Gaio Valerio Catullo
Catullo è il primo dei grandi poeti latini e
per definizione il poeta dell’Amore, ispirato come fu dalla passione per Lesbia
(Clodia, sorella del tribuno Clodio) che era divenuta sì il centro e la
sostanza della sua poesia ma che aveva fatto di lui un amante infelice e perennemente
umiliato.
Quasi tutti conosciamo molto bene le
tre deliziose poesie riportate, perché le abbiamo lette e tradotte a scuola
(tratte da: “Le Poesie” nella traduzione di
Mario Ramous, Garzanti, Milano 1996).
Poesia
3
Pianga
Venere, piangano Amore
e tutti
gli uomini gentili:
è morto
il passero del mio amore,
morto il
passero che il mio amore
amava più
degli occhi suoi.
Dolcissimo,
la riconosceva
come una
bambina la madre,
non si
staccava dal suo grembo,
le
saltellava intorno
e
soltanto per lei cinguettava.
Ora se ne
va per quella strada oscura
da cui,
giurano, non torna nessuno.
Siate maledette,
maledette tenebre
dell’Orco
che ogni cosa bella divorate:
una
delizia di passero m’avete strappato.
Maledette,
passerotto infelice:
ora per
te gli occhi, perle del mio amore,
si
arrossano un poco, gonfi di pianto.
In questa
poesia il poeta è triste per la tristezza di Lesbia, che ha perso il suo
passerotto tanto amato; la perdita dell’uccellino diviene un motivo di
riflessione sulla morte: la strada oscura dalla quale nessuno ritorna, le
tenebre maledette che divorano ogni cosa bella. è probabile che Catullo presentisse la sua fine prematura
(morì intorno ai trent’anni).
Poesia
6
Godiamoci
la vita, mia Lesbia, l’amore,
e il
mormorio dei vecchi inaciditi
consideriamolo
un soldo bucato.
I giorni
che muoiono possono tornare,
ma se
questa nostra breve luce muore
noi
dormiremo un’unica notte senza fine.
Dammi
mille baci e ancora cento,
dammene
altri mille e ancora cento,
sempre,
sempre mille e ancora cento.
E quando
alla fine saranno migliaia
per
scordare tutto ne imbroglieremo il conto,
perché
nessuno possa stringere in malie
un numero
di baci così grande.
I versi di questa poesia sono bellissimi e molto
copiati, e questi versi di Catullo hanno ispirato il titolo del libro Dammi
mille baci. Veri uomini e vere donne nell’antica Roma (Feltrinelli,
Milano 2009) di Eva Cantarella, professore ordinario di Istituzioni di Diritto
romano presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Milano (ove
insegna anche Diritto greco antico) ed esperta di morale e comportamenti
sessuali dei romani. Eva Cantarella è però anche esperta di amore e costumi
sessuali nei greci (L’amore è un Dio. Il sesso e la polis,
Feltrinelli, Milano 2009). Di baci, ha scritto in modo mirabile un poeta “maledetto” che ha saputo comporre grandi e tenere poesie d’amore, il francese
Paul Verlaine (1844-1896),
legato da una tempestosa relazione ad Arthur Rimbaud (1854-1891), altro poeta
maledetto dalla vita dissoluta ma dai caldi sentimenti (avventuriero,
commerciante d’armi e forse di schiavi in Africa), morto giovane dopo un’atroce
malattia e l’amputazione di una gamba. Il loro rapporto tormentato si concluse
con due colpi di pistola sparati contro Arthur da un Verlaine completamente
impazzito, che per questo atto di violenza subì l’onta della galera (dovette scontare
due anni di carcere). Verlaine ha composto la poesia Il bacio, della quale
riporto alcuni versi: «Bacio!
rosa malva nel giardino delle carezze! / […] / Sonoro e grazioso, Bacio, divino Bacio! / Voluttà incomparabile,
ebbrezza inenarrabile! / […]
/ Io, povero trovatore di Parigi, posso soltanto / offrirti questo mazzetto di
strofe infantili: / sii benevolo e, come premio, sulle scherzose labbra / di
Una che conosco, Bacio, scendi e ridi!» (da Poesie, traduzione di
Lanfranco Binni, Garzanti, Milano 1993).
Poesia
8
Povero
Catullo, basta con le illusioni:
se muore,
credimi, ogni cosa è perduta.
Una
fiammata di gioia i tuoi giorni
quando
correvi dove lei, l’anima tua voleva,
amata
come amata non sarà nessuna:
nascevano
allora tutti i giochi d’amore
che tu
volevi e lei non si negava.
Una
fiammata di gioia quei giorni.
Ora non
vuole più: e tu, coraggio, non volere,
non
inseguirla, come un miserabile, se fugge,
ma con
tutta la tua volontà resisti, non cedere.
Addio,
anima mia. Catullo non cede più,
non verrà
a cercarti, non ti vorrà per forza:
ma tu
soffrirai di non essere desiderata.
Guardati,
dunque: cosa può darti la vita?
Chi ti
vorrà? a chi sembrerai bella?
chi
amerai? da chi sarai amata?
E chi
bacerai? a chi morderai le labbra?
Ma tu,
Catullo, resisti, non cedere.
Questa terza
poesia di Catullo esprime tutto il tumulto dei sentimenti provocato nel poeta
dall’abbandono da parte di Lesbia e dall’atroce delusione per l’amore perduto:
la passione è stata come una «fiammata di gioia», ha inondato i giorni del
poeta e Lesbia «amata come amata non sarà nessuna», da chi sarà baciata o chi
amerà o chi bacerà giacché il suo vero amore ormai è lontano? Le continue
offese di Lesbia costringono Catullo ad amarla sempre di più ma ne spengono
l’affetto e il rispetto, ed egli chiede ai suoi Dei di rendere fermo il suo
animo per far cessare la lunga e nefasta passione (che chiama «orribile morbo») e per fargli
smettere di vivere in quella pena vergognosa.
Attraverso
gli sprazzi autobiografici dei suoi carmi, è possibile la ricostruzione ideale
della breve vita del poeta. Catullo nacque da una benestante e autorevole
famiglia nell’87 a.C. (ma forse piuttosto nell’84 a.C.) in provincia di Verona,
ove espletò gli studi e compose le prime liriche. Si spostò quindi a Roma, che
divenne la sua seconda patria e che lo attrasse per la ricca vita intellettuale
e per la sfrenata mondanità. Ricco, bello, colto ed elegante, fu un vero
play-boy dell’antichità, aperto ai tanti amanti di entrambi i sessi (per
esempio il bel giovinetto Giovenzio). La sua vita mutò radicalmente quando
conobbe Clodia e non rimase nient'altro che lei. Era una delle tre sorelle di
Publio Clodio e moglie di Quinto Metello Celere (che forse avrebbe avvelenato).
Soprannominata Lesbia da Lesbo, l’isola dell’amore, coinvolse Catullo in una passione
esclusiva e dolorosa, scandita da insulti, separazioni e riconciliazioni. Clodia
tradì e umiliò Catullo che tentò di resisterle e di rassegnarsi. Nella poesia
11 Catullo scriveva: «Furio
e Aurelio, fedeli compagni di viaggio / di Catullo […] / alla donna che amo riferite per me queste
poche / e amare parole. Viva pure felice e si goda i suoi trecento amanti / che
insieme è capace di stringere a sé tra le braccia / senza amarne nessuno
davvero, e a vicenda fiaccando / le reni di tutti; / né si curi, come un tempo
faceva, di questo mio amore, / che è caduto per colpa di lei come un fiore /
sul ciglio di un prato non appena il suo stelo è reciso / dall’aratro che
passa.».
Il suo
allontanamento dall’amata,
provocò il tramonto di Catullo, precipitato ulteriormente dal dolore per la
morte del fratello, cui era legatissimo. Sulla sua tomba volle scrivere: «Venuto
fra tante distese di genti e di acque, ti reco, o fratello, l’offerta di un
rito dolente per rendere l’omaggio supremo dovuto alla morte per dire vane
parole al tuo cenere muto, poiché la fortuna mi tolse la tua umana presenza, sventurato
fratello a me ingiustamente rapito. […]». E alla morte del fratello e alla
visita della sua tomba presso il promontorio Reteo, in Bitinia, dedicò due
carmi commoventi (il 68 e il 108), nei quali
piangendo salutava il fratello e seppelliva con la sua morte ogni sua speranza
di possibile felicità per il futuro (per la composizione del sonetto In
morte del fratello Giovanni,
Ugo Foscolo trasse ispirazione proprio dal carme 108). Nelle Nugae, il poeta romano raccontò ancora
la storia del suo amore infelice e in una elegia
epistolare (l’unica rimasta) rivisse la primavera del suo sentimento per
Clodia.
Catullo
morì giovanissimo a Roma nel 54 a.C., distrutto dalla tubercolosi e dalla
malinconia. Di lui restano 116 Carmi,
raccolti dopo la sua morte e comprendenti 60 poesie di metrica varia, due
epitalami (componimenti in lode degli sposi), due poemetti mitologici e 52 tra
elegie e brevi poesie in distici elegiaci.
Uomo sensibilissimo, ellenizzante nel suo ispirarsi ai
lirici greco–alessandrini, fu
però originale nell’usare con sapiente abilità nuove metriche e più audaci forme
poetiche. I critici lo pongono a cavallo tra la poesia arcaica e quella
classica moderna. Interprete di forte individualismo, nelle sue liriche tenere
e appassionate trasfuse tutta la sua vicenda umana e la sua travagliata
intimità, influenzando non poco altri importanti poeti, quali Orazio e
Virgilio. Non si occupò mai di politica (dalla quale era addirittura
disgustato), sebbene bruciasse di sdegno per le vergogne pubbliche del tempo. Da
poeta distaccato e intimista, scrisse sempre e soltanto di sé e per sé, con
verità di sentimenti e con integrità umana, trattando temi di grande libertà, quasi
eversivi nel loro essere in rottura con i costumi del tempo.
Il letterato e critico fiorentino Guido Mazzoni (1859–1943), ottimo traduttore di Catullo,
definì il poeta come «uomo tra uomini,
romano tra romani, ma con vivezza gallica […] artista sovrano […] forse
il più “moderno”, il più “nostro”, per la materia e per gli spiriti,
umanamente, fra tutti gli antichi poeti». Il critico catanese Concetto
Marchesi (1878–1957) sosteneva
invece che Catullo aveva fatto entrare nella poesia l’uomo («homo»), facendone uscire il cittadino
(«civis»).
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