sabato 1 settembre 2012

L’istituzione del matrimonio, Charlotte Brontë e Jane Eyre



Charlotte Brontë                                   Ilaria Occhini interpreta Jane Eyre

Desidero condurre un discorso su come il matrimonio si sia evoluto nel corso dei secoli, e su come ciò sia descritto in modo straordinario nella letteratura dell'Ottocento e del Novecento, iniziando con Charlotte Brontë e il suo “Jane Eyre”.

In Orgoglio e pregiudizio (Pride and Prejudice) (1813), la scrittrice inglese Jane Austen (1775-1817), un'antesignana di Charlotte Brontë, a proposito del matrimonio – coronamento d’amore tra l’eroina e l’affascinante protagonista maschile ma anche soluzione sociale per la donna di fine Settecento – così scriveva: «l’unica onorevole risorsa per una ragazza ben educata con scarse possibilità economiche; forse, non proprio fonte di felicità ma certamente la protezione più piacevole dalla povertà» (traduzione di F. Fantaccini, Newton Compton Editori, Roma 2002).

Con Jane Eyre, Charlotte Brontë ha composto un romanzo che è un’intensa celebrazione di sentimenti e, a mio parere, la quintessenza del fascino e delle schermaglie dell’amor romantico, pur non mancando di una certa punta di risentimento femminile (tutti i giusti ingredienti – romanticismo, sensualità e desiderio represso – vi sono sapientemente dosati e usati). Sul solco dell’autobiografia, ma superando i confini angusti della casa paterna, Charlotte scrisse il suo capolavoro in rottura con gli usi e i costumi della chiusa e moralista Inghilterra vittoriana che volevano la donna asservita prima ai comandamenti di Dio, poi a quelli del padre, quindi a quelli dell’ordine coniugale. Il romanzo di Jane Eyre, piccola e oscura istitutrice (non dotata né di vistosa bellezza né di prorompente femminilità), incapace di giochi di seduzione ma capace di affascinare con la conversazione, il carattere e la forza morale mister Rochester, uomo non bello ma forte e appassionato («duro di lineamenti e di aspetto malinconico» ma dagli «sguardi penetranti e dolci»). Rochester offre a Jane, prima un matrimonio improponibile dal momento che è già sposato con una donna pazza e perversa, poi – una volta scoperto l’infelice matrimonio – una convivenza inaudita per la morale del tempo. Jane reprime il suo amore e rinuncia a Rochester ma dopo mille peripezie (compresa la cecità di Edward a causa dell’incendio del suo maniero provocato dalla moglie che resta uccisa) gli innamorati riusciranno infine a coronare il loro sogno d’amore.

Molto significative sono le parole che Jane si dice, quando si accorge che Blanche Ingram (un’aristocratica non realmente innamorata ma desiderosa di un ricco matrimonio) tenta di suscitare l’amore di Rochester senza successo: «Quanto sbagliava, capivo come avrebbe potuto riuscire. Gli strali che continuamente fallivano il segno, e cadevano senza effetto ai piedi del signor Rochester, avrebbero potuto, se lanciati da una mano più sicura, trafiggere il suo cuore orgoglioso, richiamare l’amore nei suoi occhi severi, e la dolcezza nel suo volto amaro; o meglio ancora, si poteva, senza armi, compiere una silenziosa conquista. “Come mai”, mi chiedevo, “avendo la fortuna di stargli così vicino, non riesce a conquistarlo? Certo non lo ama con sincerità, o con vero affetto. Non avrebbe allora bisogno di sciupare sorrisi, di lanciare occhiate, di studiare grazie e atteggiamenti. Se parlasse e guardasse meno, e stesse quietamente a sedere al suo posto, potrebbe giungere più vicina al suo animo. Ho visto sul volto di lui un’espressione ben diversa da quella che ora l’indurisce. Ma allora sorgeva spontanea. Non era sollecitata da arti da cortigiana, e da manovre calcolate. Eppure occorrerebbe solo rispondere con semplicità alle sue domande, rivolgersi a lui senza smorfie…, e così egli diventerebbe sempre più caro e riscalderebbe come un benefico raggio di sole. Sarà capace di piacergli quando saranno sposati? Non credo che andranno d’accordo, ma, se andranno d’accordo, sua moglie sarà, a mio giudizio, la donna più fortunata che c’è al mondo.”» (Capitolo diciottesimo, traduzione di Lia Spaventa Filippi, Newton Compton Editori, Roma 1995).

Riporto anche le parole della parte conclusiva, che rappresentano una piccola “summa” di quel che è il segreto per un matrimonio felice: «Sono ormai sposata da dieci anni. So che cosa vuol dire vivere per la persona che più si ama al mondo. Mi ritengo supremamente felice… felice come le parole non possono esprimere, perché sono tutta la vita di mio marito, com’egli è la mia. Nessuna donna è più vicina di me al suo compagno, e più di me è carne della sua carne. Non sono mai stanca della compagnia del mio Edward, ed egli della mia, come se fossimo un sol cuore che batte in due petti. Stiamo sempre insieme. Lo stare insieme è nello stesso tempo per noi essere liberi come nella solitudine, essere contenti come in compagnia. Chiacchieriamo tutto il giorno; chiacchierare fra noi è un modo più vivace di pensare a voce alta. Tutta la mia fiducia è riposta in lui, tutta la sua in me. Siamo fatti l’uno per l’altro per carattere; ne risulta un perfetto accordo.» (Capitolo trentottesimo, traduzione di Lia Spaventa Filippi, Newton Compton Editori, Roma 1995). E le somiglianze del carattere sono forse la chiave del successo per questa coppia straordinaria. In un altro punto del romanzo Jane osserva: «Dicendo che sono della sua razza, non intendo dire che ho qualche potere sul suo fascino; ma solo che ho in comune con lui certi gusti e sentimenti.».

Nell’amore infelice di Jane Eyre e Mr. Rochester, c’era certamente qualcosa di realmente vissuto: nel 1842, le sorelle Charlotte ed Emily decisero di migliorare la loro cultura personale per aprire una scuola privata e andarono a Bruxelles per studiare lingue nella scuola diretta dal professor Héger, del quale Charlotte s’innamorò perdutamente e senza ritegno, suscitando la gelosia risentita della moglie. Morta la zia che reggeva le fila dell’economia famigliare, le due giovani dovettero ritornare precipitosamente a casa ma Charlotte ripartì di nuovo per Bruxelles, ritornando frettolosamente e definitivamente nel 1844, respinta dall’avversione della moglie del professore. Nel 1848 morirono il fratello Branwell (per delirium tremens) ed Emily e Anne (per tisi), e Charlotte rimase a vivere da sola nella solitaria parrocchia paterna in Haworth, malandata in salute e malata di malinconica, ma riscaldata da un animo caldo e appassionato. Charlotte era una donna molto volitiva e dalla fortissima personalità, femminista ante–litteram nel suo sostenere l’importanza dell’emancipazione intellettuale e nell’inneggiare all’indipendenza economica e all’autorealizzazione lavorativa della donna. Credeva fortemente nella possibilità di un affrancamento della “zitella” dalla soggezione della famiglia e del matrimonio. E mister Rochester altro non era che l’esatta trasposizione del vero grande amore di Charlotte: il professore belga piuttosto in età, marito onesto e padre felice, destinatario di missive d’amore fanatiche con le quali la scrittrice (tormentata dalla passione) lo perseguitava nel vano tentativo di farlo innamorare di sé. Nel suo romanzo, però, Charlotte offre a Jane Eyre (personaggio certamente autobiografico) quel finale felice che la vita non le aveva concesso. A proposito di Jane – sua “alter ego” – Charlotte, donna molto moderna in pectore, fa pronunciare a Rochester le seguenti parole: «Non vedo nemici nell’esito felice del suo avvenire se non sulla fronte; e quella fronte sembra dire: “Posso vivere sola, se il rispetto di me stessa e le circostanze me lo chiederanno. Non ho bisogno di vendere l’anima per comperare la felicità. Ho un tesoro interiore che mi manterrà viva anche se tutti i piaceri esterni mi saranno negati, o offerti a un prezzo che non potrò accettare”. La ragione su quella fronte è solida e tiene le redini e non si lascerà trascinare dai sentimenti. Anche se la passione divamperà come fuoco nell’inferno, come infatti fa, e il desiderio può immaginare ogni genere di vanità, sarà il giudizio a dire sempre l’ultima parola, e a dare il voto decisivo. Potrà scatenarsi la tempesta, tremare la terra, infuriare l’incendio, seguirà sempre la sottile voce della coscienza.» (Capitolo diciannovesimo, traduzione di Lia Spaventa Filippi, Newton Compton Editori, Roma 1995).

In età matura, a 40 anni, superati finalmente i postumi dell’infelice amore per il professore belga, Charlotte Brontë sposò felicemente il reverendo Nicholls, il vicario del padre, che l’aveva amata (non riamato) per molti anni. In effetti, il reverendo Brontë reagì malissimo all’idea del matrimonio di Charlotte e procurò «un dolore acuto» alla donna già avanti negli anni, la quale scrisse a proposito della richiesta di matrimonio di Nicholls: «Quali furono le sue parole, te lo puoi figurare, il suo tono non lo puoi immaginare, e io non riesco a dimenticarlo […] Gli chiesi se aveva parlato con il Babbo. Rispose che non ne aveva il coraggio.». Questo avveniva, perché l’anziano Ministro della Chiesa anglicana disapprovava il matrimonio in genere e sparlava sempre di quelli che si sposavano; inoltre, a causa dell’attaccamento per la figlia, l’interesse amoroso del suo vicario gli era odioso. Intimorita, Charlotte promise al padre di respingere il corteggiatore. Così avvenne: amava Arthur Nicholl, eppure lo respinse e non reagì né con le parole né con i gesti, e il reverendo Nicholls abbandonò Haworth lasciando l’amata sola col padre. Virginia Woolf, estimatrice della scrittrice, ha scritto così nel suo saggio Le tre ghinee: «La sua vita matrimoniale – che doveva essere breve – fu resa ancor più breve dal desiderio di suo padre.». Più tardi, poiché il tempo tutto vince avendo la meglio sui pregiudizi e sull’ostinazione, il padre concesse il suo permesso e i due innamorati si sposarono. Purtroppo, Charlotte sopravvisse al matrimonio soltanto un anno, morendo a Haworth il 31 marzo del 1855 nel corso della prima e tardiva gravidanza.

Giuseppe Lombardo, professore di Letteratura anglo–americana presso l’Università di Messina, nell’introduzione alla versione del libro utilizzata per le mie citazioni (traduzione di Lia Spaventa Filippi, Newton Compton Editori, Roma 1995), entra nel dettaglio del “mito dei Brontë”, che ebbe inizio nel 1857 dopo la pubblicazione del libro Life of Charlotte Brontë da parte di Elizabeth Gaskell (intima amica di Charlotte). Lombardo così scrive: «[…] il tema della seduzione, della proposta d’amore inaccettabile sul piano morale o sociale è però destinata a innescare il tormento della passione e della conseguente repressione», e la passione repressa fa parte dell’esistenza e di diversi scritti di Charlotte. Lombardo racconta particolari inediti e interessanti della vita di Charlotte, evidenziando il contrapporsi della scrittrice al «conformismo della famiglia e della società patriarcale» e al «vieto moralismo sotto cui si dissimulano i rapporti di forza che opprimono le donne». Inoltre annota acutamente: «Jane torna accanto a un Rochester ormai sceso dal piedistallo del rango e del sesso: la distanza fra i due si è ridotta enormemente e il rapporto che li unisce non è più di forza ma di vicendevole integrazione; ella vede e si muove per lui e nessuno domina.». Lombardo individua, infine, come questo avvenga in campagna, a contatto della Natura, «lontano da una società a cui è invece connaturato il germe della discriminazione e dell’ingiustizia».

Virginia Woolf, nel cap. IV del saggio Una stanza tutta per sé, scriveva di Charlotte Brontë: «Ma vi erano molti altri influssi, oltre la collera, ad agire sulla sua immaginazione e a distoglierla dal proprio cammino. Come l’ignoranza, ad esempio. Il ritratto di Rochester è tracciato al buio. In esso percepiamo l’influenza della paura; così come di continuo sentiamo un’acrimonia che deriva dall’oppressione, una sofferenza soffocata che arde sotto la passione, un rancore che fa contrarre quei libri, per quanto splendidi, in uno spasimo di dolore.» (Traduzione di Maria Antonietta Saracino, I Meridiani, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1998). Nell’altro suo saggio Jane Eyre, scritto tra il 1916 e il 1917, la Woolf scrive altre cose di notevole interesse su Charlotte: «Quando pensiamo a lei dobbiamo immaginare qualcuno che non ebbe fortuna nel nostro mondo moderno, dobbiamo tornare col pensiero agli anni Cinquanta del secolo scorso, a una canonica remota tra le selvagge brughiere dello Yorkshire. In quella canonica, tra quelle brughiere, infelice e solitaria, nella sua povertà ed esaltazione, rimarrà sempre. Queste circostanze, se certamente influenzarono il suo carattere, debbono aver lasciato tracce anche nella sua opera […] Né di breve durata l’intensità. Prorompe da tutto il volume, senza darci il tempo di pensare, senza farci alzare gli occhi dalla pagina. […] La scrittrice ci tiene per mano, ci forza al suo percorso, ci fa vedere ciò che vede lei, non ci lascia neppure un momento, non ci permette di dimenticarci di lei. Alla fine ci ritroviamo totalmente imbevuti del suo genio, della veemenza, dell’indignazione di Charlotte Brontë. Nel frattempo facce notevoli, figure dal forte profilo e dal tratto aspro ci sono balenate davanti, ma è coi suoi occhi che le abbiamo viste. Una volta scomparsa lei, le cerchiamo invano. Pensate a Rochester e sarà attraverso Jane Eyre. Pensate alla brughiera ed ecco di nuovo Jane Eyre. […] Lei non si prova nemmeno a risolvere i problemi della vita umana, è perfino ignara che esistano tali problemi, tutta la forza che ha, tanto più tremenda per essere costretta, va nell’affermazione “io amo, io odio, io soffro”. […] è la luce rossa e intermittente della fiamma del cuore che illumina la sua pagina. In altre parole, leggiamo Charlotte Brontë […] per la sua poesia.» (Traduzione di Nadia Fusini, I Meridiani, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1998).

Nel suo Dizionario dei personaggi di romanzo, Gesualdo Bufalino, – che presenta «i simulacri dei personaggi più memorandi, così come ci vengono incontro sulla soglia, mentre provano i gesti dell’esordio e fanno amicizia col lettore, col caldo della vita, con la voce che li battezza» – scrive, nella presentazione dedicata a Jane Eyre, parole di rara bellezza sulle tre sorelle Brontë: «Nelle brughiere dello Yorkshire, a metà del secolo, tre zitelle vittoriane, quale più quale meno consumate dalla tisi ed esaltate dalla solitudine, si buttano a inventare romanzi, a vivere in essi le inaccadute nozze, le scherme d’amore con gli inesistiti uomini della propria vita. Charlotte crea così Jane Eyre, una figura di magre bellezze, ma appassionata e guerriera nel riconoscere i propri diritti di donna e nel volerne lo sboccio fuori del busto di gesso della moralità puritana. Tutt’altro che una rivoltosa, beninteso, e anzi incline alla dedizione, alla devozione. A patto però – e sembra di sentire Nora [la protagonista di “Casa di bambola” di Henrik Ibsen] che nessuno s’arroghi d’imporre, per legge di sesso, quei sacrifici di sé che lei così lietamente accetta per opzione d’amore.» (Oscar Saggi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1989). Ne approfitto per ricordare lo stupendo documentario–sceneggiato della televisione inglese (canale BBC One) del 2003 sulla vita della famiglia Brontë, dal titolo In search of the Brontës, basato sulle lettere e sulle ricerche dei loro numerosi biografi.

è degno di nota che Jean Rhys (1890-1979), nata in una piccola isola delle Antille nel mar dei Caraibi da padre gallese e madre creola, scrittrice acclamata per avere saputo dare voce alla crisi esistenziale della donna, ha dedicato il suo romanzo Il grande mare dei Sargassi (Wide Sargasso Sea) (Adelphi, Milano 1980) a Bertha Mason, la moglie creola di mister Rochester, eroina di secondo piano, negativa e silenziosa, del romanzo “Jane Eyre”. Il libro fu scritto dall’autrice nel 1966 dopo il suo trasferimento in Cornovaglia, quando aveva 76 anni e dopo trenta anni di silenzio seguiti alla scrittura di diversi romanzi di successo editi tra il 1920 e il 1930. A proposito di Bertha, ne Le donne e la letteratura, Elisabetta Rasy annota acutamente: «In questo luogo misterioso come i castelli del romanzo gotico, Charlotte Brontë mette in scena un esemplare sdoppiamento del femminile: Jane ha un doppio, la moglie pazza di Rochester segregata in un’ala della casa, Bertha Mason. L’istitutrice e la folle non sono che due facce del femminile non riconciliato, in crisi con la famiglia e la società. Non a caso la figura della folle viene vista dagli studiosi odierni di “Jane Eyre” come simbolo della sessualità censurata e rimossa nell’austero periodo vittoriano […] il lavoro sottrae Jane al destino di dannazione di Bertha, che muore tra le fiamme […] Le sorelle Charlotte ed Emily Brontë rappresentano compiutamente la doppia anima della donna vittoriana: essa ci appare estraniata dal presente o faticosamente e dolorosamente partecipe di questo, e insieme la vediamo affacciata, come a mezza via tra il passato, la tradizione romantica, e il futuro, le vie della emancipazione.» (Editori Riuniti, Roma 1964).

Diversi film sono stati tratti da questo romanzo: il primo è del 1943, per la regia di Robert Stevenson con Orson Wells e Joan Fontaine, mentre da ricordare è quello del 2003 di Franco Zeffirelli con William Hurt e Charlotte Gainsbourg. Il film di Zeffirelli mi ha deluso: Rochester è algido e distante mentre Jane è spenta e musona; al contrario, sappiamo bene che l’uno era un essere caldo e appassionato e che l’altra era una personcina viva e palpitante. Nel 2011, infine, in Inghilterra è stata girata una nuova versione di “Jane Eyre” da Cary Fukunaga con Mia Wasikowska (Jane Eyre) e Michael Fassbender (Edward Rochester), in cui è stata data un'enfasi particolare agli aspetti gotici del romanzo. Ha detto Fukunaga: «Ho speso molto tempo rileggendo il libro e cercando di sentire quello che Charlotte Brontë sentiva mentre lo scriveva. C’è un qualcosa di sinistro che affligge l'intera storia… ci sono stati qualcosa come 24 adattamenti, ed è veramente raro che si veda questa sorta di lato più oscuro. Lo trattano come se fosse soltanto un romanzo d’epoca, e io penso che sia molto di più».[3]

Ricordo, invece, con tutta la nostalgia delle persone in età, lo sceneggiato televisivo degli anni cinquanta (visto da bambina) per la regia di Anton Giulio Majano col tenebroso Raf Vallone e l’angelica Ilaria Occhini, che nel fascino del bianco e nero mescolava con arte ineguagliabile sentimento e romanticismo in dosi perfette. Sarà forse il ricordo infantile a ingigantirne le qualità?!

domenica 26 agosto 2012

Anniversario del blog: Riflessione sulla lettura e sulla critica letteraria


Virginia Woolf                            Jean Starobinski


Nel primo anniversario del mio blog desidero abbandonarmi a una riflessione. Per anni ho espletato un mestiere duro che esigeva un animo duro (sono stata un medico universitario con attività sul campo, in ospedale), ma ho saputo mantenere sempre un nucleo tenero e vulnerabile. è accaduto, poi, che – in un momento di crisi – è prevalso il desiderio di un cambiamento, di uno strappo improvviso. Al di fuori della polvere delle biblioteche e dei paludamenti eruditi dell’accademia, mi sono lasciata guidare – da lettrice entusiasta – dal piacere di condividere con altri lettori il gusto di leggere e di commentare quelle che sono parole eterne, dense di significato nascosto e di valenza universale. Avendo sviluppato di più il talento della sensibilità rispetto a quello della tecnica dell’analisi critica, credo che la mancanza di una rigida sovrastruttura culturale mi abbia aiutato – e mi aiuti – a evitare gli eccessi del critico di professione, che spesso liquida impietosamente tutto ciò che non ama o che non gli piace, e che mi consenta di esprimere in modo più semplice e diretto un giudizio individuale indipendente, entrando nel cuore delle sensazioni e dei sentimenti.

Nel suo saggio Come dobbiamo leggere un libro (traduzione di Livio Bacchi Wilcock e J. Rodolfo Wilcock, I Meridiani, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1998), la grande scrittrice e critica inglese Virginia Woolf (1882-1941) – un mio mito – rivendica lo spirito di libertà e l’indipendenza, quali importanti qualità del lettore, che non deve riconoscere alcuna autorità che possa imporgli come leggere o cosa leggere. La Woolf così scrive: «il solo consiglio che si può dare sulla lettura è quello di non seguire nessun consiglio, bensì il proprio istinto; fare uso della propria ragione, trarre le proprie conclusioni. […] Non date ordini al vostro scrittore; cercate di diventare lui stesso. Siate il suo compagno di lavoro e il suo complice. […] la letteratura è un’arte molto complessa […] Dobbiamo restare lettori; non saremo mai investiti dall’addizionale gloria spettante a quegli esseri eletti che oltre a essere lettori sono critici.».

Sempre Virginia Woolf, nel saggio Una stanza tutta per sé (traduzione di Maria Antonietta Saracino, I Meridiani, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1998), ha scritto: «un libro dobbiamo leggerlo come se fosse l’ultimo volume di una serie molto lunga […] perché i libri sono la continuazione l’uno dell’altro, nonostante la nostra abitudine a giudicarli separatamente». Accennando a «quei poeti dimenticati i quali aprirono la strada e domarono la naturale primitività della lingua», la grande scrittrice aggiungeva: «i capolavori non sono nascite isolate e solitarie; essi sono il risultato di molti anni di un pensare comune, di pensare avendo accanto a sé la gran parte del popolo, sì che l’esperienza della massa si nasconde dietro quella singola voce». Contemporaneamente, la Woolf convinta che il carattere umano fosse mutato e che il tradizionale romanzo realista dell’Ottocento non fosse più adeguato a rappresentare la mutata umanità del Novecento si rivolgeva, con senso di ribellione, all’innovazione del «monologo interiore» e del «flusso di coscienza», ai quali seppe conferire una specificità tutta femminile.

Il poeta anglo–americano Wystan Hugh Auden (1907-1973), uno dei più grandi poeti del 20° secolo, in un suo saggio sosteneva che «la critica dovrebbe essere una conversazione informale» e per godere di una lettura «il piacere è ben lungi dall’essere una guida critica infallibile: è però la cosa meno ingannevole». Sono anch’io convinta che esista un’oggettività della bellezza di un testo e della grandezza di un autore senza tempo che prescinda da qualsiasi valutazione personale.

Provo sempre un vero piacere nel segnalare le più belle pagine della letteratura antica e moderna, ricordandole agli altri e tentando la massima semplificazione possibile, allo scopo di far sì che la citazione antologica rappresenti, oltre che un evento culturale, anche un possibile motivo di svago intellettuale. E mi piace guidare l’attenzione sulla biografia di un autore, andando alla ricerca del come ciascun artista si è ritagliata la sua fetta di vita e avendo cura di raccontare soprattutto gli aspetti più familiari e intimi (fornendo notizie, ove possibile, sulla sua vita sentimentale). Credo che ciò valga anche per gli scrittori o i poeti più antichi – le lontane voci degli antenati ancora vive e attuali – per quelli che possiamo considerare emblematici del tempo in cui hanno vissuto (i veri e propri “classici”, in senso etimologico).

E mi piace anche andare alla ricerca di un dipinto o di un’immagine fotografica per avvicinare ancor di più l’autore al lettore, rendendo familiari visi ed espressioni dei protagonisti della cultura, che così diventano come amici amati e conosciuti. Con le immagini – molte delle quali sono spesso primordiali fotografie – spero di riuscire a evocare ambienti e atmosfere, contestualizzando gli autori (produttori di storia e cultura) nella società in cui vivevano. Sono certa, così, di accontentare anche la bramosa curiosità di quei lettori che spesso non conoscono aspetto e lineamenti dei grandi di cui amano le parole.

Spesso mi perdo beatamente nel citare i brani dei quei grandi autori che, quando parlano di sé o dei loro amori, in fondo non hanno fatto che parlare di quel che siamo noi, di raccontare i nostri amori, di esprimere i nostri sentimenti e le nostre identità, di narrare le nostre vite! Leggere i classici – oggi colpevolmente trascurati – significa intraprendere una lunga stupenda passeggiata per i sentieri della cultura, un indimenticabile viaggio della memoria e dei sentimenti. Naturalmente nella scelta dei brani di un grande capolavoro ci sono dei grossi limiti. A proposito della selezione antologica, nel suo Dizionario dei personaggi di romanzo (Oscar Saggi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1989), Gesualdo Bufalino (1920-1996), con feroce ironia, scriveva: «Come ogni appassionato di squartamenti – tigre ircana o critico strutturalista il compilatore di antologie è un individuo nocivo, da fidarsene poco. Di lingua subdola, di mano spiccia, di smisurata superbia, egli meriterebbe il bando dalle pubbliche biblioteche, se la sua opera non si rivelasse provvidenziale nelle emergenze di apocalisse prossima ventura […]». Aggiunge anche: «Toccherà infine al lettore, se Dio vuole, giustificare manomissioni così disinvolte […]». Spero, pertanto, che anche il mio amato lettore sia abbastanza indulgente nei miei confronti per gli involontari stravolgimenti e le possibili manomissioni che nascono da un approccio molto individuale e dal fatto che – sfogliando i tanti libri della mia biblioteca talora logorati dalla lettura, più spesso impolverati dall’oblio (secoli e secoli di gran letteratura) – scelgo sempre e soltanto i brani che più mi piacciono, i quali potrebbero non essere necessariamente né i migliori da un punto di vista letterario, né i più significativi da un punto di vista della critica letteraria, né tanto meno i più amati dagli autori. è questo il motivo, serio e comprensibilissimo, per il quale alcuni autori odiano le antologie e i loro preparatori, e non cedono mai i diritti d’autore per parti tratte dai loro libri da pubblicare in antologie.

Nell’incipit del suo Blade Runner intitolato “Libertà [di] critica” e dedicato al grande critico triestino Callisto Cosulich, per il compimento dei suoi novant’anni (TV Film, 20, n. 27, 2012), ha scritto Ilaria Feole: «Cosa fa un critico? Analizza, scompone, decifra, confronta, trova chiavi di lettura. Per chi lo fa? La domanda è più spinosa e meno scontata: il sospetto che lo faccia per una ristretta cerchia di addetti ai lavori, a volte così stretta da comprendere esclusivamente se stesso, coglie forse troppo spesso il lettore di critica cinematografica. Non sorge quel dubbio, sfogliando le pagine della carriera sconfinata del nostro Callisto Cosulich, un critico che fa il critico per gli spettatori.». Spero caldamente che un giorno, questo possa dirsi anche per me e per i miei articoli!

Concludendo, con questi miei testi di critica (che quasi sempre guardano alla grande letteratura – che col suo retaggio culturale ha il potere di formare gli uomini mettendoli a contatto col mondo degli altri e che è vita e nutrimento delle anime – e ai suoi riflessi nel cinema e nello spettacolo in genere), ho tentato – e tento – di affrontare in maniera lieve degli argomenti difficili, usando quello sguardo scientifico al quale sono abituata. D’altra parte, tra la ricerca scientifica e la critica letteraria esistono certamente molti punti in comune, perché in entrambe si ricercano e si riportano alla superficie delle verità nascoste. Sotto questo profilo, non posso fare a meno di ricordare Jean Starobinski (1920-), grande filosofo e critico letterario ginevrino, uno degli ultimi umanisti e un padre della “nouvelle critique”, conosciuto per Jean Jacques Rousseau: La transparence et l’obstacle (Gallimard, Parigi 1957), che – guarda caso – ha una laurea in Lettere e una in Medicina (ha insegnato presso la Johns Hopkins University di Baltimora e le Università di Basilea e Ginevra). Nel metodo critico, Starobinski unisce gli strumenti dell’arte a quelli della scienza, della musica e della linguistica, applicando un originale procedimento che consiste nel creare un rapporto relazionale dialettico tra l’esperienza soggettiva e la spontaneità del soggetto, da una parte, e lo spazio letterario e la resistenza dell’opera d’arte, dall’altra. Pur provando emozioni e pur subendo il fascino dell’opera letteraria, il soggetto – nella sua piena consapevolezza critica e nell’uso esperto e sapiente di tutti i suoi strumenti critici – deve rimanere equilibrato e distante tanto da poter cogliere la struttura dell’opera e la sua profondità. è come un pendolo in continua oscillazione, che deve sapere allontanarsi ma anche avvicinarsi per cogliere sia i dettagli sia l’intreccio di simboli e d’idee con i quali s’esprime il pensiero di un autore.

lunedì 20 agosto 2012

Elsa Morante e Aracoeli, un figlio infelice e l'irraggiungibile madre perduta


Elsa Morante 


L'ultimo intenso e misterioso racconto di Elsa Morante, Aracoeli, fu pubblicato nel 1982 (iniziato nel 1976, fu portato a termine e pubblicato soltanto sei anni dopo a causa dei problemi di salute seguiti alla frattura di un femore). La Morante vi delinea con tragico pessimismo il ritratto impietoso e sofferto di un “diverso” emarginato e non realizzato, alla ricerca del ricordo, o meglio del fantasma, della madre Aracoeli. Nel 1984 il romanzo le guadagnò il Prix Médicis, prestigioso premio letterario francese fondato da Gala Barbisan e Jean–Pierre Giraudoux.

Dominato da sentimenti ambivalenti, il protagonista è proteso in maniera disperata a rideterminare la storia dell'amata madre perduta, attraverso un viaggio della memoria e una ricostruzione della sua personalità. La Morante inizia il romanzo con un originalissimo incipit: «Mia madre era andalusa. Per caso, i suoi genitori portavano, di nascita, l'uno e l'altra, il medesimo cognome Muñoz: così che lei, secondo l'uso spagnolo, portava il doppio cognome Muñoz Muñoz. Di suo nome di battesimo, si chiamava Aracoeli.» (Einaudi, Torino 1982).

La storia è dolorosa e appassionate: nel 1975 il non più giovane e solitario Manuel (nato nel 1932, durante l'ascesa del Nazismo in Germania) vive nell'angoscia, dominato da cupe ombre perché si sente brutto e goffo e perché è omosessuale; drogato e in miserevoli condizioni fisiche ed economiche, augura una «Malanotte» alla madre Aracoeli (“ara del cielo”), alla quale imputa l'imperdonabile misfatto di averlo generato e di averlo «intossicato per sempre» con il suo latte (da quel difficile rapporto materno, divenuto oramai una catena e una prigione, parte l'omosessualità di Manuel che lo porta a diversi tentativi di suicidio tentati o immaginati). Durante gli anni Trenta, Aracoeli era una bella ragazza andalusa, superstiziosa e barbarica, stupidamente ignorante e analfabeta, e di lei si era innamorato Eugenio, un ufficiale piemontese di marina di nobili natali. Rieducata con cura dalla famiglia acquisita era divenuta un'ottima moglie e madre ma a causa di una malattia tumorale che ne aveva minato il fisico e ne aveva sconvolta la mente, Aracoeli, aveva cessato di essere la moglie casta e la madre devota per concedersi con sfacciataggine ad altri uomini appena conosciuti e infine aveva lasciato il marito e il figlio Manuele (a lei morbosamente attaccato da un rapporto esclusivo e totalizzante), per morire infine nel 1939 insieme alla neonata Carina. Nel 1946, alla fine della seconda guerra mondiale, Manuel perse anche il padre divorato dall'abuso di alcol. Parlando dalla parte di Manuel, che narra di sé in prima persona, scrive la Morante: «E allora mi sono guardato negli occhi. Raramente ci si guarda, con se stessi, negli occhi, e pare che in certi casi questo valga per un esercizio estremo. […] nello stagno acquoso dei miei occhi, io non ho scorto altro che la piccola ombra diluita (quasi naufraga) di quel solito niño tardivo che vegeta segregato dentro di me. Sempre il medesimo, con la sua domanda d'amore ormai scaduta e inservibile, ma ostinata fino all'indecenza.» (Einaudi, Torino, 1982).

Mosso da un disegno quasi divino e da un ricordo infantile impossibile a morire («Anda niño, anda que Dios te lo manda»), bramando il fascino favoloso del mondo spagnolo, come in un viaggio iniziatico Manuel si rivolge alla terra natale della madre Aracoeli, ormai morta da anni, l'Andalusia e il piccolo villaggio dell'Almeria El Almendral: «El Almendral io non lo trovai su nessuna carta. Ma intanto quel minimo punto periferico, ignorato dalla geografia, da ultimo era diventato l'unica stazione terrestre che indicasse una direzione al mio corpo disorientato. Il suo era un richiamo senza nessuna promessa, né speranza. Sapevo, al di là di ogni dubbio, che esso non mi proveniva dalla ragione, ma da una nostalgia dei sensi, tale che nemmeno la certezza della sua esistenza non mi era una condizione necessaria.» (Einaudi, Torino, 1982).

Ma la ricerca è inutile e il disinganno ancora più mortificante, nella coincidenza cronologica tra l'altro fra le vicende private di Manuele e la insensatezze della storia spagnola ed europea (per esempio nel 1938 muore in Spagna il mitico Manuel, fratello di Aracoeli, in lotta contro i franchisti, mentre nel 1975, anno in cui si svolge la vicenda, cessa la dittatura franchista). Lo scrittore friulano Carlo Sgorlon, a tratti un po' deluso da quest'ultima opera di una scrittrice che ammirava, scrisse: «il ritmo narrativo è lento a volte sino all'esasperazione, per cui l'opera riesce coinvolgente per il lettore solo a tratti, in certi momenti felici: sporadiche sopravvivenze di uno dei talenti narrativi più felici che l'Italia abbia avuto negli ultimi decenni».

è stato commentato: «Tema centrale, costante nell'opera dell’autrice, è il mistero del legame madre–figlio. Con una prosa magica ed evocativa, l'autrice – attraverso un io narrante angosciato e deluso – tratteggia il ritratto doloroso d'un “diverso” e del suo viaggio, reale e della memoria, alla ricerca della madre perduta e irraggiungibile. […] Ha così inizio il viaggio della memoria tra i ricordi dell’infanzia e le impressioni della maturità, in una continua sovrapposizione di luoghi ed immagini alla coscienza presente del fallimento di un uomo “forastico e misantropo”»
(http://www.italica.rai.it/argomenti/grandi_narratori_900/morante/aracoeli.htm).

Si è anche parlato di «testimonianza ultima di un autentico strazio personale, in cui la Morante torna al tema prediletto delle relazioni familiari, descrivendo in giustapposizione di tempi diversi un intricato e torbido rapporto madre–figlio»
(http://www.treccani.it/enciclopedia/elsa-morante/).

è stato scritto inoltre: «Anche in quest'opera, ma con tratti più angosciati e sconvolti, la prosa della Morante conferma il carattere fondamentale del suo fascino sottile: un equilibrio miracoloso tra il candore magico–evocativo (una sorta di attitudine naturale al simbolo) e la sinuosa febbrile capacità di penetrazione psicologica. (La nuova Enciclopedia della Letteratura, Garzanti, 1985).

Ha osservato invece Francesco Troiano: «Il commiato di “Aracoeli” è all’insegna di un pessimismo irredimibile, d'una disperazione lucida che neppure nel ricordo trova conforto: l'itinerario nella memoria di Manuele, proteso a ricostruire l'adorata immagine materna, si chiude nella constatazione che fra lui e la genitrice “si stende una sassaia deserta” (C.Garboli). La stessa, probabilmente, che divide ormai da tutto e tutti Elsa Morante, costretta per parecchi anni ad una dolorosa immobilità in clinica prima di spegnersi, nel 1985.»
(http://www.italica.rai.it/argomenti/grandi_narratori_900/morante/bibliografia.htm).

In una sua bellissima e sentita lettera scritta a Elsa Morante (Rapallo 12 aprile 1983), che voleva essere anche un messaggio di speranza e di conforto per una donna ormai allo stremo e con un piede nel baratro, Anna Maria Ortese così scriveva a proposito di quest'ultimo romanzo: «Cara Elsa Morante, In Aracoeli, la breve vita di Carina è una delle pagine più alte della letteratura italiana di ogni tempo. Dissi, ad amici, quanto questo libro, per me, fosse importante – coraggio e tristezza così rari in questi anni di nulla – ma dissi soprattutto di quel ritratto: che per sapienza ricorda – e non a me sola – l’oro di sogno di Las Meninas. La breve quiete – nel vivere – di Carina, la sua infinita preziosità e dolcezza – sono davvero cosa immortale. Sia contenta, dunque, cara Elsa Morante, di quanto ha avuto in dono – e ancora cerchi, nel suo giardino, quanto è nascosto. Pazienza, col proprio corpo, e anche con la propria anima. Vi saranno “risposte”, sulla pagina; vi saranno altri doni, per cui Lei non potrà dire grazie, agli Dei o al Dio della Bellezza, che ricordando le proprie catene. Allora le saranno meno pesanti. E poi, non è detto che non possano allentarsi da sole. Il mondo non è che un grande prodigio. Non vedere che sia prodigio, non muta la sua natura di fiaba. Un abbraccio. Un grazie. Un augurio di gioia».

Elsa Morante e La Storia, l'Odissea del popolo delle borgate



Elsa Morante


Nel 1974 uscì La Storia, vera “Magnum Opus” di Elsa Morante, che racconta la vita, la passione e la morte di una madre e dei suoi due figli e che la lanciò alla fama internazionale, pur nel mezzo di polemiche, pregiudizi, critiche e fraintendimenti (denunciava «la falsa rappresentazione, che la società ordinata si dà nella storia»). A questo romanzo, che richiese tre anni di duro lavoro (dal 1971 al 1974), Elsa Morante «consegnò la massima esperienza della sua vita “dentro la Storia” quasi a spiegamento totale di tutte le sue precedenti esperienze narrative» (descrizione volume Einaudi, Torino 1974). Il romanzo vendette oltre seicentomila copie ma è oggi forse purtroppo alquanto dimenticato.

L'autrice Elsa Morante aveva voluto che il testo fosse scritto volutamente in un linguaggio apparentemente comune e accessibile a tutti, proprio per sottolineare la quotidianità e l'universalità delle vicende narrate (in effetti la lingua è raffinatissima); volle anche che fosse dato alle stampe in edizione tascabile, perché più facilmente fruibile alle masse. Ambientato in una Roma devastata, durante la seconda guerra mondiale e nell'immediato dopoguerra (tra il 1941 e il 1947), è un affresco corale sugli episodi della guerra, visti soggettivamente da ciascuno dei protagonisti, costretti a barcamenarsi tra vecchi problemi e altre angosce derivate da quei nuovi e tragici avvenimenti, e descritti con un disincantato realismo filtrato da un lirismo poetico e visionario.

Il romanzo inizia così: «Un giorno di gennaio dell'anno 1941, un soldato tedesco di passaggio, godendo di un pomeriggio di libertà, si trovava, solo, a girovagare nel quartiere di San Lorenzo, a Roma. Erano circa le due del dopopranzo, e a quell'ora, come d'uso, poca gente circolava per le strade.». Durante la sua ricerca di un bordello, quel soldato tedesco di nome Gunther incontra Ida Ramundo vedova Mancuso (detta Iduzza) – maestra trentasettenne di origini ebraiche e madre del quindicenne Nino (detto anche Ninnuzzo o Ninnarieddu) – e la violenta. Da quella violenza nascerà Giuseppe, soprannominato “Useppe” («I capelli del neonato, tutti a ciuffetti, che parevano piume, erano neri. Ma come lasciò vedere un poco degli occhi, Ida riconobbe quel colore turchino del suo scandalo. Il loro colore assolutamente riproduceva quell'altro turchino che non pareva nato dalla terra ma dal mare.»). Il fratellino è molto amato da Nino, che è un ragazzino ardimentoso e spavaldo, esuberante e sfrontato, di fervida fede fascista (ma diverrà poi partigiano comunista col soprannome di Assodicuori e infine contrabbandiere). Tra i due fratelli si stabilisce una stupenda relazione fraterna e Useppe, creatura gioiosa e allegra, porta gioia e allegria nella misera vita di Ida e Nino. Un bombardamento lascia la famiglia senza casa e costretta a vagabondare per domicili estranei, pieni di sfollati e d'interessanti personaggi (si ritrovano inizialmente a Pietralata in un rifugio per i senza tetto). Dopo un periodo di assenza, Nino ritorna all'improvviso con un partigiano non violento di nome Carlo Vivaldi (che altri non è, che l'ebreo Davide Segre), un giovane bolognese, stanco e scostante, affaticato e scortese, amante della vita solitaria e per nulla interessato ai suoi coinquilini. L'epilessia di Useppe e la morte di Nino per un incidente stradale, dopo un inseguimento con la polizia, minano sempre di più la salute psichica di Ida. Intanto David Segre è ritornato a Roma, malato e tossicodipendente, e vive nella baracca di una vecchia prostituta e cartomante uccisa dal suo giovane magnaccia; diviene grande amico di Useppe ma un giorno verrà trovato morto ucciso da una «iperdose» di morfina. Ida crollerà definitivamente a causa della morte di Useppe, durante l'ultimo fatale attacco epilettico, e resterà a vegliare il suo corpo, immobile per ore. Ricoverata in un ospedale psichiatrico, Iduzza morirà nove anni dopo.

Ha scritto Francesco Troiano: «Quest'ultimo argomento – il rifiuto della “storia ufficiale”, l'aperto parteggiare per gli umiliati e offesi – caratterizza pure “La Storia”, l'opera sua di maggior successo, in virtù d'un linguaggio piano e semplice e di una trama – le vicende d'una famigliola romana durante la tragedia del secondo conflitto mondiale – coinvolgente, con qualche concessione al populismo.». (http://www.italica.rai.it/argomenti/grandi_narratori_900/morante/bibliografia.htm):

In una lettera scritta il 16 maggio del 1975 da Anna Maria Ortese a Elsa Morante, per congratularsi del suo libro, la scrittrice scriveva così: «Cara Elsa Morante, un mese fa ho letto La Storia. Ho esitato a scriverLe, non sapendo se Lei ha di me stima umana. Penso che una lode possa valere solo in questo caso. […] Alla fine ho letto La Storia, e sono andata avanti tutta la notte, e poi il giorno dopo, e poi un altro giorno. Ero sbalordita. Si aprivano dovunque i cieli della più grande tradizione italiana. Con un dolore più vicino. Dopo il primo giorno mi è accaduto questo: non avevo più memoria di tutte le cose – anche immense – finora lette. Ancor meno mi ricordavo di me. Pensavo – seguendo la disperazione senza luce di soccorso della madre di Ida: qui siamo tutti – è detto tutto. È resa giustizia a tutti noi che fuggiamo. – Quando dico noi, dico un'umanità, semplicemente. La grazia e purezza del bambino! Ma Nino, poi, quando torna – morto nel pensiero della madre – e non vuole morire, è immenso. Qui tornava quella prima sensazione “è stata resa giustizia”.Voglio ricordare qua e là, di questo VIVENTE libro, la luce in cui si muove – colorando le strade, la gioia di Useppe. I piccoli interni familiari. La polvere povera, tutta voci. I rossi orrori che accadono all’uomo, di epoca in epoca. Quando il libro è finito, resta il senso dell'epoca. Siamo un po' cambiati. Della letteratura non ci ricordiamo, e questo è bene. Ma sì del dolore umano. E questo dolore, che è intramontabile, diviene l'ombra che va avanti, la musica funebre della gioia che finì, ma in eterno porrà quesiti alla ragione. Non so di strutture e di altro. So di emozioni. Queste sole dicono che in un racconto, o in una letteratura, è passata la vita. E solo la vita – a umiliazione dei critici – è forma.».

Si è osservato che La Storia racconta: «l'odissea bellica dell'Italia e del mondo riflessa nell'umile microcosmo d'una famigliola romana, composta da una donna spaurita e immatura, da un ragazzotto, da un bambino e da un paio di cani» (La nuova Enciclopedia della Letteratura, Garzanti, 1985). A proposito di cani, come dimenticare Blitz, cane di nessuno, bastardino con il magico disegno di una stella sulla rosea pancia, che è la metà dell’anima di Nino il ragazzetto che lo ha raccolto, il figlio di Iduzza, che vedova e senza un nuovo marito ha partorito colpevolmente in secondo figlio, Useppe che resta in casa quasi recluso, a eccezione delle visite che riceve da parte dei numerosi ragazzini che Nino porta a casa per far conoscere loro il suo fratellino bastardo (del quale non si vergogna per nulla). è Nino che porta a casa il cane Blitz e Useppe «Nella sua precocità, aveva presto imparato a camminare per la casa sulle ginocchia e sulle mani, a imitazione di Blitz, che forse fu il suo maestro.». Amato da Nino e Giuseppe, Blitz riama pazzamente entrambi, ballando per salutare, leccando per baciare e ridendo con il muso e con la coda. E Blitz deve dividersi tra questi due suoi amori, rimbalzando insensatamente da casa a scuola, e viceversa, a seconda dell'acuta nostalgia di Giuseppe o Nino, e viceversa. Blitz morirà nel tremendo bombardamento che distruggerà, oltre a tutto quanto il resto, la misera casa di Iduzza a San Lorenzo. Quasi alla fine del romanzo, nell'agosto del 1946, Nino si trasferisce per qualche giorno nell'appartamento della madre, preso recentemente in affitto, e porta con sé un altro straordinario animale, la cagna da pastore Bella «Pelozozzo», che ha ritrovato la strada di casa dopo la morte del padrone; a lei Ida affida Useppe durante le sue ore di lavoro. Svolgendo un ottimo ruolo protettivo, la cagna Bella diviene quasi una seconda madre e l'amica degli ultimi giorni di Useppe (resterà con lui sino alla fine della narrazione). Durante tutta la primavera e l'estate del 1947, Useppe e Bella passano al tempo a “pazziare” per le vie di Roma e lungo il Tevere, ove in un rifugio segreto trasformato in una sorta di dimora fantastica, la «tenda d'alberi», conoscono e incontrano il giovanissimo Pietro Scimò scappato dal riformatorio, che diverrà il grande amico di Useppe e col quale il piccolo vivrà le sue ultime avventure. Nel romanzo Elsa scriveva: «Gli animali, come tutti i paria, sono talora ispirati da un genio quasi divino…».

è stato scritto ancora: «Accusato di ripristinare anacronisticamente messaggi poetico– consolatori, il romanzo esplicita invece uno “scandaloso” rifiuto della storia, opponendo problematicamente il mondo “fanciullo e “povero” a un mondo fittizio generatore di morte e di scempi.» (La nuova Enciclopedia della Letteratura, Garzanti, 1985). Nel romanzo la scrittrice osservava: «La Storia, si capisce, è tutta un'oscenità fino dal principio.».

Si è anche scritto: «La rivolta anarchica e populistica contro le trame della Storia di cui gli umili sono inconsapevoli vittime ispira l'ambizioso progetto del romanzo La Storia (1974), con cui la Morante spinge la ormai obsoleta poetica del neorealismo ai suoi forse prevedibili effetti melodrammatici, suscitando, oltre a vivaci polemiche, un enorme interesse di pubblico.» 
(http://www.treccani.it/enciclopedia/elsa-morante/).

Ha scritto Silvia Avallone – che in occasione del centenario della nascita di Elsa Morante ha partecipato alla giornata d'incontri e di proiezioni dedicata alla grande scrittrice romana (in particolare sulle versioni cinematografiche dei suoi romanzi più celebri), promossa dal Gruppo toscano del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani insieme alla Regione Toscana e a Odeon Firenze – ha scritto che La Storia è stato un «romanzo incandescente» che non ha  potuto rimanere chiuso nella carta, per raggiungere migliaia di famiglie, centinaia di librerie, e mille e mille «ragazzetti freschi di Sessantotto», un pubblico veramente enorme. «E poi, dopo tutto quel clamore del '74, è stato abrogato. È sceso il silenzio, come se fosse un romanzo proibito.» Osserva l'Avallone che La Storia è stato il libro più frainteso di Elsa Morante ma quello di cui la gente ha più bisogno; per Silvia, La Storia è «la testimonianza più coraggiosa di fiducia nel potere della parola letteraria» di tutto il Novecento italiano da lei conosciuto. Ha aggiunto di non poter nascondere di essere orgogliosa che sia stata una donna a scrivere un tale romanzo. «La Storia è una cronaca che ribalta la cronaca»; essa vuol rinnegare il linguaggio dei mass–media (che sta al di fuori della realtà), restituendo alle vite – «quelle più insignificanti» – dignità e mistero. Il romanzo provocò arroventate polemiche del 1974, ma nel 2012: «la Storia assassina ci appare sconfitta dalla bellezza di queste vite che hanno attraversato il tempo. Sono le nostre vite, è la nostra piccola, indifesa, quotidianità.». Rileva la giovane scrittrice che, per un lettore della sua età, La Storia è anche «una testimonianza senza retorica di cosa hanno dovuto affrontare i nostri nonni», che ci fa esser invidiosi di quell'umanità che di fronte alla minaccia e alla tragedia collettiva seppe divenire operosa e solidale, sfoderando risorse inaspettate: «Elsa Morante lo aveva già capito: il vero orrore non si nasconde nell'eccezionalità del tempo di guerra, ma nella normalità del tempo di pace.». Annota l'Avallone che il romanzo ci restituisce non tanto la cronaca, quanto la verità degli orrori tremendi della guerra, ma soprattutto «l'irriducibile vittoria della vita» in quanto nel romanzo la vita la vince pur nella morte di tutti i suoi protagonisti: «Chiudiamo il libro e ci sentiamo invasi di tenerezza e d'indignazione. E vorremmo fare qualcosa, offrire il nostro contributo.». In questo modo, La Storia riesce ad andare al di là delle pagine stampate per muoversi fuori nel mondo: «Questo è il genere di miracoli o stregonerie che Elsa Morante è stata capace di fare.» (http://lettura.corriere.it/la-mia-elsa-morante-incendiaria/).

Nel 1986, sotto la sapiente regia di Luigi Comencini, dal romanzo fu tratto l'omonima miniserie TV, sceneggiata da Cristina Comencini e da Suso Cecchi D'Amico, che raccontò di lei: «A un certo punto Moravia cominciò a portare a casa di mio padre Elsa Morante. Non era bella, ma curiosa, intrigante. Aveva una singolare voce acuta, i denti davanti molto aperti; ricordava non saprei quale animale. […] fu la guerra a dividerci.». Interpretato da una sensibile e matura Claudia Cardinale nel ruolo di Ida, vi recitavano anche Lambert Wilson, Francisco Rabal, Fiorenzo Fiorentini e il piccolo Andrea Spada. Una versione più breve è stata preparata per la rappresentazione cinematografica. La critica si è abbastanza divisa sulle qualità del film: gli è stato riconosciuto l'impegno civile che non ha sempre compensato, però, l'ineguale aderenza al tema narrativo e la sua incapacità di rendere al meglio la quotidianità e l'universalità delle storie narrate nella pagina scritta.

Nel 2009 è uscito il film pasoliniano di Gioberto Pignatelli, Santina, girato in colore e bianco/nero con inserti di animazione bidimensionale che lo rendono particolarmente onirico e visionario, e interpretato da Monica Perozzi (Santina), Diego Guerra (Nello) e Iaia Forte (in una breve apparizione nel ruolo della madre del ragazzo). Gioberto Pignatelli – un trentaduenne romano, autodidatta, che è stato in concorso al Torino Film Festival con Soap –, ha tratto liberamente la sceneggiatura del suo film ultraindipendente da quel capitolo del romanzo La Storia che racconta la tragica relazione tra la matura puttana e cartomante Santina (una donna sui quarant'anni, brutta e menomata per un'amputazione chirurgica di un seno, con un corpo vecchio e sgraziato) e il suo giovane e violento sfruttatore Nello, che finisce per assassinarla nella lurida baracca del Portuense ove si prostituisce per poche lire, in mezzo ai quadri del Sacro Cuore di Gesù (Nello sgozza Santina, senza pietà, con un paio di forbici). Qualche mese dopo, Davide Segre (Matteo Lolli), un ebreo ritornato a Roma che aveva conosciuto la prostituta, prende in affitto il misero stanzone di Santina che porta ancora le impronte tremende del delitto e che mostra le tracce della squallida vita della «puttana». L'ambizioso ma scarno film è costato appena cinquantamila euro ma non ha trovato ancora un distributore. Il progetto del giovane autore sarebbe di proseguire ulteriormente con le versioni cinematografiche di altre vicende tratte da La Storia: questa serie di piccoli film dovrebbe essere intitolata «cristomangiaeva»
(vedere:http://news.cinecitta.com/dossier/articolo.asp?id=7434 e http://www.doppioschermo.it/recensioni/item/4678-santina.html).

domenica 19 agosto 2012

Elsa Morante e L'isola di Arturo, romanzo incantato e dolente


Elsa Morante


L'isola di Arturo, pubblicato nel 1957 con notevole successo di pubblico e di critica, vinse il Premio Strega. Deve considerarsi il primo grande e indimenticabile capolavoro letterario di Elsa Morante.

è la storia di un ragazzo che vive segregato in un'isola immobile e solitaria (sembra al di fuori del mondo e sospesa nel sogno), all'ombra di un inquietante penitenziario, tra incanto magico e mito che diviene esistenza viva, e della sua difficile maturazione con le prime scoperte della sessualità (con qualche punta di ambiguità omosessuale). Egli è orgoglioso del suo nome: «Uno dei miei primi vanti era stato il mio nome. Avevo presto imparato (fu lui, mi sembra, il primo ad informarmene), che Arturo è una stella: la luce più rapida e radiosa della figura di Boote, nel cielo boreale! E che inoltre questo nome fu portato da un re dell'antichità, comandante a una schiera di fedeli: i quali erano tutti eroi, come il loro re stesso, e dal loro re trattati alla pari, come fratelli.» (è questo l'incipit del libro).

è il 1938, e Arturo Gerace ha quindici anni ed è un ragazzo pieno di vitalità che vive un'esistenza solitaria mitizzando entrambi i genitori in una confusione d'istinti e sentimenti. è
nato nell'isola di Procida e ha vissuto lì la sua infanzia e la sua adolescenza, sognando il resto del mondo come una leggenda e passando il tempo a leggere di «eccellenti condottieri» e progettando viaggi futuri alla ricerca del padre Wilhelm, che vive lontano facendo soltanto rare visite e che Arturo immagina come il «più grande eroe della storia». Gli amici del padre sono per lui anch'essi dei protagonisti mitici, degni di amicizia e figure al di fuori dell'ordinario: «A uno non basta la contentezza di essere un valoroso, se tutti quanti gli altri non sono uguali a lui, e non si può fare amicizia. Il giorno che ogni uomo avrà il cuore valoroso e pieno d'onore, come un vero re, tutte le antipatie saranno buttate a mare. E la gente non saprà più che farsene, allora, dei re. Perché ogni uomo, sarà re di se stesso!». L'unica persona che ha cura di Arturo è Silvestro e – soltanto grazie a lui – Arturo riceve qualche briciola d'amore.

Orfano della madre, in assenza del padre, Arturo vive in compagnia dell'amatissima cagna Immacolatella sulla quale così si esprimeva: «Si dirà: parlare tanto di una cagna! Ma io, quand'ero un ragazzino, non avevo altri compagni che lei, e non si può negare che era straordinaria. Per conversare con me, aveva inventato una specie di linguaggio dei muti: con la coda, con gli occhi, con le sue pose, e molte note diverse della sua voce, sapeva dirmi ogni suo pensiero; e io la capivo. Pur essendo una femmina, amava l'audacia e l'avventura: nuotava con me, e in barca mi faceva da timoniere, abbaiando quando c'erano ostacoli in vista. Mi seguiva sempre, quand'io giravo per l'isola, e ogni giorno, ritornando con me sui viottoli e nelle campagne già percorsi mille volte, s'infervorava, come se fossimo due pionieri in terre inesplorate.»; e con i conigli si comportava come fosse un cane da caccia col suo cacciatore: «E lei li inseguiva un poco, per il gusto di correre, e poi tornava indietro da me, contenta di essere una pastora. Aveva molti innamorati, ma fino all'età di otto anni non fu mai incinta.». Immacolatella è per Arturo quel che è un cane per un ragazzino solitario: colmava il vuoto abissale creato dalle assenze della madre morta e del padre indifferente, era solidale e vigile come una custode, era un'entusiasta compagna e un'amica piena di obbediente devozione che sapeva stargli accanto, sempre e nonostante tutto.

Quando il padre ritorna portando a casa la dolce Nunziatella, la sua nuova sposa, Arturo – che non ha mai conosciuto una donna – ne è fortemente attratto ma le è anche ostile: inizia così tutta una serie di ambigui inganni sentimentali, Arturo considera Nunziatella un essere selvatico e inferiore (non è capace a chiamarla per nome ritenendola inadatta a sostituire la madre morta) ed è geloso delle attenzioni del padre ma è anche affascinato da quella giovanissima donna, provando un sentimento che dalla stessa scrittrice non sembra essere preso sul serio. Nunziatella ha poi un bambino, Carmine, e durante il parto tremendo, sentendo la ragazza urlare e disperarsi, Arturo teme per la sua vita (la sua mamma è morta dandolo alla luce) e capisce che non le è più indifferente. Si sente tradito dalle esclusive attenzioni che la mamma dedica al suo bambino e tenta il suicidio con dei sonniferi del padre per attirare l'attenzione di lei. Molti giorni trascorrono mentre Arturo si trova a letto in uno stato stuporoso durante il quale Nunziatella si preoccupa per lui e lo assiste von devozione. Ormai completamente preso da Nunziatella, con fare fanciullesco, tenta di rubarle un bacio, rovinando così completamente il suo rapporto con lei, che prende a ignorarlo volutamente. Conosce Assunta, un'amica di Nunziatella, ne diviene l'amante ma tutta una serie di delusioni (altri amanti di Assunta, la dimenticanza del padre per il suo sedicesimo compleanno e la scoperta – parlando con un amico del padre – che nulla erano i suoi immaginifici viaggi e le sue “epiche avventure”, andando in effetti Wilhelm non oltre Napoli). Avviene così “crollo del mito del padre”: Wilhelm, tra l'altro, sembra legato da una strana relazione con Tonino Stella, detenuto nel penitenziario procidano, che dopo la scarcerazione viene ospitato da Wilhelm ma lo picchia e lo deruba provocando la loro separazione definitiva. La giovane matrigna coglie l'occasione per mostrare la sua innata forza nel rimettere in sesto la sgangherata famiglia, Reso uomo da queste esperienze così mortificanti che hanno sia tradito i suoi gelosi sentimenti e l'assoluta dedizione affettiva dell'adolescenza, sia distrutto il fantastico mondo mitico nel quale si era rifugiato per anni, Arturo capisce che non ha più nessun motivo di rimanere nell'isola. Si arruola come volontario nella seconda guerra mondiale insieme all'amico Silvestro (che era partito qualche anno prima intraprendendo la carriera militare) e, sulla nave che lo allontana dall'isola di Procida, Arturo si convince della necessità del distacco decidendo di non voltarsi più indietro verso quel triste passato da dimenticare e giurando che non rimetterà mai più piede a Procida.

A proposito di questa storia, scrisse la Morante: «La sola ragione che ho avuta (di cui fossi consapevole) nel mettermi a raccontare la vita di Arturo, è stata (non rida) il mio antico e inguaribile desiderio di essere un ragazzo.» (citato in Corriere della sera, 7 febbraio 2010). Il romanzo guarda alle sorgenti non inquinate della vita, e la chiusa isola natale è metafora sia della felice reclusione originaria sia del desiderio di terre nuove e  ignote da visitare da parte di Arturo, un «eroe ragazzo». Si può uscire, turravia dall'isola soltanto superando la «traversata del proibitivo mare materno», soltanto uscendo dallo stadio infantile verso la coscienza dell'adolescente.

Antonio Debenedetti ha così commentato: «L'isola di Arturo ha ormai cinquantatre anni e nemmeno una ruga: il tempo, quello che invecchia i libri alla moda, sembra non aver sfiorato questo romanzo nutrito di fantasie, sogni e misteri tali da far pensare a un racconto avventuroso d'altra epoca» (prefazione, Suppl. a Corriere della sera, 2003). Trovando delle affinità con “Menzogna e sortilegio”, Francesco Troiano ha osservato: «Il medesimo tema è al centro del successivo “L'isola di Arturo”, ove lancinante è lo scarto fra l'infanzia serenamente immersa nella natura del protagonista ed il dolore figliato dalla fine della mitizzazione della figura paterna: in questa dimensione edenica che inevitabilmente si dissolve nel contatto con la consapevolezza, risiede il nucleo dolente della poetica dell’autrice.»
(http://www.italica.rai.it/argomenti/grandi_narratori_900/morante/bibliografia.htm).

Con quest'opera, scritta nel pieno della corrente del Realismo, nata dal desiderio di ricostruire un'esperienza infantile che si esaurisce nel sorgere del primo sentimento d'amore, l'autrice crea una narrazione ironica, illusionistica, allusiva e ambivalente, sospesa tra fantasticheria di nuove avventure eccitanti e disincanto. E ritornano i temi amati della disgregazione della famiglia e dei suoi oscuri segreti, delle ombre maligne e delle minacce che la mettono in pericolo scardinandone l'ordine.

Nel 1962 Damiano Damiani trasse da L'isola di Arturo il film omonimo, sceneggiato da Ugo Liberatore, Enrico Ribulsi e lo stesso Damiani (con la collaborazione di Cesare Zavattini), interpretato da Vanni De Maigret (Arturo), Key Meersman (Nunziatella) e Reginald Kernan (Wilhelm). Fu premiato al Festival di San Sebastian del 1962 con la Concha de Oro per il miglior film. Hanno commentato i Morandini: «Tratto dal secondo romanzo (1957) di Elsa Morante, il 3° film di Damiani, sceneggiato anche da Cesare Zavattini, è ambizioso, non privo di passaggi felici, ma soltanto parzialmente risolto anche per l'inadeguatezza degli interpreti.» (il Morandini – Zanichelli editore, a cura di Laura, Luisa e Morando Morandini).

sabato 18 agosto 2012

Elsa Morante, grande scrittrice inquieta e tormentata


Elsa Morante



Il 18 agosto di cento anni addietro nasceva a Roma Elsa Morante (vi morì il 25 novembre del 1985). Non soltanto grandissima scrittrice, fu anche una sensibile poetessa, un'acuta saggista e un'abile traduttrice. Il suo magico talento narrativo, la sua immaginazione vivace e fantasiosa, e la sua inventiva originalità nella parola (espressione di una separazione piena di angoscia dalla realtà) ben presto la lanciarono all'attenzione del pubblico e della critica. Tutti i suoi romanzi sono oggi considerati i testi migliori del dopoguerra e della letteratura italiana in genere.

Era la figlia naturale di Irma Poggibonsi (una maestra ebrea di origine modenese) e di un uomo di origine siciliana, ma fu riconosciuta dal marito della madre e visse un'infanzia complicata nel quartiere popolare del Testaccio a Roma insieme ai fratelli Aldo, Marcello anch'egli scrittore e Maria. Non frequentò la scuola elementare, imparando a leggere e a scrivere da autodidatta. Alla fine del liceo lasciò la famiglia per andare a vivere da sola; s'iscrisse alla facoltà di Lettere ma fu costretta ad abbandonare gli studi per mantenersi, dando lezioni private di italiano e latino e dedicandosi alla stesura di tesi di laurea.

Giovanissima, si fece conoscere per le sue filastrocche e favole per bambini, per le poesie e per i racconti brevi che pubblicò su diverse riviste (Corriere dei piccoli,Meridiano di Roma,I diritti della scuola, e Oggi”), scrivendo con gli pseudonimi maschili di Antonio Carrera e Renzo o Lorenzo Diodati. Non a caso, perché si definiva «scrittore» al maschile, in quanto «il concetto generico di scrittrici come di una categoria a parte, risente ancora della società degli harem» (http://lettura.corriere.it/la-mia-elsa-morante-incendiaria/). Si è detto: «Esplicitamente dichiarata nei primi racconti […], questa centralità della fantasticheria, che da strumento diviene ragion d'essere, valore da difendere e discrimine decisivo tra la sua narrativa e il mondo, ispirò alla Morante le opere maggiori […] di largo respiro, in cui il modello realistico di stampo ancora ottocentesco viene restituito a un'inesauribile produttività di invenzioni.» (http://www.treccani.it/enciclopedia/elsa-morante/).

Nel 1941 pubblicò il primo libro che raccoglieva alcune di quelle storie giovanili, dal titolo Il gioco segreto; nel 1942 seguì il libro per ragazzi intitolato Le bellissime avventure di Caterì dalla trecciolina (scritto quando Elsa aveva soltanto tredici anni), che nel 1959 fu modificato e ripubblicato come Le straordinarie avventure di Caterina.

Nel 1936 aveva conosciuto lo scrittore Alberto Moravia; lo sposò nel 1941. Durante la Seconda Guerra Mondiale, i due scrittori furono costretti a lasciare Roma occupata dai nazisti per riparare sulle montagne di Fondi, in provincia di Latina nella Ciociaria, paese che ispirò gli ambienti e le atmosfere di diverse opere narrative di Morante e Moravia. La Morante: «Nell'estate del '44 ritorna a Roma, ma intanto il suo complicato e difficile rapporto con Moravia alterna momenti di comunicazione intensa ad altri di distacco e malessere. In Elsa Morante, infatti, il bisogno di autonomia contrasta con una forte esigenza di protezione e di affetto. Allo stesso modo desidera e rifiuta la maternità, a cui rinuncia, ma di cui rimpiange, al tempo stesso, la possibilità perduta.» (http://www.italialibri.net/autori/morantee.html).

In quel periodo la Morante tradusse Scrapbook, il diario di Katherine Mansfield, scrittrice con la quale scoprì molte affinità sia esistenziali sia di gusto letterario, che la influenzò, e alla quale s'ispirò nei suoi romanzi. Nata in Nuova Zelanda nel 1888, la Mansfield era malata di tubercolosi e amava molto la natura; scriveva infatti: «Voglio la salute. Per salute intendo la possibilità di condurre una vita piena, adulta, viva, completa, in stretto contatto con tutto ciò che amo: la terra e le sue meraviglie, il mare, il sole…». E la natura che lei amava, riempiva liricamente i suoi testi. Nel 1917 (dopo cinque anni di vani tentativi in riviera o in sanatorio allo scopo di arrestare la malattia) Katherine Mansfield moriva ad appena 34 anni. Dopo la sua morte, il devoto marito – John Middleston Murry, grande critico letterario e scrittore del tempo, che romanticamente si entusiasmò di lei e della sua opera e che la sposò dopo il suo divorzio – pubblicò postumo nel Diario (1927) – tradotto in Italia dalla Morante (Katherine Mansfield, Quaderno d'appunti, Longanesi, Milano 1945; Feltrinelli 1979) e nelle Lettere (1928), tutto ciò che la Mansfield aveva scritto, facendo rivivere lei (che avrebbe voluto vivere a tutti i costi) nella lettura e nel ricordo dei suoi lettori. La Morante tradusse anche altri testi della scrittrice neozelandese (Il meglio di Katherine Mansfield, Rizzoli, Milano 1945).

Dopo aver viaggiato in Francia e in Inghilterra, nel 1948, la Morante pubblicò il primo dei suoi grandi romanzi, Menzogna e sortilegio, che vinse il Premio Viareggio (il romanzo fu conosciuto nel 1951 anche dal pubblico americano col titolo House of Liars, grazie alla traduzione di Adrienne Foulke e Andrew Chiappe). Al centro della narrazione, sta il declino di una nobile famiglia meridionale, osservato e ricostruito attraverso l'occhio allucinato della giovane Elisa, reclusa nella sua stanza, nutrita da fantasmi ambigui e da miti funesti. Elisa racconta il matrimonio della nonna Cesira che, da istitutrice, sposa Teodoro Massia (il discendente di una famiglia ricca e aristocratica); il sentimento ambiguo della figlia Anna («una Santa») per il bel cugino Edoardo dal carattere cupo e irascibile («un ras dei deserti d'oltretomba»), figlio della zia Concetta («una profetessa regina»); e le vicende di Francesco Di Salvo (figlio di contadini che si fa passare per un aristocratico) e della sua esuberante ragazza Rosaria che riesce a suscitare l'interesse di Edoardo. Ed Elisa è la figlia di Francesco («un granduca in incognito») e Anna mentre Edoardo, malato di angoscia, si esclude dall'esistenza vivendo in un mondo di fantasmi. Rimasta sola (ha perso il padre in un incidente sul lavoro e la madre, contagiata dalla malattia di Edoardo, si strazia nella lettura ossessiva delle oscure lettere ricevute dall'amato cugino), Elisa osserva che «Si fissarono così, in solenni aspetti a me familiari, le maschere delle mie futili tragedie...». Dopo molti anni, la ragazza incontra Rosaria che ne diviene l'amica e la maestra di vita. Ha scritto Francesco Troiano: «Nel narrare i casi d'una benestante famiglia meridionale destinata alla decadenza, tramite lo sguardo febbrile e tormentato d'una giovane donna isolatasi dal mondo, la Morante s'allontana in maniera assai netta dall'imperante modello neorealistico: si precisa, da subito, la sua predilezione pel magico e la fantasticheria, in una chiave tuttavia caricata d’angoscia dal confronto coi dati della realtà.»
(http://www.italica.rai.it/argomenti/grandi_narratori_900/morante/bibliografia.htm). è stato anche commentato: «il romanzo riprende i grandi modelli della tradizione, da Stendhal a Tolstoj, in cui la narrazione diventa specchio della società umana»
http://www.italica.rai.it/argomenti/grandi_narratori_900/morante/menzognasortilegio.htm).  
è stato osservato ancora: «Così assediata da tali “magnifiche” ombre, l'io narrante di Menzogna e sortilegio s'incammina verso la necropoli del proprio mito familiare: pari a un archeologo che parte verso una città leggendaria.» (commento all'edizione di Einaudi, Torino 2005).

Con il miglioramento della loro situazione economica, Morante e Moravia presero possesso di un attico in via dell'Oca, che divenne uno dei più vivaci e frequentati centri intellettuali romani (si raccoglievano intorno ai due grandi scrittori: Giorgio Bassani, Attilio Bertolucci, Natalia Ginzburg, Pier Paolo Pasolini, Sandro Penna, Umberto Saba ed Enzo Siciliano). La Morante collaborò poi con la Rai e, insieme con una delegazione culturale, visitò l'Unione Sovietica e la Cina.

L'altro grande romanzo L'isola di Arturo fu pubblicato nel 1957 (con grande successo di pubblico e di critica) e vinse il Premio Strega (gli dedicherò un articolo a parte).

Nel 1958 pubblicò 16 poesie raccolte in un volume dal titolo Alibi, tutte poesie d'amore, immaginario o reale non ha importanza, ma un amore «vissuto come un male, e insieme come la sola liberazione dal male». Si tratta di «poesie da album, ma un album visitato da una tristezza veggente di chiromante pazza, che interroga, cieca, le linee confuse e arruffate del suo destino, senza riuscire ad afferrarlo», un destino che appare «sempre più simile a una condanna e a un inferno» a «una ragazza sognatrice che vuole l'amore e aspetta la felicità» ma che indulge alle cantilene e ai sortilegi che accompagnano la magia (commento all'edizione di Einaudi, Torino 2012).

Durante gli anni Sessanta, Elsa Morante attraversò un lungo periodo di riflessione, mostrandosi scontenta di ciò che aveva scritto (il periodo di crisi fu forse innescato dalla separazione tra la Morante e Moravia, iniziata nel 1961 e realizzatasi definitivamente nel 1962, anno a partire dal quale e fino al 1978, Moravia ebbe come compagna Dacia Maraini). Frequentò il regista Luchino Visconti, il pittore newyorkese Bill Morrow conosciuto nel 1959 durante un suo viaggio negli Stati Uniti e morto suicida precipitando da un grattacielo (Elsa porterà per anni con sé lo sconvolgimento provocato da questo grande dolore) –, il critico Cesare Garboli e l'attore Carlo Cecchi (che le rimase accanto sino alla fine). Nel 1960, senza lasciare la casa coniugale e lo studio dei Parioli, si trasferì in via del Babuino. Andò con Moravia in Brasile e l'anno successivo con Pasolini viaggiò in giro per l'India. Continuò poi da sola i suoi viaggi per il mondo, andando in Andalusia e Messico, e nel Galles.

Sia la Morante sia Moravia manifestarono curiosità e interesse per il cinema (Moravia fu anche critico cinematografico per quotidiani e settimanali) e affidarono al cinema la trasposizione di molti dei loro lavori. Nel 1961 Elsa Morante volle partecipare come attrice (interpretava una detenuta) al film epico e tragico di Pier Paolo Pasolini Accattone (sceneggiato dallo stesso Pasolini con la collaborazione di Sergio Citti), insieme con Franco Citti (Cataldi Vittorio detto Accattone), Franca Pasut (Stella), Silvana Corsini (Maddalena), Paola Guidi (Ascenza), Adriana Asti (Amore) e ad altri numerosi attori non protagonisti, considerati dal regista interpreti «puri e incontaminati». Il film era dedicato a rappresentare un sottoproletario romano il cui stile di vita dei protagonisti era improntato alla necessità del sopravvivere giorno per giorno, anno dopo anno. Divenne una metafora di quella segmento povero dell'Italia che viveva e moriva disperato nelle periferie delle grandi città. Il film era nelle corde della tematica della Morante, che non si rifiutò alla proposta di Pasolini, amico di una vita. Il film fu presentato alla 26ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia ma ricevette dure contestazioni. Alla Prima del film al cinema Barberini a Roma, ci furono disordini e colluttazioni (il film venne poi bloccato dalla censura e fu ritirato da tutte le sale italiane).

Nel 1963 Morante pubblicò la seconda raccolta di racconti Lo scialle andaluso (che includeva l'omonimo racconto uscito su Botteghe Oscure nel 1953) e nel 1968 diede alle stampe Il mondo salvato dai ragazzini, una moderna miscellanea di poesia, dramma, canzone, satira, dialoghi e manifesto ideologico ma «l'elemento unificante di tanta disparità espressiva è una sorta di tensione vitalistica che libera i fantasmi della sofferenza claustrale nel credo quasi gioioso dell'anarchismo e del pauperismo, nella fiducia accordata ai “ragazzetti celesti”, ingenui portatori dell'unica possibile felicità, quella dell'innocenza astorica e divinamente barbarica.» (La nuova Enciclopedia della Letteratura, Garzanti, 1985). Ha scritto Francesco Troiano: «qui, sulla scorta della fiducia riposta nei “ragazzetti celesti”, celebra ancora l'utopia di un'esistenza svincolata da lacci e lacciuoli, inclusi quelli imposti dalle società strutturate, nei toni di un “anarchismo metastorico” (G.Fofi).».
(http://www.italica.rai.it/argomenti/grandi_narratori_900/morante/bibliografia.htm)
è stato osservato anche che: «Ne Il mondo Salvato dai ragazzini, la scrittrice accentuò i caratteri anarchici già presenti nei personaggi delle sue opere.»
(fonte: www.italiadonna.it, in http://www.riflessioni.it/enciclopedia/morante.htm).
Nella sua prefazione (Einaudi, Torino 2012), Goffredo Fofi ha scritto: «Un libro uscito in una data fatidica, il 1968, che ha accompagnato una stagione della società italiana segnata dalla volontà di profondo rinnovamento politico e morale. Un libro di grandi slanci, anche formali. Non c'è nulla nella tradizione letteraria italiana che gli assomigli anche lontanamente. […] Un inno all'adolescenza, alla sua energia e alla sua bellezza come visione politica per cambiare il mondo. Per questo è il libro che concentra e riassume tutti gli altri libri di Elsa Morante.».

Nel 1974 uscì La Storia, ambientata a Roma durante la Seconda Guerra Mondiale (dedicherò a questo vero capolavoro letterario un articolo a parte).

L'ultimo romanzo, Aracoeli, fu pubblicato nel 1982, e nel 1984 le meritò il Prix Médicis. William Weaver, che aveva già tradotto La storia, tradusse anche Aracoeli, facendo conoscere questi due superbi romanzi negli Stati Uniti e nel mondo anglosassone. Dedicherò ad Aracoeli un articolo a parte.

Negli ultimi anni della sua esistenza iniziò un buio periodo di sofferenze, povertà, solitudine e rifiuto del declino estetico e fisico provocato dagli anni. Una frattura al femore e un successivo intervento chirurgico innescarono una serie tale di complicanze e malattie da lasciarla a letto senza poter più camminare e da farle tentare il suicidio nell'aprile del 1983 aprendo i rubinetti del gas (fu salvata in extremis da una domestica). Morì nel 1985 per una complicanza ischemica cardiaca dopo un secondo intervento chirurgico e un lungo coma.

Furono pubblicati postumi, raccolti a cura di Irene Babboni e di Carlo Cecchi, i Racconti dimenticati che riprendevano molti racconti, dodici brevi aneddoti infantili, e una storia inedita dal titolo Peccati. Carlo Cecchi e Cesare Garboli curarono, inoltre, i due volumi di Opere (Mondadori "I Meridiani", Milano 1988-90).

La Morante, che da «narratrice nata» aveva offerto tutta la sua esistenza alla letteratura (http://www.italialibri.net/autori/morantee.html), fu anche una colta e appassionata saggista. Ricordiamo: Diario 1938, in cui – registrando il meglio e il peggio della sua tormentata relazione con Alberto Moravia emergevano «le sue personali e familiari inquietudini, il suo appassionato gusto della finzione» (http://www.italialibri.net/autori/morantee.html), oltre a «una serie di annotazioni sull'incapacità della scrittrice di trovare la felicità e la pace»
(fonte: www.italiadonna.it, in http://www.riflessioni.it/enciclopedia/morante.htm).
Vi scriveva: «Che il segreto dell'arte sia qui? Ricordare come l'opera si è vista in uno stato di sogno, ridirla come si è vista, cercare soprattutto di ricordare. Ché forse tutto l'inventare è ricordare.» (Roma, 23 gennaio 1938, a cura di Alba Andreini, Einaudi, Torino 1989). Fu seguito a pochi mesi di distanza da Paragone (un secondo diario che partiva dal 1952). Scrisse in seguito: Il poeta di tutta la vita (1957) dedicato a Umberto Saba; Sul romanzo (1959); Sull'erotismo in letteratura (1961); Navona mia (1962); Pro o contro la bomba atomica (1965), saggio scritto sulla spinta di un forte coinvolgimento nelle inquietudini del momento – vi scriveva: «Una delle possibili definizioni giuste di scrittore, per me sarebbe addirittura la seguente: un uomo cui sta a cuore tutto quanto accade, fuorché la letteratura.» –, e Il beato propagandista del Paradiso (1970) dedicato al Beato Angelico.

La scrittrice Silvia Avallone (autrice dello strepitoso romanzo d'esordio Acciaio, Rizzoli 2010), che durante la stesura della sua tesi fu molto vicina a Elsa Morante, scrisse di lei: «Abbiamo tutti bisogno di maestri, se vogliamo conquistarci un'identità nostra. […] Io ho scelto Elsa Morante […] Una persona difficile, che non è mai diventata mamma e nei suoi romanzi ha sempre riversato l'ossessione della maternità rimpianta; un carattere ribelle, che non ha preso partito, perché il suo folle amore per il mondo non poteva che essere anarchico, utopico e morboso. Uno scrittore che non ha piegato la letteratura a secondi fini, che non ha mai sincronizzato il tempo della scrittura con il tempo dei media e del mercato. Una fanatica della parola letteraria, un romanziere assoluto, una strega ritirata ed eccentrica, un'artista ambiziosa, atrocemente libera. Insomma, una cattiva maestra perché una maestra impossibile. […] Quattro romanzi in una vita, due raccolte di poesie, due racconti. La Morante non ha mai voluto lasciarsi condizionare dal tempo, che detestava. L'unica cosa che le faceva davvero orrore era la vecchiaia, doversi ritrovare lei – eterna ragazza – nel corpo sformato e raggrinzito di una vecchia. Ma sapeva che le parole, loro, sono sempre adolescenti. E che i suoi libri non sarebbero invecchiati mai.»
(http://lettura.corriere.it/la-mia-elsa-morante-incendiaria/).


Radio3 sta festeggiando il centenario della nascita di Elsa Morante dedicandole, a partire dal 4 giugno, un ciclo del programma “Ad alta voce”, dal lunedì al venerdì alle ore 17. Gli attori Iaia Forte, Sandro Lombardi e Maria Paiato rendono omaggio alla grande scrittrice romana, tracciando a ritroso il percorso letterario della Morante attraverso la lettura dei tre suoi capolavori: Aracoeli, La Storia e L’isola di Arturo. In settembre saranno presentate, inoltre, opere teatrali, letture, esperienze artistiche e sociali ispirate alla scrittrice (vedere su Repubblica, 4 giugno 2012).