mercoledì 6 marzo 2013

Shakespeare, Zeffirelli, Romeo e Giulietta



William Shakespeare                                  Franco Zeffirelli

Shakespeare, Zeffirelli, Romeo e Giulietta

Shakespeare ha certamente cucinato l’Amore in tutte le salse, facendone un sentimento universale dal pathos esaltato. Era convinto che «uomini e donne, tutti sono attori», che «c’è una storia nella vita di tutti gli uomini» e che «il mondo è tutto un palcoscenico». Ricordo un suo illuminante aforisma riguardo alla forza trascinante della passione d’amore: «Se non ricordi la più piccola follia a cui ti ha condotto l’amore, tu non hai amato».

La summa di ciò è l’amore immortale di Romeo e Giulietta nell’omonimo dramma, e nella
Scena Seconda del Secondo Atto, ove il drammaturgo inglese racconta l’incontro del balcone tra Romeo e Giulietta che – notissimo a tutti – gronda miele d’amore. Giulietta, la figlia quattordicenne di Capuleto, e l’adolescente Romeo, figlio di Montecchio, si muovono per i cinque atti di questa tragedia, pronti a tutto e pieni di quella passione che supera qualsiasi riserbo e ostacolo, che non consente a nulla e a nessuno d’interferire, e che non teme neanche la morte. Giulietta è l’oriente e il sole di Romeo e i suoi occhi sono due delle più belle stelle del cielo; e Romeo per Giulietta rinnega il suo nome chiedendole di chiamarlo soltanto «amore» e Giulietta risponde a Romeo di rinnegare suo padre e il suo nome e di giurarle il suo amore che lei non sarebbe stata più una Capuleti. La storia di Romeo e Giulietta è la più alta tragedia del caso e della fatalità, e celebra il lirismo del sentimento e la forza dell’amore.

Nel Prologo dell’Atto Primo, Shakespeare fa narrare dal Coro la storia dei due amanti: «In questa bella Verona, due casate, di pari nobiltà, si scagliano, per antico rancore, in sempre nuove contese che macchiano di sangue veronese mani di veronesi. Dalla tragica progenie di questi nemici sono nati sotto cattiva stella due amanti che con la loro pietosa morte mettono termine alla furia dei loro parenti. Lo sventurato corso del loro fatale amore e l’odio costante delle loro famiglie, troncato soltanto dalla fine di queste creature, saran per due ore l’argomento della nostra tragedia. Ascoltate con orecchi pazienti e noi ci sforzeremo di rimediare ai nostri difetti.».

Bellissimo è il modo col quale Romeo – nella Scena Prima dell’Atto Primo – spiega cos’è l’amore: «L’amore è un fumo che sorge dalla nebbia dei sospiri; se lo purifichi è un fuoco che sfavilla negli occhi degli amanti; se lo agiti è un mare ingrossato dalle loro lacrime. E che altro può essere? Una pazzia discreta, un’amarezza che soffoca e una dolcezza che alla fine ti salva.». Quando si accorge d’essere innamorato, il ragazzo si sente quasi alienato in questo amore: «Zitto, ho perduto me stesso. Io non sono qui. Questo non è Romeo. Romeo è altrove.».
In seguito, nella Scena Seconda, continua: «No, non sono matto, ma più legato che se fossi matto; e incarcerato e affamato e frustato e torturato e...». Più avanti, nella Scena Quarta, si lamenta con gli amici: «Voi avete gli scarpini da ballo risuolati di cuoio leggero e io ho il cuore di piombo che mi tiene attaccato alla terra. […] e tanto stretto sono fasciato che m’è impossibile alzarmi d’una spanna sopra la mia tristezza senza che il peso dell’amore mi faccia risprofondare». L’amico Mercuzio – personaggio ricco di colore terreno e di grossolana saggezza –, gli consiglia: «Ma se ci caschi sopra lo schiacci l’amore. Sei troppo peso per una cosa così tenera». Romeo gli risponde sconfortato: «L’amore è cosa tenera? é ruvido, villano, rumoroso, e punge come se avesse le spine». E Mercuzio osserva: «Se l’amore è villano con te, sii villano con lui. Bucalo se ti buca e buttalo giù.». Nella Scena Quinta dell’Atto Primo, quando alla festa Romeo riesce a baciare Giulietta (ma gli innamorati non sanno ancora di appartenere a due famiglie che si odiano) e Giulietta – che ha già perso completamente la testa per lui – apprende dalla Nutrice (altro personaggio corposo e prosaico) che Romeo è un Montecchi, osserva disperata: «Il mio unico amore, il mio unico odio! Troppo presto veduto, troppo tardi conosciuto! Prodigio d’amore: amare un nemico.».

Nel prologo dell’Atto Secondo, il Coro, così si esprime: «Il vecchio rancore giace sul suo letto di morte, un giovane affetto aspira a diventarne l’erede. La bella per cui Amore gemeva e voleva morire, al confronto della dolce Giulietta non par più bella. Adesso Romeo ama ed è riamato. La stessa malia ha incantato gli sguardi dell’uno e dell’altra. Considerato un nemico, egli non può avvicinarla e giurarle quel che sogliono giurare gli amanti. A lei, altrettanto innamorata, è anche più difficile raggiungere il suo bene. Ma la passione offre loro il potere, e il tempo i mezzi di incontrarsi mitigando estreme pene con estreme dolcezze.».

E Mercuzio, nella Scena Quarta dell’Atto Secondo – a proposito di Romeo perduto d’amore – è poi costretto a concludere: «Ma, ahimè, il povero Romeo è bell’e morto, trafitto dal nero occhio di una bianca fanciulla, colpito in un orecchio da un canto d’amore, colto nel mezzo del cuore dalla freccia del ragazzino cieco.».

Con l’aiuto del suo confessore frate Lorenzo, Romeo riesce a sposare Giulietta ma lo stesso giorno viene coinvolto in una rissa fatale e uccide Tebaldo (il caro cugino di lei), che a sua volta ha ucciso Mercuzio (l’amico prediletto di lui). Il Principe, parente di Mercuzio, esilia Romeo. Giulietta e Romeo sono disperati. Intanto, il padre di Giulietta (per consolarla di quello che crede sia il dolore per la morte dell’amato cugino) ha combinato il suo matrimonio con Paride, giovane ricco e bello. Giulietta finge di accettare il matrimonio ma, per consiglio di frate Lorenzo, prende un sonnifero che la farà sembrare morta, arrestando momentaneamente il polso, facendo scomparire il respiro e il calore del corpo, e rendendo le labbra e le guance pallide come la cenere mentre le membra sembreranno avere la freddezza e la rigidità della morte. Il frate avvertirà dell’inganno Romeo, fuggito a Mantova, che verrà per accoglierla quando si desterà da questo sonno simile alla morte, e fuggiranno insieme. Purtroppo, il frate non riesce ad avvertire per tempo Romeo, il quale – dopo avere appreso dal suo servo la falsa notizia della morte dell’amata Giulietta – raggiunge l’amata, uccide Paride (anch’egli innamorato e andato a vegliare Giulietta) e in un ultimo bacio si avvelena con una droga che si era procurata («una roba lesta che si spanda per tutte le vene e faccia subito cadere morto chi è stanco della vita»). Quando Giulietta si risveglia – nella Scena Terza dell’Atto Quinto – vede Romeo morto e nota la fiala del veleno: «Che c’è, una fiala, nella mano del mio fedele amore? Il veleno è stato la sua fine. Avaro! L’hai bevuto tutto e non ne hai lasciato una sola goccia che mi aiutasse! Bacerò le tue labbra; forse v’è ancora tanto veleno che mi ristori e mi faccia morire. (Lo bacia.) Le tue labbra son calde.». Bacia Romeo e vedendo il suo pugnale lo afferra e si uccide: «O pugnale benedetto! Ecco il tuo fodero. Questa sia la tua ruggine e la mia morte.». L’«orrendo massacro» si è alfine compiuto, ma i Capuleti e i Montecchi, sconvolti dalla punizione che ha colpito il loro odio, si riappacificano e fanno giacere insieme le povere vittime di tanto odio. Gli sposi infelici Giulietta e Romeo sono uniti almeno nella morte. (I brani sono tratti da “Romeo e Giulietta – The tragedy of Romeo and Juliet”, 1594–1595, nella traduzione di Paola Ojetti, Tascabili Economici Newton, Roma 1992)

William Shakespeare (1564–1616), poeta e drammaturgo inglese ma anche attore e impresario teatrale, nacque da una numerosa e agiata famiglia (il padre John era un guantaio) di Stratford–upon–Avon, piccola città vicino Londra, ove fece studi intensi presso la scuola locale sino ai quattordici anni, traducendo dal latino all’inglese e viceversa: conobbe e amò Ovidio (e le sue Metamorfosi) e più tardi s’ispirò al mondo della latinità. Nel 1582, giovanissimo, sposò Anne Hathway, la figlia di un agricoltore, più grande di lui di ben otto anni, dalla quale ebbe tre figli. Non fu un matrimonio felice e dopo dieci anni William era a Londra a condurre una vita oscura e scapestrata in un ambiente ricco di stimoli, di nuove idee e di grandi rivoluzioni culturali. Prese a frequentare i teatri d’avanguardia (si narra che incominciasse facendo la guardia ai cavalli nei pressi dell’ingresso per gli attori), compreso il “The Globe”, un teatro popolare all’aperto inaugurato nel 1598, che divenne il suo teatro e che amò tanto; purtroppo fu distrutto da un incendio nel 1613 (una copia del “Globe” è stata eretta nel 2003 a Villa Borghese, in Roma). La sua fama crebbe rapidamente e viaggiò molto per l’Italia con l’amico e protettore Conte di Southampton, patrono delle Arti e degli Artisti, al quale dedicò due poemetti d’amore (e questo ha fatto nascere le voci di una presunta omosessualità di Shakespeare). Scrisse 38 opere più due poemi epici. Oltre al capolavoro già citato, sono degni di nota: Riccardo III (Richard the Third) (1593), La bisbetica domata (The Taming of the Shrew) (1594), Pene d’amor perdute (Love’s Labour’s Lost) (1594–7), Il Mercante di Venezia (The Merchant of Venice) (1594–6), Sogno di una notte di mezza estate (A Midsummer Night’s Dream) (1595–6) e infine Molto rumore per nulla (Much Ado About Nothing) (1599).

Alla fine del 1500, Shakespeare visse una profonda crisi esistenziale e dovette misurarsi con molte asprezze dell’esistenza, quali la morte dei genitori e del figlio undicenne Hamnet, i problemi in politica e forse una seria malattia (probabilmente la peste che afflisse il Seicento). Sulla scia di questo malessere, scrisse alcune tragedie cupe e problematiche, quali Amleto (Hamlet, Prince of Denmark) (1599–1600), Otello (1604–5), Re Lear (King Lear) (1605–6) e Macbeth (The Tragedy of Macbeth) (1603–6). Grazie a una probabile conversione religiosa, questa crisi fu alfine superata com’è dimostrato da una delle sue ultime opere, La tempesta (The Tempest) (1611), elegante e gradevole, sofisticata e contemplativa, piena di pacatezza e di matura saggezza. Ormai ricco e appagato, ad appena 46 anni, si ritirò nella sua città natale ove aveva acquistato case e terreni, vivendo la quieta esistenza di un agiato proprietario. Morì all’età di 56 anni per una febbre insorta dopo una cena a base di aringhe fatta insieme con alcuni vecchi colleghi di teatro.

Si discute se Shakespeare sia veramente esistito o sia stato soltanto il prestanome di Francesco Bacone (filosofo–scienziato inglese vissuto dal 1561 al 1626) o di Cristopher Marlowe (1564–1593), drammaturgo fintosi morto per ragioni politiche. Il suo battesimo è stato documentato con certezza, come esistono prove certe del suo testamento firmato (stilato nel 1616) e della sua tomba ospitata presso la chiesa parrocchiale della città natale. Per il resto, tutto è lacunoso. Non fece pubblicare personalmente nulla di suo; durante la sua vita furono edite soltanto 16 composizioni teatrali, scritte mediocremente sulla base della ricostruzione mnemonica di alcuni attori che le avevano rappresentate e ne possedevano i diritti d’autore. Soltanto nel 1623, due editori inglesi – con l’aiuto di alcuni attori, amici di Shakespeare – pubblicarono un volume contenente 36 drammi, la cui incerta cronologia è stata stabilita con discreta approssimazione nel 1930 dal critico letterario inglese Edmund Kercheveer Chambers (1866–1956) (vedere: William Shakespeare: A Study of Facts and Problems, Oxford: At the Clarendon Press, 2 vols, 1930).

Shakespeare è stato un grande della letteratura e un genio dell’intrattenimento drammatico, e ha saputo dare un suo stile unico e irripetibile al Teatro Elisabettiano. Ha superato il classicismo, abbattendo tabù e convenzioni ma soprattutto narrando l’animo umano e riscoprendo sia l’Uomo (in tutta la sua ricchezza psicologica) sia la Natura (in tutto il suo vigoroso fascino).


P.S. In teatro e in cinema le versioni di Romeo e Giulietta sono state innumerevoli; ricordo soltanto il film Romeo e Giulietta (Romeo and Juliet) (1968) di Franco Zeffirelli (che in questi giorni ha compiuto novant’anni: è nato infatti a Firenze il 12 febbraio del 1923), fedele trasposizione dell’opera teatrale, girata in lingua inglese (stupenda voce narrante quella di Laurence Olivier), adattata mirabilmente da Franco Brusati, Masolino D’Amico e dallo stesso Zeffirelli, con i giovanissimi Leonard Whiting nella parte di  Romeo e Olivia Hussey nella parte di Giulietta. Desidero segnalare la presenza di tre attori italiani di valore: Antonio Pierfederici (Lord Montecchi), Esmeralda Ruspoli (Lady Montecchi) e Roberto Bisacco (Conte Paride), e del giovane cantante Bruno Filippini (il menestrello) che cantò la canzone Ai Giochi Addio (What is a Youth) (aveva vinto il Festival di Castrocaro con Gigliola Cinquetti). Il film grande successo di pubblico e di critica, si aggiudicò nel 1968 un National Board of Review Award (migliore regia a Franco Zeffirelli) e nel 1969 due premi Oscar (migliore fotografia a Pasqualino De Santis e migliori costumi a Danilo Donati), tre Golden Globe (miglior film straniero in lingua inglese, miglior attore debuttante a Leonard Whiting e miglior attrice debuttante a Olivia Hussey), un premio BAFTA (migliori costumi a Danilo Donati), un David di Donatello (migliore regia a Franco Zeffirelli) e ben quattro Nastri d’argento.

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