Piero Chiara
Il 23 marzo Piero
Chiara (nato a Luino nel 1913) avrebbe compiuto cento anni. Intellettuale e
scrittore italiano – il cui
realismo si stemperava in invenzioni comiche e situazioni grottesche – morì a Varese per un tumore il 31
dicembre del 1986. Il comune di Varese gli ha dedicato dal 1989 il “Premio
letterario Piero Chiara”, uno dei più prestigiosi premi nazionali, volto
espressamente al racconto (per racconti editi in Italia e nella Svizzera
italiana), istituito non solo come evento culturale ma anche come produttore di
cultura destinato a valorizzare il territorio di appartenenza sotto il profilo
letterario e paesaggistico (gli sono stati affiancati il “Premio Chiara giovani”
e il “Premio Chiara alla carriera”).
Il padre doganiere era nativo di Resuttano (in provincia di
Caltanissetta) e – a lui, grande
raccontatore di storie e fatti – lo scrittore si disse in debito per il suo
talento di narratore, mentre la madre era di origini piemontesi.
Studente non diligentissimo (lo stesso Chiara parlò di “non
studiosa adolescenza”), fu amico e coetaneo dello scrittore e poeta Vittorio
Sereni (1913–1983), anch'egli nato a Luino e figlio di un funzionario della
dogana. Piero ebbe un rapporto infelice con l'istituzione scolastica e frequentò
diversi collegi retti da religiosi (tra cui il San Luigi di Intra e il De
Filippi di Arona). La scuola – come
scrive Mauro Novelli – gl'impedì
di «bighellonare in campagna, sulle rive del lago o tra i banchi dell’animato
mercato locale»
(http://www.treccani.it/enciclopedia/piero-chiara_%28Dizionario-Biografico%29/).
Nell'incipit de Le avventure di Pierino
al mercato di Luino (che fa parte della sua narrativa per ragazzi e che fu
pubblicato nel 1980), scriveva Chiara in modo autobiografico: «Il desiderio più
forte che Pierino allevava nel cuore fin da quando a sei anni aveva cominciato
la scuola, era di aver libertà il mercoledì e di poter passare la giornata
godendo lo spettacolo del mercato che si teneva in quel giorno al suo paese.».
Molte notizie biografiche possono essere ricavate da Federico Roncoroni, Piero Chiara. La vita e le opere,
Nicolini, Varese 2005. Ha scritto Roncoroni: «La vita di quegli anni di scuola
e di collegio, a ogni buon conto, tornerà di frequente nelle sue pagine di
scrittore, recuperata e accarezzata sul filo di una sottile ironia,
specialmente nei confronti di un'educazione tanto rigida quanto culturalmente e
formativamente inesistente.».
Ottenuta la licenza complementare da privatista nel 1929, Chiara
continuò a formare la sua cultura da autodidatta. Scrive Novelli nel suo lungo
e articolato testo dedicato allo scrittore luinese: «Maturava intanto un’avida
passione per la letteratura, che lo portava ad alternare le biblioteche alle
palestre, dove praticava pugilato e lotta per tonificare il fisico minuto.». è stata riportata questa sua frase
lapidaria che riassumeva la sua visione esistenziale: «Ho assistito alla vita
qualche volta da seduto, qualche volta in piedi, partecipando al banchetto o
rimanendo a bocca asciutta, ma sempre con grande piacere»; e, in effetti, Chiara
volle vivere «al di là di ogni pregiudizio, in piena libertà, con una totale
disponibilità a ogni tipo di esperienza e soprattutto con un sostanziale
rifiuto di ogni forma di costrizione»
(http://www.ilfestivaldelracconto.it/premiochiara/vita.asp).
Esentato dal servizio militare per una forte miopia, fu
all'estero e poi nel 1932 accettò un impiego in magistratura come “aiutante di
cancelleria” (lavoro che «non lo entusiasmava, ma non lo impegnava»): fu prima
assegnato alla pretura di Pontebba, quindi ad Aidùssina (sul confine iugoslavo)
e a Cividale del Friuli, e finalmente alla pretura di Varese. Scrive Novelli: «In
questa fase irrobustì con l’entusiasmo dell’autodidatta la sua preparazione
culturale. […] Favorito dal tempo libero a disposizione, avviò qualche
collaborazione con periodici locali, scrivendo soprattutto di arte. Collezionò
intanto avventure sentimentali, fino a che s'invaghì, corrisposto, della
giovanissima Jula Scherb, figlia di un illustre medico zurighese». La sposò nel
1936 e n'ebbe il figlio Marco (il matrimonio, purtroppo, finì quasi subito per «un
crescendo d'incomprensioni reciproche»). Inizialmente Chiara scrisse sul «Giornale
del Popolo» e più tardi sul «Corriere del Ticino» di Lugano, e – pieno di gratitudine per la
Svizzera – mantenne per tutta
la sua vita rapporti molto stretti con gli intellettuali ticinesi.
Chiamato alle armi e ritornato a casa, nel 1944 – a causa del suo spirito libero e
liberale, e di alcuni blandi atti antifascisti (aveva, per esempio, fatto
sparire dal Tribunale di Varese i ritratti di Mussolini e talora messo il
ritratto del Duce nel gabbiotto degli imputati) – fu costretto, per sfuggire a un ordine di cattura del
tribunale fascista, a riparare in Svizzera in alcuni campi nei quali venivano
internati i rifugiati italiani (in varie località tra cui Bellinzona, Lugano e
Loverciano); intanto veniva condannato in contumacia a quindici anni di
reclusione con l'interdizione dai pubblici uffici. Per molti mesi era stato
salvato, come scrisse lo stesso Chiara, «dall’intervento di autorevoli fascisti
bonaccioni di provincia che divertiva con le sue frottole o che aveva compagni
al tavolo di gioco» (vedere in Roncoroni). In Svizzera Chiara pubblicò la sua prima
opera, una raccolta di poesie dal titolo Incantavi
(1945), dal nome dei covoni di grano nel dialetto di Luino.
Rimesso in libertà, fu destinato come bibliotecario nel
Canton Ticino (ove collaborò con lo spionaggio americano) e, alla fine della
guerra, si diede all'insegnamento presso la cattedra di italiano, storia e
filosofia, prima in Svizzera poi in Italia, ove era ritornato. Nel dopoguerra
si segnalò come organizzatore di mostre di scultura all’aperto e come mercante
d’arte, divenendo un noto giornalista pubblicista e un conferenziere molto
richiesto (si era fatta la fama d'“impagabile narratore orale”). Iniziò da
allora in intenso periodo creativo e produttivo.
Nel 1962 pubblicò Il
piatto piange, il romanzo che segnò il suo esordio come romanziere, che
rievocava la vita dei caffè di Luino negli anni Trenta, e che fu un grande
successo di pubblico e di critica. Il romanzo fu scritto grazie alle pressioni
dell'amico Sereni, al quale scriveva in una lettera del 24 gennaio 1961:
«Lavoro come un pazzo al libro che tu aspetti. Se non sapessi che tu lo aspetti
non saprei scrivere una riga. Racconto tutto a te con una foga che mi riporta
indietro a velocità vertiginosa in quegli anni. Credo che il romanzo ci sia, in
queste pagine. Ma giudicherai tu.». Il libro suscitò contemporaneamente
entusiasmi e proteste di coloro che sembrarono riconoscersi in alcuni “caratteri”
del romanzo, che si aggiudicò il premio Internazionale Silver Caffè. Il libro inizia
così: «Si giocava d'azzardo in quegli anni, come si era sempre giocato, con
accanimento e passione; perché non c'era, né c'era mai stato a Luino altro modo
per poter sfogare senza pericolo l'avidità di danaro, il dispetto verso gli
altri e, per i giovani, l'esuberanza dell'età e la voglia di vivere.» (da Piero
Chiara, Il piatto piange, CDE,
Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1978). Ha commentato Carlo Bo: «È un piccolo
capolavoro. Il lettore vi troverà finalmente un mondo di paese che non sa di
letteratura: avrà da leggere senza un attimo di stanchezza e, cosa che non
succede quasi mai, arrivato alla fine, sarà preso da un senso di sincero
rammarico.» (vedere in Roncoroni).
Nel 1954 seguì il noto romanzo La spartizione (premio Selezione Campiello e vincitore del premio
Alpi Apuane); nel 1970 Piero Chiara fu chiamato da Alberto Lattuada in un ruolo
di attore in Venga a prendere il caffè da
noi, interpretato da Ugo Tognazzi, e tratto dal romanzo (che fu da lui
stesso sceneggiato): vi si raccontavano gli strani e scabrosi rapporti tra
Emerenziano Paronzini e le tre sorelle Tettamanzi. Da questo romanzo, insieme
con Aldo Trionfo, Chiara trasse pure una riduzione teatrale dal divertente
titolo Il Trigamo, rappresentata
dalla compagnia Moriconi–Carraro.
Voltosi indietro ai luoghi e alla gente di Sicilia (terra
d'origine del padre Eugenio), conosciuti da bambino nelle sue vacanze estive, nel
1965 pubblicò Con la faccia per terra,
proprio a ridosso della morte dell'amato padre.
Dal 1969 fu chiamato a collaborare con la terza pagina del «Corriere
della sera», divenendo amatissimo per i suoi elzeviri e bozzetti, e per le sue divagazioni
e recensioni, raccolti ne L’uovo al
cianuro e altre storie.
Nel 1970 pubblicò il romanzo “giallo” I giovedì della signora Giulia, contemporaneamente al suo
adattamento televisivo RAI in cinque puntate, per la regia di Paolo Nuzzi e
Massimo Scaglione, con Claudio Gora, Helene Remy, Martine Brochard, Tom Ponzi e
Gianfranco Barra (lo stesso Piero Chiara si ritagliò un piccolo ruolo d'attore).
Del 1973 è Il pretore
di Cuvio, candidato al premio Strega (che vendette più di 120.000 copie in
pochi mesi), e del 1974 è Sotto la Sua
mano, cui seguirono moltissimi altri romanzi e racconti raccolti postumi ne
Il meglio dei racconti di Piero Chiara
(1989).
Nel 1976 dal suo capolavoro La stanza del vescovo (il Vescovo era un prozio della moglie del
narratore della storia, monsignor Alemanno Berlusconi, morto nel 1928, che da
giovane passava l'estate in villa, la cui stanza – la migliore –
era addobbata nel modo degno di un Nunzio Apostolico qual era) fu tratto il film
di successo di Dino Risi, con Ugo Tognazzi e Ornella Muti (anche in questo caso
Chiara si ritagliò un piccolo ruolo d'attore: era il cancelliere del tribunale,
l'attività che in passato aveva svolto nella vita).
A proposito della sua collaborazione col cinema, in
un'intervista a Roberto Gervasio del 1977, Chiara disse: «Anche se alcuni
critici dicono il contrario, io penso esclusivamente alla letteratura. Il
cinema quando viene, viene dopo.» (vedere in Roncoroni); parlò, inoltre, di «unica
soddisfazione di carattere economico» e di «cadute cinematografiche nell’erotismo»
che mancava nei suoi libri (intervista a Ernesto Gagliano del 1977 per “Stampa
Sera” di Torino).
Nel 1978, dal grottesco Il
balordo (1967), vincitore nel 1968 del premio “Bagutta”, fu tratto
l'omonimo sceneggiato televisivo RAI per la regia di Pino Passalacqua
(narratore Renzo Palmer), con Tino Buazzelli, Elisa Cegani, Marina Confalone,
Richard Harrison, Teo Teocoli e Vittorio Mezzogiorno.
Massone, Piero Chiara si dedicò anche alla politica
ricoprendo diversi incarichi nazionali nel Partito Liberale (nel 1984 fu
nominato vicesegretario nazionale del partito).
Dopo molte convivenze –
Piero Chiara era un estimatore dell'universo femminile e intrecciò varie storie
d'amore: egli stesso parlò di «una gran bella vita da scapolo» – dal 1955 visse con Mimma Buzzetti,
che sposò nel 1974.
Nel 1957 abbandonò il suo lavoro al Ministero della
giustizia per «dedicarsi liberamente e compiutamente alla letteratura» (come
disse egli stesso), e all'arte divenendo un esperto degli artisti del Varesotto
tra Seicento e Ottocento e collaborando con pittori, incisori e scultori nella
pubblicazione di “libri d’arte” e di “opere grafiche” impreziosite da disegni, chine,
acquarelli, litografie, acqueforti, serigrafie, incisioni e fotografie; continuava,
intanto, la sua attività di consulente editoriale e giornalista.
Tra il 1967 e il 1969 passò diversi mesi in USA e a New York
ove abitava il figlio Marco. Ritornava, però, a Luino per alcune “gite” «necessarie,
a suo dire, per il suo stesso equilibrio sentimentale e fantastico», ove
ritrovava «le sue radici di uomo e narratore» (vedere in Roncoroni).
Piero Chiara è stato considerato lo scrittore della
provincia tra le due guerre (di quel microcosmo in cui si rifletteva tutto il
mondo e che era anche un rifugio), della pigra quotidianità, della vita di
frontiera, della borghesia piccola, e delle piccole narrazioni del “grande lago”
(ispirato autobiograficamente da Comnago, il paese sulla sponda piemontese del
Lago Maggiore dal quale proveniva la madre Virginia Maffei). I suoi testi erano
ricchi d'ironia malinconica e di lieve umorismo. La critica lo ha paragonato a Giovanni
Guareschi (1908–1968), cantore della bassa padana e dei suoi protagonisti (inclusi,
Peppone e Don Camillo). Amò la lentezza e gli ozi di una vita appartata,
rivolgendosi a personaggi conosciuti nella realtà e rappresentati con forza
psicologica e rimpianto nostalgico nei loro vizi e nelle loro virtù ma senza
mai scadere nel morboso o nel volgare: il pretore di provincia, il medico di
paese, la moglie del commercialista, il giocatore d'azzardo costretto a
impegnare le sue cose, il virtuoso del biliardo, il proprietario dell'hotel, il
commissario di Pubblica Sicurezza, il testimone di pretura, cioè con tutti quei
«personaggi di ogni tipo» che stimolavano la sua fantasia creativa.
Il disincanto e l'umorismo amaro si faranno più intensi
nelle ultime opere: Il cappotto di
astrakan (1978), ambientato nella Parigi nel 1950 (l'autore e narratore
pensava di trovarvi e cogliervi «il terreno favorevole alla nuova vita… il
bandolo di un avvio e magari… la fortuna»); Vedrò Singapore? (1981), in cui riviveva dopo più di quarant'anni
le vicissitudini vissute nelle diverse preture del Friuli e nel quale – accennando a una prosperosa ragazza
friulana – l'autore parlava di
quella che era ritenuta «la dote del Friuli, la quale secondo un detto popolare
consisteva in panse, tette e cul, non avendo altro quella splendida terra,
almeno allora, da esportare o da presentare al mondo»); e Saluti notturni dal Passo della Cisa (1987), pubblicato postumo: ne
aveva corretto le bozze proprio poco prima di morire.
Fu anche traduttore e saggista: nel 1969 aveva tradotto il Satiricon di Petronio Arbitro, da lui
considerato la «polla originaria della narrativa occidentale». Interessato all'avventuriero,
scrittore–poeta, alchimista,
diplomatico–filosofo veneziano Giacomo
Casanova (1725–1798), Chiara pubblicò molti saggi su di lui, che raccolse nel
volume Il vero Casanova (1977),
curando nel 1980 anche la sceneggiatura dell'edizione televisiva tratta da Il ritorno di Casanova di Arthur
Schnitzler, per la regia di Pasquale Festa Campanile, con Giulio Bosetti,
Mirella D'Angelo, Grazia Maria Spina, Bianca Toccafondi e Carlo Simoni. Scrisse
Chiara dello stile di Casanova: «Non è uno stile da letterato sedentario e
misantropo, è uno stile da esaltatore della vita, che con la sua irrequietezza
sembra prevedere l'europeo futuro. Nella letteratura italiana mancava allora
non solo un buon romanzo in prosa, ma ancora l'idea di uno stile così veloce e
denso di avvenimenti. L'azione si fonde al dialogo, il quale diventa azione
interiore.» (in Giacomo Casanova, Storia
della mia vita, a cura di Piero Chiara e Federico Roncoroni, Arnoldo
Mondadori, I Meridiani, 1999).
A D'Annunzio dedicò: Vita
di Gabriele D'Annunzio (1978) – in pochi mesi vendette oltre 100.000 copie –
e Prato nella vita e nell'arte di
Gabriele D'Annunzio (1985).
Nel 1976 fu insignito dal governo francese con il grado di
Ufficiale delle Palmes Académiques (per la valorizzazione e diffusione delle
opere di Casanova) e nel 1982 fu fatto Cavaliere di gran croce dell'Ordine al
merito della Repubblica italiana. Nello stesso periodo ricevette una Laurea
honoris causa presso l’Università di Catania.
A proposito delle altissime tirature dei libri di Chiara e del
fatto che lo scrittore fosse considerato un “autore popolare” per la sua “facilità”
di lettura, scrive Mauro Novelli: «Al principio degli anni Ottanta la
popolarità di Chiara toccò l’apice. I suoi libri, tradotti in tutto il mondo,
avevano venduto complessivamente oltre quattro milioni di copie. Tuttavia, al
crescere del successo aveva corrisposto un affievolimento del consenso critico,
fatta salva la stima d'intellettuali del calibro di Sciascia, Prezzolini, Bo,
Pomilio, Carena, Baldacci, che ne ammiravano le doti di narratore di costume.»
(http://www.treccani.it/enciclopedia/piero-chiara_%28Dizionario-Biografico%29/).
A queste critiche, in un'intervista del 1980, Chiara
rispose: «Ho in circolazione quasi tre milioni di copie dei miei libri. Il che
vuole dire che sono letto più dagli uomini comuni, che sono gli uomini
migliori, che dagli intellettuali, che sono i peggiori» (vedere in Roncoroni).
L'interesse dei critici per l'opera di Chiara è, tuttavia,
cresciuta in questi ultimi anni.
Ha scritto di lui Roberto Gervaso: «La leggibilità è una dote piuttosto
rara fra i nostri narratori, intenti più a lanciar messaggi, patrocinare
avanguardie, inseguir mode che render digeribile la loro prosa. Piero Chiara è
un'eccezione. Scrive come parla, e parla come scrive. Il suo stile può anche
non piacere, ma non resta sullo stomaco. I suoi libri, una volta aperti, non si
chiudono più, cioè si chiudono solo alla fine. Le sue storie, pur se
circoscritte al microcosmo luinese e varesino, son piene di plasma, umori,
colpi di scena. L'autore dice che son tutte vere. Forse mente, forse qualcosa è
inventata, ma non importa. Ciò che importa è che divertano chi legge, come
certamente hanno divertito chi le ha scritte. Se poi qualche produttore e
regista ne fa un film tanto meglio.». A proposito della popolarità dei suoi
libri, lo steso Chiara aveva detto: «I miei libri piacciono perché mi metto
dalla parte del lettore, che vuole fatti raccontati da uno che non ha l’aria di
insegnare.».
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