppo spesso il lettore di critica
cinematografica. Non sorge quel dubbio, sfogliando le pagine della carriera
sconfinata del nostro Callisto Cosulich, un critico che fa
il critico per gli spettatori.». Spero caldamente che un giorno, questo possa
dirsi anche per me e per i miei articoli!
Concludendo, con questi miei testi di critica (che
quasi sempre guardano alla grande letteratura – che col suo retaggio culturale
ha il potere di formare gli uomini mettendoli a contatto col mondo degli altri
e che è vita e nutrimento delle anime – e ai suoi riflessi nel cinema e nello
spettacolo in genere), ho tentato – e tento – di affrontare in maniera lieve
degli argomenti difficili, usando quello sguardo scientifico al quale sono
abituata. D’altra parte, tra la ricerca scientifica e la critica letteraria
esistono certamente molti punti in comune, perché in entrambe si ricercano e si
riportano alla superficie delle verità nascoste. Sotto questo profilo, non
posso fare a meno di ricordare Jean Starobinski (1920-), grande filosofo e
critico letterario ginevrino, uno degli ultimi umanisti e un padre della “nouvelle
critique”, conosciuto per Jean Jacques Rousseau:
La transparence et l’obstacle
(Gallimard, Parigi 1957), che
– guarda caso – ha una laurea in Lettere e una in Medicina (ha insegnato presso
la Johns Hopkins University di Baltimora e le Università di Basilea e Ginevra).
Nel metodo critico, Starobinski unisce gli strumenti dell’arte a quelli della
scienza, della musica e della linguistica, applicando un originale procedimento
che consiste nel creare un rapporto relazionale dialettico tra l’esperienza
soggettiva e la spontaneità del soggetto, da una parte, e lo spazio letterario
e la resistenza dell’opera d’arte, dall’altra. Pur provando emozioni e pur
subendo il fascino dell’opera letteraria, il soggetto – nella sua piena
consapevolezza critica e nell’uso esperto e sapiente di tutti i suoi strumenti
critici – deve rimanere equilibrato e distante tanto da poter cogliere la
struttura dell’opera e la sua profondità. è come un pendolo in
continua oscillazione, che deve sapere allontanarsi ma anche avvicinarsi per
cogliere sia i dettagli sia l’intreccio di simboli e d’idee con i quali s’esprime
il pensiero di un autore.
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