domenica 9 settembre 2012

Il matrimonio nella letteratura dell’Ottocento


Honoré de Balzac                     Henrik Ibsen


I primi segni del traballare del matrimonio come istituzione, nellOttocento, comparvero in Anna Karenina di Tolstoj e in Emma Bovary di Flaubert (romanzi ai quali ho dedicato diversi articoli).


Oscar Wilde (1854-1900), stravagante e anticonformista scrittore irlandese omosessuale, accusato e imprigionato per immoralità, così scriveva: «Chi non ha mai amato non ha mai vissuto… Il mistero dell’amore è più grande del mistero della morte»; aggiungeva anche: «I dolori superficiali e gli amori superficiali durano. Gli amori e i dolori profondi sono uccisi dalla loro stessa intensità». Avendo capito una profonda verità del rapporto uomo-donna, dichiarava: «Le donne sono fatte per essere amate, non per essere comprese». Nonostante la sua esibita omosessualità, Wilde si sposò ed ebbe due figli ma la sua avversione per il matrimonio (al quale ha dedicato numerosi motti corrosivi e diverse frasi sferzanti) è divenuta proverbiale. Scrisse: «Al giorno d’oggi è cosa molto pericolosa per un marito usare, in pubblico, riguardi per la propria moglie: ciò fa sempre pensare alla gente che egli la bastoni nell’intimità. Tanto grande è l’incredulità del mondo per ciò che ha l’apparenza di una felicità coniugale.». E, ironicamente, sosteneva ancora: «La base logica del matrimonio è il malinteso reciproco… Il fascino del matrimonio consiste nel fatto che rende necessaria per entrambi i coniugi una vita d’inganni»; paradossalmente, aggiungeva: «Un uomo può essere felice con qualsiasi donna fintanto che non l’ama veramente». Il tema dell’amaro inganno creato dall’amore ritorna in un altro suo motto: «Quando una persona è innamorata comincia con l’ingannare se stessa e finisce con l’ingannare gli altri». Oltre che il matrimonio, Oscar sembrava disprezzare anche la fedeltà in amore; scrisse infatti: «Chi ama una volta sola nella vita ha una natura superficiale. Ciò che alcuni quantificano per lealtà e fedeltà io direi piuttosto apatia dovuta all’uso o all’assenza di immaginazione… La fedeltà in amore non è altro che una questione fisiologica. E’ indipendente dalla nostra volontà. I giovani vorrebbero essere fedeli e non possono esserlo; i vecchi vorrebbero essere infedeli e non ci riescono». Negava infine l’esistenza della passione eterna, scrivendo con profondo senso d’amarezza: «L’unica differenza che corre fra un capriccio e una passione eterna, è che il capriccio è più durevole» (Aforismi a cura di Riccardo Reim, Tascabili Economici Newton, Roma, 1992).

Con inimicizia simile e sarcasmo egualmente amaro, lo scrittore siciliano Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957), autore de Il Gattopardo, ha scritto del matrimonio: «L’amore. Certo, l’amore. Fuoco e fiamme per un anno, cenere per trenta.» (romanzo pubblicato postumo dalla Feltrinelli, a cura di Giorgio Bassani nella sua collana, Milano, 1958).

Luigi Pirandello (1867-1936), altro grande scrittore siciliano, scrive una frase simile nella novella L’onda, contenuta nella sua prima raccolta di novelle (il primo volume di narrativa pubblicato nel 1894) che aveva il titolo di “Amori senza amore”. Nel racconto ispirato dalla storia d’amore vissuta in età adolescenziale da Luigi (innamorato della cugina Lina, più grande d’età) e sfociata in un fidanzamento finito miseramente, Pirandello ci mostra le difficoltà di un amore ambiguo, nel quale i due non si amano mai nello stesso momento. Fidanzata abbandonata alla vigilia del matrimonio, Agata sposa senza amore Giulio, molto innamorato ma dilaniato dalla gelosia per il suo passato; col tempo lei impara ad amarlo ma lui dopo il matrimonio si raffredda, e la sorella Erminia la consola dicendo: «Tutti gli uomini son così… Fuoco, prima delle nozze; cenere, dopo.». La ragazza, accorata, le risponde: «Sarà il mio destino… Amata quando non amo; disamata, amando…» (Tascabili Economici Newton, Roma, 1995).

Il grande romanziere francese Victor Hugo (1802-1885) paragona in modo simbolico il matrimonio a una pianta: «Il matrimonio è come un innesto: attecchisce o no»; inoltre, convinto che l’amore si componesse dell’unione dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo, pensava che la massima felicità nel matrimonio e nella vita in genere consistesse nel sapere che si è amati per ciò che si è, o ancor meglio, nonostante ciò che si è, dal momento che chi ama veramente deve saper accettare l’essere amato per quel che è.

Honoré de Balzac (1799-1850), altro monumento della letteratura francese e uomo molto esperto nelle umane passioni, bruciò la sua vita tra amori disordinati (la sua prima amante fu Laure de Berny, di ventidue anni più anziana di lui, alla quale si legò a ventitre anni in un rapporto che durò per più di dieci anni e che si sovrappose a numerose altre relazioni sentimentali), ebbe due figli naturali, contrasse debiti e patì la persecuzioni dei creditori. Soltanto alcuni mesi prima della morte si decise a un tardivo matrimonio, sposando la contessa Eva Hanska, l’amante degli ultimi venti anni, divenuta libera per il decesso del marito mentre era già incinta del suo terzo figlio. Col suo sguardo narrativo insieme romantico e realista e prendendo in considerazione uno dei grandi nemici del matrimonio, lo scrittore scriveva: «Il matrimonio deve continuamente combattere con un mostro che divora tutto: l’intimità… è più facile essere un amante che un marito, perché è più difficile avere dello spirito tutti i giorni che dire cose dolci di tanto in tanto.». Nel suo capolavoro La cugina Bette, che conclude l’enorme progetto narrativo della “Comédie Humaine”, Balzac narra l’appassionante e intricata storia della caduta morale e materiale di un nobile avanti nell’età, Hector, un dissipatore lussurioso e schiavo del sesso, travolto da una passione senile per le donnine facili. A queste dissolute fanciulle, l’uomo immola vigliaccamente il senso dell’onore e la moglie Adeline, vero monumento di angelica bontà e di amore coniugale devoto e fanatico che tutto perdona (anche l’assolutamente imperdonabile) suscitando in tutti culto e venerazione. In uno sfondo borghese, gli intrighi e i crimini sono manipolati dall’odio diabolico (ma ben occultato sino alla morte) e dal desiderio di vendetta di un’anziana brutta cugina, «parente povera» vissuta di avanzi e nutrita di gelosa invidia per la bellezza sfolgorante e lo splendido matrimonio di Adeline. Ebbene, in questo romanzo, in una lotta continua, si fronteggiano la virtù troppo rigida contro i vizi pieni di sfumature e d’indulgenza, la dignità eroica della gente perbene contro la crudeltà tremenda del popolo del crimine, l’amore autentico contro i sapienti raggiri della passione venale, ma soprattutto la devozione coniugale (intesa come dovere eterno) contro l’infedeltà che attira come una ghiottoneria. Accanto alla critica per l’immoralità dilagante del mondo della borghesia francese di metà Ottocento, in Balzac c’è anche la convinzione che la bellezza sia il più grande dei poteri umani, che una donna fatale e pericolosa possa dare un sapore piccante alla vita così come le spezie danno sapore alle vivande, e che l’eccessiva debolezza e l’esagerata sottomissione di Adeline siano un grosso errore che rende la vittima complice del suo carnefice. Balzac focalizza anche il potere che l’uomo dell’Ottocento aveva nel fare della propria moglie «una martire o una donna felice», e pone l’accento sull’enorme vanità di quest’uomo nel godere del fascino e dei piaceri di una «donna in vista, donna desiderata» che lo convince di valere tutta l’infelicità che provoca («Di lì viene la terribile potenza delle attrici») (traduzione di L. Chiavarelli, Editore Newton Compton – Collana Biblioteca Economica Newton, Roma 2007).

Il drammaturgo norvegese Henrik Ibsen (1828-1906), con la sua Una casa di bambola (1879), crea una protagonista Nora che, rifiutando il suo ruolo di bambina (o peggio di oggetto di lusso), prende coscienza di sé e del suo essere donna, e realizza la sua personalità in una nuova autonomia, rompendo il matrimonio e scegliendo la solitudine, abbandonando la casa e la famiglia. Con questo dramma Ibsen mostrò tutta la sua capacità di anticipatore sociale, svolgendo un tema di argomento femminista. Antonio Gramsci, commentando il 22 marzo 1917 la rappresentazione della commedia al Teatro Carignano con Emma Grammatica, ha delineato un confronto tra la donna del Nord e quella dell’Italia di inizio secolo: «La donna dei nostri paesi, la donna che ha una storia, la donna della famiglia borghese, rimane come prima la schiava, senza profondità di vita morale, senza bisogni spirituali, sottomessa anche quando sembra ribelle Rimane la bambola più cara quanto più è stupida, più diletta ed esaltata quanto più rinunzia a se stessa, ai doveri che dovrebbe avere verso se stessa, per dedicarsi agli altri…». Ne La donna del mare (1882), Ibsen racconta di una donna apparentemente debole che, lasciata libera di scegliere al di là delle convenzioni, rifiuta il sogno del grande amore e resta con l’affettuoso marito, mentre in Hedda Glaber (1890), una donna si sente superiore e distrugge il marito e la sua opera letteraria trovando la fine nel suicidio (una simile terribile superdonna è stata rappresentata nel 1887 nella pièce teatrale Il padre anche dal misogino August Strinberg, messo in crisi da brevi e tempestosi matrimoni conclusi nel divorzio). Tutti i drammi ibseniani, scritti con tecnica perfetta e linguaggio incisivo, presentano trame coinvolgenti e sentimenti umani grandiosi che debbono essere letti in chiave psicoanalitica; essi appaiono eterni, irresistibili e modernissimi nel loro affrontare con consapevole serietà morale i conflitti sociali, i dissidi familiari e la condizione della donna nell’Ottocento.

Lev N. Tolstoj (1828-1910), nato lo stesso anno di Ibsen, sembrò accettare alla fine della sua vita l’idea che il matrimonio non fosse altro che una vecchia istituzione in crisi, idea che serpeggiava ormai per tutta l’Europa. Visse gli ultimi anni in un perenne conflitto familiare con una moglie che non condivideva i suoi sogni e le sue aspirazioni, tanto che più volte aveva meditato la fuga per sottrarsi ai minacciosi ricatti coniugali. Il 28 ottobre del 1910, finalmente, riuscì ad abbandonare la sua casa ma si ammalò e morì il 7 novembre nella fredda e solitaria stazione di Astapovo.

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