lunedì 8 aprile 2013

Catullo e un umiliante amore senza speranza


Gaio Valerio Catullo


Catullo è il primo dei grandi poeti latini e per definizione il poeta dell’Amore, ispirato come fu dalla passione per Lesbia (Clodia, sorella del tribuno Clodio) che era divenuta sì il centro e la sostanza della sua poesia ma che aveva fatto di lui un amante infelice e perennemente umiliato.

Quasi tutti conosciamo molto bene le tre deliziose poesie riportate, perché le abbiamo lette e tradotte a scuola (tratte da: Le Poesie” nella traduzione di Mario Ramous, Garzanti, Milano 1996).

Poesia 3
Pianga Venere, piangano Amore
e tutti gli uomini gentili:
è morto il passero del mio amore,
morto il passero che il mio amore
amava più degli occhi suoi.
Dolcissimo, la riconosceva
come una bambina la madre,
non si staccava dal suo grembo,
le saltellava intorno
e soltanto per lei cinguettava.
Ora se ne va per quella strada oscura
da cui, giurano, non torna nessuno.
Siate maledette, maledette tenebre
dell’Orco che ogni cosa bella divorate:
una delizia di passero m’avete strappato.
Maledette, passerotto infelice:
ora per te gli occhi, perle del mio amore,
si arrossano un poco, gonfi di pianto.

In questa poesia il poeta è triste per la tristezza di Lesbia, che ha perso il suo passerotto tanto amato; la perdita dell’uccellino diviene un motivo di riflessione sulla morte: la strada oscura dalla quale nessuno ritorna, le tenebre maledette che divorano ogni cosa bella. è probabile che Catullo presentisse la sua fine prematura (morì intorno ai trent’anni).

Poesia 6
Godiamoci la vita, mia Lesbia, l’amore,
e il mormorio dei vecchi inaciditi
consideriamolo un soldo bucato.
I giorni che muoiono possono tornare,
ma se questa nostra breve luce muore
noi dormiremo un’unica notte senza fine.
Dammi mille baci e ancora cento,
dammene altri mille e ancora cento,
sempre, sempre mille e ancora cento.
E quando alla fine saranno migliaia
per scordare tutto ne imbroglieremo il conto,
perché nessuno possa stringere in malie
un numero di baci così grande.

I versi di questa poesia sono bellissimi e molto copiati, e questi versi di Catullo hanno ispirato il titolo del libro Dammi mille baci. Veri uomini e vere donne nell’antica Roma (Feltrinelli, Milano 2009) di Eva Cantarella, professore ordinario di Istituzioni di Diritto romano presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Milano (ove insegna anche Diritto greco antico) ed esperta di morale e comportamenti sessuali dei romani. Eva Cantarella è però anche esperta di amore e costumi sessuali nei greci (L’amore è un Dio. Il sesso e la polis, Feltrinelli, Milano 2009). Di baci, ha scritto in modo mirabile un poeta “maledetto” che ha saputo comporre grandi e tenere poesie d’amore, il francese Paul Verlaine (1844-1896), legato da una tempestosa relazione ad Arthur Rimbaud (1854-1891), altro poeta maledetto dalla vita dissoluta ma dai caldi sentimenti (avventuriero, commerciante d’armi e forse di schiavi in Africa), morto giovane dopo un’atroce malattia e l’amputazione di una gamba. Il loro rapporto tormentato si concluse con due colpi di pistola sparati contro Arthur da un Verlaine completamente impazzito, che per questo atto di violenza subì l’onta della galera (dovette scontare due anni di carcere). Verlaine ha composto la poesia Il bacio, della quale riporto alcuni versi: «Bacio! rosa malva nel giardino delle carezze! / […] / Sonoro e grazioso, Bacio, divino Bacio! / Voluttà incomparabile, ebbrezza inenarrabile! / […] / Io, povero trovatore di Parigi, posso soltanto / offrirti questo mazzetto di strofe infantili: / sii benevolo e, come premio, sulle scherzose labbra / di Una che conosco, Bacio, scendi e ridi!» (da Poesie, traduzione di Lanfranco Binni, Garzanti, Milano 1993).

Poesia 8
Povero Catullo, basta con le illusioni:
se muore, credimi, ogni cosa è perduta.
Una fiammata di gioia i tuoi giorni
quando correvi dove lei, l’anima tua voleva,
amata come amata non sarà nessuna:
nascevano allora tutti i giochi d’amore
che tu volevi e lei non si negava.
Una fiammata di gioia quei giorni.
Ora non vuole più: e tu, coraggio, non volere,
non inseguirla, come un miserabile, se fugge,
ma con tutta la tua volontà resisti, non cedere.
Addio, anima mia. Catullo non cede più,
non verrà a cercarti, non ti vorrà per forza:
ma tu soffrirai di non essere desiderata.
Guardati, dunque: cosa può darti la vita?
Chi ti vorrà? a chi sembrerai bella?
chi amerai? da chi sarai amata?
E chi bacerai? a chi morderai le labbra?
Ma tu, Catullo, resisti, non cedere.

Questa terza poesia di Catullo esprime tutto il tumulto dei sentimenti provocato nel poeta dall’abbandono da parte di Lesbia e dall’atroce delusione per l’amore perduto: la passione è stata come una «fiammata di gioia», ha inondato i giorni del poeta e Lesbia «amata come amata non sarà nessuna», da chi sarà baciata o chi amerà o chi bacerà giacché il suo vero amore ormai è lontano? Le continue offese di Lesbia costringono Catullo ad amarla sempre di più ma ne spengono l’affetto e il rispetto, ed egli chiede ai suoi Dei di rendere fermo il suo animo per far cessare la lunga e nefasta passione (che chiama «orribile morbo») e per fargli smettere di vivere in quella pena vergognosa.

Attraverso gli sprazzi autobiografici dei suoi carmi, è possibile la ricostruzione ideale della breve vita del poeta. Catullo nacque da una benestante e autorevole famiglia nell’87 a.C. (ma forse piuttosto nell’84 a.C.) in provincia di Verona, ove espletò gli studi e compose le prime liriche. Si spostò quindi a Roma, che divenne la sua seconda patria e che lo attrasse per la ricca vita intellettuale e per la sfrenata mondanità. Ricco, bello, colto ed elegante, fu un vero play-boy dell’antichità, aperto ai tanti amanti di entrambi i sessi (per esempio il bel giovinetto Giovenzio). La sua vita mutò radicalmente quando conobbe Clodia e non rimase nient'altro che lei. Era una delle tre sorelle di Publio Clodio e moglie di Quinto Metello Celere (che forse avrebbe avvelenato). Soprannominata Lesbia da Lesbo, l’isola dell’amore, coinvolse Catullo in una passione esclusiva e dolorosa, scandita da insulti, separazioni e riconciliazioni. Clodia tradì e umiliò Catullo che tentò di resisterle e di rassegnarsi. Nella poesia 11 Catullo scriveva: «Furio e Aurelio, fedeli compagni di viaggio / di Catullo […] / alla donna che amo riferite per me queste poche / e amare parole. Viva pure felice e si goda i suoi trecento amanti / che insieme è capace di stringere a sé tra le braccia / senza amarne nessuno davvero, e a vicenda fiaccando / le reni di tutti; / né si curi, come un tempo faceva, di questo mio amore, / che è caduto per colpa di lei come un fiore / sul ciglio di un prato non appena il suo stelo è reciso / dall’aratro che passa.».

Il suo allontanamento dall’amata, provocò il tramonto di Catullo, precipitato ulteriormente dal dolore per la morte del fratello, cui era legatissimo. Sulla sua tomba volle scrivere: «Venuto fra tante distese di genti e di acque, ti reco, o fratello, l’offerta di un rito dolente per rendere l’omaggio supremo dovuto alla morte per dire vane parole al tuo cenere muto, poiché la fortuna mi tolse la tua umana presenza, sventurato fratello a me ingiustamente rapito. […]». E alla morte del fratello e alla visita della sua tomba presso il promontorio Reteo, in Bitinia, dedicò due carmi commoventi (il 68 e il 108), nei quali piangendo salutava il fratello e seppelliva con la sua morte ogni sua speranza di possibile felicità per il futuro (per la composizione del sonetto In morte del fratello Giovanni, Ugo Foscolo trasse ispirazione proprio dal carme 108). Nelle Nugae, il poeta romano raccontò ancora la storia del suo amore infelice e in una elegia epistolare (l’unica rimasta) rivisse la primavera del suo sentimento per Clodia.

Catullo morì giovanissimo a Roma nel 54 a.C., distrutto dalla tubercolosi e dalla malinconia. Di lui restano 116 Carmi, raccolti dopo la sua morte e comprendenti 60 poesie di metrica varia, due epitalami (componimenti in lode degli sposi), due poemetti mitologici e 52 tra elegie e brevi poesie in distici elegiaci.

Uomo sensibilissimo, ellenizzante nel suo ispirarsi ai lirici greco–alessandrini, fu però originale nell’usare con sapiente abilità nuove metriche e più audaci forme poetiche. I critici lo pongono a cavallo tra la poesia arcaica e quella classica moderna. Interprete di forte individualismo, nelle sue liriche tenere e appassionate trasfuse tutta la sua vicenda umana e la sua travagliata intimità, influenzando non poco altri importanti poeti, quali Orazio e Virgilio. Non si occupò mai di politica (dalla quale era addirittura disgustato), sebbene bruciasse di sdegno per le vergogne pubbliche del tempo. Da poeta distaccato e intimista, scrisse sempre e soltanto di sé e per sé, con verità di sentimenti e con integrità umana, trattando temi di grande libertà, quasi eversivi nel loro essere in rottura con i costumi del tempo.

Il letterato e critico fiorentino Guido Mazzoni (18591943), ottimo traduttore di Catullo, definì il poeta come «uomo tra uomini, romano tra romani, ma con vivezza gallica […] artista sovrano […] forse il più “moderno”, il più “nostro”, per la materia e per gli spiriti, umanamente, fra tutti gli antichi poeti». Il critico catanese Concetto Marchesi (18781957) sosteneva invece che Catullo aveva fatto entrare nella poesia l’uomo («homo»), facendone uscire il cittadino («civis»).

Nessun commento:

Posta un commento