William Shakespeare Franco Zeffirelli
Shakespeare, Zeffirelli,
Romeo e Giulietta
Shakespeare ha certamente cucinato l’Amore
in tutte le salse, facendone un sentimento universale dal pathos esaltato. Era
convinto che «uomini e donne, tutti
sono attori», che «c’è una
storia nella vita di tutti gli uomini» e che «il mondo è
tutto un palcoscenico». Ricordo un suo illuminante aforisma riguardo
alla forza trascinante della passione d’amore: «Se non ricordi la più piccola follia a cui ti ha condotto l’amore, tu
non hai amato».
La summa di ciò è l’amore immortale di Romeo
e Giulietta nell’omonimo dramma, e nella
Scena
Seconda del Secondo Atto, ove il drammaturgo inglese racconta l’incontro del
balcone tra Romeo e Giulietta che –
notissimo a tutti – gronda
miele d’amore. Giulietta, la figlia quattordicenne di Capuleto, e l’adolescente
Romeo, figlio di Montecchio, si muovono per i cinque atti di questa tragedia,
pronti a tutto e pieni di quella passione che supera qualsiasi riserbo e
ostacolo, che non consente a nulla e a nessuno d’interferire, e che non teme
neanche la morte. Giulietta è l’oriente e il sole di Romeo e i suoi occhi sono
due delle più belle stelle del cielo; e Romeo per Giulietta rinnega il suo nome
chiedendole di chiamarlo soltanto «amore»
e Giulietta risponde a Romeo di rinnegare suo padre e il suo nome e di giurarle
il suo amore che lei non sarebbe stata più una Capuleti. La storia di Romeo e
Giulietta è la più alta tragedia del caso e della fatalità, e celebra il
lirismo del sentimento e la forza dell’amore.
Nel
Prologo dell’Atto Primo, Shakespeare fa narrare dal Coro la storia dei due
amanti: «In questa bella Verona, due casate, di pari nobiltà, si scagliano, per
antico rancore, in sempre nuove contese che macchiano di sangue veronese mani
di veronesi. Dalla tragica progenie di questi nemici sono nati sotto cattiva
stella due amanti che con la loro pietosa morte mettono termine alla furia dei
loro parenti. Lo sventurato corso del loro fatale amore e l’odio costante delle
loro famiglie, troncato soltanto dalla fine di queste creature, saran per due
ore l’argomento della nostra tragedia. Ascoltate con orecchi pazienti e noi ci
sforzeremo di rimediare ai nostri difetti.».
Bellissimo
è il modo col quale Romeo –
nella Scena Prima dell’Atto Primo –
spiega cos’è l’amore: «L’amore è un fumo che sorge dalla nebbia dei sospiri; se
lo purifichi è un fuoco che sfavilla negli occhi degli amanti; se lo agiti è un
mare ingrossato dalle loro lacrime. E che altro può essere? Una pazzia
discreta, un’amarezza che soffoca e una dolcezza che alla fine ti salva.». Quando
si accorge d’essere innamorato, il ragazzo si sente quasi alienato in questo amore:
«Zitto, ho perduto me stesso. Io non sono qui. Questo non è Romeo. Romeo è
altrove.».
In
seguito, nella Scena Seconda, continua: «No, non sono matto, ma più legato che
se fossi matto; e incarcerato e affamato e frustato e torturato e...». Più
avanti, nella Scena Quarta, si lamenta con gli amici: «Voi avete gli scarpini
da ballo risuolati di cuoio leggero e io ho il cuore di piombo che mi tiene
attaccato alla terra. […] e tanto stretto sono fasciato che m’è impossibile
alzarmi d’una spanna sopra la mia tristezza senza che il peso dell’amore mi
faccia risprofondare». L’amico Mercuzio –
personaggio ricco di colore terreno e di grossolana saggezza –, gli consiglia: «Ma se ci caschi
sopra lo schiacci l’amore. Sei troppo peso per una cosa così tenera». Romeo gli
risponde sconfortato: «L’amore è cosa tenera? é ruvido, villano, rumoroso, e
punge come se avesse le spine». E Mercuzio osserva: «Se l’amore è villano con te,
sii villano con lui. Bucalo se ti buca e buttalo giù.». Nella Scena Quinta dell’Atto
Primo, quando alla festa Romeo riesce a baciare Giulietta (ma gli innamorati
non sanno ancora di appartenere a due famiglie che si odiano) e Giulietta – che ha già perso completamente la
testa per lui – apprende dalla
Nutrice (altro personaggio corposo e prosaico) che Romeo è un Montecchi,
osserva disperata: «Il mio unico amore, il mio unico odio! Troppo presto
veduto, troppo tardi conosciuto! Prodigio d’amore: amare un nemico.».
Nel prologo dell’Atto Secondo, il Coro, così si esprime: «Il vecchio rancore giace sul suo
letto di morte, un giovane affetto aspira a diventarne l’erede. La bella per
cui Amore gemeva e voleva morire, al confronto della dolce Giulietta non par
più bella. Adesso Romeo ama ed è riamato. La stessa malia ha incantato gli
sguardi dell’uno e dell’altra. Considerato un nemico, egli non può avvicinarla
e giurarle quel che sogliono giurare gli amanti. A lei, altrettanto innamorata,
è anche più difficile raggiungere il suo bene. Ma la passione offre loro il
potere, e il tempo i mezzi di incontrarsi mitigando estreme pene con estreme
dolcezze.».
E
Mercuzio, nella Scena Quarta dell’Atto Secondo – a proposito di Romeo perduto d’amore – è poi costretto a concludere: «Ma, ahimè, il povero Romeo è
bell’e morto, trafitto dal nero occhio di una bianca fanciulla, colpito in un
orecchio da un canto d’amore, colto nel mezzo del cuore dalla freccia del
ragazzino cieco.».
Con l’aiuto
del suo confessore frate Lorenzo, Romeo riesce a sposare Giulietta ma lo stesso
giorno viene coinvolto in una rissa fatale e uccide Tebaldo (il caro cugino di
lei), che a sua volta ha ucciso Mercuzio (l’amico prediletto di lui). Il
Principe, parente di Mercuzio, esilia Romeo. Giulietta e Romeo sono disperati.
Intanto, il padre di Giulietta (per consolarla di quello che crede sia il dolore
per la morte dell’amato cugino) ha combinato il suo matrimonio con Paride,
giovane ricco e bello. Giulietta finge di accettare il matrimonio ma, per consiglio
di frate Lorenzo, prende un sonnifero che la farà sembrare morta, arrestando
momentaneamente il polso, facendo scomparire il respiro e il calore del corpo,
e rendendo le labbra e le guance pallide come la cenere mentre le membra sembreranno
avere la freddezza e la rigidità della morte. Il frate avvertirà dell’inganno Romeo,
fuggito a Mantova, che verrà per accoglierla quando si desterà da questo sonno
simile alla morte, e fuggiranno insieme. Purtroppo, il frate non riesce ad
avvertire per tempo Romeo, il quale –
dopo avere appreso dal suo servo la falsa notizia della morte dell’amata
Giulietta – raggiunge l’amata,
uccide Paride (anch’egli innamorato e andato a vegliare Giulietta) e in un
ultimo bacio si avvelena con una droga che si era procurata («una roba lesta
che si spanda per tutte le vene e faccia subito cadere morto chi è stanco della
vita»). Quando Giulietta si risveglia –
nella Scena Terza dell’Atto Quinto –
vede Romeo morto e nota la fiala del veleno: «Che c’è, una fiala, nella mano
del mio fedele amore? Il veleno è stato la sua fine. Avaro! L’hai bevuto tutto
e non ne hai lasciato una sola goccia che mi aiutasse! Bacerò le tue labbra;
forse v’è ancora tanto veleno che mi ristori e mi faccia morire. (Lo bacia.)
Le tue labbra son calde.». Bacia Romeo e vedendo il suo pugnale lo afferra e si
uccide: «O pugnale benedetto! Ecco il tuo fodero. Questa sia la tua ruggine e
la mia morte.». L’«orrendo massacro» si è alfine compiuto, ma i Capuleti e i
Montecchi, sconvolti dalla punizione che ha colpito il loro odio, si
riappacificano e fanno giacere insieme le povere vittime di tanto odio. Gli
sposi infelici Giulietta e Romeo sono uniti almeno nella morte. (I brani sono
tratti da “Romeo e Giulietta – The tragedy of Romeo and Juliet”, 1594–1595, nella traduzione di Paola Ojetti, Tascabili Economici
Newton, Roma 1992)
William
Shakespeare (1564–1616), poeta
e drammaturgo inglese ma anche attore e impresario teatrale, nacque da una numerosa
e agiata famiglia (il padre John era un guantaio) di Stratford–upon–Avon, piccola città vicino Londra, ove fece studi intensi
presso la scuola locale sino ai quattordici anni, traducendo dal latino all’inglese
e viceversa: conobbe e amò Ovidio (e le sue Metamorfosi)
e più tardi s’ispirò al mondo della latinità. Nel 1582, giovanissimo, sposò
Anne Hathway, la figlia di un agricoltore, più grande di lui di ben otto anni,
dalla quale ebbe tre figli. Non fu un matrimonio felice e dopo dieci anni
William era a Londra a condurre una vita oscura e scapestrata in un ambiente
ricco di stimoli, di nuove idee e di grandi rivoluzioni culturali. Prese a
frequentare i teatri d’avanguardia (si narra che incominciasse facendo la
guardia ai cavalli nei pressi dell’ingresso per gli attori), compreso il “The Globe”, un teatro popolare all’aperto
inaugurato nel 1598, che divenne il suo teatro e che amò tanto; purtroppo fu
distrutto da un incendio nel 1613 (una copia del “Globe” è stata eretta nel 2003 a Villa Borghese, in Roma). La
sua fama crebbe rapidamente e viaggiò molto per l’Italia con l’amico e
protettore Conte di Southampton, patrono delle Arti e degli Artisti, al quale
dedicò due poemetti d’amore (e questo ha fatto nascere le voci di una presunta
omosessualità di Shakespeare). Scrisse 38 opere più due poemi epici. Oltre al
capolavoro già citato, sono degni di nota: Riccardo III (Richard the Third) (1593), La bisbetica domata (The Taming of the Shrew) (1594), Pene
d’amor perdute (Love’s Labour’s Lost) (1594–7), Il Mercante di
Venezia (The Merchant of Venice) (1594–6), Sogno di una notte di
mezza estate (A Midsummer Night’s Dream) (1595–6) e infine Molto rumore
per nulla (Much Ado About Nothing) (1599).
Alla fine
del 1500, Shakespeare visse una profonda crisi esistenziale e dovette misurarsi
con molte asprezze dell’esistenza, quali la morte dei genitori e del figlio
undicenne Hamnet, i problemi in politica e forse una seria malattia
(probabilmente la peste che afflisse il Seicento). Sulla scia di questo
malessere, scrisse alcune tragedie cupe e problematiche, quali Amleto (Hamlet, Prince of Denmark) (1599–1600), Otello (1604–5), Re Lear (King Lear) (1605–6) e Macbeth (The Tragedy of Macbeth) (1603–6). Grazie a una probabile conversione religiosa, questa crisi
fu alfine superata com’è dimostrato da una delle sue ultime opere, La tempesta (The Tempest) (1611), elegante
e gradevole, sofisticata e contemplativa, piena di pacatezza e di matura
saggezza. Ormai ricco e appagato, ad appena 46 anni, si ritirò nella sua città
natale ove aveva acquistato case e terreni, vivendo la quieta esistenza di un
agiato proprietario. Morì all’età di 56 anni per una febbre insorta dopo una
cena a base di aringhe fatta insieme con alcuni vecchi colleghi di teatro.
Si
discute se Shakespeare sia veramente esistito o sia stato soltanto il
prestanome di Francesco Bacone (filosofo–scienziato
inglese vissuto dal 1561 al 1626) o di Cristopher Marlowe (1564–1593), drammaturgo fintosi morto per
ragioni politiche. Il suo battesimo è stato documentato con certezza, come esistono
prove certe del suo testamento firmato (stilato nel 1616) e della sua tomba ospitata
presso la chiesa parrocchiale della città natale. Per il resto, tutto è lacunoso.
Non fece pubblicare personalmente nulla di suo; durante la sua vita furono
edite soltanto 16 composizioni teatrali, scritte mediocremente sulla base della
ricostruzione mnemonica di alcuni attori che le avevano rappresentate e ne
possedevano i diritti d’autore. Soltanto nel 1623, due editori inglesi – con l’aiuto di alcuni attori, amici
di Shakespeare – pubblicarono
un volume contenente 36 drammi, la cui incerta cronologia è stata stabilita con
discreta approssimazione nel 1930 dal critico letterario inglese Edmund Kercheveer
Chambers (1866–1956) (vedere: William Shakespeare: A Study of Facts and
Problems, Oxford: At the Clarendon Press, 2 vols, 1930).
Shakespeare è stato un grande della letteratura e un genio
dell’intrattenimento drammatico, e ha saputo dare un suo stile unico e irripetibile
al Teatro Elisabettiano. Ha superato il classicismo, abbattendo tabù e
convenzioni ma soprattutto narrando l’animo umano e riscoprendo sia l’Uomo (in
tutta la sua ricchezza psicologica) sia la Natura (in tutto il suo vigoroso
fascino).
P.S. In teatro e in cinema le versioni di Romeo e Giulietta sono state
innumerevoli; ricordo soltanto il film Romeo
e Giulietta (Romeo and Juliet) (1968) di Franco Zeffirelli (che in questi giorni ha compiuto
novant’anni: è nato infatti a Firenze il 12 febbraio del 1923), fedele
trasposizione dell’opera teatrale, girata in lingua inglese (stupenda voce
narrante quella di Laurence Olivier), adattata mirabilmente da Franco Brusati,
Masolino D’Amico e dallo stesso Zeffirelli, con i giovanissimi Leonard Whiting
nella parte di Romeo e Olivia Hussey
nella parte di Giulietta. Desidero segnalare la presenza di tre attori italiani
di valore: Antonio Pierfederici (Lord Montecchi), Esmeralda Ruspoli (Lady
Montecchi) e Roberto Bisacco (Conte Paride), e del giovane cantante Bruno
Filippini (il menestrello) che cantò la canzone Ai Giochi Addio (What is a Youth) (aveva vinto il Festival di
Castrocaro con Gigliola Cinquetti). Il film grande successo di pubblico e di
critica, si aggiudicò nel 1968 un National Board of Review Award
(migliore regia a Franco Zeffirelli) e nel 1969 due premi Oscar (migliore
fotografia a Pasqualino De Santis e migliori costumi a Danilo Donati), tre
Golden Globe (miglior film straniero in lingua inglese, miglior attore
debuttante a Leonard Whiting e miglior attrice debuttante a Olivia Hussey), un
premio BAFTA (migliori costumi a Danilo Donati), un David di Donatello
(migliore regia a Franco Zeffirelli) e ben quattro Nastri d’argento.
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