Honoré de Balzac Henrik Ibsen
I
primi segni del traballare del matrimonio come istituzione, nell’Ottocento,
comparvero in Anna Karenina di
Tolstoj e in Emma Bovary di Flaubert
(romanzi ai quali ho dedicato diversi articoli).
Oscar Wilde (1854-1900), stravagante
e anticonformista scrittore irlandese omosessuale, accusato e imprigionato per
immoralità, così scriveva: «Chi non ha mai amato non ha mai vissuto… Il mistero
dell’amore è più grande del mistero della morte»; aggiungeva anche: «I dolori
superficiali e gli amori superficiali durano. Gli amori e i dolori profondi sono
uccisi dalla loro stessa intensità». Avendo capito una profonda verità del
rapporto uomo-donna, dichiarava: «Le donne sono fatte per essere amate, non per
essere comprese». Nonostante la sua esibita omosessualità, Wilde si sposò ed
ebbe due figli ma la sua avversione per il matrimonio (al quale ha dedicato numerosi
motti corrosivi e diverse frasi sferzanti) è divenuta proverbiale. Scrisse: «Al giorno d’oggi è cosa molto pericolosa per
un marito usare, in pubblico, riguardi per la propria moglie: ciò fa sempre
pensare alla gente che egli la bastoni nell’intimità. Tanto grande è
l’incredulità del mondo per ciò che ha l’apparenza di una felicità coniugale.».
E, ironicamente, sosteneva ancora: «La
base logica del matrimonio è il malinteso reciproco… Il fascino del matrimonio
consiste nel fatto che rende necessaria per entrambi i coniugi una vita
d’inganni»; paradossalmente, aggiungeva: «Un uomo può essere felice con qualsiasi donna fintanto che non l’ama
veramente». Il tema dell’amaro inganno creato dall’amore ritorna in un
altro suo motto: «Quando una persona è
innamorata comincia con l’ingannare se stessa e finisce con l’ingannare gli
altri». Oltre che il matrimonio, Oscar sembrava disprezzare anche la
fedeltà in amore; scrisse infatti: «Chi
ama una volta sola nella vita ha una natura superficiale. Ciò che alcuni
quantificano per lealtà e fedeltà io direi piuttosto apatia dovuta all’uso o
all’assenza di immaginazione… La
fedeltà in amore non è altro
che una questione fisiologica. E’ indipendente dalla nostra volontà. I giovani
vorrebbero essere fedeli e non possono esserlo; i vecchi vorrebbero essere
infedeli e non ci riescono». Negava infine l’esistenza della passione
eterna, scrivendo con profondo senso d’amarezza: «L’unica differenza che corre
fra un capriccio e una passione eterna, è che il capriccio è più durevole» (Aforismi
a cura di Riccardo Reim, Tascabili Economici Newton, Roma, 1992).
Con
inimicizia simile e sarcasmo egualmente amaro, lo scrittore siciliano Giuseppe
Tomasi di Lampedusa (1896-1957), autore de Il Gattopardo, ha scritto del
matrimonio: «L’amore. Certo, l’amore. Fuoco e fiamme per un anno, cenere per
trenta.» (romanzo pubblicato postumo dalla Feltrinelli, a cura di Giorgio
Bassani nella sua collana, Milano, 1958).
Luigi
Pirandello (1867-1936), altro grande scrittore siciliano, scrive una frase
simile nella novella L’onda, contenuta nella sua prima raccolta di novelle (il primo
volume di narrativa pubblicato nel 1894) che aveva il titolo di “Amori senza
amore”. Nel racconto ispirato dalla storia d’amore vissuta in età
adolescenziale da Luigi (innamorato della cugina Lina, più grande d’età) e
sfociata in un fidanzamento finito miseramente, Pirandello ci mostra le
difficoltà di un amore ambiguo, nel quale i due non si amano mai nello stesso momento.
Fidanzata abbandonata alla vigilia del matrimonio, Agata sposa senza amore
Giulio, molto innamorato ma dilaniato dalla gelosia per il suo passato; col
tempo lei impara ad amarlo ma lui dopo il matrimonio si raffredda, e la sorella
Erminia la consola dicendo: «Tutti gli uomini son così… Fuoco, prima
delle nozze; cenere, dopo.». La
ragazza, accorata, le risponde: «Sarà il mio destino… Amata quando non
amo; disamata, amando…» (Tascabili
Economici Newton, Roma, 1995).
Il grande
romanziere francese Victor Hugo (1802-1885) paragona in modo simbolico il
matrimonio a una pianta: «Il matrimonio è come un innesto: attecchisce o no»;
inoltre, convinto che l’amore si componesse dell’unione dell’infinitamente
grande e dell’infinitamente piccolo, pensava che la massima felicità nel
matrimonio e nella vita in genere consistesse nel sapere che si è amati per ciò
che si è, o ancor meglio, nonostante ciò che si è, dal momento che chi ama
veramente deve saper accettare l’essere amato per quel che è.
Honoré de
Balzac (1799-1850), altro monumento della letteratura francese e uomo molto
esperto nelle umane passioni, bruciò la sua vita tra amori disordinati (la sua
prima amante fu Laure de Berny, di ventidue anni più anziana di lui, alla quale
si legò a ventitre anni in un rapporto che durò per più di dieci anni e che si
sovrappose a numerose altre relazioni sentimentali), ebbe due figli naturali,
contrasse debiti e patì la persecuzioni dei creditori. Soltanto alcuni mesi
prima della morte si decise a un tardivo matrimonio, sposando la contessa Eva
Hanska, l’amante degli ultimi venti anni, divenuta libera per il decesso del
marito mentre era già incinta del suo terzo figlio. Col suo sguardo narrativo
insieme romantico e realista e prendendo in considerazione uno dei grandi nemici
del matrimonio, lo scrittore scriveva: «Il matrimonio deve continuamente
combattere con un mostro che divora tutto: l’intimità… è più facile essere un amante che un marito, perché è più
difficile avere dello spirito tutti i giorni che dire cose dolci di tanto in
tanto.». Nel suo capolavoro La cugina Bette, che conclude
l’enorme progetto narrativo della “Comédie Humaine”, Balzac narra
l’appassionante e intricata storia della caduta morale e materiale di un nobile
avanti nell’età, Hector, un dissipatore lussurioso e schiavo del sesso,
travolto da una passione senile per le donnine facili. A queste dissolute
fanciulle, l’uomo immola vigliaccamente il senso dell’onore e la moglie
Adeline, vero monumento di angelica bontà e di amore coniugale devoto e fanatico
che tutto perdona (anche l’assolutamente imperdonabile) suscitando in tutti
culto e venerazione. In uno sfondo borghese, gli intrighi e i crimini sono
manipolati dall’odio diabolico (ma ben occultato sino alla morte) e dal
desiderio di vendetta di un’anziana brutta cugina, «parente povera» vissuta di avanzi e nutrita di gelosa invidia
per la bellezza sfolgorante e lo splendido matrimonio di Adeline. Ebbene, in
questo romanzo, in una lotta continua, si fronteggiano la virtù troppo rigida
contro i vizi pieni di sfumature e d’indulgenza, la dignità eroica della gente
perbene contro la crudeltà tremenda del popolo del crimine, l’amore autentico
contro i sapienti raggiri della passione venale, ma soprattutto la devozione
coniugale (intesa come dovere eterno) contro l’infedeltà che attira come una
ghiottoneria. Accanto alla critica per l’immoralità dilagante del mondo della
borghesia francese di metà Ottocento, in Balzac c’è anche la convinzione che la
bellezza sia il più grande dei poteri umani, che una donna fatale e pericolosa
possa dare un sapore piccante alla vita così come le spezie danno sapore alle
vivande, e che l’eccessiva debolezza e l’esagerata sottomissione di Adeline
siano un grosso errore che rende la vittima complice del suo carnefice. Balzac focalizza
anche il potere che l’uomo dell’Ottocento aveva nel fare della propria moglie
«una martire o una donna felice», e pone l’accento sull’enorme vanità di
quest’uomo nel godere del fascino e dei piaceri di una «donna in vista, donna
desiderata» che lo convince di valere tutta l’infelicità che provoca («Di lì
viene la terribile potenza delle attrici») (traduzione di L. Chiavarelli,
Editore Newton Compton – Collana
Biblioteca Economica Newton, Roma 2007).
Il drammaturgo norvegese Henrik Ibsen (1828-1906), con
la sua Una casa di bambola
(1879), crea una protagonista Nora che, rifiutando il suo ruolo di bambina (o
peggio di oggetto di lusso), prende coscienza di sé e del suo essere donna, e
realizza la sua personalità in una nuova autonomia, rompendo il matrimonio e scegliendo
la solitudine, abbandonando la casa e la famiglia. Con questo dramma Ibsen
mostrò tutta la sua capacità di anticipatore sociale, svolgendo un tema di
argomento femminista. Antonio Gramsci, commentando il 22 marzo 1917 la
rappresentazione della commedia al Teatro Carignano con Emma Grammatica, ha
delineato un confronto tra la donna del Nord e quella dell’Italia di inizio
secolo: «La donna dei nostri paesi, la
donna che ha una storia, la donna della famiglia borghese, rimane come prima la
schiava, senza profondità di vita morale, senza bisogni spirituali, sottomessa
anche quando sembra ribelle… Rimane… la bambola più cara quanto più è stupida, più diletta
ed esaltata quanto più rinunzia a se stessa, ai doveri che dovrebbe avere verso
se stessa, per dedicarsi agli altri…». Ne
La donna del mare (1882), Ibsen racconta di una donna
apparentemente debole che, lasciata libera di scegliere al di là delle
convenzioni, rifiuta il sogno del grande amore e resta con l’affettuoso marito,
mentre in Hedda Glaber (1890), una
donna si sente superiore e distrugge il marito e la sua opera letteraria
trovando la fine nel suicidio (una simile terribile superdonna è stata
rappresentata nel 1887 nella pièce teatrale Il padre anche dal
misogino August Strinberg, messo in crisi da brevi e tempestosi matrimoni
conclusi nel divorzio). Tutti i drammi
ibseniani, scritti con tecnica perfetta e linguaggio incisivo, presentano trame
coinvolgenti e sentimenti umani grandiosi che debbono essere letti in chiave
psicoanalitica; essi appaiono eterni, irresistibili e modernissimi nel loro
affrontare con consapevole serietà morale i conflitti sociali, i dissidi
familiari e la condizione della donna nell’Ottocento.
Lev
N. Tolstoj (1828-1910), nato lo stesso anno di Ibsen, sembrò accettare alla
fine della sua vita l’idea che il matrimonio non fosse altro che una vecchia
istituzione in crisi, idea che serpeggiava ormai per tutta l’Europa. Visse gli
ultimi anni in un perenne conflitto familiare con una moglie che non
condivideva i suoi sogni e le sue aspirazioni, tanto che più volte aveva
meditato la fuga per sottrarsi ai minacciosi ricatti coniugali. Il 28 ottobre
del 1910, finalmente, riuscì ad abbandonare la sua casa ma si ammalò e morì il
7 novembre nella fredda e solitaria stazione di Astapovo.
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