lunedì 3 giugno 2013

Sofocle, Edipo re, teatro greco di Siracusa e la regia di Daniele Salvo


Immagini da Edipo re, per la regia di Daniele Salvo

Alternandosi con la tragedia di Sofocle, Antigone diretta da Cristina Pezzoli, e con la commedia di Aristofane Donne al parlamento, diretta da Vincenzo Pirrotta, dall'11 maggio al 23 giugno, presso il Teatro Greco di Siracusa, si rappresenta Edipo re, per la traduzione di Guido Paduano e per la regia di Daniele Salvo, con Daniele Pecci (Edipo re), Laura Marinoni (Giocasta), Maurizio Donadoni (Creonte, fratello di Giocasta), Ugo Pagliai (l'indovino Tiresia), Mauro Avogadro (Servo di Laio e Sacerdote) e Francesco Biscione (primo Nunzio). Per il Coro, l'Accademia d'Arte del Dramma Antico della Fondazione Inda ha reso disponibili i suoi allievi del primo corso.

Il noto attore televisivo e cinematografico Daniele Pecci è un giovanile, bruno e vigoroso, Edipo re; ha confessato l'attore: «Per un attore teatrale Edipo è uno dei pilastri su cui poggiare la propria  carriera, un'occasione che capita una volta nella vita. […] Ho cominciato questo mestiere con il teatro classico. Debuttai, venticinque anni fa, proprio in un Edipo dove ero l'ultimo dei personaggi. Credo che l'Edipo re sia la più bella tragedia, il più grande personaggio. Sofocle è l'autore più potente, per me è un sogno che si realizza. […] Al cinema basta un primo piano per arrivare allo spettatore, puoi, in  un certo senso, permetterti di essere più passivo. Invece il teatro è una forma  attiva di recitazione. L'attore deve penetrare lo spazio e il tempo e imporsi  con una forza diversa. Con Daniele Salvo, il regista, non ci siamo posti l'obiettivo di essere originali a tutti i costi. Dopo la lettura del testo  abbiamo deciso di puntare sull'aspetto dispotico del personaggio, piuttosto che sul lato vittimistico, quasi precristiano. Quella di Edipo è una tirannide arcaica, violenta, ruvida. […] Ha una presenza fisica imponente, lo abbiamo dotato di atleticità e forza fisica. […] Come da copione il nostro Edipo è zoppo. […] Salvo ha molta esperienza, mi sono completamente affidato alla sua visione registica, l'ho seguito in tutto. […] Spero che sia un trionfo, che al pubblico piaccia il mio Edipo e che la produzione e il regista restino contenti"» (a cura di Livianna Bubbico,
http://www.repubblica.it/spettacoli/teatro-danza/2013/05/09/news/daniele_pecci_basta_soap_ora_faccio_edipo_a_siracusa-58416275/).

Il regista è l'emiliano Daniele Salvo (grande attore e in passato aiuto regista di Luca Ronconi), esperto di Sofocle, avendo già presentato nel 2009 Edipo a Colono (2009) con Giorgio Albertazzi e Aiace (2010) con Maurizio Donadoni (spettacolo per il quale è stato premiato con un Premio Golden Graal per la sezione dramma). Salvo ha sottolineato che «si tratta di una tragedia complessa basata molto sull’inconscio e dalla matrice prettamente  freudiana» e ha precisato di aver voluto lavorare molto «sulla credibilità, sulla verità profonda del testo».

In una sua intervista rilasciata durante le prove dello spettacolo, con riferimento a Sofocle, Daniele Salvo ha detto: «È un autore molto interessante, molto complesso e che si presta a interpretazioni molto estreme e differenziate.»; ha precisando inoltre di aver voluto fare di “Edipo re” una «versione molto poco ortodossa», simile alle «visioni anamorfiche» dei quadri di Salvador Dalì o di Holbein, allineando dentro il testo «due o tre interpretazioni diverse» e lasciando agli spettatori la possibilità di sceglierne una. Salvo ha accennato a una «Tebe omertosa» e a un'«ambiguità del testo» (tutti fingono di non sapere nulla ma in realtà tutti, inclusi Edipo e Giocasta, seppure inconsciamente, sanno), e al suo desiderio di condurre lo spettatore al centro di un incubo, al centro di un sogno che ha la dimensione freudiana di un'auto-analisi. Spinto dagli oracoli, Edipo va alla ricerca di sé, nel tentativo di scoprire il mistero dell'uomo ma il mistero dell’uomo in realtà non viene risolto (in modo onirico Salvo usa lo spettro della sfinge per dimostrare che non è stata sconfitta) ed Edipo soltanto alla fine, nel dolore e nella sofferenza, conquisterà la consapevolezza. Parlando di Pecci, il suo protagonista, ha detto Daniele Salvo: «con Daniele io intendevo fare un Edipo molto giovane, un Edipo molto dinamico», che ha con la madre - ancora molto femminile - un rapporto sensuale. Ha anche focalizzato nello spettacolo teatrale al Teatro Greco «la ricerca recitativa», l'importante «rapporto con la musica» e la sua collaborazione con Marco Podda, «uno scienziato che studia gli effetti del suono sulla psiche umana», ponendo la musica al servizio del linguaggio in un coinvolgimento emotivo di tutto il pubblico, che a Siracusa è quanto mai eterogeneo. Ha concluso Salvo: «Tutti gli artisti impegnati qui stanno portando la loro forza, la loro dedizione, la loro fatica, perché appunto si prova tantissime ore, di notte, al Teatro Greco, con il massimo impegno»
(http://www.teatro.org/rubriche/interviste/daniele_salvo_dirige_l_edipo_re_di_sofocle_per_la_stagione_2013_dell_inda_36791).

Gerardo Marrone, nel suo articolo “Edipo Re torna a far vibrare il teatro greco di Siracusa”, così scrive: «L'inesorabile onnipotenza del Fato, la forza devastante della verità, la precarietà della condizione umana. La Tragedia greca, insomma. O quella “summa” scritta da Sofocle, l'Edipo Re, che ieri è tornata a far vibrare la platea del teatro antico di Siracusa. […] Allestimento coinvolgente, dai ritmi sempre elevati e dall'imponente scenografia, questo Edipo Re per la regia di Daniele Salvo. […] Potente la prova di Ugo Pagliai che è il vecchio Tiresia, efficace il protagonista Daniele Pecci, suggestiva Melania Giglio nello Spettro della Sfinge» (http://www.gds.it/gds/multimedia/home/gdsid/260537/.

L'Edipo re, ritenuta il capolavoro di Sofocle, ebbe la sua prima assoluta nel 430-420 a.C. circa, presso il Teatro di Dioniso in Atene. La tragedia è inserita nel “ciclo tebano” (la storia mitologica della città di Tebe) e la ben nota è la drammatica vicenda, come ben noto è l'amaro destino di Edipo, figlio del sovrano di Tebe, Laio, e di Giocasta, destinato dal fato a uccidere il padre e a sposare la madre. Allertato da un oracolo, Laio decide la morte del figlio neonato ma un servo lo salva, abbandonandolo sul monte Citerone, ove sarà nutrito da un pastore e adottato dal re di Corinto. Dopo molte prove il destino si realizza e, senza saperlo, Edipo uccide il padre sconosciuto per via e sposa Giocasta, rendendola madre di quattro figli. Con orrore Edipo scoprirà, in un sol giorno, di avere ucciso inconsapevolmente il padre e di averne sposata la vedova (che, sconvolta, si uccide per il dolore, il rimorso e la vergogna). Tramortito dalla rivelazione, Edipo si acceca e, accettando l'esilio, si muove verso Colono lungo un tragico percorso di espiazione (i brani della tragedia da me citati sono tratti dalla versione di Ettore Romagnoli, ved.  http://www.filosofico.net/edipresofocle42.htm).

La scena si svolge sulla piazza dinanzi alla reggia d'Edipo mentre una grande moltitudine di gente, bambini, giovani e vecchi, si aduna dinanzi alla reggia, portando rami avvolti da bende di lana e lamentandosi. Sulla soglia della reggia appare Edipo, che è divenuto l'amato re Tebe perché ha saputo rispondere correttamente all’enigma della Sfinge, liberando la città dal terribile mostro saggio ma devastante. Nel Prologo Edipo si trova a dover combattere una tremenda pestilenza che affligge Tebe: «[…] / perché veniste? Per pregare? O quale / terror vi spinse? Ad ogni modo io voglio / darvi soccorso: se di tante preci / non sentissi pietà, non avrei cuore!». Il Sacerdote così lo informa: «[…] La città, / come tu stesso ben lo vedi, troppo / è già sbattuta dai marosi, e il capo / più non riesce a sollevar dal baratro / del sanguinoso turbine: distrutti / i frutti della terra ancor nei calici: / distrutti i bovi delle mandrie, e i parti / delle donne, che a luce più non giungono: / e il dio che fuoco vibra, l'infestissima / peste, su Tebe incombe, e la tormenta, / e dei Cadmèi vuote le case rende: / sì ch'Ade negro, d'ululi e di pianti / opulento diviene. […] / […] Or, tutti vòlti, / Èdipo, a te, che sommo sei nell'animo / di tutti, or ti preghiamo: per noi trova / qualche soccorso: […] / […] Or via, sommo fra gli uomini, / rimetti in piedi Tebe! A lei provvedi!». Edipo, che soffre al pari del suo popolo  e che ha versato molte lacrime, ha mandato Creonte, il fratello della regina Giocasta, a interrogare l’oracolo di Delfi sulle cause di quell'orrenda epidemia: «[…] mio cognato, il figlio / di Menecèo, Creonte all'are pitiche / mandai d'Apollo, a chiedere che debba / io fare o dire a salvazion di Tebe. / […]». Al suo ritorno, Creonte informa che la città è stata contaminata per l'uccisione di Laio, il precedente re di Tebe, rimasta invendicata ed Edipo si scaglia minaccioso contro l'ignoto responsabile: «Il bando; o riscattar sangue con sangue: / ché sangue sparso la città travaglia. / […] / Apollo chiaramente ora c'impone / gli assassini punir, quali che siano.». Nel tempo in cui Tebe era sotto l'incubo della Sfinge, Laio era voluto andare a Delfi ma lungo la strada era stato assalito da briganti; il suo assassino vive però ancora nella città, la cui prosperità non è più possibile se non identificando ed esiliando il colpevole. Edipo si dice pronto a tutto per ritrovare l'assassino di Laio.

Ventiquattro vegliardi entrano con lenti passi ritmici e misurati nel canto, e si collocano intorno all'altare di Diòniso. Il Coro degli anziani tebani, canta una preghiera agli dei perché intervengano per proteggere la città. Durante le ultime parole del Coro, Edipo esce dalla reggia, esigendo che chi sa parli: «Fra i cittadin di Tebe ultimo io giunto, / a voi tutti, o Cadmèi, questo proclamo. / Chi di voi sa da quale man fu spento / Laio, il figlio di Làbdaco, gl'impongo, / che tutto a me disveli. E se l'accusa / contro se stesso alcun per tema asconde, /   sappia che nessun male ei patirà, / e illeso andrà da questo suolo in bando.». Proclama un per chi ha ucciso Laio e per chi protegga o nasconda l'assassino un bando d'esilio: «Questo a voi tutti che facciate impongo, / per me stesso, pel Dio, per questa terra / senza più frutti, senza Iddii perduta. / […] / […] Ed or, poi che le redini / ch'ei già reggeva, io reggo, ed il suo letto / posseggo, e la sua donna; e i figli miei / comuni avrei coi figli suoi, concetti / da un medesimo grembo, ove il suo talamo / fosse stato fecondo - ma su lui / balzò la mala sorte: - ora per lui / come pel padre mio combatterò, / ogni via correrò, tentando cogliere / chi le man tinse nel sangue di Laio.».

Il Coro suggerisce al re d'interrogare Tiresia: «So che Tiresia ciò che vede Apollo / anch'egli vede: oh sire, chi l'interroghi, / ben chiaro può saper tutto ch'ei brami.». Ed entra Tiresia, vecchissimo e cieco, guidato per mano da un bimbo; a lui il re vuol chiedere di svelare l'identità dell’assassino. Egli però si rifiuta di rispondere, perché ritiene più saggio tacere per non provocare altre terribili sventure: «Ahi, ahi! Sapere quanto è duro, quando / a chi sa nulla giova! Io ben sapevo, / ed obliai. Venir qui non dovevo. / […] / Lasciami andare! Ci sarà più facile / compier così tu ed io la nostra sorte. / […] / E tutti siete dissennati! I mali / miei non dirò: ché i tuoi svelar dovrei! / […] / Né te né me crucciare voglio. A che / dimandi invano? Io nulla ti dirò. / […] / Oltre non parlerò! Sappilo, e accenditi, / […] / sin che tu vuoi, dell'ira più selvaggia.». . Edipo si adira e ordina a Tiresia di parlare. ma il vecchio si rifiuta, facendo aumentare la collera del re. A questo punto Tiresia accusa Edipo di essere l’assassino di Laio:  «Davvero? Io d'obbedir t'intimo al bando / ch'hai promulgato, e che da questo giorno / non rivolga parola a me né a questi: / ché tu di Tebe sei l'empia sozzura.». Il re è indignato oltremisura e gli dice che non potrà salvarsi da quell'accusa ma Tiresia gli risponde: « Salvo già sono! È la mia forza il vero. / […] / Dico che tu sei l'uccisor che cerchi. / […] / Coi tuoi più cari in turpe intimità / vivi, e nol sai: né il male ove sei scorgi.».

Indignato Edipo accusa Tiresia: «cieco di mente sei, d'occhi e d'orecchi / […] / Tutta una notte è la tua vita: e me / danneggiare non puoi, né alcun veggente.». Egli comincia a sospettare che Creonte e Tiresia abbiano ordito una trama diabolica per buttarlo via dal trono e che Creonte occultamente manovri Tiresia: «questo stregone, cucitor d'insidie, / ciurmador frodolento, che ben vede / solo nel lucro, e che nell'arte è cieco!». Tiresia se ne va, profetizzando che alla fine di quello stesso  giorno il colpevole verrà scoperto e che come un mendicante cieco si allontanerà in esilio verso una terra straniera: «E poi che tu vituperi la mia / cecità, parlerò. Tu aperti hai gli occhi, / eppur non vedi in che sciagure sei, / né dove abiti, né chi sono quelli / che vivono con te. Dimmi: sai forse / da chi sei nato? Dei tuoi cari, o vivi / sopra la terra, o già sotterra, tu / sei l'inimico, e non lo sai. / […] / […] Ora parto, e ti dico: / l'uom che cercando vai, spacciando bandi / per la morte di Laio, e minacciando, / quell'uom è qui: metèco e forestiero, / ora si crede; e invece si vedrà / ch'egli è tebano: né di tal ventura / s'allegrerà: ché, da veggente fatto / cieco, da ricco povero, tentando / il suolo col bordone, andrà fuggiasco / sovra terra straniera; e si vedrà / che vive insiem coi figli suoi, fratello / e padre, insieme con la donna ond'egli / nacque, figliuolo e sposo; e ch'è del padre / suo l'assassino, e nel suo solco semina.».

Tiresia si allontana ed Edipo rientra nella reggia. Il Coro prima immagina la fuga dell'«ignoto assassino», inseguito sia dagli uomini sia da Giove e dalle Parche, ma poi decide di non ascoltare le parole di Tiresia, poiché non è infallibile nemmeno il grande indovino. Si presenta Creonte, che ha saputo che Edipo lo crede responsabile di una cospirazione, e appare Edipo che lo accusa apertamente e con toni sempre più violenti: Creonte si trovava a Tebe con Tiresia, quando Laio era stato ucciso: «Immaginavi tu ch'io non vedessi / strisciar la frode, o, vistala, indugiassi / a rintuzzarla? Ah! Ma fu pazza impresa / la tua, senza partito e senza amici / dar la caccia al poter, che si conquista / sol con molte dovizie e molta gente.». Con pacatezza Creonte gli risponde di non aver avuto mai interesse al trono: «Questo prima considera. Chi v'è / che comandare fra i terrori elegga, / piuttosto che dormir sonni tranquilli, / se uguale impero aver potrà? Non io, / né alcuno ch'abbia senno, eleggerà / esser sovrano, invece che potere / ciò che un sovrano può. Tutto or da te, / senza terrore, io ciò che bramo ottengo: / qualora io fossi re, contro mia voglia / dovrei pur fare molte cose. E come / chiamarmi re, più dolce mi sarebbe / che poter senza crucci? Oh tanto folle / non sono ancor, ch'io cerchi altro che il bene / con l'utile congiunto. Ora da tutti / son prediletto; ognuno a me s'inchina; / chi bisogno ha di te, blandisce me: / ché per essi impetrar tutto posso io. / Il mio stato col tuo perché mutare? / […] / […] Ma prima / ch'io mi difenda, non lanciar l'accusa / in causa ambigua; ché non è giustizia / reputar buoni i tristi, e tristi i buoni. / E gittar via l'amico fido, è come / gittar la propria, la diletta vita. / Col tempo d'ogni cosa avrai certezza: / ché solo il tempo saggia l'onestà: / a conoscere il tristo un giorno basta.».

A quel punto giunge dalla casa Giocasta, sorella di Creonte e vedova di Laio, ora moglie di Edipo, per mezzo della quale forse è possibile comporre lite: «O sciagurati, a che questa contesa / di parole, demente? E non v'è scorno, / mentre su Tebe tal malore incombe, / guai privati eccitare? Or tu, rientra: / e tu, Creonte, alla tua casa torna: / non rendete gigante un mal da nulla!». Giocasta invita il marito a non dare ascolto né a oracoli né a indovini: anche Laio aveva ricevuto una profezia che gli preconizzava l'uccisione da parte del figlio mentre era stato assassinato da alcuni banditi sulla strada per Delfi, là dove si incontravano tre strade: «[…] Un giorno, / giunse a Laio un oracolo, non dico / d'Apollo stesso, ma dei suoi ministri, / ch'era destino a lui spento morire / per man del figlio che da me nascesse. / E invece, lui, come ognun sa, l'uccisero / in un trivio i ladroni; ed il fanciullo, / non corsero tre dì dalla sua nascita, / e, avvinghiatigli i piedi alle giunture, / per mano d'altri, il padre lo gittò / su monte impervio. Ed Apollo non fece / né che quello uccisor del padre fosse, / né che dal figlio suo ciò che temeva / Laio patisse: e ciò pur decretavano / le profetiche voci. […]».

Nel sentir le parole di Giocasta, Edipo si sgomenta e chiede di poter sentire il testimone dell’omicidio di Laio, un servo che era riuscito a mettersi in salvo che adesso vive lontano da Tebe, pascendo le greggi nei campi. Alla regina, che chiede al marito la causa di quel turbamento, Edipo risponde raccontando che, quando era il principe ereditario di Corinto (figlio del re Polibo), l’oracolo di Delfi gli aveva predetto «miseri, atroci, orridi eventi»: «ch'io giacerei con mia madre, e darei / la vita ad una stirpe intollerabile / ad ogni gente; e diverrei del padre / ond'io m'ebbi la vita, l'assassino». Per evitare che la profezia potesse avverarsi con l'uccisione di Polibo, sconvolto, Edipo era fuggito lontano dalla terra corinzia ed era giunto a un trivio, sulla strada tra Delfi e Tebe: «Così, peregrinando, alla contrada / giunsi, ove dici che fu spento il re.». Lì aveva litigato con un uomo che lo aveva preso a randellate, uccidendolo. Temeva che quell'uomo fosse Laio: «[…] Or, se Laio / e lo straniero son tutt'uno, chi / più misero di me, più inviso ai Numi? / Niuno dei cittadini e niun degli ospiti / può ricevermi in casa o favellarmi, / ma mi deve scacciare. E lo scongiuro, / io, non già altri, contro me lanciai: /  io, con le mani mie che gli diêr morte, / il letto dell'ucciso ora contamino. / Ah, ch'io non vegga, oh reverenza somma / dei Numi, ah, ch'io non vegga un giorno simile! / Via sparisca dal mondo, anzi ch'io scopra / di sciagura su me macchia sì turpe!».

Il Corifeo invita Edipo a non arrivare a conclusioni affrettate, sentendo prima il pastore, testimone dell’omicidio: s'egli parla di molti ladroni e non di un solo uomo, Edipo sarà salvo! Edipo e Giocasta rientrano nella reggia e il Coro appare turbato dall'incredulità di Giocasta dinanzi agli oracoli e si lancia in un ammonimento contro coloro che non venerano gli dei e che pretendono di violare le leggi eterne degli dei: là ove gli uomini non riconoscono più la giustizia divina e cedono alla tracotanza, là si nasconde la tirannide del despota. Dalla reggia esce Giocasta, seguita dalle sue ancelle che recano fiori e cassette d'aromi da ardere sull'ara per Apollo: «Tu a noi matura qualche esito lieto, / ché noi, vedendo sbigottito l'uomo / che la nave reggea, tutti tremiamo.».

Giunge, intanto il messo da Corinto, un vecchio pastore, che si rivolge ai vecchioni del Coro, informandoli che Edipo diverrà re, perché Polibo è morto consunto dalla malattia («ché lo serra entro la tomba morte»). Giocasta manda l'ancella ad avvertire Edipo della notizia: «Ancella, e non t'affretti? Entra, e la nuova / reca al signore! - Oracoli del Nume, / dove siete? Da lungo tempo Edipo / quell'uom fuggiva trepidando sempre / che ucciderlo dovesse; e quegli or muore / naturalmente, e non per mano sua!». L'ancella etra in casa ed esce Edipo che si consola, apprendendo che il padre non è morto per mano sua: «Veh, veh, Giocasta! A che più la fatidica / fiamma di Pito consultare, e i gridi / degli uccelli, onde a me venne il presagio / che ucciderei mio padre! E questi or, morto / giace sotterra; ed io son qui; né arma / ho toccata - se pur non l'avrà spento / brama di me: ché per ciò solo, spento / da me dirlo potresti. Ed ora Pòlibo /  giace vicino all'Ade, ed i responsi / scemi d'ogni valore ha seco addotti.». Per quel che riguarda la profezia su sua madre («le nozze materne» con Mèrope, la consorte di Pòlibo), il messo rassicura Edipo, dicendogli che trema a torto perché i sovrani di Corinto non erano i suoi genitori naturali; infatti, erano senza figli ed Edipo è stato adottato, e il messo può testimoniarlo con certezza perché - pastore sul monte Citerone - proprio lui aveva ricevuto Edipo neonato da un servo di Laio e lo aveva portato a Corinto. A questo punto Edipo sente vicina la scoperta delle sue origini e convoca il servo di Laio, un mandriano che è lo stesso che avrebbe potuto testimoniare sull'assassinio di Laio. Giocasta, che ha ormai compreso tutta la verità, supplica Edipo di lasciar stare le sue ricerche ma non viene ascoltata: «Non cercar più, no, per gli Dei, se cara / t'è la tua vita! Il mal ch'io soffro basti! / […] / Dammi ascolto, ti prego! Non far ciò! / […] / So quel che dico! Il meglio io ti consiglio. / […] / Ah! chi tu sei, mai tu non sappia, o misero! / […] / Ah, sciagurato, sciagurato! Posso / dirti questo soltanto, e nulla più.». La donna esce disperata. Edipo desidera invece conoscere le sue origini: «Sarà quel che sarà! Ma ben voglio io / conoscere il mio sangue: e sia pur vile. / Essa, che, vera donna, è tutto orgoglio, / arrossirà della mia bassa nascita: / io non m'adonterò: figlio mi reputo / della Fortuna, che mi fu propizia.». Rientra nella reggia.

Il Coro è pieno d'esultanza perché Edipo sembra ormai vicino a conoscere le proprie origini, e celebra il monte Citerone «quale madre d'Edipo, quale nutrice e patria». Intanto arriva il vecchio mandriano, servo che «era, quanto altri mai fedele a Laio», atteso da Edipo con grande impazienza. Il re lo mette a confronto con il messo venuto da Corinto e lo tempesta di domande; il messo rammenta al mandriano che gli aveva dato un bimbo perché l'allevasse come suo e, accennando Edipo, osserva: «Questi è colui che allora era bambino». Il servo tergiversa e intima al messo di stare zitto ma ormai Edipo vuol sapere tutta la verità e lo pressa e lo minaccia. Il servo conferma allora di avere avuto il pargolo, figlio di Laio, dalla madre stessa con l'ordine del padre di ucciderlo, in quanto - in accordo con una profezia - il figlio avrebbe ucciso il padre (la stessa Giocasta avrebbe potuto confermarglielo). Per pietà il servo, però, non l’aveva ucciso e l’aveva invece consegnato al pastore che l’aveva portato a Corinto: «Per la pietà, mio re, ché ti portasse / in altra terra, nella terra sua! / E a più gran male ei ti salvò: ché misero / sei, se colui che questo dice, sei!». A questo punto l’intera vicenda è chiara e, pieno d'orrore, Edipo fugge entro la reggia urlando: «Ahimè, ahimè! Tutto è già chiaro! Luce! / In te m'affisi per l'ultima volta! / Ch'io da chi non dovea nacqui, convivo / con chi non devo, e ucciso ho il padre mio!».

Arriva il Coro degli anziani tebani che compiangono la triste sorte di Edipo, re stimato ma autore involontario di atti tremendi e orribili: «Or, chi di lui più misero? / Chi s'ebbe ugual retaggio, / nel tramutar del vivere, / di cordoglio selvaggio? / Edipo, inclito principe, / a qual porto fatale!, / a un letto nuzïale, / padre e figlio, sei giunto.». Non vorrebbero mai averlo conosciuto, tanto è spaventosa la pietà che suscita in loro la sua tragica vicenda: «Ahimè, figlio di Laio, / mai non t'avessi visto!».

Dalla reggia esce intanto un servo, che mostra i segni del più vivo terrore e che si rivolge al Coro, annunciando che Giocasta si è impiccata: «Giocasta, sangue dei re nostri, è spenta! / […] / Ella si uccise. Ma di ciò che avvenne / manca il più crudo: ché la vista manca. / Pur, quanto la memoria ancor mi vale, / i tormenti saprai di quella misera.». Dopo aver visto ciò, Edipo, schiantato, s'era accecato con la fibbia della sua veste: «[…] Ed ei, come la scòrse, / con un orrendo mugolo, meschino, / calò la salma appesa. E poi che a terra / giacque, vedemmo un orrido spettacolo. / Le fibbie d'oro onde sostegno avevano / le vesti della donna, svelse, ed alte / le sollevò su le pupille, e in queste / le conficcò, perché, disse, mai più / non vedessero i mali ond'ei fu reo, / né quelli che patì, ma d'ora innanzi, / solo nel buio in quelli si affiggessero / che non dovean veder, né conoscessero / chi conoscer bramavano. Così / impreca, ed una volta, e più, solleva / le palpebre, e le fora; e le pupille / sanguinolente bagnano le guance: / […] / Ahi! Fu l'antica / vera felicità; ma ora, gemiti, / morte, sciagura, vituperio, cerca / quanti nomi ha sciagura, e niuno manca.». Compare allora Edipo accecato, condotto per mano da un servo e accompagnato dalla lamentazione del Coro che racconta come abbia compiuto quell'atto perché non gli è dolce vedere nulla, dato che ormai è un uomo maledetto e aborrito dagli dei. Edipo si lagna di non esser morto bambino e maledice: «Muoia chi, sciolti dai selvaggi vincoli / i piedi miei, me trasse a salvamento, / e mi raccolse, ahimè, non pel mio bene! / Se quel giorno ero spento, / né a me né ai cari causa sarei di tante pene. / […] / Né l'uccisor sarei / del padre, e non direbbero / me di colei che madre ebbi, consorte.». Arriva adesso Creonte, tenendo per mano le due figliuole d'Edipo, Antigone ed Ismene, e - dinanzi alla disperazione di Edipo - lo invita a riporre la sua fiducia nel dio Apollo. Edipo abbraccia le sue bambine, piangendo sulla loro sorte infelice in quanto progenie di nozze incestuose: «Figlie mie, dove siete? Oh, qui venite, /  a queste mie mani fraterne: […] / […] / E per voi piango: e guardar non vi so, / pensando il resto dell'amara vita / che trascorrer fra gli uomini dovrete. / […] / Quale sciagura manca? Il padre vostro / fu del padre uccisore, il campo arò / ov'ei fu seminato, e n'ebbe figlie / dal grembo istesso ond'ei vide la luce. / Tale obbrobrio udirete. E chi sposarvi / vorrà? Nessuno, oh figlie! E senza nozze / e senza figli vi dovrete struggere. / […] / Or questo voto io fo per voi. Dovunque / conduciate la vita, oh, miglior sorte / a voi che al vostro genitore arrida.». Edipo chiede infine a Creonte di volerlo esiliare: «Presto da questa terra via discacciami, / dove niun sia che a me rivolga mente. / […] / Era già chiaro il suo responso: togliere / di mezzo me, l'impuro, il parricida. / […] / Via di qui scacciami.». Edipo lascia le figlie e Creonte lo conduce entro la reggia. E la tragedia finisce con il Coro che abbandona l'orchestra piangendo il destino di Edipo: «Or, mirando questo giorno luttuoso, non far stima / che beato sia veruno degli effimeri, se prima / scevro d'ogni orrido male - non sia giunto al dì fatale.».

Il Fato cieco e inesorabile ha rivelato l'estrema fragilità dell’esperienza umana ed Edipo è passato dall'apice dell'amore del suo popolo e del potere al fondo dell'abiezione più bassa, nonostante abbia fatto tutto il possibile per contrastare la profezia, abbandonando gli amati genitori e cambiando vita e città. E questo conflitto tra predestinazione (e volontà divina) e tra libertà (e responsabilità personale), quest'antitesi magia-tabù ancestrali e razionalità-intelligenza rende più amara la tragedia! Infatti a nulla servono tutte le precauzioni di Edipo e il passaggio dalla felicità all'infelicità avviene inevitabilmente, senza malvagità ma per errore, anche se può cogliersi in Edipo una superba tracotanza nel voler arrivare alla conoscenza, al di là di certi limiti invalicabili. Ed Edipo si acceca perché Tiresia, attraverso la sua cecità, riusciva a vedere il Vero mentre Edipo, attraverso i suoi occhi, era riuscito a vedere soltanto illusioni e falsità.

Questa tragedia è servita allo psicoanalista Sigmund Freud per spiegare il complesso di Edipo, cioè la pulsione di possesso e sessuale del bambino per la madre e l'inconscio desiderio di morte e di sostituzione nei confronti del padre.

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