Madame Bovary Jennifer Jones Isabelle Huppert
È possibile sostenere che esiste un amore
malato, e questo è vero soprattutto per le donne che talvolta amano troppo e
soffrono di una vera e propria pena d’amore. In molte donne, d’altra parte,
esiste il mito dell’amore totalizzante (e come tale destinato a dare
sofferenza). George Gordon Byron (1788-1824), poeta inglese dalla vita
tumultuosa e superbo modello di uomo romantico, aveva scritto: «Per l’uomo
l’amore è parte della vita, per la donna amare è tutta l’esistenza».
L’idea
che le grandi passioni fossero malattie senza speranza e che l’amore romantico
potesse divenire tanto eccessivo da portare alla perdizione totale, ha pervaso
molta letteratura amorosa dell’Ottocento. Tutti ricordiamo le tristi vicende
d’amore e d’adulterio di Emma Bovary, protagonista dalla vita sregolata del
romanzo Madame Bovary (1857) di
Gustave Flaubert (1821-1880).
Con
riferimento all’amore e al tradimento, è sempre l’illusione quella che tradisce
e di ciò Emma Bovary è l’eroina–feticcio:
prima del matrimonio aveva creduto veramente di amare il marito ma aveva ottenuto
da lui così poca felicità che aveva pensato di essersi sbagliata. Cercando
d’immaginare cosa significassero le parole felicità, estasi e passione (che le
erano sembrate tanto belle lette nei libri) era passata da un uomo all’altro,
senza trovare in nessuno di loro la felicità. Nel suo Dizionario dei personaggi di romanzo
(Oscar Saggi, Arnoldo Mondadori Editore, 1989), di Emma Bovary, così scrive
Gesualdo Bufalino: «Schiacciata, come
schiacciano due battenti, fra la platea brutale di tutti gli Homais della terra
e le quinte dipinte e pesanti dei suoi fantasmi di biblioteca, la povera infedele di provincia recita fino
alla morte in scena, con arsenico vero, il suo assolo di primadonna.
Incarnazione di non so quante creature illuse da una nuvola o da una parola;
alter ego dello stesso autore, di cui accusa, dietro il falso marmo della
sintassi, gli ardori nascosti e l’invincibile credulità nelle maschere della
passione.».
Nel suo
romanzo, Flaubert riesce a trasformare un piccolo e indegno dramma borghese in
un’alta materia letteraria, dando l’impressione di documentare «la meschinità
del matrimonio» e di esaltare «la poesia dell’adulterio». Venne per questo
sottoposto a un processo per immoralità che si risolse con l’assoluzione. In
realtà, attraverso il romanzo, si fece il processo ai costumi del tempo
(considerati sconvenienti), dei quali la storia di Emma era la più realistica
testimonianza. Nella sua arringa difensiva, l’avvocato difensore di Flaubert
puntualizzò l’attenzione sugli errori della cattiva educazione impartita alle
ragazze di provincia (che esaltava le loro anime sognatrici e romantiche) e sul
dissidio interiore che impediva loro di cercare la felicità nella propria casa
mentre la vagheggiavano al di fuori del vincolo matrimoniale, rimanendo così
disilluse sia nel matrimonio sia nell’adulterio. Si richiamò anche al monito
nascosto contenuto nel romanzo di trovare nel senso del dovere e
nell’imperativo della coscienza e della morale tutte le forze necessarie alla
rassegnazione.
Uomo
nevrotico e un pessimista totale, Flaubert partecipava poco alla vita
letteraria del suo tempo e diceva di scrivere per «incombenza esistenziale». Odiava
il mondo borghese (definendosi «uno che sbraita nel deserto della vita») ma
odiava soprattutto l’uomo e se stesso: per la sua posizione di rifiuto e per il
suo disprezzo dell’umanità, non si sposò mai e non ebbe figli. Si racconta che
abbia detto: «Madame Bovary c’est moi (Madame Bovary sono io)»; la cosa è discussa,
ma certamente Gustave aveva gli stessi sogni inappagati e vagheggiava gli
stessi desideri impossibili di Emma, e identica era la sua insoddisfatta
bramosia di vivere che sempre cozzava con un profondo e oscuro senso di noia e
col disincanto della sconfitta. All’età di quindici anni, sulla riva del mare di
Trouville, Gustave aveva conosciuto Elisa Foucault, una donna bella e
intelligente (di undici anni più grande di lui), compagna prima e moglie poi di
un importante editore di musica. Nella fantasia adolescenziale di Flaubert
Elisa divenne il mito dell’Amore con l’A maiuscola, un sentimento perfetto ma
inaccessibile, l’irrepetibile sogno d’amore (simile a quello coltivato da Emma)
che gl’ispirò il capolavoro Educazione sentimentale (Education sentimentale)
(per i brani trascritti: traduzione di Vladimiro Cajoli, I Giganti di Gulliver,
Bologna 1995) con le sue autobiografiche «intermittenze del cuore». Quell’amore
lo costrinse a una vita incompiuta. Scriveva: «Nella mia povera vita, così
piatta e tranquilla, le frasi sono delle avventure, e io non raccolgo altri
fiori che le metafore.». Tentò di combattere quella passione infelice,
consolandosi nella difficile relazione sentimentale con Louise Colet, che nel romanzo
rappresenterà attraverso il controverso e inappagante rapporto di Federico
Moreau con la vivace e mondana Rosanette, in opposizione al sentimento intenso
di Federico per Madame Arnoux, la pura e seria moglie di un adultero e indegno
mercante d’arte (contemplata da lontano e simile alle donne dei libri
romantici). Moreau ama senza speranza e senza secondi fini (in modo assoluto e
quasi religioso) una donna che non può corrispondere al suo amore: «La contemplazione
di quella donna lo snervava, come un profumo troppo forte. Ne era penetrato sin
nel profondo, gli diveniva quasi un modo di sentire, un nuovo modo di vivere […]
Tutte le strade conducevano alla casa di lei […] Parigi viveva di lei […] egli
si aggirava nel suo desiderio come un prigioniero nella cella […]». Pur convinto
che «le passioni straordinarie producono le opere sublimi», la vita di Federico
rimane anch’essa mediocre e incompiuta, senza quella felicità che la sua anima
agognava, trascinata in una passione inutile che coinvolgeva tutto ciò che
aveva a che fare con Madame Arnoux («A forza di sogni l’aveva messa fuori dalla
condizione umana»). Dopo molti anni, alla fine, quando Madame Arnoux va a
trovare Federico ormai perduto nelle macerie dei suoi sogni (e forse vorrebbe
cedergli), lei si toglie il cappello e la lampada illumina improvvisamente i
suoi capelli bianchi: «Fu come un urto in pieno petto […] Si sentiva ripreso da
un desiderio più forte che mai, furioso, rabbioso. Tuttavia provava qualcosa d’inesprimibile,
una repulsione, come il terrore di un incesto. Un altro timore lo arrestò,
quello di averne disgusto più tardi […] Per prudenza e per non avvilire il suo
ideale si allontanò da lei […]». Quel che Federico aveva avuto di meglio dalla
vita (ormai quasi finita) era stato soltanto un sogno evanescente!
Il tema dell’amore come pena e
sofferenza continua è stato affrontato
mirabilmente dalla psicoterapeuta americana Robin Norwood nel suo conosciuto
saggio – divenuto un best-seller – Donne
che amano troppo (presentazione di
Dacia Maraini, traduzione di E. Bertoni, Universale Economica Feltrinelli, Roma
1989), scritto per suggerire alcune ricette pratiche per uscire da una grave
situazione morbosa. L’autrice, che è preparata nella cura delle
tossicodipendenze e dell’alcolismo, partendo da un’esperienza personale di «troppo
amore», nel capitolo introduttivo “Amore
senza fine” inizia il suo libro con le seguenti parole: «Quando essere
innamorate significa soffrire, stiamo amando troppo. […] Quando giustifichiamo i suoi malumori, il
suo cattivo carattere, la sua indifferenza, o li consideriamo conseguenze di
un’infanzia infelice e cerchiamo di diventare la sua terapista, stiamo amando
troppo. […] Quando non ci piacciono il suo carattere, il
suo modo di pensare e il suo comportamento, ma ci adattiamo pensando che se noi
saremo abbastanza attraenti e affettuose lui vorrà cambiare per amor nostro,
stiamo amando troppo. […] Quando
la relazione con lui mette a repentaglio il nostro benessere emotivo, e forse
anche la nostra salute e la nostra sicurezza, stiamo decisamente amando troppo.
[…] Quasi tutte abbiamo amato
troppo almeno una volta, e per molte di noi questo è stato un tema ricorrente
di tutta la vita. Alcune si sono lasciate ossessionare tanto dal pensiero del
loro partner e della loro relazione, da riuscire appena a sopravvivere.». Una
donna che ama troppo, spesso, ama in realtà un uomo egoista e freddo, incapace
di affetto e calore, che spesso non si cura di lei e che la tradisce di
continuo, umiliandola. E lei non riesce a lasciarlo, ma anzi lo desidera sempre
di più e gli si dedica sempre di più. Lui diviene per lei simile a una droga.
Scrive Robin: «Quanto più il rapporto col nostro uomo ci fa soffrire,
tanto più riesce a stordirci. Una relazione travagliata ha per noi
semplicemente la stessa funzione di una droga molto forte. […] Troviamo
eccitante l’uomo poco equilibrato, l’uomo infido è una sfida irresistibile,
l’uomo imprevedibile è romantico, l’immaturo è incantevole, il lunatico è
misterioso.». La donna che ama troppo,
nel fondo dell’inconscio, diviene dipendente da un uomo di questo tipo e dai
suoi contraddittori atteggiamenti; teme l’abbandono perché ha una gran paura di
perdere il suo uomo e di restare sola; non ha molta stima di sé e ha la netta
sensazione di non essere degna d’amore. Sotto questo profilo, l’«amare troppo»
è una vera e propria sindrome psico–patologica (non molto diversa
dall’alcolismo e dalla tossicodipendenza), che porta a rapporti tormentati e a
comportamenti distruttivi, e come tale deve essere trattata e curata. Bisogna
fare in modo che chi ama tanto da soffrire, divenga finalmente una persona che
stima di più se stessa e decida di smettere di soffrire non insistendo in
questi amori deliranti.
P.S.
Il cinema ha amato il personaggio di Emma Bovary e diverse sono state le
trasposizioni televisive e cinematografiche. Ricordo le più note e forse meglio
riuscite.
Il
film Madame Bovary di Vincente
Minnelli con un’indimenticabile e bellissima Jennifer Jones
e con James Mason, Van Heflin e Louis Jourdan. Hanno commentato Laura,
Luisa e Morando Morandini (il
Morandini, Zanichelli editore): «Scritto da Robert Andrey, quest’adattamento del famoso romanzo è
incorniciato dal processo contro Gustave Flaubert (Mason), accusato di aver
offeso la morale. È lui che racconta la storia. Minnelli lo diresse dopo aver
letto saggi di Freud, Henry James, Somerset Maugham sul personaggio,
concludendo che Emma è una donna che cerca la bellezza, ma la trova soltanto
nella sua mente. Ebbe accoglienze contrastate dai critici che, comunque, ne
apprezzarono il puntiglio nella rievocazione ambientale, l’eleganza della messinscena e la bella
sequenza del ballo.».
L’altro film da ricordare è Madame Bovary di Claude Chabrol con una strepitosa e inquietante Isabelle Huppert e con Lucas Belvaux, Jean-François Balmer, Christophe Malavoy e Jean Janne. Hanno commentato sempre i Morandini: «Dopo il film TV del 1974 con la regia di Pierre Cardinal, è la 4ª versione del capolavoro di Gustave Flaubert, contraddistinta da una scrupolosa fedeltà illustrativa, realizzata con una esposizione spiccia, agile, ellittica che raramente si dispiega in sequenze larghe. Una volta accettata l’impostazione, non si può non ammirarne i modi espressivi, la coerenza, la fluidità e l’intensa interpretazione della Huppert. L’equilibrio tra la lucidità di sguardo di Chabrol (e di Flaubert) e l’affetto per il personaggio (del regista e della sua interprete) sembra impeccabile.».
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