Henry Wriothesley, conte di Southampton Mary Fitton
William Shakespeare ha visitato tutti i generi, traendo spunti dai miti
classici, dalle narrazioni medievali, dalla cronaca contemporanea, dalla storia
d’Inghilterra e dalle favole nordiche. Scrisse, infatti, drammi romani, storie
d’orrori, poemi storici, commedie di corte, vicende di argomento romantico–cortese, comiche, farse plautine,
tragedie romantiche, poemetti e sonetti, in cui ha trattato l’amore in tutta la
sua lirica drammaticità, con verità e alto senso umano.
Shakespeare
scrisse (probabilmente prima del 1600) 154 sonetti, in una forma metrica
inglese, che è stata quella usata nei secoli successivi (tre quartine e un
distico). Questi versi furono pubblicati senza il permesso dell’autore nel 1609
e rappresentano senz’altro il più importante “Canzoniere” inglese, vicino ai
nostri gusti e alla nostra sensibilità, i cui temi sono quelli eterni di ogni
età e ogni tempo.
Molti di
questi sonetti d’amore di Shakespeare (le parti citate sono una mia traduzione
letterale dal testo stabilito da W.J. Craig nel 1911) sono dedicati in parte a
un “biondo amico” (fair friend), giovane e bello: probabilmente
l’amico e mecenate conte di Southampton, al quale aveva già dedicato i due
poemetti amorosi giovanili Venere e Adone
e Il ratto di Lucrezia, che furono
pubblicati direttamente dal drammaturgo inglese (in realtà, i curatori
dell’opera shakespeariana del Settecento crearono una vera e propria
mistificazione per mascherare l’evidente omosessualità di alcune poesie). Questo
intimo amico di Shakespeare era Henry Wriothesley (1573–1624, terzo conte di
Southampton; gli studiosi lo hanno identificato proprio nel misterioso “fair
friend”, cui Shakespeare si rivolgeva nella prima parte dei suoi sonetti (e la
prima edizione portava la sigla “Mr. W.H.”, che si riferiva evidentemente al
conte di Southampton).
Un’altra parte dei sonetti
è dedicata invece a un’amica misteriosa e volubile, la “dama bruna” (dark lady), scura fisicamente e moralmente. Era una donna certamente non
bella ma molto seducente e desiderabile, cattiva e infedele, un «paradiso che guida a questo inferno»
(s. 129), un’amante «nera come l’inferno, fosca come la notte» (s.
147) dagli «occhi neri come corvi» quasi vestiti a lutto (s. 127). Si
trattava probabilmente di Mary Fitton (1578–1647), bellissima dama di corte
della Regina Elizabeth: per lei Shakespeare, in un sonetto, conclude che «la
vera bellezza è nera» (s. 132). Queste poesie mi hanno fatto pensare
alla poesia Bruna sei tu ma bella (s. 372), dalle “Rime” di
Torquato Tasso, che così recita: «Bruna sei tu ma bella / ed ogni bel candore,
/ perde col bruno tuo, giudice Amore. / Bella sei tu, ma bruna; / pur se ne
cade incolto / bianco ligustro e negro fiore è colto. / Chi coglie ad una ad
una / le tue lodi più elette? / chi te ne tesse in rime ghirlandette?». L’amore
del poeta inglese per la “dark lady” è però un sentimento che porta il poeta all’abiezione: «Per questo io mento con lei e lei con me, /
e nei nostri errori ci aduliamo mentendo» (s. 138).
Scrive
Shakespeare che, pur tuttavia, l’Amore è eterno perché resiste impavido («Amore non è amore che muta quando scopre un
mutamento») e non smette d’amare quando l’altro non ama più ma anzi è «un
faro sempre fisso / che sovrasta la tempesta e non vacilla mai; / è la stella
guida di ogni sperduta barca» (s. 116). L’Amore acceca con le lacrime,
perché gli occhi non scoprano l’inganno (s. 148), e dona affanni non
consentendo il riposo notturno, sì che «il giorno dalla notte, e la notte dal
giorno, è oppresso» (s. 28). In queste liriche domina il senso della
fragilità del vivere e della fugacità dell’esistenza, per cui «ogni cosa che
germoglia / resta perfetta soltanto un breve istante» (s. 15). Si
avverte il senso del tempo inesorabile «che
cospira con la Morte», che evolve in modo furtivo verso l’eternità, che
porta al disfacimento fisico «mutando il tuo giorno di giovinezza in fetida
notte» (s. 15), e che «porta l’estate / verso l’orrido inverno e ivi la
seppellisce» (s. 5).
William
accenna spesso alla «furia… razzia… tirannia… lama del Tempo» e «al suo lesto e rovinoso passo» (s. 126).
Nei suoi sonetti, vive l’orrore della vecchiaia che scolpisce la bella fronte
del suo amore, tracciando brutte linee con la sua arcaica penna (s. 19)
e che fa perdere la bellezza e tutto il tesoro dei suoi giorni splendenti nel
fondo di due occhi incavati e spenti (s. 2). Sono inevitabili sia la
triste separazione dall’amante, «anche se i nostri amori indivisibili sono uno
e uno solo» (s. 36), sia la sensazione angosciosa di sentirsi divenire
un estraneo con «amor mutato da quel
ch’era un tempo» (s. 49). Vivendo lontano da lei e dalla sua ombra,
la vita del poeta è divenuta ormai l’«inverno dell’assenza… la desolazione di
un vecchio dicembre» (s. 97). Divengono palpabili, infine, il triste presentimento
della morte e l’orribile consapevolezza del suo potere spietato; il poeta dice
all’amata: «dopo la mia morte, amore caro, scordami completamente / […] / il
mio nome sia sepolto ove sarà il mio corpo» (s. 72). Ma su tutto prevale
sempre la certezza dell’artista che «in nero inchiostro l’amore mio splenda
ancora luminoso» (s. 65) e che le «rime eterne resisteranno per sempre»
(s. 38). Shakespeare è convinto che l’essere amato vivrà sempre «contro la Morte e le forze ostili dell’Oblio»
(s. 55) e che «occhi non ancora nati attentamente leggeranno / e lingue
future ripeteranno la tua esistenza» (s. 81).
Il poeta Shakespeare
sa che – nonostante la
clessidra del Tempo distruttore e la falce della Morte divoratrice – i suoi versi vivranno per sempre: «il
mio amore nei miei versi vivrà giovane in eterno» (s. 19). E realmente i
suoi versi e il suo amore, i suoi drammi e i suoi personaggi, sono vissuti in
eterno, rappresentando un’immensa
eredità per il genere umano e rivivendo nelle opere dei poeti e degli scrittori
che lo hanno seguito e che a lui si sono ispirati! Milioni di persone ogni anno
visitano Stratford–upon–Avon, e migliaia sono le nuove
traduzioni delle sue opere, e centinaia i saggi su di lui pubblicati ogni anno
in tutto il mondo, senza tener conto delle innumerevoli rappresentazioni
teatrali e dei tanti film o documentari a lui dedicati.
Virginia Woolf, nel
saggio Una stanza tutta per sé (cap.
iii, traduzione di Maria
Antonietta Saracino, I Meridiani, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1998), con acume squisitamente femminile, a
proposito delle reali possibilità di una donna di talento nel sedicesimo secolo,
ha parlato ampiamente di Shakespeare: «[…] sarebbe stato impossibile completamente e interamente impossibile, che
una donna scrivesse le opere di Shakespeare all’epoca di Shakespeare. […] era
impensabile che una donna ai tempi di Shakespeare potesse avere il genio di
Shakespeare. Perché un genio come quello di Shakespeare non nasce tra gente
ignorante, asservita, costretta a fare lavori pesanti. […] E a questo punto
aprii il volume che conteneva le tragedie di Shakespeare. Qual era lo stato
d’animo di Shakespeare, ad esempio, mentre scriveva “Lear” e “Antonio e
Cleopatra”? Era certo lo stato d’animo più favorevole alla poesia che mai sia
esistito. Ma Shakespeare, personalmente, di questo non ha mai fatto cenno.
Sappiamo solo, del tutto casualmente, che egli “non cancellava mai una riga”. […]
la mente dell’artista, per poter realizzare l’impresa prodigiosa di liberare
nella sua assoluta totalità l’opera d’arte che è in lui, deve essere
incandescente, come doveva esserlo la mente di Shakespeare […] In essa non
devono esservi ostacoli, né alcuna materia estranea che non sia stata consumata
[…] Ogni desiderio di protestare, di predicare, di proclamare un’ingiuria, di
regolare un conto in sospeso, di rendere il mondo testimone di qualche
difficoltà o patimento, tutto questo era stato bruciato dal fuoco che era in
lui, e consumato. Pertanto la sua poesia sgorga fuori di lui libera e priva di
impedimenti. Se mai essere umano giunse a esprimere completamente il proprio
lavoro, questi fu Shakespeare. Se mai mente fu incandescente, libera da
impedimenti, pensavo, volgendomi di nuovo verso lo scaffale, quella fu certo la
mente di Shakespeare.».
Virginia accenna anche al fatto che le donne non potessero essere attrici al
tempo di Shakespeare (i ruoli femminili venivano ricoperti da giovani maschi
dai tratti femminei) e riporta il pregiudizio di un critico e poeta
elisabettiano che diceva che una donna che recitava gli richiamava alla
mente un cane ballerino.
P.S. I film su Shakespeare e sulle sue opere sono stati
innumerevoli, mi limito a ricordare soltanto il bel film Shakespeare in Love (1998), diretto da John Madden, soggetto e
sceneggiatura di Marc Norman e Tom Stoppard, che racconta l’amore dello scrittore William
Shakespeare (Joseph Fiennes) per la nobildonna Lady Viola De Lesseps (Gwyneth
Paltrow) – promessa sposa di Lord
Wessex (Colin Firth) – , la
quale si finge uomo per recitare con lui durante la preparazione di “Romeo e
Giulietta”, la cui rappresentazione alla presenza della regina Elisabetta (Judi
Dench) sarà un trionfo. Il matrimonio di Viola però non può essere ritardato e
Viola dovrà partire per la Virginia con Wessex; il suo amore con William
(soltanto “una stagione rubata”), tuttavia, sarà per il poeta–drammaturgo una fonte di eterna ispirazione.
Il film è stato un successo di pubblico e di critica: fu premiato con tre BAFTA,
tre Golden Globe e ben sette Oscar su tredici nomination.
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