Virginia Woolf
Virginia Woolf era
molto interessata al cinema. Ha scritto un saggio dal titolo The cinema così ricco di humour
“british” e denso di sottotesti culturali che ritengo interessante portare alla
vostra attenzione.
Il testo
di questo “essay” è stato scritto nell’aprile del
1926, subito dopo che la Woolf aveva finito la prima parte To the Lighthouse di Time
Passes – scritto tra il 30 aprile e il 25
maggio del 1926 – e del saggio Impassioned Prose su Thomas De Quincey, scritto tra il 10 e il 13
maggio del 1926. Di The Cinema la
scrittrice parlò nel settembre del 1925 in una lettera a Thomas Sterns Eliot e in
una lettera a Vita Sackville-West del 13 aprile del
1926 lo definì «un
articolo piuttosto brillante». Il testo – inizialmente
destinato alla direttrice di Vogue Dorothy Todd – uscì
su «Arts» (New York) nel giugno 1926 e su «Nation & Athenaeum» nel 3 luglio del 1926. (Per un
esame integrale del testo, vedere: http://www.woolfonline.com/?q=essays/ cinema/overview)
L’inizio dell'articolo è veramente scoppiettante. Scrive la
Woolf: «Certe persone sostengono che il nostro lato
selvaggio non esista più e che abbiamo raggiunto l’ultimo stadio della civiltà,
dove tutto è già stato detto e dove è ormai troppo tardi per mostrarsi
ambiziosi. Ma questi cosiddetti filosofi hanno presumibilmente dimenticato il
cinema, o, perlomeno, non hanno mai avuto modo di vedere i “selvaggi” del XX
secolo guardare i film.». Continua la scrittrice, commentando che questa
gente non si è mai seduta davanti a uno schermo per riflettere che – a parte i vestiti indossati e i tappeti
sotto i piedi – non esiste poi una
grande differenza tra loro, spettatori, e gli uomini nudi che battendo due informi
pezzi di ferro l’un contro l’altro anticipavano la musica di Mozart. Sostiene
la Woolf: «Tutto è un insieme di rumori misti e confusi che genera caos. È come
se stessimo scrutando dal bordo di un calderone dentro il quale, lentamente,
sembrano ribollire frammenti di tutte le forme e di tutti i sapori, e dove,
ogni tanto, qualche forma più grande tenta di sollevarsi per sfuggire al caos.
Eppure, a prima vista, l’arte del cinema sembra semplice, persino stupida. […] L’occhio
assorbe tutto istantaneamente e il cervello, piacevolmente stimolato, si
appresta a guardare le immagini che si succedono, senza rifletterci troppo. […]
L’occhio si trova in difficoltà. L’occhio vuole aiuto. L’occhio dice al
cervello: “Sta accadendo qualcosa che assolutamente non comprendo. C’è bisogno
di te”. Entrambi guardano il re, la nave, il cavallo e immediatamente il
cervello capisce che hanno assunto una qualità che non appartiene a una
semplice fotografia della vita reale. In verità essi non sono diventati più
belli, per quanto possano essere belle le immagini, ma dovremmo definirli
maggiormente reali – il nostro
vocabolario è miseramente insufficiente –
o reali ma con una diversa percezione della realtà rispetto a quella della vita
quotidiana? Li vediamo come essi sono quando noi non siamo presenti. Vediamo la
vita come essa appare quando non vi prendiamo parte direttamente. Mentre
fissiamo l’immagine, sembriamo distaccati dalla meschinità della vera
esistenza. Il cavallo non ci calpesterà. Il re non stringerà la nostra mano. L’onda
non bagnerà i nostri piedi. Da questa posizione di vantaggio, mentre guardiamo
i nostri antenati, abbiamo tutto il tempo per provare pietà e divertimento, per
generalizzare e attribuire a un uomo le caratteristiche di tutta la sua razza.».
Sostiene Virginia che, mentre guardiamo la barca che naviga e
s’infrange, guardiamo un mondo che è già sommerso; le spose sono diventate
madri e quello che è stato vinto o perso è ormai morto e sepolto: «La guerra
aveva generato un baratro ai piedi di tutta questa innocenza e ignoranza, ma,
nonostante ciò, si continuava a ballare, a fare piroette, ad affannarsi e a
desiderare, così che il sole potesse splendere e le nuvole diradarsi fino a
scomparire.». Continua la Woolf che i registi sembrano, però, insoddisfatti di quelle
che sono ovvie fonti d’interesse, come il passare del tempo e la suggestività
della realtà, e desiderano migliorare e cambiare, creare una propria arte come
se fosse possibile: «Molte altre arti sembravano pronte a offrire il loro
aiuto. La letteratura, per esempio. Tutti i più famosi romanzi del mondo, con i
personaggi più celebri e le scene più famose, sembravano semplicemente
domandare di essere trasformati in film. Cosa poteva essere più facile e più
semplice? Il cinema si avventava sulla sua preda con enorme rapacità e fino ad
oggi ha sempre continuato a nutrirsi largamente del corpo della sua sfortunata
vittima. Ma, per entrambi, i risultati si sono rivelati disastrosi.». Secondo
Virginia, quest’alleanza è innaturale perché l’occhio e il cervello vengono separati
in modo spietato mentre cercano di lavorare insieme: «L’occhio dice: “Ecco Anna
Karenina”. Una donna sensuale vestita di velluto nero e perle si presenta
davanti a noi. Ma il cervello dice: “Questa donna può essere tanto Anna
Karenina quanto la regina Vittoria”. E questo perché il cervello conosce Anna
quasi esclusivamente dalla sua personalità, dal suo charme, dalla sua passione
e dalla sua disperazione. Invece il cinema pone tutta l’enfasi sui suoi denti,
le sue perle, il suo velluto nero. Poi l’occhio vede che “Anna s’innamora di
Vronskij”: la signora in velluto nero cade tra le braccia di un gentiluomo in
uniforme e la coppia si bacia con grande passione, grande risoluzione e
infiniti gesti sul sofà di un’impeccabile biblioteca, mentre il giardiniere sta
casualmente falciando il prato.». Secondo la Woolf, in questo modo, si riesce a
farsi strada attraverso i romanzi più famosi del mondo soltanto a fatica e si riesce
ad articolare in parole di una sillaba diversa: un bacio significa amore, un
sorriso è la felicità, un carro funebre raffigura la morte: «Nessuna di queste
immagini ha il minimo legame con il romanzo di Tolstoj e, soltanto quando
smetteremo di cercare di collegare le immagini con il libro, riusciremo a
immaginare, da alcune scene del tutto casuali – come il giardiniere che falcia l’erba – ciò che il cinema sarebbe in grado di fare se fosse lasciato
libero di esprimersi attraverso i propri stratagemmi.». La studiosa inglese si
chiede allora quali siano questi stratagemmi e in che modo il cinema potrebbe
camminare eretto se la finisse di essere un parassita.
E tenta di azzardare alcune ipotesi, partendo da qualche
indizio. In proposito, la Woolf ricorda una proiezione del “Dr. Caligari” [fa
riferimento a “Il gabinetto del dottor Caligari (Das Cabinet des Dr. Caligari)”,
un film muto del 1920 diretto da Robert Wiene, considerato il simbolo del
cinema espressionista, in quanto – ruotando
sul tema del doppio e sulla quasi impossibile distinzione tra
allucinazione e realtà – si
abbandona a una scenografia allucinata e allucinante fatta di forme che si
muovono a zigzag]. Improvvisamente, era comparsa in un angolo dello schermo un’ombra
che sembrava un girino e che aveva cominciato a gonfiarsi enormemente e a
tremare, suggerendo per qualche istante «qualche mostruosa fantasia della mente
malata di un pazzo». Scrive Virginia: «Per un istante sembrava che il pensiero
venisse trasmesso meglio attraverso le immagini, piuttosto che attraverso le
parole. Il girino mostruoso e tremante sembrava incarnare la paura stessa e non
l’affermazione: “sono spaventato”. In effetti, l’ombra era casuale e l’effetto
non voluto. Ma se, a un certo punto, un’ombra può suggerire molto più dei gesti
e delle parole di persone realmente impaurite, sembra chiaro che il cinema
possieda innumerevoli simboli per tutte quelle emozioni che finora non hanno
mai trovato il modo d’esprimersi. […] Esiste dunque un qualche linguaggio
segreto che possiamo sentire e vedere ma non pronunciare? E se è così, come si
potrebbe renderlo visibile? Esiste cioè una qualche caratteristica del pensiero
che può essere resa visibile senza l’aiuto delle parole? Se esiste, possiede
velocità e lentezza, immediatezza, precisione e circonlocuzione vaporosa.». Continua
la Woolf che nei momenti d’intensa emozione possiede anche il potere di creare
delle immagini insieme al bisogno di scaricare il fardello a qualcun’altro: «Per
qualche strana ragione, l’apparenza del pensiero risulta più bella, più
comprensibile e più disponibile del pensiero stesso. Come tutti sanno, in
Shakespeare le idee più complesse formano catene d’immagini che il lettore deve
saper scalare, cambiare e girare, perché possa raggiungere la luce del giorno.
Naturalmente le immagini del poeta non sono né incastonate nel bronzo né
tracciate a matita. Sono un insieme di mille suggerimenti in cui la facoltà
visiva è solo la più ovvia, oltre che la più importante. […] Il cinema deve
evitare tutto ciò, perché accessibile solo e unicamente all’universo delle
parole. Eppure, se i nostri pensieri e i nostri sentimenti sono collegati alla
vista, allora qualche residuo di emozione visiva, che non è di alcuna utilità
né al pittore né al poeta, può ancora essere sfruttata dal cinema. Sembra molto
probabile che tali simboli saranno del tutto dissimili dagli oggetti reali che vediamo
davanti a noi. In futuro, i film saranno composti da qualcosa di astratto,
qualcosa che si muove con arte conscia e controllata, qualcosa che richiede il
delicato aiuto delle parole e della musica, pur adoperandole in modo servile,
per rendersi intelligibile. Allora, quando verrà trovato qualche nuovo simbolo
per esprimere il pensiero, il regista avrà enormi ricchezze a sua disposizione.
L’esattezza della realtà e il suo nuovo sorprendente potere suggestivo saranno
a portata di mano. Eccoli in carne e ossa tutte “le Anna” e tutti “i Vronskij”.
Se, in questa realtà, il regista potesse infondere emozione, se potesse animare
con il pensiero la forma perfetta, allora custodirebbe un grande tesoro da
tramandare. […] Dovremmo vedere queste emozioni mescolarsi e influenzarsi a
vicenda. Dovremmo vedere violenti cambiamenti d’emozione prodotti dal loro
scontro. I contrasti più fantastici potrebbero scintillare davanti a noi a una
velocità che lo scrittore solo invano può cercare di cogliere Il passato
potrebbe scorrere liberamente, le distanze sarebbero eliminate e gli abissi che
sconvolgono i romanzi (per esempio quando Tolstoj deve passare da Levin ad
Anna, provocando enormi scossoni che bloccano la nostra partecipazione)
potrebbero scomparire attraverso l’uso dello stesso sfondo o la ripetizione di
determinate scene. Nessuna fantasia sarebbe allora troppo improbabile o senza
sostanza.».
E conclude la Woolf che, al momento, ancora nessuno può dire
come tutto ciò debba essere tentato o realizzato: «E, qualche volta, al cinema,
nel bel mezzo di una grande destrezza e immensa competenza tecnica, il sipario
si apre su una bellezza sconosciuta e inaspettata. Ma soltanto per un momento.
Perché qualcosa di strano è accaduto: mentre tutte le altre arti sono nate nude,
questa, la più giovane, è nata completamente vestita. Riesce a dire tutto prima
di avere qualcosa da dire. È come se la tribù selvaggia, invece di trovare due
pezzi di ferro con cui giocare, avesse trovato, lungo la riva, violini, flauti,
sassofoni, trombe e pianoforti di Erard e Bechstein, e avesse cominciato con
grande energia, ma senza conoscere nemmeno una sola nota, a suonarli tutti
contemporaneamente.» (traduzione a cura di Francesca Andreoli, Mara Casali e
Luca Pasquale; vedere:
http://www.almapress.unibo.it/fl/numeri/numero3/prospero/woolf.htm)
Il 15
aprile del 2012 su «Repubblica» (pp. 52-53) – “In un articolo del 1926, inedito in Italia la scrittrice attacca
il grande schermo: è un'arte parassita: divora la letteratura
- Virginia Woolf” – è stato pubblicato il testo di
Virginia Woolf sopra riportato, ritenuto
come inedito in Italia. Questo testo è stato anticipato, perché era in uscita
il saggio a cura di Sara Matetich Virginia
Woolf – Sul
cinema (Mimesis,
2012), contenente due testi inediti della Woolf. In effetti, come riportato (su
http://georgiamada.wordpress.com/2012/04/16/virginia-woolf-e-il-cinema/), il
testo proposto da Repubblica è stato già pubblicato da Liliana Rapello nel suo
bel Voltando pagina (Il saggiatore,
2011) nel settore Arti (cfr pp. 489-493) con il titolo “Il cinema”.
P.S. Nel 2002 Stephen Daldry (l’autore di Billy Elliot) ha girato il film The Hours, presentato al Festival di Berlino – soggetto di Michael Cunningham, premio Pulitzer per l’omonimo romanzo, e sceneggiatura del commediografo David Hare – con Nicole Kidman (interpreta Virginia Woolf ed è stata premiata con l’Oscar per la miglior attrice), Julianne Moore (Laura Brown), Meryl Streep (Clarissa Vaughan), Ed Harris (Richard Brown, il poeta), Jeff Daniels (Louis Walters), Stephen Dillane (Leonard Woolf), John C. Reilly (Dan Brown) e Miranda Richardson (Vanessa “Nessa” Bell, la sorella di Virginia Woolf). In un’ideale identificazione, il film intreccia le vite di tre donne, in tre diversi periodi di tempo, unite da un capolavoro di letteratura, che è appunto La signora Dalloway (Mrs Dalloway) di Virginia Woolf. Il film racconta «tre donne differenti e ognuna vive una bugia.». Nel 1941, a Londra, Virginia Woolf lotta contro il suo disperato mal di vivere: lascia un biglietto al marito Leonard, lo ringrazia per la felicità che le ha dato e si annega nel fiume Ouse. Nel 1951, a Los Angeles, Laura Brown – casalinga depressa e incinta, moglie e madre silenziosamente infelice di un reduce di guerra – inizia a leggere il libro della Woolf e ripensa alla sua vita, rinunciando al suicidio. Infine, nel 2001, a New York, Clarissa Vaughan, un’editrice newyorchese lesbica, vede se stessa come una moderna signora Dalloway (ha lo stesso nome della protagonista del libro della Woolf ed è soprannominata “signora Dalloway”), mentre organizza un’ultima festa per l’amico ed ex amante Richard, un poeta che sta morendo di AIDS (è il figlio abbandonato da Laura Brown) e che si butta dalla finestra dopo avere ringraziato Clarissa per la felicità che gli ha dato. Pur riconoscendo la qualità del film, piuttosto criticamente, ha scritto Pino Farinotti nel suo dizionario del cinema: «La qualità letteraria del romanzo si traduce nel più verboso esercizio della storia del cinema, dove l’intelligenza, tanto sottile e snob quanto letteraria (appunto), non riesce mai a essere afferrata e consumata dallo spettatore. Si assiste a esibizioni di problematiche e dolori riferiti a una nicchia umana di cultura esclusiva e aristocratica che appartiene a così pochi e “particolari” da smarrire un significato che valga per i poveri mortali.». Il critico Stefano Lo Verme nel Morandini 2007 si esprime invece in modo più positivo: «La magnifica sceneggiatura riesce a catturare lo spettatore rendendolo partecipe delle emozioni e dei tormenti delle tre donne del film, ciascuna delle quali si trova ad affrontare i propri demoni e a dover fare i conti con l’angoscia che le opprime; la narrazione è costantemente accompagnata dall’avvolgente colonna sonora di Philip Glass, che fa da perfetto contrappunto musicale agli stati d’animo delle protagoniste. In definitiva, The hours si propone come una toccante riflessione sulla felicità, sul significato della vita e sulle “ore” che scandiscono inesorabili il tempo della nostra esistenza.». Concludono, invece, la loro recensione i Morandini (il Morandini, Zanichelli editore): « E se, invece, il merito principale del film, calibratissimo giuoco degli specchi che assomiglia alla vita, fosse delle sue attrici? […] Rimane il senso del racconto di Cunningham, e della Woolf: storie di donne che si accontentano di “restare vive per gli altri” perché al fondo di ogni vita rimangono le ore, una dopo l’altra.».
P.S. Nel 2002 Stephen Daldry (l’autore di Billy Elliot) ha girato il film The Hours, presentato al Festival di Berlino – soggetto di Michael Cunningham, premio Pulitzer per l’omonimo romanzo, e sceneggiatura del commediografo David Hare – con Nicole Kidman (interpreta Virginia Woolf ed è stata premiata con l’Oscar per la miglior attrice), Julianne Moore (Laura Brown), Meryl Streep (Clarissa Vaughan), Ed Harris (Richard Brown, il poeta), Jeff Daniels (Louis Walters), Stephen Dillane (Leonard Woolf), John C. Reilly (Dan Brown) e Miranda Richardson (Vanessa “Nessa” Bell, la sorella di Virginia Woolf). In un’ideale identificazione, il film intreccia le vite di tre donne, in tre diversi periodi di tempo, unite da un capolavoro di letteratura, che è appunto La signora Dalloway (Mrs Dalloway) di Virginia Woolf. Il film racconta «tre donne differenti e ognuna vive una bugia.». Nel 1941, a Londra, Virginia Woolf lotta contro il suo disperato mal di vivere: lascia un biglietto al marito Leonard, lo ringrazia per la felicità che le ha dato e si annega nel fiume Ouse. Nel 1951, a Los Angeles, Laura Brown – casalinga depressa e incinta, moglie e madre silenziosamente infelice di un reduce di guerra – inizia a leggere il libro della Woolf e ripensa alla sua vita, rinunciando al suicidio. Infine, nel 2001, a New York, Clarissa Vaughan, un’editrice newyorchese lesbica, vede se stessa come una moderna signora Dalloway (ha lo stesso nome della protagonista del libro della Woolf ed è soprannominata “signora Dalloway”), mentre organizza un’ultima festa per l’amico ed ex amante Richard, un poeta che sta morendo di AIDS (è il figlio abbandonato da Laura Brown) e che si butta dalla finestra dopo avere ringraziato Clarissa per la felicità che gli ha dato. Pur riconoscendo la qualità del film, piuttosto criticamente, ha scritto Pino Farinotti nel suo dizionario del cinema: «La qualità letteraria del romanzo si traduce nel più verboso esercizio della storia del cinema, dove l’intelligenza, tanto sottile e snob quanto letteraria (appunto), non riesce mai a essere afferrata e consumata dallo spettatore. Si assiste a esibizioni di problematiche e dolori riferiti a una nicchia umana di cultura esclusiva e aristocratica che appartiene a così pochi e “particolari” da smarrire un significato che valga per i poveri mortali.». Il critico Stefano Lo Verme nel Morandini 2007 si esprime invece in modo più positivo: «La magnifica sceneggiatura riesce a catturare lo spettatore rendendolo partecipe delle emozioni e dei tormenti delle tre donne del film, ciascuna delle quali si trova ad affrontare i propri demoni e a dover fare i conti con l’angoscia che le opprime; la narrazione è costantemente accompagnata dall’avvolgente colonna sonora di Philip Glass, che fa da perfetto contrappunto musicale agli stati d’animo delle protagoniste. In definitiva, The hours si propone come una toccante riflessione sulla felicità, sul significato della vita e sulle “ore” che scandiscono inesorabili il tempo della nostra esistenza.». Concludono, invece, la loro recensione i Morandini (il Morandini, Zanichelli editore): « E se, invece, il merito principale del film, calibratissimo giuoco degli specchi che assomiglia alla vita, fosse delle sue attrici? […] Rimane il senso del racconto di Cunningham, e della Woolf: storie di donne che si accontentano di “restare vive per gli altri” perché al fondo di ogni vita rimangono le ore, una dopo l’altra.».