lunedì 7 novembre 2011

Akira Kurosawa e la sua epopea feudale



Akira Kurosawa



Cento anni addietro, il 23 marzo del 1910, nasceva a Ōta in Giappone Akira Kurosawa. Grande regista e produttore, è considerato uno dei maestri più importanti e acclamati nel mondo: col suo cinema transculturale e senza tempo ha influenzato molti registi.

Attivo sino alla morte (che lo colse a 88 anni il 6 settembre del 1998), nel 1999 uscì postumo – vero e proprio testamento spirituale – il suo ultimo film Il compleanno (Madadayo), storia crepuscolare del vecchio professore Uchida, festeggiato dai suoi ex allievi ma «non ancora (madadayo)» pronto per la morte, che rimanda di anno in anno il suo appuntamento fatale.

Kurosawa apparteneva a una nobile famiglia di samurai e fu un uomo colto e versatile: amò il disegno, la pittura, la letteratura, il teatro (Shakespeare, in particolare) ma soprattutto il cinema. Dopo essere stato sceneggiatore e assistente alla regia, nel 1943 esordì con La leggenda dello judo (Sugata Sanshiro) e da allora la sua carriera è stata tutta una lunga escalation di film superbi, di grandiose epopee e di colossali affreschi che si ispiravano prevalentemente al periodo feudale dell'impero giapponese (13°–17° secolo), mescolando mitologia medioevale con immaginario popolare.

Tra i suoi capolavori è da ricordare soprattutto Rashōmon (1950), col quale vinse il Leone d'oro alla 16ª Mostra di Venezia e un Premio Oscar ad honorem come miglior film straniero, «film pirandelliano» di un regista allora praticamente sconosciuto, emblema della relatività di ogni prospettiva, paradigma dell’impossibilità di ottenere la verità su un evento in presenza di diversi testimoni; come ha osservato Gianfranco Massetti: «dramma del moderno relativismo che sfocia nella negazione nichilistica del valore epistemico della verità». Ha scritto Gianni Canova: «La struttura narrativa del film si fonda sul contrasto delle versioni opposte dei personaggi, ognuno dei quali... racconta la propria "verità", mentre anche l'anima dell'ucciso viene chiamata a dire la sua. La verità viene a galla, in una specie di balletto assurdo, grazie a un testimone casuale, e con essa affiora uno spaccato di menzogne, di cinismo e di bassezza morale... un'opera di potente suggestione che si traduce rapidamente in un simbolo incontrastato del cinema nipponico...».

"Rashōmon" ha ispirato "L'oltraggio" (1964), film diretto da Martin Ritt con Paul Newman e Edward G. Robinson.

Seguirono altri grandi opere, quali L'idiota (Hakuchi) (1951), rivisitazione del romanzo di Dostoevskij; I sette samurai (Shichinin no samurai) (1954) che vinse il Leone d'argento a Venezia e che ha ispirato "I magnifici sette" di John Sturges; Il trono di sangue (Kumonosu–jō) (1957) rilettura del "Macbeth"; Bassifondi (Donzoko) (1957) tratto da "L'albergo dei poveri" di Gor'kij; La fortezza nascosta (Kakushi toride no san–akunin) (1958) che ha suggerito il ciclo di "Star Wars" a George Lucas; e La sfida del Samurai (Yojimbo) (1961) che ha improntato così tanto il film "Per un pugno di dollari" di Sergio Leone da provocare una vertenza legale vinta da Kurosawa (disse: «Si tratta di un ottimo film, ma è il "mio" film»).

L'attore–feticcio del regista fu il grande Toshiro Mifune, col quale realizzò tra il 1948 e il 1965 più di 16 pellicole.

Dopo aver abbandonato l'epopea storica, si volse con Dodes'ka–den (1970) agli "ultimi della terra", ai tanti emarginati dalla competitiva e crudele società giapponese (il pubblico non capì il film, che fu un flop). Chiamato a Hollywood per girare Tora! Tora! Tora!, fu sostituito con Kinji Fukasaku e arrivò sino a tentare il suicidio. Il successo riprese però incontrastato col dolente Il piccolo uomo delle grandi pianure (Dersu Uzala) (1975), girato con denaro russo in Unione Sovietica e ambientato in Siberia (vinse l'Oscar per il miglior film straniero), cui seguirono L'ombra del guerriero (Kagemusha) (1980), storia di un piccolo uomo riscattato da un grande sogno (prodotto da Francis Ford Coppola e George Lucas), e Ran (1985), film epico e visionario ispirato a "Re Lear", considerato il suo capolavoro più maturo. Da ricordare infine – «the last but not least» – Sogni (Yume) (1990), dedicato alla tragedia della guerra, e Rapsodia d'agosto (Hachi–gatsu no kyōshikyoku) (1991), ispirato dall'orrore nucleare di Nagasaki.

Kurosawa è stato insignito d'innumerevoli onorificenze e nel 1990 ha ricevuto l'Oscar alla carriera.

Dotato di uno stile spettacolare ma non retorico, regista classico e moderno, satirico e tragico, conoscitore delle tecniche del teatro kabuki, verrà soprannominato «Imperatore» (Tenno) ma i suoi film saranno poco amati in patria per le «eccessive concessioni al gusto occidentale», subendo spesso l'ostracismo dei produttori giapponesi.

Ha scritto Gianni Canova: «Un grande rapsode... rivela subito una notevole conoscenza del mezzo e una decisa originalità stilistica... il cinema di Kurosawa... si rivela anche un cruciale veicolo di comunicazione della storia, del costume e della cultura del Sol Levante, spianando la strada verso le platee dell'Occidente ad altri cineasti della stessa generazione...».

Nel suo articolo "Kurosawa, cent'anni di genio" (ne La Stampa.it Cinema e Tv), lo storico del cinema Gianni Rondolino così commenta: «...un grande artista che seppe coniugare, nel suo cinema per certi aspetti "eclettico", la cultura orientale e quella occidentale... Kurosawa, più di altri registi del suo Paese, seppe dare, non solo del Giappone, ma più in generale dell’uomo contemporaneo, dei suoi problemi, delle sue ansie e delle sue illusioni, un ritratto sfaccettato e complesso... il classicismo di Kurosawa... è in realtà – a saperlo cogliere – una eccezionale chiave di lettura della nostra natura più profonda.».


Nel suo articolo "Il regista venuto dalla pioggia" (in FilmTV), Giona A. Nazzaro ha parlato invece di: «lezione umanista» da parte di un «tecnico raffinatissimo: robusto come un contadino, misurato come un samurai». ("Persinsala.it", 23 marzo 2010)

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